Si scrive “laicità”, si legge anticlericalismo

Si scrive “laicità”, si legge anticlericalismo

di Ruben Razzante da www.lanuovabq.it

Laicità giacobinaQuanti elettori di Hollande immaginavano che la Francia potesse raggiungere livelli così imbarazzanti di anticlericalismo? Anche cittadini d’oltralpe vicini alla sinistra manifestano il loro disagio di fronte a talune scelte del governo in carica in quello Stato, che demoliscono i cardini di una democrazia pluralista, riportando pericolosamente le lancette della storia all’epoca giacobina del terrore e del furore iconoclasta.

La decisione del ministro dell’istruzione, Vincent Peillon di far affiggere in tutte le scuole pubbliche la “Carta della laicità” risponde a un preciso disegno ideologico di impronta apparentemente liberale, ma in realtà di stampo profondamente autoritario. I 15 articoli della Carta, presentati nei giorni scorsi in un liceo della regione parigina come strumenti “per migliorare l’armonia nelle classi”, in realtà alimentano un concetto di laicità segnatamente antireligioso e rischiano di rivelarsi l’anticamera di nuove laceranti fratture tra Stato e confessioni religiose e tra i diversi gruppi sociali.

Tra lo Stato teocratico di memoria medievale e lo Stato ateo di matrice marxista, esistono enormi praterie per affermare una moderna e conciliante visione della laicità come approccio alle realtà terrene, che si nutre di pluralismo delle idee, dei culti e delle religioni e che rispetta le identità di ciascuno, senza demonizzazioni né preclusioni preconcette. L’impostazione del governo francese appare, al contrario, settaria, gretta e antistorica, oltre che intimamente illiberale.

Il divieto di esporre o indossare qualsiasi simbolo religioso è uno dei più controversi punti della nuova Carta della laicità e appare un proclama da Stato etico, basato sull’assenza o sulla negazione della libertà di manifestazione della fede religiosa. L’identità religiosa diventa, dunque, nella Francia di Hollande, un fattore di menomazione della sfera della cittadinanza, a partire dal diabolico presupposto di una dicotomia insanabile tra religione e libertà: la religione ammazza la libertà, dunque va soppressa, arginata, sganciata da qualsiasi percorso educativo e di formazione.

Al fondamento dei principi sanciti nella Carta della laicità c’è una concezione di Stato onnivoro che vuole fagocitare e orientare tutte le espressioni dell’agire individuale e collettivo e disintegrare la libertà religiosa per sostituirvi un’unica massiva “religione repubblicana”, un’educazione di Stato uguale per tutti e negatrice dell’identità individuale e delle tradizioni famigliari. È una dittatura mascherata, un autoritarismo di Stato ammantato di finto liberalismo.

In questo contesto, infatti, lo Stato diventa l’unica agenzia educativa, il solo soggetto titolato a trasmettere valori “neutrali” ai cittadini, mentre la Chiesa viene marginalizzata da qualsivoglia circuito pedagogico in quanto portatrice di una visione del mondo contraria a quella rigidamente immanentista veicolata dal governo francese.

È una logica aberrante che affonda le sue radici nel pensiero della rivoluzione francese, di stampo illuminista, negatore di qualsiasi contributo della religione alla formazione dell’individuo. Non a caso il ministro socialista francese che ha proposto la Carta è un filosofo riconducibile a quella tradizione e teorico dell’irriducibile diversità e incompatibilità tra religione e vita, tra libertà e vincolo morale.

Nei 15 articoli della Carta della laicità francese si rintracciano alcune affermazioni forti: «La laicità implica il rigetto di tutte le violenze e di tutte le discriminazioni, garantisce l’uguaglianza tra maschi e femmine e riposa su una cultura del rispetto e della comprensione dell’altro»; «Nessun allievo può invocare una convinzione religiosa o politica per contestare a un insegnante il diritto di trattare un tema che fa parte del programma»; «È proibito portare segni o abiti attraverso i quali gli allievi manifestino in modo ostentato un’appartenenza religiosa», dunque anche un crocifisso o un velo islamico e magari anche un albero di Natale. Altro che libertà, neutralità e rispetto.

Piccolo sollievo è dato dal fatto che questa Carta sarà obbligatoria, come la bandiera nazionale, in tutte le 54.000 scuole statali francesi, mentre l’obbligo non varrà per gli 8.800 istituti scolastici privati, che diventeranno le uniche oasi di libertà nell’arcipelago educativo francese.

Al di là del comprensibile sconcerto suscitato da iniziative di questo tipo, si possono fare alcune amare riflessioni. Anzitutto la svalutazione del ruolo dei docenti, ridotti a meri burocrati esecutori di rigide direttive ideologiche impartite dall’alto, tipiche di uno Stato etico. La libertà d’insegnamento si immola sull’altare del pensiero unico e del relativismo antireligioso. In secondo luogo, c’è da chiedersi quale disorientamento si produrrà nel tessuto scolastico francese, considerato che queste norme certamente verranno applicate in modo distorto e con accenti differenti sul territorio d’oltralpe e, magari, saranno modificate radicalmente da un qualsiasi governo di segno politico diverso da quello di Hollande (ci sono tutte le premesse perché i francesi tornino a votare il centro-destra alle prossime elezioni). Infine, c’è l’incognita dell’islam, che si sente attaccato da queste norme sulla laicità e medita plateali manifestazioni di dissenso, destinate a turbare l’ordine sociale.

La Norvegia teme più l’islam di Breivik

La Norvegia teme più l’islam di Breivik

di Stefano Magni da www.lanuovabq.it

Jihad contro la Norvegia

In Norvegia, dopo otto anni, vince una coalizione di partiti di destra. I Laburisti, guidati da Jens Stoltenberg, sono stati sconfitti. Il prossimo governo sarà una coalizione formata dal Partito Conservatore di Erna Solberg, assieme ai Liberali, ai Democristiani e al Partito del Progresso, etichettato come “xenofobo” dai media norvegesi ed europei. I risultati erano ampiamente previsti dai sondaggi locali. Tuttavia, nei commenti della stampa italiana, prevale lo stupore. Domina la preoccupazione per il possibile ingresso nel governo del Partito del Progresso, che a suo tempo era votato da Anders Behring Breivik, lo stragista dell’isola di Utoya a soli due anni dall’attentato in cui tanti giovani laburisti furono assassinati dalla mano del giovane folle di estrema destra. C’è perplessità sul fatto che gli scampati alla strage si siano candidati nelle file dei Laburisti e siano stati quasi tutti (ben 16 su 20) bocciati dagli elettori.

Lo stupore, l’orrore e la perplessità per questi risultati elettorali, sono dovuti al fatto che, raramente, sentiamo campane diverse da quelle della classe intellettuale norvegese. Un esponente tipico di quest’ultima è Per Fugelli, professore di Medicina Sociale all’Università di Oslo, insignito quest’anno, in Norvegia, con un premio dedicato alla libertà di espressione. A commento del suo premio, Fugelli ha definito gli “islamofobi” dei malati da curare con gli ansiolitici. Ha suggerito ai politici di assumere un valium prima di parlare di immigrazione. Ha dichiarato di voler picchiare, se ci capitasse insieme in ascensore, il parlamentare Tybring Gjedde, esponente del Partito del Progresso. Perché Tybring Gjedde meriterebbe questo? Perché, in un passato recente, in parlamento, ha denunciato che in un quartiere di Oslo, particolarmente denso di immigrati islamici, le donne bionde devono tingersi i capelli di nero. Altrimenti vengono violentate. I bambini vengono minacciati di botte, se solo mangiano carne di maiale a scuola. Questi fatti non sono mai stati smentiti, ma il parlamentare del Partito del Progresso è stato accusato di “islamofobia” e anche querelato per istigazione all’odio razziale.

Per ironia della sorte, lo stesso premio che quest’anno è stato vinto da Per Fugelli, vent’anni fa era stato assegnato a William Nygaard, editore della traduzione norvegese dei “Versetti Satanici” di Salman Rushdie, lo scrittore condannato a morte, per blasfemia, dall’ayatollah Khomeini. Nygaard è stato quasi ammazzato, davanti a casa sua, da un attentatore, con tre colpi di pistola, l’11 ottobre 1993 …

I norvegesi del Paese reale non sempre capiscono il linguaggio politicamente corretto dei loro intellettuali. Sanno in che Paese vivono. Intuiscono che un folle di estrema destra, come Breivik, è, fino a prova contraria, un caso unico e finora privo di epigoni. Mentre la possibilità che una ragazza venga violentata da immigrati di religione islamica, sta diventando una costante. André Oktay Dahl, deputato del Partito Conservatore, nel mese di gennaio aveva definito la situazione “critica”, constatando come vi fosse, ormai, una vera “epidemia” di stupri. Ad Oslo il numero delle violenze sessuali è raddoppiato dal 2010 al 2013. Nel 65% dei casi, come rivela una statistica della polizia del 2011, sono commessi da cittadini stranieri, che costituiscono il 23% della popolazione cittadina. Nel 90% dei casi, gli stupri sono commessi da “non occidentali” (con o senza la cittadinanza norvegese), cioè da persone di origine mediorientale e africana e quasi sempre di religione musulmana. Per i difensori del multiculturalismo queste statistiche sono state distorte e interpretate ad arte dagli “islamofobi”. Essi affermano che una “jihad dello stupro” (come la chiama la blogger conservatrice americana Pamela Geller) non esista, perché non si può attribuire all’atto di violenza carnale una causa religiosa. Evidentemente, i norvegesi, prima di questo voto, hanno fatto pochi distinguo sulle cause della violenza sessuale. Ed hanno semplicemente fatto l’equazione più immigrati musulmani = più stupri. Inoltre, a maggio, hanno visto nella vicina Svezia i danni provocati da una settimana di guerriglia metropolitana, nei sobborghi di Stoccolma e in altre città. Pure in quel caso i vandalismi sono stati commessi da musulmani, che lanciavano molotov contro i poliziotti e bruciavano auto al grido di “Allah è grande!” (come provano i loro stessi video). Quindi, i norvegesi hanno votato di conseguenza.

Il Comitato di Oslo assegna il Nobel per la Pace a Barack Obama (appena insediatosi, prima delle sue numerose guerre), solo nel nome del suo dialogo con l’islam. La Norvegia reale è però inorridita di fronte a casi di giustizia islamica applicati ai suoi cittadini. L’esempio recente è Marte Dalelv, una ragazza di 24 anni, impiegata a Dubai, condannata a sedici mesi di carcere perché ha bevuto alcool … ed ha denunciato di essere stata stuprata. Negli Emirati Arabi Uniti conta meno la differenza fra aggressore e aggredita: il sesso al di fuori del matrimonio è comunque punito. La reazione norvegese è stata debolissima: appena un’assistenza legale dell’ambasciata. Non è stato sollevato formalmente un caso di violazione dei diritti umani, una mancanza grave, contestata dalla branca norvegese di Amnesty International. Nel frattempo la ragazza è stata licenziata dalla compagnia per cui lavorava, che ha dato credito alla sentenza del tribunale locale. Il Ministero degli Esteri di Oslo ha semplicemente avvertito i suoi cittadini che «Ciò che viene considerato legale da noi, può essere un crimine in un Paese conservatore». Il 7 settembre, la Dalelv è stata “perdonata” dalle autorità degli Emirati Arabi Uniti. Ma non assolta.

Votando a destra, i norvegesi si aspettano una miglior difesa dei propri cittadini, in patria e all’estero. Soprattutto in patria. Ma avranno soddisfazione dal nuovo governo? Erna Solberg, la prossima premier, ha definito Marte Dalelv «vittima di una giustizia medioevale». Tuttavia, la stessa Solberg, in un’altra occasione, si è detta favorevole all’introduzione, in Norvegia, di corti islamiche per giudicare casi di diritto familiare che riguardino immigrati musulmani. Anche la destra parla il linguaggio politicamente corretto. Di che si preoccupano i nostri media?

Aborto, chiuse in America 59 cliniche in tre anni. La strategia politica e legale del movimento pro life paga

Aborto, chiuse in America 59 cliniche in tre anni. La strategia politica e legale del movimento pro life paga

di Benedetta Frigerio da www.tempi.it

Sostenendo i candidati contrari all’eliminazione dei non-nati, gli “avvocati della vita” hanno favorito nei diversi stati l’approvazione di 200 norme che rovinano gli affari di questo mercato miliardario 

Mentre il presidente Barack Obama agisce “dall’alto” utilizzando i fondi federali per finanziare le cliniche abortive, il movimento pro life americano ha deciso di adottare la strategia opposta. Pur non rinunciando alla battaglia sul piano culturale e dell’aiuto alle donne, con preghiere davanti alle cliniche e petizioni per fermare l’eliminazione degli “unborn babies”, i prolifers, organizzandosi dal basso, Stato per Stato, hanno sponsorizzato l’ingresso in politica di persone pronte a tutelare la vita attraverso le leggi. Leggi che ora iniziano a colpire la colossale industria abortiva a stelle strisce intaccando proprio la suo principale ragion d’essere: il business.

BUSINESS IN PERDITA. Secondo l’agenzia Bloomberg, in circa tre anni, negli Stati Uniti hanno chiuso i battenti 59 cliniche (una su dieci), e il Guttmacher Institute ha calcolato che nel primo decennio del 2000 i centri sono passati da 705 a 591. Un processo che dal 2011 ha indubbiamente subìto un’accelerazione, in virtù delle 200 restrizioni all’aborto passate attraverso i diversi parlamenti statali. In soli due anni, si è registrato un numero di chiusure superiore alla metà di quello del decennio precedente. Non solo: il mese prossimo in Ohio e in Texas altri provider abbasseranno le saracinesche.

LA SVOLTA DEL TEXAS. A luglio, infatti, il parlamento del Texas, lo Stato americano con la più alta densità di abitanti, ha varato una legge che oltre a vietare l’aborto dopo la ventesima settimana di gestazione impone alle cliniche di adeguarsi agli standard richiesti a ogni struttura ospedaliera in cui si pratichino interventi chirurgici. Il conseguente innalzamento dei costi ha reso l’industria abortiva meno appetibile sia ai medici e sia ai proprietari.

NUOVE LEGGI. Anche in Virginia due cliniche sono state chiuse dopo che il sistema sanitario si è dotato di regole più restrittive simili a quelle approvate in Texas. In Arizona, dove l’aborto prima delle nuove norme era praticato anche da personale sanitario non medico, diverse cliniche hanno smesso di operare per mancanza di personale: secondo l’Huffington Post in tre anni sono stati chiusi ben 12 centri. In Michigan sono 14 le cliniche che hanno cessato le attività  dal 2010 a oggi. Mentre in North Carolina all’inizio di agosto una clinica che non rispettava alcun limite di sicurezza si è ritirata dal mercato subito dopo che il parlamento statale ha imposto il rispetto di standard sanitari minimi. Non tutti i centri per l’aborto che si sono fermati lo hanno fatto a causa delle nuove norme: nel Maine una struttura ha giustificato lo stop facendo genericamente riferimento a problemi interni e in Oregon un’altra avrebbe chiuso per via del pensionamento del direttore.

PROCESSI E DENUNCE. Anche dai tribunali sono arrivati duri colpi all’industria dell’Ivg, in particolare con le condanne comminate a medici abortisti colpevoli di aver trasgredito le pur permissive leggi esistenti. È il caso, ad esempio, di Steven Brigham che guidava due centri in Pennsylvania, di Kermit Gosnell che dirigeva un altro centro sempre in Pennsylvania e di Douglas Karpen, processato in Texas. Anche le denunce del movimento pro life, aumentate dopo gli ultimi casi giudiziari, sono servite a far chiudere altre cliniche. Al giro di affari dell’aborto ha fatto molto male anche l’obbligo, introdotto in alcune legislazioni statali, di fare l’ecografia prima di ogni intervento: secondo un sondaggio di Focus on the Family, il 78 per cento delle donne che si sono sottoposte agli ultrasuoni ha deciso di proseguire la gravidanza.

Le associazioni Lgbt vogliono mettere il bavaglio a chi non la pensa come loro sulla legge anti omofobia

Le associazioni Lgbt vogliono mettere il bavaglio a chi non la pensa come loro sulla legge anti omofobia

Il presidente della commissione di Vigilanza Rai, Roberto Fico (M5S), farà un’interrogazione contro Cerrelli e la trasmissione su Rai Uno. Dimostrando così che i nostri timori sono fondati
di Emanuele Boffi da www.tempi.it 

Nel giorno in cui incomincia alla Camera la discussione sulla legge sull’omofobia, arriva la notizia che conferma la tesi di quanti temono che tale norma introdurrà pesanti limiti alla libertà di espressione. Alcune associazioni lgbt hanno incontrato il presidente della commissione di Vigilanza Rai, Roberto Fico (M5S), chiedendogli di presentare un’interrogazione che faccia «piena luce» su quanto accaduto durante la puntata del 20 agosto di Unomattina (RaiUno).

COSA E’ SUCCESSO. Il tema trasmissione era, appunto, la legge sull’omofobia ed erano stati chiamati a confrontarsi Fabrizio Marrazzo, portavoce di Gay Center, e Giancarlo Cerrelli, vicepresidente dell’Unione dei Giuristi Cattolici. Il dibattito, come vi abbiamo raccontato il giorno dopo su tempi.it, è stato dialetticamente vinto da Cerrelli, che ha mostrato in più punti come le preoccupazioni di chi tema una limitazione alla libertà di espressione siano più che fondate.
A ulteriore riprova, dopo la denuncia del presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, Luigi Palma, giunge ora questa iniziativa di Arcigay, Arcilesbica, Agedo e Gay Net che – tramite il parlamentare grillino – tornano a soffiare sul fuoco. Secondo Gay Center, la trasmissione sarebbe addirittura stata sbilanciata in favore delle tesi di Cerrelli, al quale sarebbe stata concessa la possibilità di «argomentare le sue assurde tesi contro un’eventuale legge antiomofobia», mentre al povero Marrazzo «non è stata data piena possibilità di replica».
Marrazzo ha anche chiesto che sia istituito un osservatorio permanente sulle tematiche lesbiche, gay e trans, che possa monitorare che in Rai si faccia corretta informazione. «Il presidente Fico ha sostenuto – riferisce una nota di Gay Center – che la televisione pubblica, e non solo, deve garantire una corretta informazione, senza dare adito a teorie che non hanno nulla di scientifico, ma che mirano a creare discriminazioni. Il presidente valuterà azioni che possano riequilibrare quanto accaduto e si adopererà al fine di cercare di attuare quanto richiesto dalle associazioni e gruppi in questione».

UNA VICENDA ASSURDA. Qualsiasi persona di buon senso che abbia la pazienza di rivedere la puntata, non potrà fare a meno di constatare quanto tutta questa vicenda sia assurda.
1. La trasmissione si apriva con un servizio sull’emergenza omofobia. I conduttori in studio, così come le domande poste agli ospiti e i servizi degli inviati, andavano tutti in questa direzione. Se uno sbilanciamento può essere denunciato è quello a favore delle opinioni di Marrazzo, non di Cerrelli. La banale verità è che le argomentazioni poste da Cerrelli hanno più volte preso in contropiede Marrazzo (sull’inutilità della norma, sulla sbagliata e clamorosa citazione anti-Ratzinger, solo per citarne due).

2. Unomattina è un talk show. Se un ospite viene invitato a esprimere le sue opinioni per fornire un contraddittorio con una persona che la pensa diversamente, cosa ci si può aspettare da lui? Che dia ragione al suo antagonista? Dire che a Cerrelli è stata concessa «la possibilità di argomentare le sue assurde tesi contro un’eventuale legge antiomofobia» è bizzarro. È una frase che oltrepassa il ridicolo per finire nel grottesco. Di che cosa dove parlare Cerrelli? Poteva solo dare ragione a Marrazzo? Oppure doveva stare zitto?

3. Per quanto riguarda la discussione sulle “terapie riparative”, la falsità raggiunge il suo apice.  Al di là del merito – e cioè se tali terapie funzionino o meno – resta il fatto che, durante la trasmissione, non (avete letto bene: NON) se ne è parlato. Basta vedere il video della puntata. Al termine di un discorso, Cerrelli accenna all’esistenza di tali terapie. Altro non dice perché finisce il tempo e i conduttori mandano la pubblicità. Non vi è stato alcun dibattito su questo. Ma solo averle nominate ha fatto scattare le associazioni lgbt. Non osiamo immaginare cosa possa accadere se una trasmissione fosse dedicata ad esse.

4. Tutta questa vicenda non fa altro che confermare quanto andiamo scrivendo da tempo. E cioè che la legge sull’omofobia non mira a tutelare le persone omosessuali che vengono discriminate per le loro preferenze sessuali (lo ripeteremo di nuovo a rischio di apparire zelanti: se discriminazione c’è, essa va punita con gli strumenti di legge già esistenti), no, la norma Scalfarotto-Leone mira a mettere il bavaglio a persone come Cerrelli. Questo episodio ne è l’ennesima conferma.

Il digiuno cristiano non è quello di Marco Pannella

Il digiuno cristiano non è quello di Marco Pannella

di Tommaso Scandroglio da www.lanuovabq.it

Domenica scorsa Papa Francesco ha deciso di indire per sabato 7 settembre “una giornata di digiuno e di preghiera per la pace in Siria, in Medio Oriente, e nel mondo intero”. L’invito è esteso a tutti, credenti e non.

Marco Pannella si è sentito chiamato in causa solo a sentire che il Pontefice invitava anche i laici a digiunare e non gli è parso vero di dire la sua: «Quando lui invita il mondo, non solo quello cattolico, sabato prossimo, ad una giornata di preghiera, di impegno e, per quel che lo riguarda, di digiuno per la Siria e contro la violenza, aiuta anche noi, anche me, in questo momento della realtà storica e politica del Partito Radicale. A partire da quel che annuncia Papa Francesco – ha continuato il leader radicale dai microfoni della radio omonima – vorrei suggerire che dalle carceri italiane venga fuori una tre giorni – da sabato a lunedì – di digiuno, contro la guerra, la violenza, e la violenza di Stato».

Insomma, dal punto di vista di Pannella, il digiuno voluto dal Papa e il suo, stessa cosa sono e quindi si sente legittimato ad arruolare persino Papa Francesco nella sua lotta per i “diritti civili”, superandolo in bontà perché ha rilanciato all’invito del pontefice con ben tre giorni di digiuno. Invece lo sciopero della fame indetto a più riprese e ormai da decenni dai radicali e la pratica del digiuno cristiano hanno una natura differente e perseguono scopi quasi diametralmente opposti.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna che la pratica del digiuno ha una duplice valenza. Di base aiuta a «farci acquisire il dominio sui nostri istinti e la libertà di cuore» (2043). I radicali, si sa, invece spingono ad un asservimento dell’uomo ai propri istinti riconosciuto per legge: pensiamo ad esempio alle loro lotte per la liberalizzazione delle droghe e della prostituzione.

Su un piano più elevato, poi, il digiuno cristiano esprime “la conversione in rapporto a se stessi” (1434). Insieme a preghiera ed elemosina, il digiuno rappresenta un «mezzo per ottenere il perdono dei peccati, gli sforzi compiuti per riconciliarsi con il prossimo, le lacrime di penitenza, la preoccupazione per la salvezza del prossimo, l’intercessione dei santi». Tutte cose estranee – banale a dirsi – al pensiero radicale e in specie a quello pannelliano.

Ma perché il Papa chiede di digiunare e pregare per la pace? Come può il nostro digiuno influenzare chi è nella stanza dei bottoni pronto a scatenare nuovi conflitti armati? Ci viene in soccorso una nota della CEI del 1994 dal titolo “Il senso cristiano del digiuno e dell’astinenza”. In questa nota i vescovi spiegano che il digiuno è uno strumento potente di “implorazione dell’aiuto divino”, strumento che lo stesso Gesù ha adottato nel deserto per lottare contro il maligno. Papa Francesco in buona sostanza ci ricorda che la storia non è fatta solo dagli uomini, ma anche da Dio dagli angeli buoni e da quelli ribelli. Una visione della vicenda umana metafisica, anzi spirituale. Se allora le guerre non nascono solo da motivazioni umane, terrene, bensì hanno la loro radice in potenze sovrannaturali, allora gli strumenti per combattere il male devono avere anch’essi natura sopranaturale. Se il digiuno è compiuto con il giusto spirito di contrizione, di carità e di abbandono a Dio, se esprime davvero un gesto di amore e di richiesta di aiuto, ecco che acquista efficacia. Un’efficacia non solo simbolica – come lo sciopero della fame di Pannella – ma effettiva. Il digiuno vissuto così come la Chiesa insegna realmente acquista un valore spirituale così pregnante che può orientare le coscienze dei governanti. Il digiuno fatto dagli uomini e offerto a Dio, nella mani di Quest’ultimo diviene realmente un condizionamento verso il bene. Dio bussa incessantemente alle porte del cuore di ogni uomo e il digiuno e la preghiera di molti aumenteranno il numero di mani di coloro che bussano.

L’iniziativa del Pontefice si inserisce nella tradizione millenaria dei credenti in Dio, così come ricorda ancora la CEI: «Le celebrazioni penitenziali, in tempo di gravi calamità e nei momenti decisivi dell’Alleanza fra Dio e il suo popolo, comportano anche l’indizione di un solenne digiuno per l’intera comunità. […] Privandosi del cibo, alcuni protagonisti della storia del popolo d’Israele riconoscono i limiti della loro forza umana e si appellano alla forza di Dio, che solo li può salvare». Stentiamo a credere che Pannella sia animato da simili motivazioni spirituali e da tali afflati religiosi.

Le sue motivazioni in realtà sono altre. In mano al leader radicale il digiuno non è strumento di richiesta di aiuto, bensì strumento di lotta, di protesta, altoparlante affinché i media si accorgano di lui, messinscena pubblica e strepitante per dar eco ad iniziative che all’opposto non potrebbero uscire dall’anonimato. Infatti tale pratica non è chiamata neppure “digiuno”, bensì “sciopero della fame” proprio per sancirne la natura ideologica, quasi sindacalista in opposizione ai poteri forti. La prospettiva dietetica di Pannella è allora politica, meramente appiattita sul piano orizzontale e autoreferenziale. Pannella digiuna per sé in fondo, e la pace, la condizione dei carcerati ecc … sono solo un pretesto per accendere i riflettori su di lui e sulla sua faccia emaciata che offre a favore di flash e telecamere.

Anche in questo lo sciopero della fame non c’entra nulla con il digiuno cristiano. Per rimanere alle parole del Vangelo, Gesù così ammoniva: «E quando digiunate, non abbiate un aspetto malinconico come gli ipocriti; poiché essi si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. […] Ma tu, quando digiuni, ungiti il capo e lavati la faccia, affinché non appaia agli uomini che tu digiuni».

Sulla stessa frequenza d’onda si muove Paolo VI con la Costituzione apostolica Paenitemini del 1966: la penitenza deve essere «atto religioso personale, che ha come termine l’amore e l’abbandono nel Signore: digiunare per Dio, non per se stessi». E così viene commentato questo passo dalla nota della CEI già richiamata: «Oggi, infatti, il digiuno viene praticato per i più svariati motivi e talvolta assume espressioni per così dire laiche, come quando diventa segno di protesta, di contestazione, di partecipazione alle aspirazioni e alle lotte degli uomini ingiustamente trattati». Una protesta che – è bene dirlo – può anche tradursi legittimamente nella forma del digiuno, ma che nulla a che vedere con la pratica cristiana indicata da Cristo e dal Magistero.

Guerra a costo zero. Chi lo paga l’intervento americano in Siria? Il serafico Kerry: «Qatar e Arabia Saudita»

Guerra a costo zero. Chi lo paga l’intervento americano in Siria? Il serafico Kerry: «Qatar e Arabia Saudita»

di Leone Grotti da www.tempi.it

Il segretario di Stato americano Kerry ha dichiarato: «I paesi arabi si sono offerti di pagare l’intero costo dell’operazione militare» 

obama-usa-arabia-saudita-americaL’intervento americano in Siria, se il Congresso lo approverà, non costerà neanche un singolo dollari agli Stati Uniti. Come rivelato ieri in Senato dal segretario di Stato americano John Kerry, «rispetto alla domanda se i Paesi arabi si siano offerti di pagare i costi [dell’attacco], la risposta è sì». Alla domanda della deputata repubblicana Ileana Ros-Lehtinen: «Quanto si sono offerti di pagare?», Kerry ha risposto: «L’intero costo dell’operazione militare».

PAGANO I PAESI ARABI. Ha poi aggiunto Kerry: «Alcuni dei Paesi arabi ci hanno detto che se siamo pronti ad attaccare nello stesso modo in cui abbiamo attaccato in precedenza altri Paesi, loro pagheranno il costo dell’intervento». Così, tenendo anche conto delle parole del segretario di Stato americano a conferma del fatto che gli Stati Uniti non invieranno uomini in Siria, si prospetta per l’America un vero intervento a costo zero.

INTERESSI DELL’ARABIA SAUDITA. Non c’è da stupirsi per la generosità dei Paesi arabi: Arabia Saudita e Qatar, entrambi paesi sunniti, hanno forti interessi in questa guerra, in cui intravedono la possibilità di spezzare finalmente l’asse sciita composto da Siria e Iran, diminuendo anche l’influenza degli ayatollah nella regione. Non a caso, dall’inizio del conflitto in Siria hanno rifornito di armi, uomini e mezzi le brigate ribelli, comprese quelle più estremiste legate ad Al-Qaeda, come al-Nusra e lo Stato islamico dell’Iraq. Secondo un recente reportage, le armi chimiche che hanno causato centinaia di vittime a Ghouta potrebbero essere state esplose per sbaglio proprio dai ribelli, che le avrebbero ricevute dai sauditi.