Meglio una Chiesa incidentata, che una Chiesa chiusa

Meglio una Chiesa incidentata, che una Chiesa chiusa

di Massimo Introvigne da www.lanuovabq.it

Papa Francesco

Duecentomila persone – un record – hanno accolto il Papa in Piazza San Pietro e dintorni sabato 18 maggio 2013 per la veglia di Pentecoste con i movimenti ecclesiali.
Parlando a braccio, Papa Francesco ha risposto a quattro domande preparate dai movimenti rispettivamente sulla «fragilità della fede», sulla sua comunicazione nell’evangelizzazione, sui poveri e l’etica della politica, e sulle persecuzioni che i cristiani oggi si trovano ad affrontare.

Al centro del suo discorso il Papa ha messo quello che sta emergendo come il tema centrale del suo Magistero: la Chiesa non si chiuda in se stessa, non parli solo ai suoi fedeli in un gergo autoreferenziale, «esca» ad evangelizzare chi dalla Chiesa si sente lontano, spieghi che soltanto Cristo ha le risposte a una crisi che non è solo economica e che «distrugge l’uomo», levi la voce in difesa di chi è considerato «prodotto di scarto» da poteri forti dell’economia che ignorano l’etica, chieda libertà religiosa per i cristiani perseguitati.

E tutto questo Papa Francesco lo chiede anzitutto ai movimenti, interlocutori privilegiati cui si è rivolto con comprensione e simpatia.
Perché la fede oggi è fragile? Il Pontefice ha risposto partendo dal dato essenziale: «La fede ce la dà Gesù. È importante studiare, ma la fede ce la dà l’incontro con Lui». E ha voluto condividere un ricordo personale, quello della sua vocazione sacerdotale: «La nonna ci portava, noi bambini, alla processione delle candele, e poi arrivava Cristo deposto. E la nonna ci diceva: “È morto, ma domani resuscita”. Era il 21 settembre 1953 giorno dello studente, giorno della primavera, per voi dell’autunno [le stagioni in Argentina sono invertite rispetto alle nostre]. Prima di andare alla festa sono passato dalla parrocchia e ho trovato un prete che non conoscevo. Ho sentito la necessità di confessarmi. Per me è stata una esperienza di incontro. Ho trovato qualcuno che mi aspettava. Non so cosa è successo. So che qualcuno mi aspettava da tempo e dopo la confessione ho sentito che qualcosa era cambiato. Non ero lo stesso e ho sentito una voce, una chiamata ed ero convinto che dovevo diventare sacerdote».

Non si tratta solo di un aneddoto. Ci ricorda che quando noi pensiamo di «cercare» Dio in realtà Dio ci ha già trovato, e ci aspetta perché diventiamo capaci di sperimentare la sua accoglienza e il suo perdono. «Noi diciamo che dobbiamo cercare Dio, andare da lui a chiedere perdono, ma quando noi andiamo lui ci aspetta, è il primo. In spagnolo abbiamo una parola, “primerea”, lui ci aspetta per primo».

La fede è fragile se la concepiamo come uno sforzo umano, mentre è l’accoglienza di un dono di Dio. C’è però un segreto, un modo per rafforzarla: la preghiera. E in questo mese mariano di maggio il Papa è tornato sul tema del Rosario: «mi sento forte quando vado da lei con il Rosario», ha detto parlando della Madonna, «della mamma che ci sostiene nelle fragilità». Una volta rafforzata la fede fragile, si può affrontare la seconda domanda: come comunicarla? Come evangelizzare in un mondo che sembra spesso freddo e ostile? La risposta del Papa è semplice: «la trasmissione della fede si può fare solo con la testimonianza». Ultimamente, evangelizziamo «non con le nostre idee, ma con il Vangelo che si vive nella nostra vita. La Chiesa la portano avanti i santi che danno questa testimonianza». E la forza di testimoniare, come la fede, non è il risultato del nostro sforzo, è un dono del Signore che dobbiamo accogliere.

«Davanti al Signore – ha confessato Papa Francesco – a volte mi addormento, ma lui mi capisce. Sento conforto quando lui mi guarda. Dobbiamo lasciarci guidare da Dio perché lui ci dà la forza e ci aiuta a testimoniare». Anche Pietro, il primo Papa, si è addormentato, ma alla fine «si è lasciato guidare da Gesù. Così è tutta la storia». Questo affidarsi con fiducia alla guida del Signore è il segreto dell’evangelizzazione, e viene prima di qualunque programmazione o strategia.
«Dobbiamo farci guidare da Lui. Poi possiamo pure fare le strategie, ma prima ci deve guidare lui».

Papa Francesco è tornato su un tema che ha già trattato molte volte in questi suoi primi mesi di pontificato: la Chiesa non dev’essere autoreferenziale, non deve parlare a se stessa in un gergo comprensibile solo a chi già la frequenta, deve «uscire» verso le «periferie esistenziali» di chi in chiesa non ci va. «La Chiesa deve uscire da se stessa verso le periferie esistenziali. Quando la Chiesa diventa chiusa si ammala». Una Chiesa che cerca di essere «efficientista» – il Papa lo ha già detto altre volte – si riduce a una ONG, un’organizzazione non governativa caritatevole tra le tante. Ma noi «non siamo una ONG». «La Chiesa non è un movimento politico, né una struttura ben organizzata, saremmo una vuota organizzazione», Ogni volta che cadiamo vittime dell’autoreferenzialità, anticamera di quella mondanità spirituale che il Pontefice denuncia come l’illusione con cui «il diavolo ci inganna» e ci porta a non annunciare più Cristo ma i nostri progetti umani, per quanto nobili, ci chiudiamo «in strutture caduche che servono per farci schiavi e non liberi figli di Dio. Dobbiamo far uscire Cristo. C’è il rischio di incidenti, ma preferisco mille volte una Chiesa incidentata, piuttosto che chiusa e malata».

La terza domanda a Papa Francesco chiedeva un chiarimento su un’espressione che ha usato: «Chiesa povera per i poveri». Che cosa significa in concreto? Quali sono le implicazioni politiche di questa idea? Anche qui il Papa è partito dalla sua esperienza personale: «Quando io andavo a confessare, chiedevo: “ma lei dà l’elemosina? E quando dà l’elemosina guarda negli occhi la persona povera? E gli tocca anche la mano o gli butta solo la monetina?”. È proprio qui il problema. Perché non basta fare l’elemosina, bisogna prendere su di noi il dolore».
Dopo avere denunciato ancora una volta la «cultura dello scarto» per cui «quello che non mi serve lo butto», anche se si tratta di persone, il Papa ha criticato i «cristiani inamidati, che parlano di cose teologiche mentre prendono il tè» e per cui «non fa notizia che un barbone muore di freddo che bambini muoiono di fame. È grave».

Francesco cita il racconto di un rabbino medievale che parla della costruzione della torre di Babele, quando «se cadeva un mattone era una tragedia nazionale, veniva punito l’operaio, perché i mattoni erano preziosi. Ma se cadeva l’operaio non succedeva niente». Qualche volta oggi sembra di essere anche noi all’interno del racconto del rabbino. «Siamo così: se le borse salgono, scendono è un dramma», «se calano gli investimenti delle banche se ne fa una tragedia», ma «non ci importa se le persone non hanno cibo, non hanno lavoro, se non hanno salute, se muoiono. Questa è la nostra crisi di oggi». Una crisi – il Papa ha ripreso qui il suo discorso agli ambasciatori dello scorso 16 maggio – che non è anzitutto economica, ma etica. «Questa è una crisi dell’uomo, che distrugge l’uomo. Nella vita pubblica, politica se non c’è l’etica tutto è possibile, tutto si può fare. Allora vediamo, leggiamo i giornali come la mancanza di etica nella vita pubblica fa tanto male all’umanità intera».

Alla quarta domanda, sui cristiani perseguitati, il Pontefice ha risposto che «per annunciare la fede sono necessarie due virtù: il coraggio e la pazienza. Loro [i perseguitati di oggi] sono nel tempo della pazienza». «Ci sono più martiri oggi che nei primi secoli della Chiesa», ha detto il Papa ricordando un dato statistico su cui diverse volte già Benedetto XVI aveva richiamato l’attenzione. Il martirio, ha aggiunto Papa Francesco, «non è mai una sconfitta. Il martirio è il grado più alto della testimonianza che dobbiamo dare».
Questi testimoni, però, attendono la nostra solidarietà, ci chiedono di parlare di loro e di «promuovere la libertà religiosa». I perseguitati «fanno esperienza del limite tra la vita e la morte». Non dobbiamo, non possiamo abbandonarli. «Facciamo capire ai cristiani che soffrono che siamo loro vicini. Dobbiamo farlo sapere a loro e al Signore».

Il cardinale O’Malley rifiuta l’invito del Boston College per non affiancarsi al premier abortista

Il cardinale O’Malley rifiuta l’invito del Boston College per non affiancarsi al premier abortista

di Benedetta Frigerio da www.tempi.it

L’arcivescovo non accetta di partecipare a una cerimonia in cui sarà presente anche il premier irlandese Enda Kenny, che sta cercando di introdurre l’interruzione di gravidanza nel suo paese

sean o'malleyDoveva andare alla cerimonia di laurea del Boston College, l’università fondata dai gesuiti di cui fa parte. Ma l’arcivescovo della città, il cardinale Sean O’Malley, ha detto che non parteciperà, dando una motivazione molto chiara: alla cerimonia parteciperà, per ricevere una laurea honoris causa in legge, il premier irlandese Enda Kenny che sta cercando di introdurre l’aborto nel suo paese.
Così il cardinale gesuita, famoso per aver venduto parte dei beni della diocesi e risarcire le vittime della pedofilia, non ha usato mezzi termini: «Poiché il Vangelo della Vita è il pilastro della dottrina sociale della Chiesa e poiché consideriamo l’aborto un crimine contro l’umanità, i vescovi degli Stati Uniti hanno chiesto che le istituzioni cattoliche non onorino amministratori pubblici o politici che promuovono l’aborto con le loro leggi e politiche».

UN PRECEDENTE. Un caso analogo era accaduto nel 2009, creando un grande imbarazzo all’università di Notre Dame, quando, per via della presenza del presidente Barack Obama alla cerimonia di laurea, Mary Ann Glendon, l’ex ambasciatrice degli Stati Uniti presso la Santa Sede, aveva rifiutato un importante riconoscimento, declinando l’invito.

NESSUN PENTIMENTO. Forse il Boston College aveva invitato il premier irlandese prima della sua campagna abortista, ma ha aggiunto: «Dato che l’università non ha ritirato l’invito e poiché il premier non ha voluto declinarlo, non parteciperò». O’Malley, membro del consiglio degli otto cardinali che il papa ha chiamato vicino a sé per essere consigliato nel governo della Chiesa, ha assicurato preghiere per i laureandi, chiedendo però al Boston College di porre rimedio «alla confusione fatta per non aver aderito alle disposizioni dei vescovi». Ma oltre a dirsi dispiaciuta l’università non ha fatto altro, se non confermare l’invito.

Meglio una Chiesa incidentata, che una Chiesa chiusa

Bartolomeo I: «Commosso da Papa Francesco»

Il patriarca di Costantinopoli parla del Pontefice: «Colpito dalla scelta di nominare otto cardinali consiglieri. Dopo l’insediamento, durante l’incontro a Santa Marta mi ha detto: “Ho preso la sua stanza…”»

ANDREA TORNIELLI
da Vatican Insider

Bertolomeo I con papa Bergoglio

«Sono rimasto commosso e colpito dall’incontro con Papa Francesco…». Il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I sta per sorseggiare un bicchier d’acqua in un momento di pausa in una giornata densa di impegni. Ha appena guidato, alla presenza del cardinale Angelo Scola, una preghiera nella centralissima chiesa di piazza Borromeo, che la diocesi ambrosiana ha messo a disposizione della comunità greco-ortodossa. E prima del pranzo, con il suo seguito, partecipa a un piccolo rinfresco e accetta di dialogare per qualche minuto con «Vatican Insider». A partire dall’incontro fraterno avuto con Papa Francesco in occasione della messa d’inizio del ministero del vescovo di Roma: non era mai accaduto negli ultimi secoli che un patriarca di Costantinopoli partecipasse all’insediamento di un nuovo Papa.

«L’incontro è stato molto bello e molto intenso», spiega Bartolomeo, «sono rimasto commosso e spero davvero che si realizzi il pellegrinaggio comune del successore dell’apostolo Pietro e del successore dell’apostolo Andrea, suo fratello, a Gerusalemme, il prossimo gennaio». Il patriarca di Costantinopoli ha infatti invitato Francesco in Terra Santa: «Vogliamo commemorare il cinquantesimo anniversario dell’abbraccio tra il Papa Paolo VI e il patriarca Atenagora, avvenuto nel gennaio 1964. Anche il patriarca di Gerusalemme è d’accordo». Ma Bartolomeo ha invitato Papa Bergoglio anche a Istanbul, per la festa di sant’Andrea, il 30 novembre: «Lo abbiamo invitato per quest’anno o per l’anno prossimo».   Il patriarca spiega poi di considerare molto importanti per il dialogo ecumenico i primi passi di Francesco. «Siamo molto contenti dell’accento da lui posto sul suo essere innanzitutto “vescovo di Roma”. E siamo anche contenti della sua decisione di nominare otto cardinali incaricati di consigliarlo: una scelta che va nella direzione della sinodalità, caratteristica della nostra Chiesa». Bartolomeo non manca di fare una battuta anche sulla decisione di Bergoglio di rimanere ad abitare a Santa Marta: «Quando ci siamo incontrati lì, l’abitare entrambi a Santa Marta è stata l’occasione per avere scambi fraterni e per condividere la tavola. Il Papa come si sa è andato ad abitare nella suite che solitamente mi veniva assegnata quando andavo in visita in Vaticano. Ad un certo punto mi ha detto: “Le ho preso la sua stanza…”. Io ho risposto: “Gliela lascio volentieri!”».   Per il patriarca continuano le occasioni «per dimostrare la nostra buona volontà e la nostra decisione di andare avanti nel dialogo ecumenico». «Ci sono delle difficoltà – ammette Bartolomeo – anche interne all’ortodossia, ma dobbiamo superarle per procedere anche nel dialogo teologico».

In attesa dell’arrivo del patriarca, che si è trattenuto a salutare personalmente tutti gli intervenuti alla preghiera, uno dei suoi più stretti collaboratori ha raccontato a «Vatican Insider» un episodio accaduto lo scorso ottobre, durante l’ultimo Sinodo dei vescovi. Bartolomeo era venuto a Roma e aveva incontrato il Papa Benedetto XVI, rivolgendogli l’invito a fare il pellegrinaggio a Gerusalemme nel gennaio 2014, sulle orme di Paolo VI e Atenagora. Ratzinger aveva risposto: «È una bella idea, ma forse sarà per il mio successore…». Né Bartolomeo né gli altri presenti avevano dato peso alla risposta del Pontefice, che in quella data aveva già deciso di annunciare di lì a qualche mese la rinuncia.

Giovedì della VII settimana del Tempo di Pasqua

Giovedì della VII settimana del Tempo di Pasqua

Dal Vangelo secondo Giovanni 17,20-26.

Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me. Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato; poiché tu mi hai amato prima della creazione del mondo. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; questi sanno che tu mi hai mandato. E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro».

Il commento di don Antonello Iapicca

L’amore è l’unità. Per comprendere cosa siano la comunione e l’unità nella Chiesa occorre partire dall’amore, da quello con il quale il Padre ha amato il Figlio. Per questo la perfetta unità è un dono celeste, un’opera dello Spirito Santo. E’ Lui che, donato alla Chiesa, riversa l’amore di Dio nei cuori dei discepoli. E’ nello Spirito Santo che la Chiesa è una, cattolica ed apostolica. Non si tratta di sforzi, compromessi, documenti. La Chiesa non può darsi l’unità da se stessa. La Chiesa è una perché è divina, perché è il Corpo di Cristo, perché è viva nell’intimità di Dio. Possiamo allora chiederci come Dio ha amato il Figlio, come sono, tra loro, una cosa sola. Dobbiamo ripercorrere tutta la vita di Gesù. Scopriremo che in ogni istante Egli ha compiuto la volontà del Padre. E’ questa la chiave dell’unità, ed essa passa per l’obbedienza. Sappiamo che, nella Scrittura, “obbedienza” e “ascolto”, coincidono. Ecco perché nella preghiera sacerdotale Gesù accenna alla Parola che ha dato ai suoi discepoli, che diviene parola dei discepoli che chiama le genti e, creduta, genera figli alla Chiesa. La comunione e l’unità passano dunque per l’ascolto della Parola. Comprendiamo allora quanto siano fondamentali la predicazione e l’annuncio. Senza di essi l’unità non è neanche immaginabile, perché la carne rende impotenti anche i desideri e i progetti più nobili. E’ nella Parola che si dà l’intimità dell’amore da cui sgorga, naturalmente, la comunione. La preghiera di Gesù è dunque l’intercessione presso il Padre perché i discepoli prima, e il mondo poi, possano accogliere la Parola, essere custoditi in essa, sperimentarne il potere, incarnarne la Verità e divenire così testimoni autentici per compiere la missione di annunciare al mondo il Signore Gesù Cristo risorto. Nella catechesi del 25 gennaio del 2012 Benedetto XVI diceva al proposito: “Gesù prega per la Chiesa di tutti i tempi, prega anche per noi (Gv 17,20). Il Catechismo della Chiesa Cattolica commenta: «Gesù ha portato a pieno compimento l’opera del Padre, e la sua preghiera, come il suo Sacrificio, si estende fino alla consumazione dei tempi. La preghiera dell’Ora riempie gli ultimi tempi e li porta verso la loro consumazione» (n. 2749). La richiesta centrale della preghiera sacerdotale di Gesù dedicata ai suoi discepoli di tutti i tempi è quella della futura unità di quanti crederanno in Lui. Tale unità non è un prodotto mondano. Essa proviene esclusivamente dall’unità divina e arriva a noi dal Padre mediante il Figlio e nello Spirito Santo. Gesù invoca un dono che proviene dal Cielo, e che ha il suo effetto – reale e percepibile – sulla terra… L’unità dei cristiani da una parte è una realtà segreta che sta nel cuore delle persone credenti. Ma, al tempo stesso, essa deve apparire con tutta la chiarezza nella storia, deve apparire perché il mondo creda, ha uno scopo molto pratico e concreto deve apparire perché tutti siano realmente una sola cosa. L’unità dei futuri discepoli, essendo unità con Gesù – che il Padre ha mandato nel mondo -, è anche la fonte originaria dell’efficacia della missione cristiana nel mondo“. 

 

 

 

La Parola di Dio è la Verità. E la Verità è la carità di Dio fatta carne in Cristo Gesù. Essa è il vertice della comunione, il vincolo di perfezione. Amore e unità sono dunque le caratteristiche uniche e celesti con le quali la Chiesa si presenta al mondo. Esso potrà credere solo vedendo compiuti, in essa, l’amore e l’unità. Perché questo si realizzi è necessario che la Chiesa sia sempre in cammino, in conversione, in ascolto della Parola di Dio, nutrita dei sacramenti, sperimentando, passo dopo passo, nella comunità concreta dei cristiani, il compiersi, per Grazia dello Spirito Santo, dell’amore e dell’unità. E’ in questo cammino che Gesù continua a far conoscere il suo Nome, la sua persona. E’ nel cammino di un’iniziazione cristiana che formi permanentemente alla fede che i cristiani possono vivere l’intimità con il Padre, nel Figlio, per mezzo dello Spirito Santo. E’ la comunità concreta nella quale ci ha posti la Provvidenza il luogo dove discende la Gloria di Dio, la sua presenza misteriosa che guida e protegge i figli di Dio come in una nuova Arca di Noè nel diluvio del mondo. E’ la comunità il luogo dove Gesù è Figlio amato e amante, dove Egli è e i suoi discepoli sono, in un amore più forte della morte, l’amore tra il Padre e il Figlio, lo Spirito Santo vivo. Per questo la Parola del Vangelo di oggi ci chiama a perseverare nel cammino intrapreso, a non abbandonare Gerusalemme, la comunità, dove saremo rivestiti di potenza dall’alto. Stringerci alla Parola di Dio, al Verbo fatto carne nella predicazione, nella proclamazione, nella meditazione. Nutrirci, giorno dopo giorno, della Parola fatta sacramento e amore nello Spirito Santo che il Padre, nel Nome di Gesù, riversa sulla sua Chiesa. Fedeli alla Chiesa, al cammino di fede che Dio ci ha donato, alla comunità nella quale siamo gestati alla fede, per contemplare, nelle vicissitudini delle nostre vite, la Gloria di Gesù, il nostro stesso destino eterno. Il nostro e quello del mondo intero, perché tutti, per mezzo della Chiesa, siano uno in Cristo Gesù.
Meglio una Chiesa incidentata, che una Chiesa chiusa

Satana ci truffa sempre

Tratto da L’Osservatore Romano

L’egoismo non porta da nessuna parte. L’amore invece libera. Per questo chi è capace di vivere la propria vita come “un dono da dare agli altri” non resterà mai solo e non sperimenterà mai “il dramma della coscienza isolata”, facile preda di quel “Satana cattivo pagatore” sempre “pronto a truffare” chi sceglie la sua strada. È il messaggio che Papa Francesco ha lasciato questa mattina, martedì 14 maggio, a quanti hanno partecipato alla messa celebrata nella cappella della Domus Sanctae Marthae.

Commentando le letture del giorno, tratte dagli Atti degli apostoli (1, 15-17, 20-26) e dal vangelo di Giovanni (15, 9-17), il Papa ha esordito ricordando che in questo tempo di attesa dello Spirito Santo torna il concetto dell’amore, il comandamento nuovo: “Gesù ci dice una parola forte: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici”. L’amore più grande: dare la sua vita. L’amore va sempre per questa strada: di dare la sua vita. Vivere la vita come un dono, un dono da dare. Non un tesoro per conservare. E Gesù l’ha vissuta così, come dono. E se si vive la vita come dono, si fa quello che Gesù vuole: “Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto””. Dunque non bisogna bruciare la vita con l’egoismo. A questo proposito il Pontefice ha riproposto la figura di Giuda, il quale ha un atteggiamento contrario a chi ama, perché “mai ha capito, poveretto, cosa sia un dono”. Giuda era uno di quegli uomini che non compiono mai un gesto di altruismo e che vivono sempre nella sfera del proprio io, senza lasciarsi “prendere dalle situazioni belle”. Atteggiamento che, invece, è proprio della “Maddalena, quando lava i piedi di Gesù con il nardo, tanto costoso”. È un momento “religioso – ha affermato il vescovo di Roma – un momento di gratitudine, un momento di amore”. Giuda invece vive distaccato, nella sua solitudine, e continua su quella strada. “Un’amarezza del cuore” l’ha definita il Santo Padre. E così “come l’amore cresce nel dono”, anche l’altro atteggiamento, quello “dell’egoismo, cresce. Ed è cresciuto, in Giuda, fino al tradimento di Gesù”. Chi ama, ha detto in sostanza il Papa, dà la vita come dono; chi è egoista, tradisce, resta sempre solo e “isola la sua coscienza nell’egoismo, in quel curare la propria vita; ma alla fine la perde”.

E cadere nell’egoismo è facile per tutti. Il Papa ha indicato ancora una volta l’esempio di Giuda, il quale “era un idolatra, attaccato ai soldi. Giovanni lo dice: era un ladro. E questa idolatria lo ha portato a isolarsi dalla comunità degli altri: questo è il dramma della coscienza isolata”. Quando un cristiano incomincia a isolarsi, “isola la sua coscienza dal senso comunitario, dal senso della Chiesa, da quell’amore che Gesù ci dà”. E alla fine, proprio come Giuda, perde la sua vita. “Giovanni – ha ricordato il Pontefice richiamando il racconto evangelico – ci dice che “in quel momento Satana entrò nel cuore di Giuda”. E, dobbiamo dirlo: Satana è un cattivo pagatore. Sempre ci truffa: sempre!”.

Dunque ci sono due strade da scegliere: vivere la vita per sé o viverla come dono, cioè come “ha fatto Gesù: “Come il Padre mi ha amato, così mi invia per amore e io mi dono per amore””. In questi giorni di attesa della festa dello Spirito Santo – ha concluso il Santo Padre – “chiediamo: “vieni, vieni e dammi un cuore largo, che sia capace di amare con umiltà, con mitezza””. E “chiediamogli anche che ci liberi sempre dall’altra strada, quella dell’egoismo, che alla fine finisce male”.

Con il Papa hanno concelebrato, tra gli altri, i presuli colombiani Ricardo Antonio Tobón Restrepo, arcivescovo di Medellín, e Fabio Duque Jaramillo, vescovo di Garzón, e lo spagnolo Jesús García Burillo, vescovo di Ávila. Fra i presenti, un gruppo di dipendenti dei Musei Vaticani e alcuni seminaristi ospiti del Pontificio Collegio Portoghese.

Il tollerante illuminismo e il genocidio vandeano

Il tollerante illuminismo e il genocidio vandeano

VandeaCiascuna nazione pare avere un argomento storico riguardante il proprio passato del quale è più o meno tacitamente scomodo parlare. Se in Italia hanno causato un acceso dibattito i libri che trattavano dei crimini compiuti nel dopoguerra da alcuni partigiani, in Francia invece l’argomento tabù sembra essere la Vandea.

Fino a pochi anni fa, la Vandea era vista in maniera profondamente negativa come sinonimo di cattolico reazionario, di servo dei nobili e nemico della rivoluzione, ma la cosiddetta “scuola revisionista” ha permesso di squarciare quel velo di silenzio che la storiografia ufficiale ha lungo tramandato sui sacrifici subiti da quel popolo.

La loro storia è ormai nota: nel marzo 1793 la regione dell’ovest si sollevò quasi simultaneamente e i ribelli riuscirono ad occupare gran parte del territorio grazie anche alla pessima organizzazione delle truppe rivoluzionarie. I contadini che si ribellarono al governo di Parigi non erano certamente fautori dell’ancien regime e la loro ostilità verso la repubblica nacque a causa del malcontento provocato dall’aggravarsi della pressione fiscale, dall’ostilità verso la borghesia cittadina (unica beneficiaria delle terre nazionalizzate), dalla persecuzione del clero refrattario considerata particolarmente odiosa da una popolazione profondamente religiosa e dalla coscrizione obbligatoria di 300.000 uomini. Una particolarità di questa insurrezione è che essa non venne programmata dai nobili, che anzi ne furono presi alla sprovvista e la giudicarono persino prematura, ma fu marcatamente popolare. In un secondo momento alcuni nobili si metteranno a capo delle bande degli insorti, ma altri capi rimasero d’estrazione “plebea” come il guardiacaccia Stofflet o il venditore ambulante Chatelineu.

In una prima fase la guerra andò a vantaggio dei vandeani che costituirono un’enorme minaccia per i repubblicani anche perché erano riforniti dagli emigrati e dagli inglesi, tuttavia a svantaggio degli insorti andarono le divisioni interne (alcuni volevano marciare sulla Bretagna, mentre altri su Parigi) e la difficoltà di costruire un esercito permanente ( i contadini si riunivano per combattere gli “azzurri”, ma si disperdevano dopo la fine della battaglia), così la guerra nei mesi seguenti si stabilizzò fino alla vittoria dei rivoluzionari nel novembre 1793. Vi erano ancora delle bande che scorrazzavano nella regione, ma come dissero già all’epoca alcuni deputati, la guerra di Vandea era “politicamente finita”. I rivoluzionari però non erano intenzionati ad attuare una politica di pacificazione, ma al contrario volevano trasformare la Vandea, secondo le parole di Robespierre, in un “cimitero nazionale”.

Secondo lo storico Reynald Secher, il piano di sterminio si articolò in tre fasi: nella legge del 1 agosto quando la Convenzione decretò di fare terra bruciata del territorio vandeano ; il 1 ottobre quando si decise l’eliminazione fisica degli abitanti del territorio insorti, in particolare di donne in quanto “solchi riproduttori” e di bambini perché “futuri briganti” e infine la legge del 7 novembre che toglieva il nome alla Vandea con quello di “Dipartimento Vendicato”. A causa di questi provvedimenti nei mesi successivi perirono all’incirca 117.000 persone su una popolazione di circa 800.000 abitanti e furono distrutti circa diecimila casolari su cinquantamila (Dal genocidio vandeano al memoricidio).

Le uccisioni avvennero in maniera brutale con tutti i modi: ad Anger si ricorsero alle fucilazioni sommarie, a Nantes invece agli annegamenti notturni, mentre in altre zone si fecero dei falò nella quale si buttarono le persone ancora vive. Questi massacri avvennero in maniera indiscriminata praticamente in tutte le regioni che avevano osato insorgere: il famoso scrittore Aleksandr Solzenicyn ha ricordato il massacro avvenuto a Luc-sur-Boulogne una piccola località dove il generale Cordelier fece uccidere in soli 4 giorni 564 abitanti tra cui 110 bambini al di sotto dei sette anni. Nonostante ciò la Vandea non venne domata e anzi i massacri indiscriminati operati dalle “colonne infernali” del maresciallo Turreau avevano ingrossato le fila dei ribelli (più di venticinquemila contadini si erano uniti alle bande degli insorti in seguito alle devastazioni operate), così il Comitato di Salute Pubblica in seguito all’avvento dei termidoriani decise di ricorrere alla politica di pacificazione nella quale promettevano ai ribelli di rispettare i loro beni e la loro fede.

Questo provvedimento consentirà anche la riapertura delle chiese in tutta la Francia e la libertà di culto per i preti refrattari e costituzionali seppur soggette a molte discriminazioni (le chiese rimanevano proprietà dei comuni che potevano utilizzare per le cerimonie decanenarie o per le adunanze elettorali, vi era il divieto di esporre simboli religiosi per strada come quello di fare processioni, indossare l’abito talare, chiamare i fedeli con il suo suono delle campane, ecc.). Come affermò anche uno storico filorivoluzionario come Albert Mathiez: «[I cattolici] non ottenevano una vera libertà; la tolleranza veniva gettata loro come un’elemosina». La pace però durerà pochi mesi e la Vandea continuò ad essere per la Rivoluzione una vera e propria spina nel fianco (delle armate terranno impegnato Napoleone durante la battaglia di Waterloo).

La Vandea è stata oggetto di molte dispute in parecchi campi, ivi compreso quello della Chiesa: mentre Padre Giuseppe della Rosa afferma che non bisogna fare della Vandea “il simbolo dell’intero cristianesimo”, l’arcivescovo di Bologna, Giacomo Biffi vede invece nelle stragi operate in quel secolo “la premessa e le stragi che hanno insanguinato il XX secolo”. Lo stesso Giovanni Paolo II beatificò 164 martiri vandeani, ma trascurò il senso politico dell’insurrezione e condannò i massacri di cui i vandeani furono responsabili.

Per gli storici invece la disputa riguarda il termine di genocidio: mentre alcuni come Reynald Secher o Pierre Channu non esitano ad attribuire questo termine ai massacri che sono stati operati in Vandea; altri invece come Alain Gerard o Jean-Clément Martin lo rifiutano sottolineando il fatto che i vandeani non furono uccisi in quanto tali, ma perché i rivoluzionari non potevano tollerare che qualcuno si potesse ribellare al loro governo. (Giulio Meotti, Il massacro dei lumi). Nessuno però nega che quello subito in Vandea fu un massacro di proporzioni immani che sta a dimostrare come anche nel nome della libertà si possono commettere i crimini più atroci.

Mattia Ferrari

Ciascuna nazione pare avere un argomento storico riguardante il proprio passato del quale è più o meno tacitamente scomodo parlare. Se in Italia hanno causato un acceso dibattito i libri che trattavano dei crimini compiuti nel dopoguerra da alcuni partigiani, in Francia invece l’argomento tabù sembra essere la Vandea.

Fino a pochi anni fa, la Vandea era vista in maniera profondamente negativa come sinonimo di cattolico reazionario, di servo dei nobili e nemico della rivoluzione, ma la cosiddetta “scuola revisionista” ha permesso di squarciare quel velo di silenzio che la storiografia ufficiale ha lungo tramandato sui sacrifici subiti da quel popolo.

La loro storia è ormai nota: nel marzo 1793 la regione dell’ovest si sollevò quasi simultaneamente e i ribelli riuscirono ad occupare gran parte del territorio grazie anche alla pessima organizzazione delle truppe rivoluzionarie. I contadini che si ribellarono al governo di Parigi non erano certamente fautori dell’ancien regime e la loro ostilità verso la repubblica nacque a causa del malcontento provocato dall’aggravarsi della pressione fiscale, dall’ostilità verso la borghesia cittadina (unica beneficiaria delle terre nazionalizzate), dalla persecuzione del clero refrattario considerata particolarmente odiosa da una popolazione profondamente religiosa e dalla coscrizione obbligatoria di 300.000 uomini. Una particolarità di questa insurrezione è che essa non venne programmata dai nobili, che anzi ne furono presi alla sprovvista e la giudicarono persino prematura, ma fu marcatamente popolare. In un secondo momento alcuni nobili si metteranno a capo delle bande degli insorti, ma altri capi rimasero d’estrazione “plebea” come il guardiacaccia Stofflet o il venditore ambulante Chatelineu.

In una prima fase la guerra andò a vantaggio dei vandeani che costituirono un’enorme minaccia per i repubblicani anche perché erano riforniti dagli emigrati e dagli inglesi, tuttavia a svantaggio degli insorti andarono le divisioni interne (alcuni volevano marciare sulla Bretagna, mentre altri su Parigi) e la difficoltà di costruire un esercito permanente ( i contadini si riunivano per combattere gli “azzurri”, ma si disperdevano dopo la fine della battaglia), così la guerra nei mesi seguenti si stabilizzò fino alla vittoria dei rivoluzionari nel novembre 1793. Vi erano ancora delle bande che scorrazzavano nella regione, ma come dissero già all’epoca alcuni deputati, la guerra di Vandea era “politicamente finita”. I rivoluzionari però non erano intenzionati ad attuare una politica di pacificazione, ma al contrario volevano trasformare la Vandea, secondo le parole di Robespierre, in un “cimitero nazionale”.

Secondo lo storico Reynald Secher, il piano di sterminio si articolò in tre fasi: nella legge del 1 agosto quando la Convenzione decretò di fare terra bruciata del territorio vandeano ; il 1 ottobre quando si decise l’eliminazione fisica degli abitanti del territorio insorti, in particolare di donne in quanto “solchi riproduttori” e di bambini perché “futuri briganti” e infine la legge del 7 novembre che toglieva il nome alla Vandea con quello di “Dipartimento Vendicato”. A causa di questi provvedimenti nei mesi successivi perirono all’incirca 117.000 persone su una popolazione di circa 800.000 abitanti e furono distrutti circa diecimila casolari su cinquantamila (Dal genocidio vandeano al memoricidio).

Le uccisioni avvennero in maniera brutale con tutti i modi: ad Anger si ricorsero alle fucilazioni sommarie, a Nantes invece agli annegamenti notturni, mentre in altre zone si fecero dei falò nella quale si buttarono le persone ancora vive. Questi massacri avvennero in maniera indiscriminata praticamente in tutte le regioni che avevano osato insorgere: il famoso scrittore Aleksandr Solzenicyn ha ricordato il massacro avvenuto a Luc-sur-Boulogne una piccola località dove il generale Cordelier fece uccidere in soli 4 giorni 564 abitanti tra cui 110 bambini al di sotto dei sette anni. Nonostante ciò la Vandea non venne domata e anzi i massacri indiscriminati operati dalle “colonne infernali” del maresciallo Turreau avevano ingrossato le fila dei ribelli (più di venticinquemila contadini si erano uniti alle bande degli insorti in seguito alle devastazioni operate), così il Comitato di Salute Pubblica in seguito all’avvento dei termidoriani decise di ricorrere alla politica di pacificazione nella quale promettevano ai ribelli di rispettare i loro beni e la loro fede.

Questo provvedimento consentirà anche la riapertura delle chiese in tutta la Francia e la libertà di culto per i preti refrattari e costituzionali seppur soggette a molte discriminazioni (le chiese rimanevano proprietà dei comuni che potevano utilizzare per le cerimonie decanenarie o per le adunanze elettorali, vi era il divieto di esporre simboli religiosi per strada come quello di fare processioni, indossare l’abito talare, chiamare i fedeli con il suo suono delle campane, ecc.). Come affermò anche uno storico filorivoluzionario come Albert Mathiez: «[I cattolici] non ottenevano una vera libertà; la tolleranza veniva gettata loro come un’elemosina». La pace però durerà pochi mesi e la Vandea continuò ad essere per la Rivoluzione una vera e propria spina nel fianco (delle armate terranno impegnato Napoleone durante la battaglia di Waterloo).

La Vandea è stata oggetto di molte dispute in parecchi campi, ivi compreso quello della Chiesa: mentre Padre Giuseppe della Rosa afferma che non bisogna fare della Vandea “il simbolo dell’intero cristianesimo”, l’arcivescovo di Bologna, Giacomo Biffi vede invece nelle stragi operate in quel secolo “la premessa e le stragi che hanno insanguinato il XX secolo”. Lo stesso Giovanni Paolo II beatificò 164 martiri vandeani, ma trascurò il senso politico dell’insurrezione e condannò i massacri di cui i vandeani furono responsabili.

Per gli storici invece la disputa riguarda il termine di genocidio: mentre alcuni come Reynald Secher o Pierre Channu non esitano ad attribuire questo termine ai massacri che sono stati operati in Vandea; altri invece come Alain Gerard o Jean-Clément Martin lo rifiutano sottolineando il fatto che i vandeani non furono uccisi in quanto tali, ma perché i rivoluzionari non potevano tollerare che qualcuno si potesse ribellare al loro governo. (Giulio Meotti, Il massacro dei lumi). Nessuno però nega che quello subito in Vandea fu un massacro di proporzioni immani che sta a dimostrare come anche nel nome della libertà si possono commettere i crimini più atroci.

Mattia Ferrari

Ciascuna nazione pare avere un argomento storico riguardante il proprio passato del quale è più o meno tacitamente scomodo parlare. Se in Italia hanno causato un acceso dibattito i libri che trattavano dei crimini compiuti nel dopoguerra da alcuni partigiani, in Francia invece l’argomento tabù sembra essere la Vandea.

Fino a pochi anni fa, la Vandea era vista in maniera profondamente negativa come sinonimo di cattolico reazionario, di servo dei nobili e nemico della rivoluzione, ma la cosiddetta “scuola revisionista” ha permesso di squarciare quel velo di silenzio che la storiografia ufficiale ha lungo tramandato sui sacrifici subiti da quel popolo.

La loro storia è ormai nota: nel marzo 1793 la regione dell’ovest si sollevò quasi simultaneamente e i ribelli riuscirono ad occupare gran parte del territorio grazie anche alla pessima organizzazione delle truppe rivoluzionarie. I contadini che si ribellarono al governo di Parigi non erano certamente fautori dell’ancien regime e la loro ostilità verso la repubblica nacque a causa del malcontento provocato dall’aggravarsi della pressione fiscale, dall’ostilità verso la borghesia cittadina (unica beneficiaria delle terre nazionalizzate), dalla persecuzione del clero refrattario considerata particolarmente odiosa da una popolazione profondamente religiosa e dalla coscrizione obbligatoria di 300.000 uomini. Una particolarità di questa insurrezione è che essa non venne programmata dai nobili, che anzi ne furono presi alla sprovvista e la giudicarono persino prematura, ma fu marcatamente popolare. In un secondo momento alcuni nobili si metteranno a capo delle bande degli insorti, ma altri capi rimasero d’estrazione “plebea” come il guardiacaccia Stofflet o il venditore ambulante Chatelineu.

In una prima fase la guerra andò a vantaggio dei vandeani che costituirono un’enorme minaccia per i repubblicani anche perché erano riforniti dagli emigrati e dagli inglesi, tuttavia a svantaggio degli insorti andarono le divisioni interne (alcuni volevano marciare sulla Bretagna, mentre altri su Parigi) e la difficoltà di costruire un esercito permanente ( i contadini si riunivano per combattere gli “azzurri”, ma si disperdevano dopo la fine della battaglia), così la guerra nei mesi seguenti si stabilizzò fino alla vittoria dei rivoluzionari nel novembre 1793. Vi erano ancora delle bande che scorrazzavano nella regione, ma come dissero già all’epoca alcuni deputati, la guerra di Vandea era “politicamente finita”. I rivoluzionari però non erano intenzionati ad attuare una politica di pacificazione, ma al contrario volevano trasformare la Vandea, secondo le parole di Robespierre, in un “cimitero nazionale”.

Secondo lo storico Reynald Secher, il piano di sterminio si articolò in tre fasi: nella legge del 1 agosto quando la Convenzione decretò di fare terra bruciata del territorio vandeano ; il 1 ottobre quando si decise l’eliminazione fisica degli abitanti del territorio insorti, in particolare di donne in quanto “solchi riproduttori” e di bambini perché “futuri briganti” e infine la legge del 7 novembre che toglieva il nome alla Vandea con quello di “Dipartimento Vendicato”. A causa di questi provvedimenti nei mesi successivi perirono all’incirca 117.000 persone su una popolazione di circa 800.000 abitanti e furono distrutti circa diecimila casolari su cinquantamila (Dal genocidio vandeano al memoricidio).

Le uccisioni avvennero in maniera brutale con tutti i modi: ad Anger si ricorsero alle fucilazioni sommarie, a Nantes invece agli annegamenti notturni, mentre in altre zone si fecero dei falò nella quale si buttarono le persone ancora vive. Questi massacri avvennero in maniera indiscriminata praticamente in tutte le regioni che avevano osato insorgere: il famoso scrittore Aleksandr Solzenicyn ha ricordato il massacro avvenuto a Luc-sur-Boulogne una piccola località dove il generale Cordelier fece uccidere in soli 4 giorni 564 abitanti tra cui 110 bambini al di sotto dei sette anni. Nonostante ciò la Vandea non venne domata e anzi i massacri indiscriminati operati dalle “colonne infernali” del maresciallo Turreau avevano ingrossato le fila dei ribelli (più di venticinquemila contadini si erano uniti alle bande degli insorti in seguito alle devastazioni operate), così il Comitato di Salute Pubblica in seguito all’avvento dei termidoriani decise di ricorrere alla politica di pacificazione nella quale promettevano ai ribelli di rispettare i loro beni e la loro fede.

Questo provvedimento consentirà anche la riapertura delle chiese in tutta la Francia e la libertà di culto per i preti refrattari e costituzionali seppur soggette a molte discriminazioni (le chiese rimanevano proprietà dei comuni che potevano utilizzare per le cerimonie decanenarie o per le adunanze elettorali, vi era il divieto di esporre simboli religiosi per strada come quello di fare processioni, indossare l’abito talare, chiamare i fedeli con il suo suono delle campane, ecc.). Come affermò anche uno storico filorivoluzionario come Albert Mathiez: «[I cattolici] non ottenevano una vera libertà; la tolleranza veniva gettata loro come un’elemosina». La pace però durerà pochi mesi e la Vandea continuò ad essere per la Rivoluzione una vera e propria spina nel fianco (delle armate terranno impegnato Napoleone durante la battaglia di Waterloo).

La Vandea è stata oggetto di molte dispute in parecchi campi, ivi compreso quello della Chiesa: mentre Padre Giuseppe della Rosa afferma che non bisogna fare della Vandea “il simbolo dell’intero cristianesimo”, l’arcivescovo di Bologna, Giacomo Biffi vede invece nelle stragi operate in quel secolo “la premessa e le stragi che hanno insanguinato il XX secolo”. Lo stesso Giovanni Paolo II beatificò 164 martiri vandeani, ma trascurò il senso politico dell’insurrezione e condannò i massacri di cui i vandeani furono responsabili.

Per gli storici invece la disputa riguarda il termine di genocidio: mentre alcuni come Reynald Secher o Pierre Channu non esitano ad attribuire questo termine ai massacri che sono stati operati in Vandea; altri invece come Alain Gerard o Jean-Clément Martin lo rifiutano sottolineando il fatto che i vandeani non furono uccisi in quanto tali, ma perché i rivoluzionari non potevano tollerare che qualcuno si potesse ribellare al loro governo. (Giulio Meotti, Il massacro dei lumi). Nessuno però nega che quello subito in Vandea fu un massacro di proporzioni immani che sta a dimostrare come anche nel nome della libertà si possono commettere i crimini più atroci.

Mattia Ferrari da http://www.uccronline.it