Un Rabbino dal Sudafrica ad Auschwitz

Un Rabbino dal Sudafrica ad Auschwitz

Rabbi Bryan Opert racconta la sua esperienza alla Celebrazione sinfonico-catechetica del Cammino Neocatecumenale: “Un ponte di amore e riconciliazione fra Ebrei e Cattolici”

da www.zenit.org di Marco Cavagnaro

L’iniziativa di dialogo fra Cattolici ed Ebrei intrapresa dal Cammino Neocatecumenale attraverso la nascita dell’Orchestra Sinfonica e del Coro e l’esecuzione della celebrazione sinfonico-catechetica de “La Sofferenza degli Innocenti”, sta contribuendo a rinnovare e rafforzare le relazioni fra la Chiesa Cattolica e il popolo Ebraico in tutte le parti del mondo. Il recente evento dell’esecuzione della Sinfonia di fronte alla “Porta della Morte” del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, alla presenza di 6 cardinali, 50 vescovi, 35 rabbini da tutto il mondo e 15.000 persone, ha stimolato il dialogo e la reciproca conoscenza dei mondi Cattolico ed Ebraico coinvolgendo anche le comunità del Cammino Neocatecumenale del Sudafrica, che hanno avuto l’onore di poter invitare Rabbi Bryan Opert, della sinagoga di Milnerton, all’evento Auschwitz. ZENIT lo ha intervistato.

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Rabbi Opert, cosa la ha colpita principalmente della celebrazione Sinfonico-catechetica ad Auschwitz?

Rabbi Opert: Devo dire che la sinfonia è stata fantastica. Il momento che però mi è rimasto maggiormente impresso è stato quanto la preghiera dello Shemá Israel – Ascolta Israele è stata eseguita dall’orchestra e cantata in coro da tutti i 15.000 pellegrini accorsi qui da ogni parte d’Europa. Pregare lo Shemá insieme a tutte queste persone è qualcosa che in tutta la mia vita non avevo mai sperimentato. Qualcosa che va oltre la semplice gioia o tristezza, si è trattato di un sentimento più grande, che mi ha superato.

Come vive lei oggi le relazioni fra Ebrei e Cattolici?

Rabbi Opert: Personalmente sono testimone nella realtà Sudafricana di un grande interesse del mondo cristiano per la religione Ebraica. Molti cristiani vengono da noi chiedendo di poter approfondire le radici della loro fede. Partecipare a questo evento ad Auschwitz per me è stato una conferma che stiamo vivendo un momento speciale nelle relazioni fra Ebrei e Cattolici. Sono rimasto impressionato, al termine del concerto, nel guardare le migliaia di persone che lasciavano l’area del concerto, camminando lungo quei binari che un tempo portavano alla morte. Tutte quelle persone, la maggioranza delle quali cattoliche, vedendo che sono un Rabbino mi sorridevano e salutavano con grande amore ed allegria. Ricevere questa testimonianza di amore, proprio in quel luogo in cui poco più di 70 anni fa si consumava la tragedia della Shoah, mi ha profondamente colpito.

Cosa avvicina oggi maggiormente la comunità Ebraica a quella Cattolica?

Rabbi Opert: Oggi, specialmente nei paesi dove la Chiesa Cattolica è una minoranza, come nel Sudafrica, ci troviamo di fronte alle stesse sfide. Siamo una minoranza religiosa nel mezzo di un mondo secolarizzato, e dobbiamo dare una testimonianza sempre più autentica della nostra religione per poterla trasmettere alla prossima generazione. Mi ha colpito in particolare come il Cammino Neocatecumenale dedichi molta attenzione alla formazione degli adulti, e questa è una sfida che abbiamo anche noi. Molte persone infatti, per via della loro professionalità e preparazione, interagiscono con il mondo secolarizzato a un livello elevatissimo, ma al tempo stesso non sono capaci di vivere la propria religione con la stessa profondità e conoscenza. Questo può portarli ad allontanarsi dalla comunità, o a perdere interesse. Dobbiamo saper dar una risposta a questa loro sete!

La riscoperta delle radici giudaiche è centrale nell’esperienza del Cammino Neocatecumenale, in special modo per quanto riguarda la trasmissione della fede ai figli…

Rabbi Opert: Mi ha infatti colpito molto sentire Kiko Arguello parlare dell’importanza della difesa della famiglia Giudeo-Cristiana. I principi fondamentali per i quali stiamo ‘lottando’ sono molto simili: fondamenta familiari solide, un senso da dare alla vita e un’esistenza centrata sulla spiritualità.

Lei in questi giorni ha potuto incontrare anche personalmente Kiko e diversi altri Rabbini e membri della comunità Cattolica. Cosa le è rimasto di questi incontri?

Rabbi Opert: Non posso terminare quest’intervista senza parlare della personalità di Kiko. È raro incontrare un uomo così umile, e per me ha incarnato quest’umiltà in tutte le sue dimensioni. In un mondo così impressionato dai titoli e dalle sigle che seguono o precedono un nome, Kiko rappresenta un’anomalia assoluta. All’inizio pensavo ‘Kiko’ fosse un titolo, e solo in seguito ho scoperto essere il suo nomignolo, con il quale viene chiamato da tutti. Per essere l’iniziatore di un Cammino con più di un milione di aderenti, è un uomo estremamente accessibile. Ho sentito un desiderio incredibile di ringraziarlo di persona, e ho potuto camminare tranquillamente verso di lui, avvicinarlo ed esternargli i miei sentimenti di gratitudine.

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Kiko Argüello, Dottor Honoris Causa dall’Università di Lublino

L’ ateneo Giovanni Paolo II ha concesso il titolo all’iniziatore del Cammino Neocatecumenale per il contributo al rinnovamento della Chiesa

da Vatican Insider

Questa mattina si è svolta la cerimonia d’investitura Dottor Honoris Causa in Sacra Teologia all’iniziatore e responsabile del Cammino Neocatecumenale in tutto il mondo, Kiko Argüello, nel chiostro dell’Università Cattolica Giovanni Paolo II di Lublino, Polonia.

Secondo il centro di studi, il motivo della concessione di tale titolo risiede nell’“aver contribuito validamente al rinnovamento della Chiesa, seguendo attentamente le indicazioni del Concilio Vaticano II, riconducendo i cristiani allontanatisi dalla comunità ecclesiale alle fonti della fede che scaturiscono dalla Bibbia e dalla liturgia; nell’aver dato inizio, insieme alla signora Carmen Hernández, ad una istituzione postbattesimale, opera estremamente preziosa per il mondo odierno, conosciuta universalmente como Cammino Neocatecumenale. Tale forma di iniziazione cristiana, arricchita dalla bellezza della nuova estetica, svolge, oggigiorno, un’opera di evangelizzazione e rievangelizzazione, in tutto il mondo; prepara le missio ad gentes; interviene attivamente affinché cristianesimo ed ebraismo si avvicinino l’uno all’altro; difende i valori della vita e della dignità umana, del matrimonio e della famiglia cristiana.”

Durante l’evento, Argüello ha detto di sentirsi “imbarazzato” di fronte a tanto elogio, e ha spiegato a coloro che vi hanno assistito: “Come ogni cristiano, mi aspetto solamente persecuzioni”, perchè “Cristo è stato sempre odiato e perseguitato. Oggi, sono chiamato all’umiltà, accettando tutto questo”. Inoltre, ha affermato “Carmen Hernandez merita molto più di me questa laurea” (insieme a lui iniziatrice del Cammino). “Oggi io lo ricevo al posto suo, perché è lei che ha apportato, oltre a molto altro, tutta la teologia pasquale e ci ha avvicinati al popolo ebreo”. Dopo queste parole, ha annunciato il kerigma affermando che “la cosa più grande che possiamo fare in questa vita è annunciare il Vangelo”.

All’investitura hanno partecipato vari vescovi, tra i quali monsignor Kiernikowski, vescovo di Siedle, e monsignor Grzegorz Rys, vescovo di Cracovia, e circa mille persone. L’università ha conferito la laurea honoris causa a personalità importanti, quali Benedetto XVI (quando era cardinal Ratzinger), Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’ Egidio, e Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolarini.

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Kiko Arguello a Livorno: “Se Dio ti chiama, congratulations!”

Oltre 10.000 giovani e famiglie ieri nel Palasport del capoluogo toscano provenienti dall’Italia e dall’estero. Circa 90 le ragazze “alzate” per partire in missione in Cina

Di Salvatore Cernuzio  da www.zenit.org

A volte si dimentica che Kiko Arguello ha 74 anni. Un’età in cui si tende, di norma, a concludere un ciclo della propria vita e ad iniziarne un altro fatto di ricordi e riposo. Lui invece ieri pomeriggio era a Livorno, reduce dai continui spostamenti tra Spagna, Austria e Italia, pronto a gridare l’amore del Signore davanti a più di 10.000 giovani riuniti nel Palamodì.

Perché “la cosa più grande che posso fare è annunziare il kerygma” ha detto. Non si può stare fermi allora, a fare “i cristiani da salotto” come dice Papa Francesco, ma bisogna andare ovunque a portare questa buona notizia “che salva gli uomini e il mondo”. Soprattutto in una città “secolarizzata” come Livorno, ha dichiarato a ZENIT il vescovo mons. Simone Giusti. Una città “paradossale” ha detto, dove “il 35% dei bambini non è battezzato e si registra una percentuale molto alta di funerali e matrimoni civili, ma che al tempo stesso “è una città che, seppur lontana dalle parrocchie, ha un grande senso religioso”.

“Occorre pertanto quello che gli ultimi Papi hanno chiamato nuova Evangelizzazione” ha aggiunto; dunque, “una predicazione come quella di Kiko è necessaria a Livorno, come negli anni ’60 nelle periferie di Madrid”. Il Cammino Neocatecumenale, ha affermato il presule, “è infatti un dono grande del Concilio per far sì che le persone riscoprano il Signore. E mi sembra che i frutti ci siano”.

Il clima, ieri pomeriggio, non è stato d’aiuto. Una pioggia ininterrotta ha messo in difficoltà il percorso dei pullman provenienti non solo dalla Toscana, ma anche da Lazio, Piemonte, Triveneto, Umbria, Liguria e addirittura Sardegna, Svizzera e Francia. Il diluvio non ha impedito, però, che i giovani neocatecumenali si riversassero in città già dal mattino a cantare e danzare, attirando l’attenzione dei cittadini.

Qualcuno li definisce “euforici”, eppure non si può negare che ci sia lo Spirito Santo di mezzo quando si assiste a scene come quella della distribuzione degli oltre 150 rosari per pregare per le missio ad gentes in Francia e Olanda, in cui file incontenibili di ragazzi e ragazze (alcuni sotto i 15 anni) quasi si spintonavano pur di prendere una coroncina. O la corsa sul palco al momento delle “alzate” dei 64 ragazzi che hanno voluto rispondere alla chiamata al seminario e delle 90 ragazze pronte a partire in missione in Cina. (“Per la prima volta nella storia, le donne hanno ‘battuto’ i maschi” ha esclamato Kiko).

Per non parlare dei frutti delle Missioni in 10.000 piazze di tutto il mondo, dovuti proprio a giovani pronti a spendere la domenica per regalare ai passanti l’esperienza del loro incontro con Dio. “Facendo una media di quattro persone per ogni piazza, sono almeno 40.000 i lontani che si sono riavvicinati alla Chiesa” ha affermato Kiko. Veri “miracoli e prodigi” che “Papa Francesco ha apprezzato molto”, quando, incontrando gli iniziatori del Cammino a Santa Marta il 18 maggio, ha visto alcune foto delle missioni. “Il Santo Padre – ha raccontato Kiko – mi ha raccomandato: Dopo questi frutti, ora sta attento ai colpi di coda del demonio”.

Come nelle piazze, anche nel Palasport si respirava un’aria di festa. Prima dell’arrivo di Kiko, è partita una Ola che ha coinvolto tutti gli spalti, seguita da canti e applausi. Un clima forse un po’ troppo da stadio, per un incontro principalmente di preghiera. Ma Arguello l’ha riportato subito nella giusta dimensione dopo l’invocazione allo Spirito Santo e la lettura della Lettera ai Corinzi in cui San Paolo esorta ad essere “ambasciatori di Cristo”.

La processione con la Vergine è stata poi un momento di grande intensità. Preceduti dalla croce astile in oro, i seminaristi dei Redemptoris Mater di Firenze, Trieste, Lugano e Pinerolo hanno trasportato l’effigie della Madonna di Montenero, patrona della Toscana, mentre Kiko e tutti i presenti cantavano “Vittoria, vita eterna in Cristo Risorto”.

È seguito poi l’annuncio del kerygma. “Non siamo qui a fare uno show” ha esordito Kiko, ma a “dire che qui, a Livorno, alle 18, è arrivata la salvezza, il momento favorevole”. Perché “il kerygma annunzia un atto: che il Signore che conosce te, i tuoi problemi e le tue sofferenze, e per questo ha inviato Suo Figlio a soffrire la morte, affinché diventassimo uno con Lui, primogeniti di una nuova creazione”.

Il problema è avere “l’orecchio chiuso” per accogliere questa notizia. In quel caso, ha avvertito Kiko, si rompe la relazione tra uomo e Dio e si dà ascolto alla ‘contro-catechesi’ del demonio che “vuole convincerti che Dio ti castra, ti limita e che devi essere autonomo, cercando da solo la tua felicità”.

Questo porta “all’inferno del non essere”, al non sentirsi amato, e genera la morte. “È come essere abbandonato negli spazi siderali” ha affermato Arguello, in un “abisso di sofferenza” che spinge a gesti tragici “come l’omicidio della diciassettenne pugnalata e bruciata viva dal fidanzato”. “Dio permette questo – ha detto Kiko – perché dona la libertà all’uomo anche di peccare, in modo da fargli capire che non è un burattino nelle Sue mani”. Soprattutto Dio – ha soggiunto l’iniziatore del Cammino Neocatecumenale – ha “inviato il Suo unico Figlio, Lo ha risuscitato come garanzia che il peccato è perdonato”. E di fronte a questo kerygma“dobbiamo dire si o no come Maria”.

Lo stesso annuncio è stato ribadito da mons. Giusti. Con un accento marcatamente toscano, il vescovo ha fatto sorridere e commuovere parlando dei miracoli, di quei fatti, cioè, che dimostrano che “il Vangelo non è una bella speranza, ma vita che cambia”. “Cosa ha permesso che il cristianesimo si diffondesse ovunque, con la predicazione di un traditore come Pietro e un persecutore come Paolo?” si è chiesto il presule: credere in quei miracoli “che Cristo ha compiuto” e che vanno oltre quell’“idolo della morte che appare onnipotente”.

“Noi ci sentiamo condannati a morte”, per cui diciamo:“Tanto se devo morire, mando ‘affantasca la mi’ moglie, la mi’ famiglia e arraffo quel che succede…’” ha detto il vescovo. Ma “la morte è vinta” ha esclamato: “Giovanni Paolo II, da quella lastra di marmo nelle grotte vaticane, e tutti gli altri Santi, hanno dovuto dimostrare ciò attraverso grazie, più di mille bambini nati…”. La morte, però, ha precisato mons. Giusti, “la vince chi sa amare”: l’amore “tiene in vita anche le persone care defunte”. E quando “chiama qualcuno – ha concluso il vescovo – è perché vuole che si disseti alla sorgente eterna dell’amore”.

Vale la pena quindi spendere la propria vita per Dio: “Egli è fedele sempre – ha assicurato Giusti – moglie e marito possono fare qualsiasi cosa, con Dio invece si può essere una ‘coppietta’ sempre felice e sempre innamorata”. Sarà per questo che Kiko ad ogni incontro vocazionale ripete: “Se Dio ti chiama, Congratulations!”.

Un Rabbino dal Sudafrica ad Auschwitz

La gemma di Kiko Arguello

di Antonio Socci da www.antoniosocci.com

Le giornate di ieri e di oggi del Papa con i movimenti colpiscono i media soprattutto per il fiume immenso di persone che arriva in Piazza San Pietro.

I movimenti nati nella Chiesa sono ormai come bei rami frondosi della grande quercia che abbraccia tutte le miserie umane.

Ma la cosa più rivelatrice è scoprire quella piccola “gemma d’aprile” da cui nascono questi rami. Perché nell’inizio è contenuta l’essenza di una cosa.

E senza il rinnovarsi di quella piccola gemma – come diceva Péguy – tutto il grande albero non sarebbe che legna secca. Da ardere.

Su queste colonne di recente ho raccontato la vicenda di Chiara Amirante e di Nuovi Orizzonti. Altre volte ho parlato di don Luigi Giussani e di Comunione e liberazione. In diverse occasioni ho ripercorso dall’inizio le apparizioni di Medjugorje riferendo dell’immenso popolo che da lì è nato.

Anche all’inizio di uno dei movimenti più grandi e vitali di oggi, il Cammino Neocatecumenale, c’è lo stesso “segreto”, la piccola gemma.

Tutto nasce sempre nel silenzio di un cuore umano affascinato da Cristo, trasformato e riempito delle sue grazie dallo Spirito Santo (è ciò che si chiama carisma).

Non c’erano finora libri che ripercorressero la storia del Cammino, ma nelle scorse settimane è uscito un preziosissimo memoriale dove è lo stesso Kiko Arguello, il fondatore, a raccontarla.

Quello di Kiko è un nome che alle cronache dei giornali forse dice poco (perché l’uomo non frequenta salotti), ma è invece molto importante per la Chiesa e per la vita del suo immenso popolo.

Kiko dunque racconta cosa gli è accaduto, come è stato sorpreso da Gesù e “chiamato”: il suo bel libro, “Kerigma”, è stato tradotto dalla San Paolo.

IL SUCCESSO E IL VUOTO

Francisco, detto Kiko, nasce a Léon, in Spagna, il 9 gennaio 1939, in una famiglia dell’alta borghesia. Dotato di buone doti artistiche da giovane frequenta l’Accademia di Belle Arti a Madrid. E naturalmente si trova immerso nel clima culturale delle élite del tempo che avevano i loro riferimenti esistenziali in autori come Sartre e Camus.

“Ho provato a vivere così, ma presto mi sono reso conto che, quando la vita diventa insopportabile, c’è solo un’uscita: suicidarsi. Dicono che ogni secondo si uccide una persona nel mondo”.

Nonostante la pittura lo avesse portato al successo, Kiko ricorda che ogni mattina si alzava con queste domande: “Vivere, perché? Per guadagnare soldi? Per essere felice? Perché? Avevo già soldi, già avevo fama, e non ero felice; ero come morto dentro. Ho capito subito che, se continuavo così, mi sarei ucciso”.

Ma, annota, “in questo cielo chiuso, Dio ha avuto pietà di me”. Infatti, nonostante il nichilismo respirato dovunque, “qualcosa dentro di me non era d’accordo che tutto fosse assurdo: la bellezza, l’arte, l’acqua, i fiori, gli alberi… Qualcosa non quadrava”.

Insomma “per me non era indifferente se Dio c’è o non c’è; era una questione di vita o di morte”.

Così “in un momento tragico della mia esistenza, entrai nella mia stanza, chiusi la porta e gridai a Dio: Se esisti, vieni, aiutami, perché avanti a me ho la morte!”.

Era una “discesa” nel baratro che Dio aveva permesso “per farmi umile”, spiega Kiko, “per farmi capace di gridare, di chiedere aiuto. E in quel momento avvenne un incontro”.

L’INCONTRO

Non c’è qui lo spazio per seguire, passo dopo passo, il cammino di Kiko. L’amicizia con i “Cursillos de Cristianidad” lo aiuta a liberarsi da “tanti pregiudizi che avevo contro la Chiesa” e che “venivano dai miei amici marxisti”.

Che contestava con un argomento molto acuto: “volete creare un paradiso comunista in cui ci sia giustizia per tutti. Ma se non date una risposta a tutta la storia, nel fondo siete dei borghesi”.

Chi darà giustizia – per esempio – alla massa di schiavi schiacciati come bestie per millenni? “E’ assurdo” obiettava Kiko “che per alcuni ci sia giustizia e per altri no”. Se non c’è un’altra vita e una giustizia suprema e totale per tutti non può esserci nessuna giustizia.

Poi Kiko fa l’esperienza del deserto e dell’adorazione con i Piccoli Fratelli di De Foucauld. Infine un episodio. Un giorno di Natale, in una casa facoltosa, trova la donna di servizio a piangere.

Lei gli racconta il suo dramma, un marito violento e alcolizzato, orrori vari, la vita in un quartiere spaventoso. Da qual momento Kiko scopre “una sofferenza umana inaudita… Ho capito che c’è una presenza di Cristo in coloro che soffrono, soprattutto nella sofferenza degli innocenti”.

LA BARACCA

Così il giovane artista, ricco e famoso, lascia tutto e va a vivere fra i poveri. In baracche terrificanti. E lì, alla periferia estrema di Madrid, in “una piccola valle piena di grotte, dove c’erano zingari, ‘quinquis’, barboni, clochard, mendicanti, vecchie prostitute…una zona orribile”, proprio lì nasce il Cammino neocatecumenale, una delle realtà più straordinarie della Chiesa di oggi.

Ma, attenzione, Kiko andò lì solo per condividere quella povertà, per amore di Gesù, non andò affatto lì per fare qualche opera sociale, né per fondare un movimento ecclesiale. Neanche ci pensava.

Anzi, era refrattario ogni volta che – all’inizio – qualcuno di quei poveracci a cui raccontava di Cristo voleva che parlasse in pubblico, a tutti.

Kiko all’inizio non voleva saperne, “ma il Signore mi ha obbligato, in quell’ambiente” a catechizzare “perché volevano che parlassi loro di Gesù Cristo”.

Questa è una caratteristica di ogni movimento ai suoi inizi. Non è un progetto umano, non nasce per la volontà di un uomo. E’ sempre Cristo che si rende presente con potenza attraverso la povera umanità di un uomo.

LE LACRIME DEL VESCOVO

Gli aneddoti che Kiko racconta su questo periodo sono freschi, a volte drammatici e struggenti, a volte divertenti. Un giorno arriva la polizia, vuole sgomberare le baracche. Per una serie di circostanze viene chiamato lì pure l’arcivescovo di Madrid, monsignor Morcillo, e “scopre” Kiko, vede dove e come vive, quello che fa. E si commuove profondamente.

Gli dice: “Kiko, io non sono cristiano. Guarda, da oggi il mio palazzo episcopale è sempre aperto per te”.

Siamo attorno al 1965-66. E’ appena finito il Concilio. La predicazione di Kiko comincia a diffondersi a Madrid. Poi valica i confini. Dopo il ’68 arrivano dall’Italia quelli delle comunità di base, affascinati da ciò che hanno sentito di lui. Ma quando Kiko, barba lunga e giacca verde alla Che Guevara, arriva a Roma, “lì, in un’assemblea, tutta di giovani di sinistra, ho detto che Lenin e Che Guevara erano falsi profeti e ho parlato di Cristo che non resiste al male, gettando a terra tutte le loro idee. Sono rimasti di stucco”.

Poi alcuni lo hanno portato a “una messa beat” e alla fine gli hanno chiesto: “che te ne sembra?”. Risposta fulminante: “Non si rinnova la Chiesa con le chitarre”. “No? E con cosa?”. Risposta: “Con il Mistero Pasquale, con il kerigma”.

Il kerigma, che è il cuore dell’annuncio di Kiko, è la notizia – data con la forza dello Spirito Santo – di Dio fatto uomo, morto per noi e risorto. E’ iniziata così un’avventura straordinaria.

VERSO IL MONDO

Oggi a Roma il Cammino è presente in cento parrocchie e ci sono circa 500 comunità. Il movimento ormai vive in cento nazioni del mondo. Tantissime sono le famiglie del Cammino che partono per la missione ai quattro angoli della Terra.

“Il Signore” dice Kiko “ci ha ispirato che dobbiamo preparare 20 mila sacerdoti per la Cina”. Di recente, in un grande incontro, ha invitato i giovani presenti a offrirsi per l’evangelizzazione di quel Paese “dove ci sono un miliardo e 300 milioni di persone che non conoscono Cristo… si sono alzati e sono venuti verso il palco circa 5.000 giovani. Non sapevamo dove metterli. Era un fiume enorme di ragazzi… E dopo si sono alzate circa 3.000 ragazze”.

La Sacra Scrittura annuncia che “il Signore compie meraviglie”. Ma tutto comincia sempre attraverso il semplice “sì”, personale, intimo, che una creatura gli dice. Nel silenzio del mondo. Così la Chiesa rinasce e attraversa i millenni e abbraccia i continenti riempiendoli della luce del Salvatore.

Antonio Socci

Ps  Faccio sommessamente notare che stamani per i giornali italiani (con rarissime eccezioni) l’incontro di 300 mila persone dei movimenti con il papa in Piazza San Pietro, non è una notizia degna della prima pagina….
C’è d ridere o da piangere per questo sistema mediatico?

Papa Francesco saluta gli iniziatori del Cammino Neocatecumenale

Papa Francesco saluta gli iniziatori del Cammino Neocatecumenale

Kiko Argüello, Carmen Hernández e padre Mario Pezzi sono stati invitati alla Messa di oggi a Santa Marta. Circa 15.000 i membri del Cammino Neocatecumenale presenti all’incontro con i Movimenti

CITTA’ DEL VATICANO, 18 Maggio 2013 (Zenit.org) – Kiko Argüello, Carmen Hernández e padre Mario Pezzi hanno partecipato alla Messa presieduta dal Papa questa mattina nella Casa Santa Marta. Dopo la celebrazione, hanno avuto un breve incontro, durante il quale Kiko Argüello ha fatto dono al Papa di un’icona della Vergine del Cammino, che il Santo Padre ha apprezzato e gradito. Inoltre Kiko ha mostrato al Papa alcune foto della Grande Missione nelle piazze di tutto il mondo, che il Cammino Neocatecumenale ha messo in moto durante cinque domeniche del tempo pasquale.

Il Santo Padre gli ha detto: “Dopo l’annuncio del Vangelo nelle piazze, preparati a un colpo di coda del demonio contro di te”. Il Papa ha inoltre comunicato loro che presto gli concederà un’udienza privata. Sono poi circa 15.000 i membri del Cammino che parteciperanno, questa sera, alla Veglia di Pentecoste in Piazza San Pietro, in occasione dell’incontro del Pontefice con i Movimenti, le Nuove Comunità e le Realtà ecclesiali. Saranno presenti anche gli Iniziatori del Cammino, ai quali il Santo Padre ha concesso di poterlo salutare al termine dell’incontro.

Disinformazione, diffamazione e calunnia: tre modi per ammazzare il fratello
Papa Francesco, nella Messa a Santa Marta, mette in guardia dalle chiacchiere e dal “mischiarsi nella vita altrui”: un peccato che “fa tanto male” alla Chiesa

Di Salvatore Cernuzio

CITTA’ DEL VATICANO, 18 Maggio 2013 (Zenit.org) – “Quanto si chiacchiera nella Chiesa!”. Ancora una volta, Papa Francesco, nella Messa di oggi a Santa Marta, dà voce ad uno dei problemi che distrugge l’armonia della comunità cristiana e che mostra chiaramente la limitatezza dell’essere umano: la chiacchiera, il “mischiarsi nella vita degli altri”, fino a “spellare” il prossimo.

Il Santo Padre “non se ne tiene una” – si direbbe popolarmente – e l’uditorio sembra apprezzare i quotidiani e vigorosi richiami del Pontefice. Alla Messa di questa mattina, concelebrata con don Daniel Grech del Vicariato di Roma, c’erano alcuni studenti della Lateranense, guidati dal rettore mons. Enrico Dal Covolo; Roberto Fontolan e Emilia Guarnieri di Comunione e Liberazione; Kiko Argüello e Carmen Hernández iniziatori del Cammino Neocatecumenale, insieme a Padre Mario Pezzi. I rappresentanti delle due realtà ecclesiali sono stati invitati personalmente dal Santo Padre, in occasione del grande incontro di oggi pomeriggio, in piazza San Pietro, con i Movimenti.

Come nell’omelia di ieri, Papa Francesco prende spunto per la sua riflessione da un dialogo tra Gesù e Pietro. In particolare, il Papa si è soffermato sulla domanda “A te che importa?”, che Cristo rivolge all’apostolo che si era immischiato nella vita del discepolo Giovanni. Il Pontefice ha ribadito che tra il Signore e Pietro c’è sempre “un dialogo d’amore”; ma, in quest’occasione, il colloquio “è deviato su un altro binario”, a causa della tentazione del discepolo di fare il “ficcanaso”.

Un atteggiamento, questo, che rispecchia una cattiva e, purtroppo, frequente abitudine di tutti noi cristiani. Ci sono due modalità di mischiarsi nella vita altrui, ha poi spiegato Papa Bergoglio. Innanzitutto il “compararsi con gli altri”, che sfocia “nell’amarezza e anche nell’invidia”, e che a sua volta “arrugginisce la comunità cristiana”, le “fa tanto male”, dando soddisfazione al diavolo che “vuole proprio quello”. E poi le chiacchiere, che partono da “modalità tanto educate” e finiscono con lo “spellare il prossimo”.

“Quanto chiacchieriamo noi cristiani!” ha esclamato Papa Francesco, “la chiacchiera è proprio spellarsi eh? Farsi male l’uno l’altro. Come se volesse diminuire l’altro, no? Invece di crescere io, faccio che l’altro sia più basso e mi sento grande. Quello non va!”.

Il guaio, ha proseguito il Papa, è che “sembra bello chiacchierare”. “Non so perché – ha detto – ma sembra bello. Come le caramelle al miele, no? Tu ne prendi una: “ah, che bello!”, e poi un’altra, un’altra, e alla fine ti viene il mal di pancia”. Come la chiacchiera, insomma, che “è dolce all’inizio e poi ti rovina l’anima!”.

“Le chiacchiere sono distruttive nella Chiesa” ha ribadito il Santo Padre, sono distruttive come “lo spirito di Caino”; con esse si rischia di “ammazzare il fratello, con la lingua!”. Non solo: di questo passo – ha soggiunto il Pontefice – “diventiamo cristiani di buone maniere e cattive abitudini!”.

Quasi a voler estirpare questo male della Chiesa, Papa Francesco va alla radice e spiega in che modo si presenta la chiacchiera. Normalmente, segue uno schema a tre punti, ha detto: innanzitutto, “facciamo la disinformazione”, ovvero “dire soltanto la metà che ci conviene e non l’altra metà, perché non è conveniente per noi”. Poi la diffamazione: “Quando una persona davvero ha un difetto, ne ha fatta una grossa, raccontarla, ‘fare il giornalista’, e la fama di questa persona è rovinata!”. La terza – ha affermato Bergoglio – “è la calunnia: dire cose che non sono vere. Quello è proprio ammazzare il fratello!”.

Disinformazione, diffamazione e calunnia sono, dunque, le tre armi per uccidere il prossimo. “Sono peccato! Questo è peccato!” ha ribadito il Papa, “è dare uno schiaffo a Gesù nella persona dei suoi figli, dei suoi fratelli”.

La domanda di Gesù a Pietro diventa pertanto un monito per tutti noi: “A te che importa? Tu segui me!”. Il Signore così ci “segnala la strada”, ha osservato il Santo Padre: “È bella questa parola di Gesù, è tanto chiara, è tanto amorosa per noi. Come se dicesse: ‘Non fate fantasie, credendo che la salvezza è nella comparazione con gli altri o nelle chiacchiere. La salvezza è andare dietro di me’”.

“Seguire Gesù!” quindi: è questa la grazia da chiedere oggi al Signore, secondo il Pontefice, la grazia “di non immischiarci mai nella vita degli altri, di non diventare cristiani di buone maniere e cattive abitudini, di seguire Gesù, di andare dietro Gesù, sulla sua strada. E questo basta!”.

Papa Francesco saluta gli iniziatori del Cammino Neocatecumenale

Meglio una Chiesa incidentata, che una Chiesa chiusa

di Massimo Introvigne da www.lanuovabq.it

Papa Francesco

Duecentomila persone – un record – hanno accolto il Papa in Piazza San Pietro e dintorni sabato 18 maggio 2013 per la veglia di Pentecoste con i movimenti ecclesiali.
Parlando a braccio, Papa Francesco ha risposto a quattro domande preparate dai movimenti rispettivamente sulla «fragilità della fede», sulla sua comunicazione nell’evangelizzazione, sui poveri e l’etica della politica, e sulle persecuzioni che i cristiani oggi si trovano ad affrontare.

Al centro del suo discorso il Papa ha messo quello che sta emergendo come il tema centrale del suo Magistero: la Chiesa non si chiuda in se stessa, non parli solo ai suoi fedeli in un gergo autoreferenziale, «esca» ad evangelizzare chi dalla Chiesa si sente lontano, spieghi che soltanto Cristo ha le risposte a una crisi che non è solo economica e che «distrugge l’uomo», levi la voce in difesa di chi è considerato «prodotto di scarto» da poteri forti dell’economia che ignorano l’etica, chieda libertà religiosa per i cristiani perseguitati.

E tutto questo Papa Francesco lo chiede anzitutto ai movimenti, interlocutori privilegiati cui si è rivolto con comprensione e simpatia.
Perché la fede oggi è fragile? Il Pontefice ha risposto partendo dal dato essenziale: «La fede ce la dà Gesù. È importante studiare, ma la fede ce la dà l’incontro con Lui». E ha voluto condividere un ricordo personale, quello della sua vocazione sacerdotale: «La nonna ci portava, noi bambini, alla processione delle candele, e poi arrivava Cristo deposto. E la nonna ci diceva: “È morto, ma domani resuscita”. Era il 21 settembre 1953 giorno dello studente, giorno della primavera, per voi dell’autunno [le stagioni in Argentina sono invertite rispetto alle nostre]. Prima di andare alla festa sono passato dalla parrocchia e ho trovato un prete che non conoscevo. Ho sentito la necessità di confessarmi. Per me è stata una esperienza di incontro. Ho trovato qualcuno che mi aspettava. Non so cosa è successo. So che qualcuno mi aspettava da tempo e dopo la confessione ho sentito che qualcosa era cambiato. Non ero lo stesso e ho sentito una voce, una chiamata ed ero convinto che dovevo diventare sacerdote».

Non si tratta solo di un aneddoto. Ci ricorda che quando noi pensiamo di «cercare» Dio in realtà Dio ci ha già trovato, e ci aspetta perché diventiamo capaci di sperimentare la sua accoglienza e il suo perdono. «Noi diciamo che dobbiamo cercare Dio, andare da lui a chiedere perdono, ma quando noi andiamo lui ci aspetta, è il primo. In spagnolo abbiamo una parola, “primerea”, lui ci aspetta per primo».

La fede è fragile se la concepiamo come uno sforzo umano, mentre è l’accoglienza di un dono di Dio. C’è però un segreto, un modo per rafforzarla: la preghiera. E in questo mese mariano di maggio il Papa è tornato sul tema del Rosario: «mi sento forte quando vado da lei con il Rosario», ha detto parlando della Madonna, «della mamma che ci sostiene nelle fragilità». Una volta rafforzata la fede fragile, si può affrontare la seconda domanda: come comunicarla? Come evangelizzare in un mondo che sembra spesso freddo e ostile? La risposta del Papa è semplice: «la trasmissione della fede si può fare solo con la testimonianza». Ultimamente, evangelizziamo «non con le nostre idee, ma con il Vangelo che si vive nella nostra vita. La Chiesa la portano avanti i santi che danno questa testimonianza». E la forza di testimoniare, come la fede, non è il risultato del nostro sforzo, è un dono del Signore che dobbiamo accogliere.

«Davanti al Signore – ha confessato Papa Francesco – a volte mi addormento, ma lui mi capisce. Sento conforto quando lui mi guarda. Dobbiamo lasciarci guidare da Dio perché lui ci dà la forza e ci aiuta a testimoniare». Anche Pietro, il primo Papa, si è addormentato, ma alla fine «si è lasciato guidare da Gesù. Così è tutta la storia». Questo affidarsi con fiducia alla guida del Signore è il segreto dell’evangelizzazione, e viene prima di qualunque programmazione o strategia.
«Dobbiamo farci guidare da Lui. Poi possiamo pure fare le strategie, ma prima ci deve guidare lui».

Papa Francesco è tornato su un tema che ha già trattato molte volte in questi suoi primi mesi di pontificato: la Chiesa non dev’essere autoreferenziale, non deve parlare a se stessa in un gergo comprensibile solo a chi già la frequenta, deve «uscire» verso le «periferie esistenziali» di chi in chiesa non ci va. «La Chiesa deve uscire da se stessa verso le periferie esistenziali. Quando la Chiesa diventa chiusa si ammala». Una Chiesa che cerca di essere «efficientista» – il Papa lo ha già detto altre volte – si riduce a una ONG, un’organizzazione non governativa caritatevole tra le tante. Ma noi «non siamo una ONG». «La Chiesa non è un movimento politico, né una struttura ben organizzata, saremmo una vuota organizzazione», Ogni volta che cadiamo vittime dell’autoreferenzialità, anticamera di quella mondanità spirituale che il Pontefice denuncia come l’illusione con cui «il diavolo ci inganna» e ci porta a non annunciare più Cristo ma i nostri progetti umani, per quanto nobili, ci chiudiamo «in strutture caduche che servono per farci schiavi e non liberi figli di Dio. Dobbiamo far uscire Cristo. C’è il rischio di incidenti, ma preferisco mille volte una Chiesa incidentata, piuttosto che chiusa e malata».

La terza domanda a Papa Francesco chiedeva un chiarimento su un’espressione che ha usato: «Chiesa povera per i poveri». Che cosa significa in concreto? Quali sono le implicazioni politiche di questa idea? Anche qui il Papa è partito dalla sua esperienza personale: «Quando io andavo a confessare, chiedevo: “ma lei dà l’elemosina? E quando dà l’elemosina guarda negli occhi la persona povera? E gli tocca anche la mano o gli butta solo la monetina?”. È proprio qui il problema. Perché non basta fare l’elemosina, bisogna prendere su di noi il dolore».
Dopo avere denunciato ancora una volta la «cultura dello scarto» per cui «quello che non mi serve lo butto», anche se si tratta di persone, il Papa ha criticato i «cristiani inamidati, che parlano di cose teologiche mentre prendono il tè» e per cui «non fa notizia che un barbone muore di freddo che bambini muoiono di fame. È grave».

Francesco cita il racconto di un rabbino medievale che parla della costruzione della torre di Babele, quando «se cadeva un mattone era una tragedia nazionale, veniva punito l’operaio, perché i mattoni erano preziosi. Ma se cadeva l’operaio non succedeva niente». Qualche volta oggi sembra di essere anche noi all’interno del racconto del rabbino. «Siamo così: se le borse salgono, scendono è un dramma», «se calano gli investimenti delle banche se ne fa una tragedia», ma «non ci importa se le persone non hanno cibo, non hanno lavoro, se non hanno salute, se muoiono. Questa è la nostra crisi di oggi». Una crisi – il Papa ha ripreso qui il suo discorso agli ambasciatori dello scorso 16 maggio – che non è anzitutto economica, ma etica. «Questa è una crisi dell’uomo, che distrugge l’uomo. Nella vita pubblica, politica se non c’è l’etica tutto è possibile, tutto si può fare. Allora vediamo, leggiamo i giornali come la mancanza di etica nella vita pubblica fa tanto male all’umanità intera».

Alla quarta domanda, sui cristiani perseguitati, il Pontefice ha risposto che «per annunciare la fede sono necessarie due virtù: il coraggio e la pazienza. Loro [i perseguitati di oggi] sono nel tempo della pazienza». «Ci sono più martiri oggi che nei primi secoli della Chiesa», ha detto il Papa ricordando un dato statistico su cui diverse volte già Benedetto XVI aveva richiamato l’attenzione. Il martirio, ha aggiunto Papa Francesco, «non è mai una sconfitta. Il martirio è il grado più alto della testimonianza che dobbiamo dare».
Questi testimoni, però, attendono la nostra solidarietà, ci chiedono di parlare di loro e di «promuovere la libertà religiosa». I perseguitati «fanno esperienza del limite tra la vita e la morte». Non dobbiamo, non possiamo abbandonarli. «Facciamo capire ai cristiani che soffrono che siamo loro vicini. Dobbiamo farlo sapere a loro e al Signore».