da Baltazzar | Nov 25, 2011 | Chiesa sofferente, Cultura e Società
Akram Masih era padre di quattro figli
ROMA, giovedì, 24 novembre 2011 (ZENIT.org) – Un cattolico praticante, sposato e padre di 4 figli, è stato assassinato ieri sera in Pakistan, da un gruppo legato alla “mafia delle terre”. Lo ha riferito Radio Vaticana.
Akram Masih era residente a Renala Khurd, nel distretto di Okara, una regione dalle terre particolarmente fertili, nella provincia del Punjab.
Secondo Asia News, la vittima era impegnata nella lotta sociale, specie in favore dei diritti delle minoranze. In particolare aveva lanciato una campagna contro i ricchi proprietari terrieri che confiscano arbitrariamente i terreni ai contadini cattolici.
Masih era riuscito a “salvare” due scuole cattoliche che i grandi proprietari si apprestavano a sequestrare, non senza l’assenso delle autorità locali. A seguito di questo episodio l’uomo aveva ricevuto numerose minacce di morte.
Padre Joseph John, sacerdote a Renala Khurd, ha confermato che da alcuni mesi, alcuni grandi proprietari musulmani stavano cercando di sottrarre terreni ai cristiani con la complicità delle autorità. Il missionario ha sottolineato il coraggio di Akram Masih che “si è sempre opposto” ai loro piani.
Tre settimane fa, Masih aveva lui stesso acquistato un terreno dal quale la mafia locale aveva cercato di espellerlo, ricorrendo a minacce. La denuncia sporta alla polizia non ha sortito alcun effetto: nessuna inchiesta è stata aperta.
Sempre secondo Asia News, padre Shahbaz Aziz, del distretto di Okara, afferma che il corpo di Masih porta i segni della tortura. Il sacerdote ricorda che padre George Abraham, impegnato nella stessa battaglia, era morto in circostanze analoghe nel 2003.
I cristiani, aggiunge padre Aziz, sono “umiliati” e i casi di “persecuzioni” sono frequenti. Ha poi denunciato: “Quante vite devono essere ancora distrutte prima che il governo del Punjab intervenga? Quanto sangue deve ancora essere versato?”.
da Baltazzar | Nov 25, 2011 | Chiesa, Cultura e Società, Testimonianze
Un documentario racconta l’esperienza di padre Ghennadij e della sua chiesa galleggiante
di Luca Marcolivio
TERNI, giovedì, 24 novembre 2011 (ZENIT.org) – L’immagine della barca ha un fortissimo potere evocativo nella storia del cristianesimo. In particolare con riferimento all’attività di pescatore nel Mare di Galilea di San Pietro, il principe degli Apostoli.
Non è da escludere che abbia pensato proprio alle origini della Chiesa, padre Piotr Ghennadij quando, ormai più di dieci anni fa, ha costruito un vero e proprio edificio sacro a bordo di un battello, girando poi in lungo e in largo sulle acque del Volga e del Don e portando ogni anno la fede cristiana in centinaia di villaggi sulle sponde dei due imponenti fiumi russi.
La peculiarissima esperienza di padre Ghennaddij è stata illustrata in un documentario della durata poco meno di un’ora, trasmesso per la prima volta in Italia, ieri pomeriggio all’Umbria International Film Festival. Il film, intitolato La chiesa galleggiante è diretto da Nello Correale ed è già stato trasmesso dall’emittente tedesca MDR.
Il mediometraggio racconta di come, a metà degli anni ’90, Piotr Ghennadij, sposato e padre di due gemelli di 5 anni, di professione operaio navale, si ritrova improvvisamente senza lavoro, a seguito degli sconvolgimenti socio-economici della Russia post-comunista.
“L’idea di una chiesa galleggiante – racconta il sacerdote ortodosso durante il documentario – mi venne in mente nel 1996 un giorno che attraversavo l’Oceano atlantico, da Volgograd a Toronto, con mio figlio”.
“Quel giorno fummo vittime di una tempesta – prosegue padre Ghennadij – e rischiammo di annegare. Allora dissi a mio figlio: siamo nelle mani di Dio. Se sopravviviamo giuro che costruirò una chiesa per ringraziare il Cielo”.
Gli sconvolgimenti vissuti in quegli anni, porteranno Ghennadij non solo a riscoprire pienamente la fede cristiana ma ad abbracciare la scelta del sacerdozio nella chiesa ortodossa russa (che permette il presbiterato anche agli uomini sposati).
Messa a servizio della fede la propria perizia di operaio saldatore, padre Piotr si mette così a costruire con le proprie mani, pezzo per pezzo, una vera e propria chiesa galleggiante – con tanto di cupolette a forma di cipolla nella tradizione ortodossa – sullo scafo di un vecchio rimorchiatore militare.
L’opera apostolica di padre Ghennadij coinvolge numerosi villaggi fluviali sul Lungovolga nella diocesi di Volgograd (ex Stalingrado) solcando le steppe della zona di Astrakan e Saratov fino ad toccare la Calmucchia, unica regione russa con una significativa presenza di buddisti.
La parrocchia-battello percorre le più lunghe distanze in particolare nei mesi estivi, tuttavia nemmeno durante i gelidi inverni steppici, l’attività evangelizzatrice di padre Ghennadij si ferma del tutto.
Il documentario inizia con la suggestiva immagine delle lastre di ghiaccio fluviali che si spezzano e si sciolgono ai primi tepori primaverili: è il richiamo simbolico alla primavera della fede che sta rianimando la Russia, dopo gli anni del gelo comunista.
Il mediometraggio raccoglie poi numerose testimonianze di gente comune, per lo più contadini del bassopiano del Volga, che ha raccontato il proprio riavvicinamento alla Chiesa ortodossa, dopo aver sentito in lontananza gli scampanii di padre Ghennadij in mezzo al fiume. Molti di loro, educati al più severo ateismo comunista, non avevano mai visto una chiesa prima di allora.
Altre persone intervistate – più avanti negli anni – rievocano quando, durante il regime staliniano si rischiava la vita a fare professione pubblica della propria fede, delle novene clandestine e di tutti i sotterfugi a cui i ministri del culto dovevano andare incontro per salvarsi la pelle, sottolineando la gioia di aver potuto riprendere la vita sacramentale grazie a padre Piotr e al suo originale mezzo.
“Venni a sapere per la prima volta della chiesa galleggiante di padre Ghennadij, un giorno che mi trovavo in Asia centrale per un altro documentario – racconta a Zenit, il regista Nello Correale -. Quando poi ho conosciuto personalmente il suo ideatore, mi sono trovato di fronte ad una vera e propria icona”.
“Nel mio documentario – ha proseguito il regista – ho colto personaggi che vanno molto al di là della loro geografia. Oltretutto è significativo che questa chiesa galleggiante operi in una terra che è un vero e proprio crocevia di religioni: la chiesa ortodossa, l’Islam e, più a Sud, anche il buddismo”.
La chiesa galleggiante, prodotto dalla Paneikon e coprodotto da MDR Germania, Paramonti productions e dal Ministero dei Beni e le Attività Culturali, è in procinto di essere distribuito negli USA, mentre il debutto sulla TV italiana dovrebbe avvenire il prossimo anno.
da Baltazzar | Nov 25, 2011 | Chiesa, Cultura e Società
Giovanni Paolo II ha visto il crollo del comunismo. Il suo successore vedrà il crollo del capitalismo
di Marialuisa Viglione
ROMA, giovedì, 24 novembre 2011 (ZENIT.org).- In una intervista concessa a ZENIT, Martin Schlag, docente di diritto costituzionale all’università di Innsbruck e ora di teologia morale all’università della Santa Croce a Roma, ha difeso l’economia “buona”: “Solo con le virtù possiamo salvarci dalla crisi. L’efficienza fine a se stessa porta alla catastrofe”.
Secondo Schlag, che è nato a New York e ha vissuto a Londra a Vienna e ora a Roma, non ci sarà ripresa senza virtù. E soprattutto senza virtù “non c’è libero mercato”.
Per il docente della Santa Croce “L’economia e l’etica non si possono separare. Proprio perché al centro c’è sempre la persona che agisce. Due binari separati invece dal marxismo e dal liberismo”.
Eppure la morale non è un optional, è intrinseca all’economia. “Un manager per avere successo ha bisogno delle virtù- passione ordinata al bene – e quindi di forza di carattere”.
Tra le virtù dei manager ci sono la giustizia e la magnanimità.
“Un aspetto della giustizia – ha aggiunto – è far crescere le persone, responsabilizzarle, valorizzare i talenti. Che è poi anche potenziamento dell’impresa.
Queste virtù sono cristiane, ma prima di tutto naturali, insite nell’uomo. Ne hanno parlato per primi i filosofi greci e poi i padri della Chiesa”.
Alla domanda sul perché c’è questa separazione tra cristianesimo ed economia? Il prof. Schlag ha risposto che: “Non è vero. Il paleocapitalismo è medievale, quando la società era completamente cristiana. Nasce nelle Fiandre e nel Nord Italia, con lo sviluppo delle città, con le industrie della lana, della seta”.
E le banche? “Esistono sin dall’antichità. I francescani inventano le banche sociali, senza praticare l’usura, condannata dalla chiesa. La prima banca etica nasce nel 1462 a Perugia. Nel giro di pochi anni i monti di pietà arrivano in 150 città italiane grazie ai francescani che favoriscono il microcredito alle piccole e medie imprese con interessi tra il 4 e il 5%”.
In merito alla crisi il docente della Santa Croce ha spiegato che “La crisi è sistemica, di sistema. Ci sarà un cambiamento nel metodo dell’economia. C’è stato un abuso. Servono prudenza fortezza giustizia magnanimità, virtù dei grandi”.
Gli abbiamo chiesto se saranno sufficienti nuove regole per superare la crisi, e Schlag ha replicato:
“Servono anche buone leggi. In Italia la ricchezza è nella creatività, nelle capacità imprenditoriali, nelle idee. Soffocate dalla burocrazia e da mille leggi. In America per aprire un’azienda ci vogliono in media 26 giorni. In Italia 260 giorni”.
Serve quindi anche un buon governo?
“Certo. Ma non con politiche assistenzialiste. Un esempio: in Africa è stato devoluto sei volte il piano Marshall. Ma non si sono fatti investimenti, non sono state finanziate le imprese. Per cui il Paese continua ad aver bisogno dell’Occidente. L’assistenzialismo è controproducente. Serve un assetto politico che favorisca l’imprenditorialità”.
Una nuova visione per una nuova economia?
“Bisogna imparare a pensare a lungotermine. La fortezza servirebbe in questo caso”.
Cosa succederà alla nostra economia?
“Giovanni Paolo II ha visto il crollo del comunismo. Il suo successore vedrà il crollo del capitalismo”.
E’ fallita la società occidentale?
“Il Papa distingueva tra capitalismo buono e cattivo. Quello cattivo è la finanza impazzita slegata dall’economia reale. Credo che sia la fine di questo tipo di economia antietica”.
Ora il professor Schlag parte per Vienna e farà un sondaggio fra i manager europei per sapere come vivono da cristiani – quindi in modo vincente – all’interno delle loro aziende.
da Baltazzar | Nov 25, 2011 | Chiesa, Diavolo, Film
L’intervento di padre Gabriele Amorth all’Umbria International Film Fest
di Luca Marcolivio
TERNI, giovedì, 24 novembre, 2011 (ZENIT.org) Chi è il diavolo? Qual è il suo vero nome? Quanto è potente? Come si manifesta la sua opera distruttrice sulla vita degli uomini?
A questi e ad altri interrogativi simili ha risposto padre Gabriele Amorth, il più celebre esorcista italiano, in una video-intervista proiettata ieri sera durante lUmbria International Film Fest, poco prima della visione del film Il rito di Mikael Håfström, avente ad oggetto proprio le pratiche esorcistiche.
Il diavolo, ha spiegato padre Amorth è innanzitutto un puro spirito creato da Dio come angelo. Come gli uomini anche gli angeli sono stati sottoposti ad una prova di obbedienza, cui Satana che era il più splendente tra gli spiriti celesti si ribellò.
Satana è dunque il primo diavolo della storia sacra, oltre che il più potente di tutti. Come in paradiso con i beati e gli angeli, nelle loro varie categorie, anche allinferno cè una gerarchia. Mentre, però il Regno di Dio è regolato dallamore, il regno di Satana è dominato dallodio. I demoni si odiano tra loro e la loro gerarchia si basa sul terrore, ha detto padre Amorth.
Un giorno ha proseguito lesorcista stavo per liberare una persona posseduta da un demonio che non era nemmeno tra i più forti. Perché non vai via?, gli chiesi. Perché mi rispose se vado via Satana mi punisce. Scopo dellesistenza dei demoni è trascinare luomo nel peccato e portarlo allinferno, ha spiegato Amorth.
Cosè allora che spinge luomo a questa forsennata opera di autodistruzione e dannazione? Secondo padre Amorth, luomo è sempre spinto dalla curiosità, uninclinazione che può essere positiva o negativa a seconda dei casi.
La vera carta vincente del demonio, tuttavia, è il suo essere sempre nascosto e la cosa che desidera di più è che non si creda alla sua esistenza. Egli studia ognuno di noi e le sue tendenze al bene e al male, e poi suscita le tentazioni, approfittando delle nostre debolezze.
Lepoca contemporanea, in fin dei conti, è rappresentata proprio dalloblio più o meno totale della figura del diavolo che, così, ottiene i suoi più importanti successi. Se lumanità perde il senso del peccato, è quasi automatico che si faccia strada lidea che laborto e il divorzio siano una conquista della civiltà e non un peccato mortale, ha osservato Amorth.
È ovvio che il diavolo si nasconda dietro pratiche come loccultismo e la magia, anche qui approfittando della nostra curiosità. Chiunque voglia conoscere il proprio futuro o parlare con i morti, ad esempio, va, anche senza volerlo, incontro al demonio.
Padre Amorth non fa sconti nemmeno a Harry Potter: lidolo letterario e cinematografico di tanti bambini di tutto il mondo è infatti, secondo lesorcista, testimonial della magia nonostante sia venduto anche nelle librerie cattoliche.
Pericolose e subdole, per Amorth, sono anche pratiche orientali apparentemente innocue come lo yoga: Pensi di farlo per scopi distensivi ma porta allinduismo ha spiegato lesorcista -. Tutte le religioni orientali sono basate sulla falsa credenza della reincarnazione.
Alla domanda se Satana tormenti più le anime degli atei o dei credenti, padre Amorth ha risposto che il mondo pagano è più vulnerabile al demonio rispetto a quello cristiano o credente, tuttavia un ateo è più difficile che venga da un prete.
Amorth, che ha raccontato di aver esorcizzato anche musulmani e induisti, ha puntualizzato: Se si presentasse da me un ateo mi direi che, comunque, io agisco in nome di Gesù Cristo e gli raccomanderei di informarsi su chi Cristo sia.
Un aspetto curioso e nemmeno troppo secondario dellattività di esorcista è legato ai nomi dei demoni. La prima cosa che chiedo al posseduto è quale sia il suo nome ha spiegato padre Amorth -. Se mi risponde con il vero nome, per il demonio è già una sconfitta: è stato costretto a dire la verità, a venire allo scoperto.
In caso contrario il demonio risponderà di volta in volta con un nome differente. I demoni in realtà, come gli angeli, non hanno nome – ha detto Amorth ma si attribuiscono appellativi anche sciocchi, come Isbò: questultimo era un demonio dal nome stupido ma era potentissimo, al punto che riuscì ad uccidere un esorcista e un vescovo.
Padre Amorth ha poi precisato che la persona posseduta non è necessariamente in peccato mortale perché Satana può prendere il corpo ma non lanima e ha ricordato che il demonio non agisce soltanto con la possessione ma anche con la vessazione, lossessione e linfestazione (questultima riferita per lo più ai luoghi fisici).
I malefici legati a pratiche occulte (malocchi, voodoo, macumba, fatture ecc.), poi, sono casi rarissimi, ha detto lesorcista.
Chi prega e chi si affida costantemente a Dio non deve avere paura del demonio. Del resto padre Amorth ha dichiarato di non aver mai avuto paura del diavolo durante gli esorcismi. Qualche volta ha precisato – ho avuto paura di procurare del male fisico; ad esempio è rischioso esorcizzare una persona malata di cuore.
Amorth ha poi concluso lintervista confermando che molte persone, effettivamente, vendono lanima al diavolo ma, con ironia, ha aggiunto, io ho bruciato molti contratti.
da Baltazzar | Nov 25, 2011 | Chiesa, Liturgia, Post-it
Per molti fedeli, a quanto pare, è diventato il momento più temuto della messa. L’omelia del sacerdote produce sempre più scenari disarmanti. I più tenaci guardano l’orologio.
Altri invece si arrendono facilmente al gruppo di teste ciondolanti tra i banchi. Una vera penitenza sembra suggerire uno spassosissimo quanto interessante libretto dal titolo esplicito: Avete finito di farci la predica? Riflessioni laicali sulle omelie (Effatà, pp. 160, euro 10) di Claudio Dalla Costa. Ma al di là della vena ironica, il volume esprime una condivisibile preoccupazione per lo stato di salute dell’omelia.
L’allarme viene da lontano se già alla fine degli anni ’60 il cardinale Yves Congar affermò: «Nonostante trentamila prediche domenicali la Francia è ancora un paese cattolico». Eppure è stato un tema centrale nell’ultimo Sinodo dei vescovi e anche monsignor Mariano Crociata, segretario generale della Cei, non ha usato giri di parole per dire che ormai le omelie domenicali sono ridotte a «una poltiglia melensa», quasi una «pietanza immangiabile» o, comunque, ben «poco nutriente». Il cardinal Tomas Spidlik peraltro non era stato meno sferzante: «Il motivo per cui la Chiesa ha posto il Credo dopo l’omelia è per invitarci a credere nonostante ciò che abbiamo ascoltato». La questione è allora tutt’altro da ridere. Nei giorni scorsi su Vatican Insider il vaticanista della Stampa, Marco Tosatti, ha rivolto un appello provocatorio al Papa per arginare il problema: «Stop per un anno alle omelie. Mandiamo i preti a scuola di giornalismo e qualcuno li obblighi a non superare i cinque minuti…».
Non si tratta però di fare la predica, men che meno in questo caso. Perché nessuno può salire sul pulpito per puntare il dito su un compito così difficile per i sacerdoti. Non lo farebbero per umiltà nemmeno Bernardino da Siena o Antonio di Padova, veri maestri della predicazione. Ma di certo urge una riflessione per provare a cambiare rotta. Con questo spirito abbiamo interpellato don Fabio Rosini, biblista e direttore del Servizio diocesano vocazioni del Vicariato di Roma, nonché apprezzato commentatore del Vangelo domenicale su Radio Vaticana.
C’è davvero un problema di comunicazione nelle omelie oggi?
Senza ovviamente dare giudizi, ci sono delle difficoltà. Scontiamo innanzitutto una deriva secolare: per rispondere alla riforma luterana che aveva negato le opere, la Chiesa dovette giustamente sottolineare l’esortazione alle opere cristiane. Abbiamo accentuato questo approccio, ecco perché ancora oggi nelle omelie sentiamo sempre l’urgenza di arrivare al momento del fervorino morale che scade nel moralismo. Il risultato? Ci siamo dimenticati di spiegare la fede.
In che senso?
Non si può parlare in un’omelia senza spiegare il “perché” degli atti cristiani: solo l’esortazione risulta sterile. Mi prendono in giro perché ripeto spesso “ma questo a che cosa serve?”. Ma è necessario spiegare il segreto della nostra fede. I concetti cristiani vengono spesso fraintesi o banalizzati. Per esempio ascoltando la parabola dei talenti pensiamo subito alle qualità personali, e invece sono i beni del Padrone. Bisogna smontare quelle visioni caricaturali della fede, inaccettabilmente superficiali. Basta partire anche dall’etimologia delle parole. Questa è la prima generazione alfabetizzata della storia: la gente è più colta ed è esperta nelle tecnologie informatiche. Dobbiamo fare uno sforzo qualitativo per cui in ogni omelia la fede va spiegata, non possiamo darla per scontata, ritorniamo alle fondamenta, allo stesso concetto di Dio. E la gente ti segue, me ne rendo conto già ora.
È quindi un problema di contenuti?
Anche. Ma soprattutto di postura. È un atteggiamento che consiste nello spiegare quant’è bello ciò che noi celebriamo. E non tendere moralisticamente sempre ad ottenere il risultato delle opere, perché non si può servire Qualcuno che poi in fondo non conosciamo. Il moralismo è proprio pretendere che una persona faccia una cosa che non ha la forza o le motivazioni per fare. E invece dobbiamo dare le motivazioni. Quando uno è innamorato non c’è bisogno di dire: “Devi fare questo!”. Lo fa senza indugi. Allora il problema non è dire ciò che si deve fare, ma far innamorare.
Corre in questo senso anche la proposta di catechesi sui Dieci Comandamenti, che ha lanciato e fondato lei e che ormai si è diffusa a macchia d’olio in tutt’Italia…
Sì perché c’è bisogno di recuperare l’essenza della Parola di Dio e di una maggiore comprensibilità della fede, come insegna Benedetto XVI. Dobbiamo trasmettere ai giovani la grandezza, la bellezza, il peso meraviglioso dell’esistenza: la vita è fatta per le cose straordinarie. È un compito che attiene a ogni battezzato, ma che interpella innanzitutto noi sacerdoti. E purtroppo siamo latitanti sul compito dell’ammaestramento: sappiamo forse celebrare, organizzare e governare bene la comunità, ma ancora poco profetizzare. Chi la spiega la fede se non la spieghiamo noi sacerdoti? Siamo poco preparati a una generazione molto informata, che non è formata cristianamente. Bisogna sviluppare l’esercizio di essere maestri della fede, recuperare la dimensione di Gesù come rabbi (maestro). Quel linguaggio didascalico che dall’annuncio (il kerigma) porti alle opere, sia cioè in grado di tradurre in vita la realtà annunziata dai Vangeli.
Eppure Paolo VI diceva che oggi l’uomo ascolta più volentieri i testimoni dei maestri…
Già, ma il testimone è uno che parla. Importante è che il maestro non sia solo un enunciatore. Paolo VI sosteneva la necessità di entrambi.
Ma quanto possono incidere le omelie?
Tantissimo. E oggi purtroppo c’è un problema comunicativo. Non è facile. Bisogna essere autentici e parlare autenticamente. Siamo tutti molto deboli, anch’io faccio tanti errori. Devo però riuscire a interessare l’altro. C’è il rischio di fare dell’algebra teologica, del presentare una fede staccata dalla vita quotidiana. E il problema delle omelie non è la lunghezza, ma di andare alla sostanza. Importante è che la gente esca dalla messa con una chiave per vivere meglio. Che abbia la possibilità di confrontarsi con la tenerezza di Dio. E capisca quanto valga la pena di seguirlo.
Qual è il suo metodo?
Io conservo il mio orecchio ateo, quello che avevo prima della conversione, per ascoltarmi. Mi ascolto sempre molto criticamente, non mi trovo mai soddisfacente. Spesso quando parlo questo orecchio mi dice: “Ma che stai a dì?”. “Sei noioso, questo non serve a niente, stai facendo solo il moralista”… È un principio autocritico molto utile.
Ma si insegna ancora omiletica nei seminari?
Non mi sembra. Potrebbe senz’altro essere utile riprenderla. Ma non vorrei che si riducesse a copiare le moderne tecniche di comunicazione di massa. Non è una questione di tecnica: un innamorato sa parlare della sua innamorata. Il cuore della vita di un sacerdote è essere innamorato del Signore Gesù Cristo, amarlo veramente. Non c’è una tecnica che può sostituire il fuoco che bisogna avere nel cuore. E le parole si trovano sempre quando quel fuoco è acceso.
di Antonio Giuliano
Tratto da La Bussola Quotidiana