Il dono della filiazione Divina. La fede cristiana: l’unica valida religione e unicamente voluta da Dio

Presentiamo ai nostri lettori un’importante dichiarazione di S.E. Mons. Athanasius Schneider, vescovo ausiliare di Astana (Kazakistan), redatta in seguito al recente viaggio di papa Francesco negli Emirati Arabi.

 La verità della filiazione Divina in Cristo, che è intrinsecamente soprannaturale, costituisce la sintesi di tutta la rivelazione Divina. La filiazione Divina è sempre un dono gratuito della grazia, il dono più sublime di Dio per l’umanità. Questo dono si ottiene, però, unicamente attraverso la fede personale in Cristo e attraverso la ricezione del battesimo, come insegnò il Signore stesso: «In verità, in verità Io ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito. Non meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere dall’alto» (Giov. 3, 5-7). Nei decenni passati si sentiva spesso – persino dalla bocca di alcuni rappresentanti della gerarchia ecclesiastica – dichiarazioni sulla teoria dei “cristiani anonimi”. Questa teoria dice quanto segue: la missione della Chiesa nel mondo consisterebbe ultimamente nel suscitare la consapevolezza che tutti gli uomini devono avere della loro salvezza in Cristo e conseguentemente della loro filiazione Divina. Giacché, secondo questa stessa teoria, ogni essere umano possiederebbe già la filiazione Divina nella profondità della propria persona. Tuttavia, una tale teoria contraddice direttamente la Rivelazione Divina, come la insegnò Cristo e come i Suoi Apostoli e la Chiesa hanno sempre trasmesso per due mille anni immutabilmente e senza ombra di dubbio. Nel suo saggio “La Chiesa dai Giudei e Gentili” (Die Kirche aus Juden und Heiden) Erik Peterson, il noto convertita ed esegeta, già da tempo (nel 1933) metteva in guardia contro il pericolo di una tale teoria, quando affermò, che non si può ridurre l’essere cristiano (“Christsein”) all’ordine naturale, nel quale i frutti della redenzione, operata da Gesù Cristo, sarebbero generalmente imputati ad ogni essere umano come una sorta di eredità, solamente perché egli condividerebbe la natura umana con il Verbo incarnato. Tuttavia, la filiazione Divina non è un risultato automatico, garantito attraverso l’appartenenza alla razza umana. Sant’Atanasio (cf. Oratio contra Arianos II, 59) ci lasciò una semplice e allo stesso tempo precisa spiegazione della differenza tra lo stato naturale degli uomini come creature di Dio e la gloria dell’essere figli di Dio in Cristo. Sant’Atanasio sviluppa il suo pensiero partendo dalle parole del santo Vangelo secondo Giovanni, che dice: “Egli ha dato potere di diventare figli di Dio a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (Giov. 1, 12-13). Giovanni usa l’espressione “sono stati generati” per dire che l’uomo diviene figlio di Dio non per natura ma per adozione. Questo fatto dimostra l’amore di Dio, poiché Colui che è loro creatore diviene poi tramite la grazia anche loro Padre. Ciò accade, come l’Apostolo dice, quando gli uomini ricevono nel loro cuore lo Spirito del Figlio Incarnato, che grida in loro: “Abba, Padre!” Sant’Atanasio continua nella sua riflessione dicendo: Come esseri creati gli uomini possono divenire figli di Dio esclusivamente attraverso la fede e il battesimo, ricevendo lo Spirito del vero e naturale Figlio di Dio. Precisamente per questa ragione il Verbo si fece carne, per fare gli uomini capaci dell’adozione filiale e della partecipazione alla natura Divina. Di conseguenza, per natura Dio, in senso stretto, non è il Padre degli esseri umani. Solo colui chi accetta coscientemente Cristo ed è battezzato, sarà capace di gridare in verità: “Abba, Padre” (Rom. 8, 15; Gal. 4, 6). Fin dall’inizio della Chiesa esisteva l’asserzione, come testimonia Tertulliano: “Non si nasce cristiano, cristiano si diviene” (Apol., 18, 5). E San Cipriano di Cartagine ha accertatamente formulato questa verità, dicendo: «Non può avere Dio per Padre chi non ha la Chiesa per Madre» (De unit., 6). Il compito più urgente della Chiesa ai nostri giorni consiste nel prendere cura del cambiamento del clima spirituale e del clima di migrazione spirituale, ovverosia che il clima della non-fede in Gesù Cristo e il clima di rigetto della regalità di Cristo si tramutino in un clima di fede esplicita in Gesù Cristo e di accettazione della Sua regalità, e che gli uomini possano migrare dalla miseria della schiavitù spirituale della non-fede alla felicità di essere figli di Dio e dalla vita in peccato migrare nello stato di grazia santificante. Questi sono i migranti dei quali dobbiamo urgentemente prendere cura. Il cristianesimo è l’unica religione voluta da Dio. Pertanto, il cristianesimo non può mai essere messo in modo complementare accanto alle altre religioni. Violerebbe la verità della Divina Rivelazione, come essa è inconfondibilmente affermata nel Primo Comandamento del Decalogo, chi sosterrebbe la tesi che Dio vorrebbe la diversità di religioni. Conforme alla volontà di Cristo la fede in Lui e nel Suo Divino insegnamento deve sostituire le altre religioni, tuttavia non con forza, ma con una persuasione amorevole, come lo esprime l’inno delle Lodi della festa di Cristo Re: “Non Ille regna cladibus, non vi metuque subdidit: alto levatus stipite, amore traxit omnia” (“Non con la spada, la forza e la paura Egli sottomette i popoli, ma esaltato nella Croce attira amorosamente tutte le cose a Se”). C’è solo una via verso Dio, e questa è Gesù Cristo, giacché Egli stesso disse: “Io sono la Via” (Giov. 14, 6). C’è solo una verità, e questa è Gesù Cristo, giacché Egli stesso disse: “Io sono la Verità” (Giov. 14, 6). C’è solo una vita veramente soprannaturale, e questa è Gesù Cristo, giacché Egli stesso disse: “Io sono la Vita” (Giov. 14, 6). Il Figlio di Dio Incarnato ha insegnato che fuori della fede in Lui non vi può essere una vera religione gradita a Dio: “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato” (Giov. 10, 9). Dio ha comandato a tutti gli uomini, senza eccezione, di ascoltare Suo Figlio: “Questi è il Figlio Mio amato: ascoltatelo!” (Mc. 9, 7). Dio non ha detto: “Potete ascoltare il Mio Figlio o altri fondatori di religioni, giacché è la Mia volontà che ci siano differenti religioni.” Dio ha vietato di riconoscere la legittimità della religione di altri dèi: “Non avrai altri dèi di fronte a me” (Ex. 20, 3) e “Quale comunione può essere fra luce e tenebre? Quale intesa fra Cristo e Bèliar, o quale collaborazione fra credente e non credente? Quale accordo fra tempio di Dio e idoli?” (2 Cor. 6, 14-16). Se le altre religioni corrisponderebbero altrettanto alla volontà di Dio, non ci sarebbe stato la condanna Divina della religione del vitello d’oro al tempo di Mosé (cf. Ex. 32, 4-20); allora, i cristiani di oggi potrebbero impunemente coltivare la religione di un nuovo vitello d’oro, giacché tutte le religioni sarebbero, secondo tale teoria, altrettanto gradite a Dio. Dio diede agli Apostoli e attraverso loro alla Chiesa per tutti i tempi l’ordine solenne di istruire tutte le nazioni e i seguaci di tutte le religioni nell’unica vera fede, insegnando loro ad osservare tutti i Suoi comandamenti Divini e battezzarli (cf. Mt. 28, 19-20). Fin dall’inizio della predicazione degli Apostoli e del primo Papa, l’Apostolo San Pietro, la Chiesa ha sempre proclamato che in nessun altro nome c’è salvezza, vale a dire, non c’è nessun’altra fede sotto il cielo, nella quale gli uomini possono essere salvati, che nel Nome e nella fede in Gesù Cristo (cf. At. 4, 12). Con le parole di Sant’Agostino la Chiesa insegnava in tutti i tempi: “Solo la religione cristiana indica la via aperta a tutti per la salvezza dell’anima. Senza di essa non se ne salva alcuna. Questa è la via regia, perché essa soltanto conduce non a un regno vacillante per altezza terrena ma a un regno duraturo nella stabile eternità” (De civitate Dei, 10, 32, 1). Le seguenti parole del grande Papa Leone XIII rendono testimonianza dello stesso immutabile insegnamento del Magistero in tutti i tempi, quando egli affermò: “Il grand’errore moderno dell’indifferentismo religioso e della parità di tutti i culti è la via opportunissima per annientare le religioni tutte, e segnatamente la cattolica che, unica vera, non può senz’enorme ingiustizia esser messa in un fascio con le altre” (Enciclica Humanum genus, n. 16) In tempi recenti il Magistero ha presentato sostanzialmente lo stesso insegnamento immutabile nel Documento “Dominus Iesus” (6 agosto 2000), dal quale citiamo rilevanti affermazioni: “Spesso si identifica la fede teologale, che è accoglienza della verità rivelata da Dio Uno e Trino, e la credenza nelle altre religioni, che è esperienza religiosa ancora alla ricerca della verità assoluta e priva ancora dell’assenso a Dio che si rivela. Questo è uno dei motivi per cui si tende a ridurre, fino talvolta ad annullarle, le differenze tra il cristianesimo e le altre religioni” (n. 7) “Risulterebbero contrarie alla fede cristiana e cattolica quelle proposte di soluzione, che prospettassero un agire salvifico di Dio al di fuori dell’unica mediazione di Cristo” (n. 14) “Non rare volte si propone di evitare in teologia termini come « unicità », « universalità », « assolutezza », il cui uso darebbe l’impressione di enfasi eccessiva circa il significato e il valore dell’evento salvifico di Gesù Cristo nei confronti delle altre religioni. In realtà , questo linguaggio esprime semplicemente la fedeltà al dato rivelato” (n. 15) “Sarebbe contrario alla fede cattolica considerare la Chiesa come una via di salvezza accanto a quelle costituite dalle altre religioni, le quali sarebbero complementari alla Chiesa, anzi sostanzialmente equivalenti ad essa, pur se convergenti con questa verso il Regno di Dio escatologico” (n. 21) “La verità di fede esclude radicalmente quella mentalità indifferentista «improntata a un relativismo religioso che porta a ritenere che “una religione vale l’altra”» (Giovanni Paolo II, Enciclica Redemptoris missio, 36)” (n. 22). Gli Apostoli e innumerevoli martiri cristiani di tutti i tempi, specialmente quelli dei primi tre secoli, si avrebbero risparmiati il martirio se avessero detto: “La religione pagana e il suo culto è una via che anche corrisponde alla volontà di Dio”. Non ci sarebbe stato, per esempio, una Francia cristiana, “la figlia primogenita della Chiesa,” se San Remigio avesse detto a Clodoveo, re dei Franchi: “Non devi abbandonare la tua religione pagana; puoi praticare insieme alla tua religione pagana la religione di Cristo”. In realtà il santo vescovo parlò diversamente, anche se in modo piuttosto brusco: “Adora ciò che hai bruciato e brucia ciò che hai adorato!” La vera fratellanza universale può esistere solamente in Cristo, vale a dire tra persone battezzate. La piena gloria della filiazione Divina sarà raggiunta solo nella visione beatifica di Dio in cielo, come la Sacra Scrittura lo insegna: «Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (1 Giov. 3, 1-2).  Nessuna autorità sulla terra – nemmeno la suprema autorità della Chiesa – ha il diritto di dispensare qualsiasi seguace di un’altra religione dalla fede esplicita in Gesù Cristo, cioè dalla fede nel Figlio Incarnato di Dio e nell’unico Redentore degli uomini con l’assicurazione che le religioni differenti sono come tali volute da Dio stesso. Indelebili – perché scritte con il dito di Dio e cristalline nel suo significato – rimangono, tuttavia, le parole del Figlio di Dio: “Chi crede nel Figlio di Dio non è condannato ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio” (Giov. 3, 18). Questa verità era valida fino ad ora in tutte le generazioni cristiane e rimarrà valida fino alla fine dei tempi, indipendentemente dal fatto che alcune persone nella Chiesa del nostro tempo così instabile, codardo, sensazionalista e conformista, reinterpretino questa verità in un senso contrario al tenore delle parole, spacciando con ciò questa reinterpretazione come continuità nello sviluppo della dottrina. Al di fuori della fede cristiana, nessun’altra religione può essere un cammino vero e voluto da Dio, giacché questa è la volontà esplicita di Dio, che tutti gli uomini credano nel Suo Figlio: “Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna” (Giov. 6, 40). Al di fuori della fede cristiana nessun’altra religione è capace di trasmettere la vera vita soprannaturale: “Questa è la vita eterna: che conoscano Te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Giov. 17, 3).

8 febbraio 2019 + Athanasius Schneider, Vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Maria Santissima in Astana

Fonte:https://www.corrispondenzaromana.it/il-dono-della-filiazione-divina-la-fede-cristiana-lunica-valida-religione-e-unicamente-voluta-da-dio/

Un Rabbino dal Sudafrica ad Auschwitz

Un Rabbino dal Sudafrica ad Auschwitz

Rabbi Bryan Opert racconta la sua esperienza alla Celebrazione sinfonico-catechetica del Cammino Neocatecumenale: “Un ponte di amore e riconciliazione fra Ebrei e Cattolici”

da www.zenit.org di Marco Cavagnaro

L’iniziativa di dialogo fra Cattolici ed Ebrei intrapresa dal Cammino Neocatecumenale attraverso la nascita dell’Orchestra Sinfonica e del Coro e l’esecuzione della celebrazione sinfonico-catechetica de “La Sofferenza degli Innocenti”, sta contribuendo a rinnovare e rafforzare le relazioni fra la Chiesa Cattolica e il popolo Ebraico in tutte le parti del mondo. Il recente evento dell’esecuzione della Sinfonia di fronte alla “Porta della Morte” del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, alla presenza di 6 cardinali, 50 vescovi, 35 rabbini da tutto il mondo e 15.000 persone, ha stimolato il dialogo e la reciproca conoscenza dei mondi Cattolico ed Ebraico coinvolgendo anche le comunità del Cammino Neocatecumenale del Sudafrica, che hanno avuto l’onore di poter invitare Rabbi Bryan Opert, della sinagoga di Milnerton, all’evento Auschwitz. ZENIT lo ha intervistato.

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Rabbi Opert, cosa la ha colpita principalmente della celebrazione Sinfonico-catechetica ad Auschwitz?

Rabbi Opert: Devo dire che la sinfonia è stata fantastica. Il momento che però mi è rimasto maggiormente impresso è stato quanto la preghiera dello Shemá Israel – Ascolta Israele è stata eseguita dall’orchestra e cantata in coro da tutti i 15.000 pellegrini accorsi qui da ogni parte d’Europa. Pregare lo Shemá insieme a tutte queste persone è qualcosa che in tutta la mia vita non avevo mai sperimentato. Qualcosa che va oltre la semplice gioia o tristezza, si è trattato di un sentimento più grande, che mi ha superato.

Come vive lei oggi le relazioni fra Ebrei e Cattolici?

Rabbi Opert: Personalmente sono testimone nella realtà Sudafricana di un grande interesse del mondo cristiano per la religione Ebraica. Molti cristiani vengono da noi chiedendo di poter approfondire le radici della loro fede. Partecipare a questo evento ad Auschwitz per me è stato una conferma che stiamo vivendo un momento speciale nelle relazioni fra Ebrei e Cattolici. Sono rimasto impressionato, al termine del concerto, nel guardare le migliaia di persone che lasciavano l’area del concerto, camminando lungo quei binari che un tempo portavano alla morte. Tutte quelle persone, la maggioranza delle quali cattoliche, vedendo che sono un Rabbino mi sorridevano e salutavano con grande amore ed allegria. Ricevere questa testimonianza di amore, proprio in quel luogo in cui poco più di 70 anni fa si consumava la tragedia della Shoah, mi ha profondamente colpito.

Cosa avvicina oggi maggiormente la comunità Ebraica a quella Cattolica?

Rabbi Opert: Oggi, specialmente nei paesi dove la Chiesa Cattolica è una minoranza, come nel Sudafrica, ci troviamo di fronte alle stesse sfide. Siamo una minoranza religiosa nel mezzo di un mondo secolarizzato, e dobbiamo dare una testimonianza sempre più autentica della nostra religione per poterla trasmettere alla prossima generazione. Mi ha colpito in particolare come il Cammino Neocatecumenale dedichi molta attenzione alla formazione degli adulti, e questa è una sfida che abbiamo anche noi. Molte persone infatti, per via della loro professionalità e preparazione, interagiscono con il mondo secolarizzato a un livello elevatissimo, ma al tempo stesso non sono capaci di vivere la propria religione con la stessa profondità e conoscenza. Questo può portarli ad allontanarsi dalla comunità, o a perdere interesse. Dobbiamo saper dar una risposta a questa loro sete!

La riscoperta delle radici giudaiche è centrale nell’esperienza del Cammino Neocatecumenale, in special modo per quanto riguarda la trasmissione della fede ai figli…

Rabbi Opert: Mi ha infatti colpito molto sentire Kiko Arguello parlare dell’importanza della difesa della famiglia Giudeo-Cristiana. I principi fondamentali per i quali stiamo ‘lottando’ sono molto simili: fondamenta familiari solide, un senso da dare alla vita e un’esistenza centrata sulla spiritualità.

Lei in questi giorni ha potuto incontrare anche personalmente Kiko e diversi altri Rabbini e membri della comunità Cattolica. Cosa le è rimasto di questi incontri?

Rabbi Opert: Non posso terminare quest’intervista senza parlare della personalità di Kiko. È raro incontrare un uomo così umile, e per me ha incarnato quest’umiltà in tutte le sue dimensioni. In un mondo così impressionato dai titoli e dalle sigle che seguono o precedono un nome, Kiko rappresenta un’anomalia assoluta. All’inizio pensavo ‘Kiko’ fosse un titolo, e solo in seguito ho scoperto essere il suo nomignolo, con il quale viene chiamato da tutti. Per essere l’iniziatore di un Cammino con più di un milione di aderenti, è un uomo estremamente accessibile. Ho sentito un desiderio incredibile di ringraziarlo di persona, e ho potuto camminare tranquillamente verso di lui, avvicinarlo ed esternargli i miei sentimenti di gratitudine.

Germania, atteso un milione di persone per la “sacra tunica”

Nelle prossime settimane, a Treviri, la reliquia verrà esposta per la 18esima volta nella sua storia

da Vatican Insider

Nelle prossime quattro settimane, circa un milione di fedeli tedeschi si recherà a Treviri per ammirare l’«Heiliger Rock», la tunica santa, una delle maggiori reliquie della cristianità tedesca, che Gesù avrebbe indossato prima di essere crocifisso. Il vescovo della città natale di Karl Marx, Stephan Ackermann, ha deciso che la tunica verrà esposta per la diciottesima volta nella sua storia fino al 13 maggio.

Secondo la tradizione, a portare in Germania l’indumento privo di cuciture sarebbe stata Elena, la madre dell’imperatore romano Costantino, mentre il primo documento che fa risalire la presenza della reliquia a Treviri risale al 1196. L’abbazia di Pruem conserva invece i sandali appartenuti a Cristo, che insieme alla «Sacra tunica» ed alle altre numerose reliquie venerate dal mondo cattolico avevano suscitato i fulmini di Martin Lutero, che aveva parlato in proposito di «paccottiglia».

La novità di quest’anno è invece che ad ammirare l’Heiliger Rock, esposto per l’ultima volta nel 1996, verranno anche i protestanti, anche se la Chiesa evangelica continua a non riconoscere il valore religioso delle reliquie. «Riunire ciò che è diviso», questo il concetto sotto il segno dell’ecumenismo con il quale la Chiesa cattolica tedesca ha invitato i cristiani tedeschi a compiere il pellegrinaggio a Treviri.

Una delle esposizioni più ammirate della «Sacra tunica» era avvenuta nel 1933, qualche mese dopo l’avvento al potere di Adolf Hitler, quando erano stati oltre due milioni i cattolici tedeschi che avevano preso la strada di Treviri.

E il Papa rilancia l’ecumenismo

Nella basilica di san Paolo fuori le Mura, dove 53 anni fa veniva annunciato il Vaticano II, Ratzinger conclude la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani: “Guardiamo con speranza al futuro”

Alessandro Speciale da Vatican Insider

Sono passati 53 anni dall’annuncio del Concilio Vaticano II da parte di papa Giovanni XXIII nella basilica romana di San Paolo fuori le Mura. Ed è proprio ricordando questa tappa fondamentale della storia della Chiesa in generale – e del dialogo ecumenico in particolare – che papa Benedetto XVI, in quella stessa basilica, ha voluto iniziare oggi pomeriggio la sua riflessione durante i Vespri che hanno concluso la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.

“Pur sperimentando ai nostri giorni la situazione dolorosa della divisione – ha detto il pontefice -, noi cristiani possiamo e dobbiamo guardare al futuro con speranza”.

Per il papa, “la presenza di Cristo risorto chiama tutti noi cristiani ad agire insieme nella causa del bene”, perché “uniti in Cristo, siamo chiamati a condividere la sua missione, che è quella di portare la speranza là dove dominano l’ingiustizia, l’odio e la disperazione”.

Le divisioni tra i cristiani, invece, hanno la conseguenza di rendere “meno luminosa la nostra testimonianza a Cristo”.

Benedetto XVI ha voluto mandare un messaggio di speranza a chi ha perso fiducia nella possibilità di un autentico successo del dialogo ecumenico, a chi crede ormai impossibile una piena unità tra le Chiese: “Anche se a volte si può avere l’impressione che la strada verso il pieno ristabilimento della comunione sia ancora molto lunga e piena di ostacoli, invito tutti a rinnovare la propria determinazione a perseguire, con coraggio e generosità, l’unità che è volontà di Dio, seguendo l’esempio di san Paolo, che di fronte a difficoltà di ogni tipo ha conservato sempre ferma la fiducia in Dio che porta a compimento la sua opera”.

Non ha nascosto le difficoltà nemmeno il presidente del Pontificio Consiglio per l’Unita’ dei Cristiani, il cardinale Kurt Koch, in un’intervista alla Radio Vaticana: “Negli ultimi anni e decenni – ha detto -, abbiamo un po’ perso di vista l’obiettivo del movimento ecumenico. Le Chiese e le comunità ecclesiali non perseguono più la stessa meta: credo che oggi sia necessario tornare riflettere e chiedersi, nuovamente, quali siano realmente gli obiettivi. Per noi cattolici, come pure per gli ortodossi, il fine ultimo è la piena unità”.

Ma non ci sono solo ‘cattive notizie’ sul fronte dell’ecumenismo. Durante la celebrazione nella basilica di San Paolo, il papa ha evidenziato come, nonostante le difficoltà, negli ultimi anni non siano infatti mancati “segni positivi di una ritrovata fraternità” e, soprattutto, di un “condiviso senso di responsabilità di fronte alle grandi problematiche che affliggono il nostro mondo”.

Alla celebrazione che segna la fine della Settimana ecumenica, hanno partecipato come da tradizione, oltre ai funzionari del Pontificio Consiglio per l’Unita’ dei Cristiani, guidati dal cardinale Koch, anche i rappresentanti delle altre Chiese cristiane. Tra loro, il metropolita Gennadios, rappresentante del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, ed il reverendo David Richardson, rappresentante personale a Roma dell’Arcivescovo di Canterbury.

Nella Basilica erano presenti inoltre alcuni rappresentanti del Gruppo di lavoro delle Chiese polacche, che hanno preparato i sussidi per la Settimana di Preghiera di quest’anno, membri del Global Christian Forum e un gruppo di studenti dell’Istituto Ecumenico del Consiglio Ecumenico delle Chiese di Bossey.

Benedetto XVI rilancia l’ecumenismo «dall’alto»

di Massimo Introvigne
Tratto da La Bussola Quotidiana

L’udienza del 18 gennaio di Benedetto XVI, interrompendo la consueta «scuola della preghiera», è stata dedicata alla Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani che inizia oggi e di cui La Bussola Quotidiana si è occupata con un’intervista a don Nicola Bux.

Il Papa ha voluto ricordare la storia della settimana ecumenica. «La pratica della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani fu introdotta nel 1908 da Padre Paul Wattson [1863-1940], fondatore di una comunità religiosa anglicana che entrò in seguito nella Chiesa cattolica. L’iniziativa ricevette la benedizione del Papa san Pio X [1835-1914] e fu poi promossa dal Papa Benedetto XV [18541922], che ne incoraggiò la celebrazione in tutta la Chiesa cattolica con il Breve “Romanorum Pontificum”, del 25 febbraio 1916». Il Pontefice ha anche ricordato il ruolo molto importante svolto «dall’Abbé Paul Couturier [1881-1953] di Lione, che sostenne la preghiera “per l’unità della Chiesa così come vuole Cristo e conformemente agli strumenti che Lui vuole”. Nei suoi ultimi scritti, l’Abbé Couturier vede tale Settimana come un mezzo che permette alla preghiera universale di Cristo di “entrare e penetrare nell’intero Corpo cristiano”; essa deve crescere fino a diventare “un immenso, unanime grido di tutto il Popolo di Dio”, che chiede a Dio questo grande dono». Infine, ha ricordato il Papa, il movimento delle Settimane di Preghiera è stato fatto proprio dal Concilio Ecumenico Vaticano II: ancorché sia importante ricordare che la sua origine è molto più antica.

Come in altre occasioni, Benedetto XVI ha insistito su un ecumenismo «dall’alto» piuttosto che «dal basso». «Questo appuntamento spirituale, che unisce cristiani di tutte le tradizioni, accresce la nostra consapevolezza del fatto che l’unità verso cui tendiamo non potrà essere solo il risultato dei nostri sforzi, ma sarà piuttosto un dono ricevuto dall’alto, da invocare sempre». Per quanto le iniziative e le discussioni teologiche siano interessanti, il Papa ricorda che «la preghiera è la via primaria per raggiungere la piena comunione, perché uniti verso il Signore andiamo verso l’unità».

Il tema della Settimana di quest’anno è tratto dalla Prima Lettera ai Corinzi: «Tutti saremo trasformati dalla vittoria di Gesù Cristo, nostro Signore» (cfr 1 Cor 15, 51-58). Questo tema è stato scelto per il 2012 dal gruppo ecumenico polacco, il quale – ha detto il Pontefice – «riflettendo sulla propria esperienza come nazione, ha voluto sottolineare quanto forte sia il sostegno della fede cristiana in mezzo a prove e sconvolgimenti, come quelli che hanno caratterizzato la storia della Polonia». Il tema ha una valenza spirituale, e invita a ricordare «le parole di san Paolo che, rivolgendosi alla Chiesa in Corinto, parla della natura temporanea di ciò che appartiene alla nostra vita presente, segnata anche dall’esperienza di “sconfitta” del peccato e della morte, in confronto a ciò che porta a noi la “vittoria” di Cristo sul peccato e sulla morte nel suo Mistero pasquale».

Ma il tema scelto suggerisce pure una meditazione su come i cristiani aggrediti e perseguitati siano stati capaci di sviluppare tra loro un ecumenismo della sofferenza e nel sangue, che non comporta di per sé l’unità dottrinale ma costituisce un elemento comunque significativo. E «la storia particolare della nazione polacca, che ha conosciuto periodi di convivenza democratica e di libertà religiosa, come nel XVI secolo, è stata segnata, negli ultimi secoli, da invasioni e disfatte, ma anche dalla costante lotta contro l’oppressione e dalla sete di libertà». Proprio la storia della Polonia «ha indotto il gruppo ecumenico a riflettere in maniera più approfondita sul vero significato di “vittoria” – che cosa è la vittoria – e di “sconfitta”. Rispetto alla “vittoria” intesa in termini trionfalistici, Cristo ci suggerisce una strada ben diversa, che non passa attraverso il potere e la potenza. […] Per tutti i cristiani, la più alta espressione di tale umile servizio è Gesù Cristo stesso, il dono totale che fa di Se stesso, la vittoria del suo amore sulla morte, nella croce, che splende nella luce del mattino di Pasqua. Noi possiamo prendere parte a questa “vittoria” trasformante se ci lasciamo noi trasformare da Dio, solo se operiamo una conversione della nostra vita e la trasformazione si realizza in forma di conversione». Si torna così al tema dell’ecumenismo «dall’alto».

L’unità non è un compromesso più o meno al ribasso, ma «esige che ci lasciamo trasformare e conformare, in maniera sempre più perfetta, all’immagine di Cristo». Non si tratta dunque «semplicemente di cordialità o di cooperazione, occorre soprattutto rafforzare la nostra fede in Dio, nel Dio di Gesù Cristo, che ci ha parlato e si è fatto uno di noi; occorre entrare nella nuova vita in Cristo, che è la nostra vera e definitiva vittoria». Beninteso, criticare forme insufficienti o sbagliate di ecumenismo non significa abbandonare la strada ecumenica. Questa è parte essenziale della missione della Chiesa oggi. «Il Concilio Vaticano II – ha ricordato il Papa – ha posto la ricerca ecumenica al centro della vita e dell’operato della Chiesa: “Questo santo Concilio esorta tutti i fedeli cattolici perché, riconoscendo i segni dei tempi, partecipino con slancio all’opera ecumenica” (“Unitatis redintegratio”, 4). Il beato Giovanni Paolo II [1920-2005] ha sottolineato la natura essenziale di tale impegno, dicendo: “Questa unità, che il Signore ha donato alla sua Chiesa e nella quale egli vuole abbracciare tutti, non è un accessorio, ma sta al centro stesso della sua opera. Né essa equivale ad un attributo secondario della comunità dei suoi discepoli. Appartiene invece all’essere stesso di questa comunità” (Enc. “Ut unum sint”, 9)».

Nessuno, dunque, potrebbe in coscienza rifiutare l’ecumenismo così come il Magistero lo definisce e lo precisa. «Il compito ecumenico è una responsabilità dell’intera Chiesa e di tutti i battezzati». Anche coloro che non sono specialisti di ecumenismo possono dare il loro contributo, con la preghiera. Anzi, «la preghiera per l’unità non è circoscritta a questa Settimana di Preghiera, ma deve diventare parte integrante della nostra orazione, della vita orante di tutti i cristiani, in ogni luogo e in ogni tempo». L’ecumenismo è anche indispensabile per l’evangelizzazione, ha detto il Papa, e oggi per la nuova evangelizzazione. «Da quando il movimento ecumenico moderno è nato, oltre un secolo fa, vi è sempre stata una chiara consapevolezza del fatto che la mancanza di unità tra i cristiani impedisce un annuncio più efficace del Vangelo, perché mette in pericolo la nostra credibilità. Come possiamo dare una testimonianza convincente se siamo divisi?».

È sempre bene fare notare da una parte che, «per quanto riguarda le verità fondamentali della fede, ci unisce molto più di quanto ci divide», dall’altra – per non indulgere a forme di buonismo o di relativismo – che «le divisioni restano, e riguardano anche varie questioni pratiche ed etiche, suscitando confusione e diffidenza». Nel viaggio in Germania il Papa aveva fatto notare i danni prodotti da comunità cristiane che tollerano o addirittura attivamente promuovono una cultura ostile alla vita e alla famiglia con aperture all’aborto, all’eutanasia, al riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali. La Settimana ci ricorda che la soluzione non verrà dai compromessi ma solo dall’alto, da Cristo. «Solo Lui è capace di trasformarci e renderci, da deboli e titubanti, forti e coraggiosi nell’operare il bene. Solo Lui può salvarci dalle conseguenze negative delle nostre divisioni».

Gli anglicani pronti ad “attraversare il Tevere”

di Gianfranco Amato

ROMA, martedì, 2 novembre 2010 (ZENIT.org).- La Comunione anglicana è costituita dall’insieme delle Chiese che si riconoscono in quella forma di religione cristiana che va sotto il nome di anglicananesimo. La compongono trentotto provincie sparse in tutto il mondo e dotate di autonomia, sotto la guida spirituale di un primate, l’Arcivescovo di Canterbury della Chiesa d’Inghilterra, detta anche Chiesa madre. Delle provincie fanno parte anche la Chiesa Episcopale degli Stati Uniti e la Chiesa Episcopale Scozzese. Quella anglicana è comunque una Comunione che scricchiola.

I primi dissensi sono sorti quando l’ala liberale, mossa dallo spirito politically correct e dal mito dell’emancipazione femminile, ha chiesto ed ottenuto l’ordinazione di preti e vescovi donna. Quello del sacerdozio femminile è stato uno dei principali motivi di divisione all’interno della Comunione, e poiché diverse parrocchie non lo hanno accettato, l’Arcivescovo di Canterbury ha deciso di nominare degli appositi Pastori, i Provincial Episcopal Visitors, popolarmente chiamati PEV o “flying bishop” (vescovi volanti), affidando loro i fedeli tradizionalisti.

E’ nata persino un’associazione mondiale denominata Forward in Faith (avanti nella fede), costituita da religiosi e laici anglicani che si sono opposti alla consacrazione sacerdotale delle donne, per tre sostanziali ragioni. Primo, tale pratica viene considerata contraria alle Sacre Scritture, come insegna la tradizione bimillenaria della Chiesa cristiana occidentale ed orientale. Secondo, l’ordinazione femminile, decisa unilateralmente e senza previo accordo da parte di alcune Chiese della Comunione anglicana, si è posta come un grave atto scismatico. Terzo, le donne-sacerdote creano un ulteriore ed insormontabile ostacolo nel cammino ecumenico di riconciliazione con la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa.

A seguito delle sempre più numerose richieste di conversione da parte di anglicani, Benedetto XVI, dando ancora una volta prova di intelligente sensibilità, ha emanato, il 4 novembre 2009 (memoria di San Carlo Borromeo), la Costituzione apostolica Anglicanorum Coetibus, con la quale si è consentita l’istituzione di Ordinariati personali, per permettere a gruppi di ministri e fedeli anglicani di entrare nella piena comunione con la Chiesa cattolica, conservando nel contempo elementi dello specifico patrimonio spirituale e liturgico anglicano. Ciascun ordinariato  – giuridicamente assimilato ad una diocesi – avrà, infatti, facoltà «di celebrare l’Eucaristia e gli altri Sacramenti, la Liturgia delle Ore e le altre azioni liturgiche secondo i libri liturgici propri della tradizione anglicana approvati dalla Santa Sede, in modo da mantenere vive all’interno della Chiesa cattolica le tradizioni spirituali, liturgiche e pastorali della Comunione anglicana, quale dono prezioso per alimentare la fede dei suoi membri e ricchezza da condividere».

Nel frattempo, la situazione della cosiddetta Comunione anglicana è andata peggiorando.

Come se non bastasse, al problema del sacerdozio femminile si è aggiunto quello dei Vescovi omosessuali.

Dopo le polemiche sorte nel maggio 2003 a seguito della nomina Jeffry John a Vescovo di Reading, ed alla successiva revoca dopo due mesi (John non era solo un omosessuale dichiarato ma per anni era stato anche un convinto attivista delle lobby gay), l’Arcivescovo di Canterbury ha chiesto una moratoria sulla consacrazione dei presuli omosessuali e delle consorelle dedite all’amore saffico. La tregua si è però rotta lo scorso 15 maggio quando la Chiesa Episcopale Americana ha approvato la nomina della reverenda Mary Glasspool a Vescovo ausiliario di Los Angeles. La Glasspool, infatti, non solo è una lesbica dichiarata, ma convive ufficialmente con la propria compagna. Inutili sono stati gli strepiti dell’Arcivescovo di Canterbury, mentre furiosa è montata l’indignazione tra i Vescovi ed i fedeli di numerose comunità anglicane.

Peter Jensen, Arcivescovo di Sydney ha condannato la decisione di nominare Vescovo un’omosessuale convivente (“partened lesbian”), ritenendo che tale decisione non solo «avalli uno stile di vita contrario alle Scritture», ma crei un’ulteriore seria divaricazione all’interno della Comunione Anglicana, tale da metterne a rischio la stessa esistenza. La Chiesa Episcopale Scozzese, invece, lo scorso agosto, ha dichiarato, per bocca del suo Primus, il rev. David Chillingworth, che la questione della nomina dei Vescovi omosessuali deve essere serenamente affrontata «senza veli o infingimenti». Facile immaginare come tutto ciò abbia creato sconcerto e smarrimento tra il popolo dei fedeli anglicani.

Questo era il quadro della situazione quando Benedetto XVI ha messo piede nel Regno Unito lo scorso 17 settembre, in occasione della sua visita di Stato. Il Santo Padre durante tutto il tour britannico non ha mai smesso di rivolgere la propria attenzione al disagio vissuto dalle comunità anglicane tradizionaliste, ed al loro desiderio di ricongiungersi alla Chiesa di Roma. Non è un caso, infatti, che al termine della visita, prima di ripartire, il Pontefice, parlando ai vescovi di Inghilterra, Galles e Scozia, riuniti a Birmingham, abbia rinnovato loro l’invito ad «essere generosi nel porre in atto la Costituzione apostolica Anglicanorum Coetibus».

I frutti della provvidenziale visita papale, del resto, non si sono fatti attendere.

Lo scorso 15 ottobre, parlando all’Assemblea Nazionale di Forward in Faith, il suo presidente John Broadhurst ha annunciato di voler chiedere entro l’anno la piena comunione con il Papa, formalizzando la propria conversione al cattolicesimo. John Broadhurst nel mondo anglicano non è un quisque de populo. Oltre ad essere, infatti, Vescovo di Fulham nella diocesi di Londra, è da sempre considerato la “big beast”, il leader carismatico, del movimento anglo-cattolico tradizionalista. Che si tratti di una conversione sincera e convinta lo dimostra anche il fatto che nell’Ordinariato cattolico non potrà mantenere la carica di Vescovo, in quanto sposato e padre di quattro figli (uno dei quali, peraltro, si chiama Benedict). Sarà comunque un ottimo sacerdote.

Arguto uomo di spirito, dalla battuta sempre pronta, colto, intelligente e combattivo, John Broadhurst ha anche dichiarato che rimarrà presidente di Forward in Faith, poiché l’associazione non dipende direttamente dalla Chiesa anglicana. Per Broadhurst si tratta di un vero ritorno a casa, dato che egli proviene da una famiglia cattolica, ed è stato battezzato secondo il rito di Santa Romana Chiesa. Che non si tratti, comunque, di una folgorazione improvvisa ma di un percorso preparato e meditato, lo dimostra l’incontro riservato avuto alla fine di luglio del 2009 con il Cardinale di Vienna Christoph Schönborn, espressamente voluto da Benedetto XVI.

All’ultima Assemblea di Forward in Faith, oltre all’annuncio di Broahurst, si è potuto ascoltare anche il raffinato e lucido discorso di padre James Patrick, al secolo  His Honour Judge James Patrick. L’ex magistrato, ora sacerdote cattolico, ha spiegato che l’idea dell’Ordinariato è sempre stata «al centro della missione del Papa», ed ha esortato tutti coloro che hanno mostrato interesse per tale struttura, a formare una grande «prima ondata». Poiché padre Patrick ha parlato di un «percorso quaresimale», qualcuno ha voluto intravvedere in quella espressione una conferma dei rumours che riecheggiano circa una trasmigrazione di massa nella Chiesa Cattolica a pasqua. Già si sa di altri presuli.

Non solo John Broadhurst, infatti, ma anche il Presidente della Church Union, Edwin Barnes, Vescovo emerito di Richborough, è in procinto di “cross the Tiber” (attraversare il Tevere), come si usa dire da quelle parti.

E così sarebbero in totale quattro i Vescovi della Chiesa d’Inghilterra che intendono ricongiungersi alla Comunione cattolica: John Broadhurst, Vescovo di Fulham; Andrew Burnham, Vescovo di Ebbsfleet; Keith Newton, Vescovo di Richborough; ed il suo predecessore Edwin Barnes. Mentre corrono voci ufficiose di altri religiosi pronti a diventare cattolici, resta un fatto comunque clamoroso e significativo che ben tre dei quattro Vescovi nominati dal Sinodo anglicano per accudire i fedeli tradizionalisti stiano per aderire alla proposta della Anglicanorum Coetibus.

Qualcuno nutriva legittime perplessità sul fatto che la Costituzione Apostolica rivolta agli anglicani potesse determinare un fenomeno di popolo ed indurre singole comunità a chiedere di far parte degli Ordinariati personali. Si pensava più ad un processo “clero-guidato”, che ad un movimento scaturente dal basso.

Il caso della parrocchia di San Pietro a Folkestone, città dell’Inghilterra sud-orientale situata nella contea del Kent e affacciata sullo stretto di Dover, ha smentito gli scettici. Il Consiglio parrocchiale di quella comunità, infatti, alla fine di settembre ha deciso, con voto unanime, di contattare e informare Rowan Williams, Arcivescovo di Canterbury, circa la volontà di aderire all’Ordinariato. Questo il testo della dichiarazione ufficiale: «Nella riunione del 28 settembre, il Consiglio parrocchiale della Chiesa di San Pietro di Folkestone all’unanimità ha dato mandato ai Churchwardens di scrivere all’Arcivescovo di Canterbury, nostro Vescovo diocesano, chiedendogli un incontro per manifestare la volontà del Consiglio parrocchiale e di molti fra i parrocchiani di aderire all’Ordinariato inglese della Chiesa cattolica quando esso verrà eretto. Desideriamo che questo passaggio possa essere reso il più semplice possibile, non solo per noi, ma per la famiglia diocesana di Canterbury, che con rammarico dovremo lasciare». Bisogna peraltro precisare che nella Chiesa d’Inghilterra il Consiglio parrocchiale, a differenza di quanto avviene nella Chiesa Cattolica, agisce come vero e proprio organo esecutivo di una parrocchia, ed è costituito dal parroco, dai Churchwardens (principali collaboratori del parroco), e da rappresentanti eletti dei laici.

Non v’è dubbio che il successo della visita di Benedetto XVI in Gran Bretagna abbia decisamente contribuito ad accelerare i processi di avvicinamento di religiosi e fedeli alla Chiesa cattolica, attraverso la geniale intuizione dell’Ordinariato personale. E non c’è dubbio che lo spirito della Anglicanorum Coetibus sia stato al centro dei pensieri del Santo Padre durante tutta la sua visita. Fonti attendibili riferiscono, ad esempio, che il Papa in persona abbia espresso al cerimoniere pontificio, mons. Guido Marini, la sua personale preoccupazione che la cerimonia  religiosa presso la Cattedrale di Westminster si svolgesse in modo appropriato e solenne, per dimostrare agli anglicani tradizionalisti l’attenzione ed il rispetto che la Chiesa cattolica attribuisce alla liturgia. Non pochi sono stati i cambiamenti imposti da mons. Marini su espressa disposizione del Papa.

L’indubbio successo della visita di Benedetto XVI in Gran Bretagna ha certamente contribuito a far rompere gli indugi a tanti di coloro che nel mondo anglicano guardavano con sempre maggiore interesse all’ipotesi di un approdo cattolico. Il colpo magistrale della Anglicanorum Coetibus – certamente non casuale – ha compiuto l’opera.

Tutto ciò sta realizzando un sommovimento epocale nel panorama ecclesiastico britannico, al punto che qualcuno ha parlato di un vero e proprio “earthquake”, un terremoto spirituale. Molti intravedono in questo fenomeno – con quale ragione – il compimento naturale dello spirito e degli obiettivi che hanno caratterizzato il Movimento di Oxford, e la risposta a numerose preghiere. A cominciare, ovviamente, da quelle del Beato John Henry Newman.