da Baltazzar | Dic 2, 2011 | Chiesa
di Pierluigi Vajra
da La Bussola Quotidiana
Conclusosi il mese di novembre, dedicato alla preghiera per i fedeli defunti, vorrei condividere un tesoro della spiritualità e della mistica cattolica. Si tratta del Trattato del Purgatorio della mistica santa Caterina Fieschi Adorno, nobildonna genovese, vissuta a cavallo tra il XV ed il XVI secolo.
Il suo confessore, che ne ha compilato una biografia, ci dice che Santa Caterina aveva mostrato propensione alla vita spirituale fin dalla giovane età, pensando ad un certo punto di entrare in convento. La famiglia Fieschi, tuttavia, ne combinò il matrimonio con un rampollo di un’altra famiglia prominente nella società cittadina, gli Adorno. La giovane si sottomette di buona volontà alla ragion politica familiare, ma il matrimonio è tutt’altro che un successo, tanta è la differenza tra l’indole sua e quella del marito. Fa di necessità virtù, ma l’anelito spirituale resta accantonato. Finché un giorno, durante una confessione a cui era stata esortata dalla sorella monaca, le viene concessa un’esperienza spirituale particolare, che conferisce un nuovo slancio alla sua vita. Inizia un periodo di esperienze mistiche che l’accompagneranno, in crescendo, fino al giorno della morte. Il marito si lascerà in seguito coinvolgere dallo zelo dalla moglie, e la precederà nella vita eterna.
Santa Caterina si occupò con grande energia degli ammalati, fino a diventare la “Rettora” del grande ospedale genovese Pammatone. Lasciò una traccia indelebile nella storia della città di Genova per le sue qualità organizzative ed il grande spirito di sacrificio, occupandosi personalmente degli ammalati, specialmente i più repellenti. Ma il suo servizio agli ammalati altro non era che l’espressione esteriore e concreta della sua intensa vita spirituale. E qui arriviamo al punto che vorrei condividere. Infatti l’esperienza mistica di Santa Caterina si può sintetizzare (lo fece lei stessa, stando alle testimonianze) come l’esperienza del Purgatorio già in questa vita, nel suo corpo mortale.
Interessante notare che il Purgatorio è un dogma della nostra fede decisamente meno esplorato di altri, ed in tempi recenti regolarmente assente dalla predicazione comune e dalla formazione alla fede delle nuove generazioni. E forse non poteva essere esplorato più a fondo se non per via mistica. Inoltre Santa Caterina visse nel periodo dell’eresia luterana, quando il Purgatorio veniva messo in dubbio, o meglio apertamente rinnegato. Di suo pugno, santa Caterina non ha scritto nulla delle sue esperienze mistiche. Tuttavia un notevole gruppo di persone della sua città, persone di non poco conto, iniziarono presto a far riferimento a lei come ad una guida spirituale sicura: come che accadde alla sua più famosa omonima di Siena.
Quattro suoi discepoli, tra cui il notaio di fama Ettore Vernazza, fondarono sotto la sua ispirazione l’Oratorio del Divino Amore, realtà di origine laicale, di piccole dimensioni ma di impatto tale che gli storici della Chiesa non esitano a riconoscere in esso una delle forze di propulsione della riforma cattolica che sfociò nel grande Concilio di Trento. L’Oratorio del Divino Amore divenne una fucina di santi. È molto probabile che la mano che stese gli appunti che ora vanno sotto il nome di Trattato del Purgatorio sia stata proprio quella del Vernazza, uomo di grande levatura umana e cristiana. Santa Caterina comprende la vita cristiana come totalmente pervasa dall’amore di Dio, a cui l’anima può aprirsi o resistere. E così è anche della vita dopo la morte. Quello che l’immaginario cattolico ha sempre chiamato “fuoco” dell’Inferno o del Purgatorio, Santa Caterina lo intende come il fuoco dell’amore ardente di Dio per l’anima.
Il Trattato (una serie di brevissimi capitoletti di qualche paragrafo l’uno) è zeppo di questa metafora del fuoco. Devo avvertire l’improbabile zelante lettore: occorre fendere con coraggio un testo di secoli orsono, e quindi superare qualche difficoltà iniziale. Ma poi si scoprono tesori. Non voglio togliere il gusto della sorpresa, ma mi permetto di condividere due perle, per stuzzicare l’appetito. La prima. I capitoletti del Trattato lasciano al lettore l’idea che Inferno, Purgatorio e Paradiso non siano altro che l’esperienza dell’amore di Dio. Dio non smette mai di amare l’anima, neppure all’Inferno. È la disposizione dell’anima che fa sperimentare diversamente il fuoco del Divino Amore. L’anima dannata, morta in condizione di separazione totale da Dio, separazione scelta e consapevole, sperimenta l’amore di Dio come un eterno tormento: la sua colpa la separa dalla comunione con Dio, che è il fine proprio dell’essere umano. L’amore di Dio, che l’anima ha rifiutato ma che ora comprende, diventa il suo tormento eterno. L’anima salvata, passata all’altra vita in comunione con Dio, ritrova spesso in sé una piccola o grande inadeguatezza alla comunione con Dio, alla presenza del quale – ci insegna la Scrittura – non si può trovare nulla di impuro. L’amore di Dio che l’avvolge è per essa un fuoco purificante, per nulla diverso da quello infernale, ma senza il tormento della colpa.
L’anima in Purgatorio è in pace, ma come l’oro nella fornace: la purificazione, la sofferenza, continua fintanto che permane la scoria. E quindi il Paradiso non è altro che lo stesso amore di Dio, che ormai è solamente beatitudine. Purificata da ogni ruggine proveniente da una vita tiepida ma non separata da Dio, l’anima non sperimenta più alcuna sofferenza, ma al contrario pienezza. Inferno, Purgatorio e Paradiso non sono quindi compresi da Santa Caterina come luoghi – se non metaforicamente – o come nature diverse, ma come stato individuale, come l’esperienza che l’anima fa del fuoco del Divino Amore, esperienza diversa perché diversa è la disposizione dell’anima individuale. Tutto, anche queste realtà ultime, si risolve per Santa Caterina nell’unica realtà dell’amore di Dio.
La seconda: cito direttamente dal Trattato. «Io veggio, quanto per parte di Dio, il Paradiso non abbia porta: ma chi vuole entrare vi entra, perché Dio è tutto misericordia, e sta verso noi colle braccia aperte per riceverne nella sua gloria. Ma ben veggio, altresì, quella divina essenza esser di tanta (e molto più che immaginar si possa) purità e nettezza, che l’ anima, la quale in sé abbia tanta imperfezione quanto sarebbe un minimo bruscolo, si getterebbe più presto in mille Inferni, che trovarsi in presenza della divina maestà con quella macchia. E perciò, veggendo essa il Purgatorio ordinato per levarle esse macchie, vi si getta dentro; e le par trovare una gran misericordia, per potersi levare quell’impedimento».
Ormai sono alcuni anni che il mese di novembre mi trova a rifar meditazione su questo trattatello. Sempre con grande profitto: perché tutto quel che conta, alla resa dei conti, sarà lo sviluppo della nostra capacità di amare ed essere amati, cioè la nostra carità. E allora la meditazione sul Purgatorio, lungi dall’estraniarmi dal mondo, mi spinge a vivere il presente così che quel momento mi trovi con una carità sufficientemente sviluppata per poter entrare direttamente in quel Paradiso che non ha porte. Conoscere il Purgatorio ci spinge a fare un body-building che tonifichi i muscoli dell’amore di Dio e dell’amore scambievole.
P.S. Chi volesse avvicinarsi al Trattato, non ha che da fare una semplice ricerca su Google.
da Baltazzar | Dic 2, 2011 | Chiesa, Cultura e Società, Flatulenze
La visita pastorale in una scuola pubblica si può fare. E, anche se c’è chi vorrebbe impedirla, un vescovo ha tutto il diritto di incontrare i ragazzi in aula. Firmato Giorgio Napolitano. Così ha stabilito il capo dello Stato nel decreto che respinge il ricorso straordinario dell’Uaar, l’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti, scesa sul piede di guerra contro il vescovo di Grosseto, Franco Agostinelli, e il terzo Circolo didattico della città toscana che nel 2007 aveva autorizzato il dialogo fra il presule e gli alunni della scuola elementare di via Sicilia.
Un appuntamento che non è «in contrasto con le garanzie di autonomia culturale e libertà di culto» sancite dalla Costituzione e che, anzi, è una «testimonianza sui valori» che fondano «l’esperienza religiosa e sociale di una comunità», si legge nel parere della seconda sezione del Consiglio di Stato che il presidente della Repubblica ha posto a fondamento della sua decisione.
«Si tratta del primo precedente che affronta la questione della visita pastorale in un istituto statale – spiega l’avvocato Gianfranco Amato che ha rappresentato Agostinelli in giudizio –. Ed è uno smacco per l’Uaar. Perché definisce un orientamento preciso di cui si dovrà tenere conto e perché potrà essere utilizzato nei procedimenti che sono pendenti di fronte ai Tar di alcune regioni».
Per arrivare al decreto di Napolitano che è stato notificato alla diocesi di Grosseto nelle scorse ore, ci sono voluti quattro anni. Tutto comincia nel 2007 quando il consiglio del Circolo didattico dà il via libera alla sosta del «viaggio» di Agostinelli. Una volta che la notizia viene resa pubblica, l’Uaar fa recapitare al presule una diffida. «Ma il vescovo non è si lasciato intimorire», racconta il legale. E la mattina del 25 gennaio 2008 varca l’ingresso della scuola per incontrare le classi. Un’iniziativa illegittima, tuona l’Unione degli atei. Che prima riesce a far diventare la vicenda un caso mediatico nazionale e poi sceglie di percorrere le vie legali per bloccare visite analoghe.
Dal punto di vista tecnico, il ricorso chiama in causa il Ministero della pubblica istituzione con l’Ufficio scolastico regionale e si propone di far annullare gli atti che hanno reso possibile l’ingresso del vescovo in aula. A presentarlo il coordinatore della sezione Uaar di Grosseto che è anche genitore di uno degli alunni dell’istituto dove ha fatto tappa Agostinelli. Per l’associazione, l’evento ha un «carattere inequivocabilmente di culto» e non può trovare casa «nell’ambito dell’orario di servizio di un’istituzione educativa statale».
Nulla di più falso, ribattono il Ministero e il vescovo che definiscono «infondato» il ricorso nelle controdeduzioni. Una tesi accolta in pieno dai giudici amministrativi di secondo grado che parlano di una «questione delicata e complessa» con «profili che attengono alla libertà di coscienza e alla funzione di servizio pubblico» delle scuole.
Ma nel merito del caso ci entrano eccome. Per la seconda sezione del Consiglio di Stato, «l’autonomia delle istituzioni scolastiche» che è «didattica e culturale» consente agli organi collegiali di programmare «anche incontri con le autorità religiose locali, rappresentative della comunità sociale e civica con cui la scuola pubblica è chiamata a interagire». E la visita di un vescovo non è certo un atto di culto ma va letta come un richiamo a quel tessuto connettivo che trova linfa nelle radici cristiane di un territorio. Nessuna violazione dei diritti, quindi. Anche perché – aggiungono i giudici – è stato permesso alle famiglie che lo desideravano di non far partecipare i loro figli alla “lezione” del vescovo «in modo da garantire il principio di imparzialità dell’azione amministrativa». E, si specifica nel parere recepito da Napolitano, iniziative simili possono essere proposte anche «da altre confessioni religiose presenti nel territorio» purché siano portatrici di «valori coerenti con i principi di tolleranza e rispetto delle libertà individuali e collettive».
Un ulteriore tentativo dell’Uaar per fermare Agostinelli si era tradotto in un ricorso al Tar della Toscana dopo la visita del vescovo in un liceo. «Ma anche questa soluzione – conclude il legale del presule – si è rivelata fallimentare».
FISICHELLA: L’ASCOLTO E’ SEMPRE UNA RICCHEZZA
Il decreto con cui il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, accogliendo un parere del Consiglio di Stato, ha rigettato il ricorso di un genitore che protestava contro la visita pastorale del vescovo di Grosseto, mons. Franco Agostinelli, nella scuola pubblica elementare nel 2007, trova il plauso dell’arcivescovo Rino
Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione.
“L’attenzione del capo dello Stato non fa che esprimere un sentimento largamente diffuso in mezzo alla popolazione che non è mai quello di una situazione di conflitto ma è quello di un profondo rispetto”, ha detto mons. Fisichella commentando la notizia.
“Quando in una città – ha spiegato il capo dicastero vaticano – il vescovo, soprattutto nella sua vista pastorale, si incontra anche con il popolo che vive nel territorio e si incontra con le istituzioni, e la scuola fa parte delle istituzioni, anzi è una delle istituzioni più importanti nella formazione, non fa che attestare quella esigenza profonda che deve esserci perché davanti al problema della formazione e dell’educazione, soprattutto delle nuove generazioni, escludere non è mai positivo mentre invece l’ascolto è sempre una
ricchezza”.
Giacomo Gambassi da Avvenire
da Baltazzar | Dic 2, 2011 | Chiesa, Famiglia, Post-it
Il Papa riceve in Udienza i partecipanti alla XX Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio per la Famiglia
CITTA’ DEL VATICANO, giovedì, 1 dicembre 2011 (ZENIT.org) – Il rilancio della famiglia cristiana è parte irrinunciabile della nuova evangelizzazione. Lo ha sottolineato stamattina papa Benedetto XVI nell’Udienza ai partecipanti alla XX Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio per la Famiglia.
L’Assemblea, iniziata martedì 29 novembre e conclusa oggi, è stata indetta nel XXX anniversario dell’Esortazione Apostolica Familiaris Consortio e dell’istituzione del Pontificio Consiglio per la Famiglia da parte del Beato Giovanni Paolo II.
“La nuova evangelizzazione dipende in gran parte dalla Chiesa domestica”, ha esordito Benedetto XVI, ricordando che oggi, come già in passato “l’eclissi di Dio, la diffusione di ideologie contrarie alla famiglia e il degrado dell’etica sessuale appaiono collegati tra loro”.
È quindi necessario ridare vigore alla famiglia, poiché essa è “via della Chiesa” e “spazio umano” dell’incontro con Cristo. La famiglia fondata sul Matrimonio sacramentale è una “comunità salvata e salvante, evangelizzata ed evangelizzante”.
“L’accoglienza e la trasmissione dell’amore divino – ha proseguito il Papa – si attuano nella dedizione reciproca dei coniugi, nella procreazione generosa e responsabile, nella cura e nell’educazione dei figli, nel lavoro e nelle relazioni sociali, nell’attenzione ai bisognosi, nella partecipazione alle attività ecclesiali, nell’impegno civile”.
La famiglia è anche “uno dei luoghi fondamentali in cui si vive e si educa all’amore, alla carità”, ha aggiunto.
Il Santo Padre ha poi ricordato l’ultimo Congresso Eucaristico Italiano (Leggi articolo Zenit dell’11/9/2011) in cui lui stesso ebbe occasione di esortare gli sposi e le famiglie a svolgere il loro ruolo di evangelizzatori “sia con la testimonianza della vita che con la partecipazione alle attività pastorali”.
“Vi sono degli ambiti – ha proseguito il Papa – in cui è particolarmente urgente il protagonismo delle famiglie cristiane in collaborazione con i sacerdoti e sotto la guida dei Vescovi”. Tra questi ha citato “l’educazione di bambini, adolescenti e giovani all’amore”, “la preparazione dei fidanzati alla vita matrimoniale con un itinerario di fede” e “le esperienze associative con finalità caritative, educative e di impegno civile”.
In vista del VII Incontro Mondiale delle Famiglie, in programma a Milano dal 30 maggio al 3 giugno 2012, Benedetto XVI ha salutato l’appuntamento come “una grande gioia ritrovarsi insieme, pregare e fare festa con le famiglie venute da tutto il mondo”.
Ha quindi invitato le famiglie milanesi e lombarde “ad aprire le porte delle loro case per accogliere i pellegrini che verranno da tutto il mondo. Nell’ospitalità – ha aggiunto – sperimenteranno gioia ed entusiasmo: è bello fare conoscenza e amicizia, raccontarsi il vissuto di famiglia e l’esperienza di fede ad esso legata”.
Il Papa ha infine esortato le famiglie partecipanti all’Incontro Mondiale di Milano a compiere “un adeguato percorso di preparazione ecclesiale e culturale, perché l’evento riesca fruttuoso e coinvolga concretamente le comunità cristiane in tutto il mondo”.
da Baltazzar | Dic 2, 2011 | Chiesa, Liturgia
Dal Vangelo secondo Matteo, Mt 9,27-31
In quel tempo, mentre Gesù si allontanava, due ciechi lo seguivano urlando: “Figlio di Davide, abbi pietà di noi”.
Entrato in casa, i ciechi gli si accostarono, e Gesù disse loro: “Credete voi che io possa fare questo?”. Gli risposero: “Sì, o Signore!”.
Allora toccò loro gli occhi e disse: “Sia fatto a voi secondo la vostra fede”. E si aprirono loro gli occhi.
Quindi Gesù li ammonì dicendo: “Badate che nessuno lo sappia!”. Ma essi, appena usciti, ne sparsero la fama in tutta quella regione.
IL COMMENTO di don Antonello Iapicca
La fede è conoscenza ed esperienza. La Vergine Maria ha creduto non guardando a se stessa ma appoggiandosi alla Buona Notizia che le aveva recato l’Arcangelo Gabriele. Come Abramo che sperò contro ogni speranza. Come Pietro che professò la sua fede in Gesù quale Messia per la gratuita rivelazione del Padre. Carne e sangue non c’entrano. I due ciechi che seguono di Gesù hanno visto con il cuore ancor prima di vedere con gli occhi; un moto dello Spirito li ha sospinti alla sequela di quel Galileo, sino a giungere alla sua casa. E’ qui che gli si accostano e dove Gesù può porre loro la domanda decisiva: “Credete che io abbia il potere di farvi vedere?”. I ciechi avevano camminato seguendo Gesù e i suoi discepoli, gridando e implorando, segno del catecumenato preparatorio al battesimo. Sono entrati nella casa del Signore, nella Chiesa, nella comunità. E’ questo il luogo dove la fede diviene adulta. Quì si può sperare contro ogni speranza carnale, quì il sangue cede allo Spirito.
Dietro questi due ciechi si intravvede la figura di Tommaso, l’apostolo incapace di credere lontano dalla comunità, mentre quando si ritrova insieme ai fratelli vede aprirsi i suoi occhi, può riconoscere Gesù, credere in Lui, e professare la sua fede. I ciechi nell’intimità della casa-comunità del Signore fanno la stessa esperienza: possono professare la loro fede perchè i loro occhi si aprano. Credere al potere di Gesù è appoggiarsi ad un’esperienza, misteriosa certo, che proviene dal Cielo come pura Grazia. Un’esperienza che diviene come il sigillo di un cammino fatto di grida, di umiliazioni, di discesa al fondo del proprio cuore. Il grido dei due ciechi è immagine di quello di ogni catecumeno che, durante il tempo di preparazione al battesimo, conoscendo se stesso e le proprie debolezze, faceva esperienza del potere di Gesù su di esse. Egli preparava i suoi occhi ad aprirsi attraverso i segni del potere di Gesù: a poco a poco veniva strappato al mondo, alle sue concupiscenze e ai suoi criteri. I due ciechi non hanno creduto magicamente: hanno gridato dal profondo di se stessi, imparando a conoscere il Signore. Lo hanno invocato e quel ripetere e gridare il suo Nome rappresenta il cammino di fede, di conoscenza, di scoperta del suo potere nella propria vita. Perchè la fede non è un gioco a dadi, non è puntare sulla ruota della fortuna. E’ partire, è seguire, è entrare. E’ percorrere un’iniziazione cristiana che, a piccoli passi, renda l’annuncio ricevuto credibile e apra alla fede, alla confidenza. Dal grido del proprio bisogno, dalla sofferenza e dalla morte di una vita cieca su se stessi, sugli altri e sugli eventi, alla vita piena di chi, appoggiato al potere del Signore, apre gli occhi su tutto ravvisandone l’amorosa volontà di Dio.
Gesù si stava allontanando e per questo i due hanno cominciato a seguirlo. Lui non si è fermato, inducendoli a gridare, a gridare ancora, sino a che il suo Nome immerso nella pietà diventasse familiare. La tradizione della Chiesa Orientale insegna a pregare ripetendo proprio il grido dei ciechi al ritmo dei respiri, così che tutta la vita, cuore, mente e operare siano immersi in Cristo. Gesù cammina davanti a loro ed entra a casa sua: Era lì che stava andando! I ciechi, introdotti nella comunione della Chiesa, si trovano finalmente dinanzi a Cristo. In casa essi gli si possono accostare, sentirlo vicino, e ascoltare le sue parole. Le prime che Gesù rivolge loro sono una domanda: “credete che io possa?”. Ora, dopo il cammino gridato, essi possono professare la fede, e, per questa fede, ottenere il miracolo. Così anche per noi. Quando Gesù sembra allontanarsi è perchè, come lo Sposo del Cantico dei Cantici, vuole che lo seguiamo, che lo cerchiamo, che gridiamo a Lui. Vuole innescare in noi il bisogno e il desiderio di Lui. E non si volta e non si ferma, perchè vuole rafforzarci nel grido, che è la fede. Vuole fondarci nel desiderio di Lui, purificarci, che non sia una nube del mattino, e trasformare la nostra relazione con Lui come quella di Aladino con la sua lampada. Il cammino di Gesù alla testa dei nostri giorni ci fa adulti, liberi, maturi nella fede. E’ Lui che cammina dinanzi a noi proprio quando il coniuge sembra non comprenderci; quando i figli non ne vogliono sapere; quando il lavoro si fa pesante; E’ Lui che cammina dinanzi a noi carico della sua Croce! E’b la Croce il cammino al vero che scioglie il nostro grido e lo rende ogni istante più vero. Nel grido implorante pietà possiamo sperimentare il suo potere agire in noi. E’ il grido la risposta alla sua chiamata, a volte così misteriosa: proprio quando sembra che si allontani Gesù ci chiama a seguirlo! Proprio quando sembra non dare ascolto alle nostre suppliche ci sta attirando nella sua casa, nell’intimità dei suoi fratelli!
Lui ci seduce così, facendoci forti, adulti, uomini veri, capaci di discernere. Il suo camminare davanti a noi ci insegna a legger la storia, ad aprire a poco a poco gli occhi del cuore e della mente perchè possiamo professare la nostra fede. Egli la sollecita, la cura, e la compie perchè ne è l’autore e il perfezionatore. In ogni esperienza, ogni giorno, come lungo tutta la nostra vita, Gesù ci accompagna sino a casa sua perchè, nell’intimità, possiamo aprirgli il nostro cuore, come Pietro sulle rive del Mare di galilea, e dirgli che crediamo, che Lui sa tutto, che Lui può tutto. Allora saranno aperti i nostri occhi e vedremo in modo nuovo la moglie e il marito, i figli e i colleghi, noi stessi e la nostra storia. Vedremo tutto come un’opera del suo amore e sapremo discernere e orientarci nella vita. Tutto concorre al nostro bene, a vivere nella sua casa: ogni secondo, ogni evento è un passo di Cristo che ci conduce nel suo cuore misericordioso, la Luce inestinguibile che dirada le tenebre del peccato e della morte. “La Chiesa antica ha qualificato il Battesimo come fotismos, come Sacramento dell’illuminazione, come una comunicazione di luce e l’ha collegato inscindibilmente con la risurrezione di Cristo. Nel Battesimo Dio dice al battezzando: “Sia la luce!”. Il battezzando viene introdotto entro la luce di Cristo. Cristo divide ora la luce dalle tenebre. In Lui riconosciamo che cosa è vero e che cosa è falso, che cosa è la luminosità e che cosa il buio. Con Lui sorge in noi la luce della verità e cominciamo a capire” (Benedetto XVI, Omelia nella Veglia Pasquale, 11 aprile 2009).
E questo si tramuta “naturalmente” in annuncio, in missione. Guariti da Gesù i due ciechi non possono trattenere la gioia e l’esperienza della fede. Illuminati divengono luce: Dio ha fatto rifulgere il bagliore pasquale su di loro, sono ormai Luce in Cristo, pur dentro un vaso di creta. Ora sono missionari, testimoni della Verità e dell’amore. La loro stessa vita è ormai un segno, un riverbero della Luce di Cristo risorto destinato al mondo. Così è la nostra elezione: siamo chiamati a seguire il Signore, a gridare il suo Nome, a sperimentare il suo potere, ad entrare nella sua casa. A crescere nella fede e nella comunione della Chiesa, per vivere spargendo la sua fama in ogni luogo della nostra esistenza.
Sant’Agostino (354-430), vescovo d’Ippona (Nord Africa) e dottore della Chiesa
Discorso 18 ; PL 38, 128 (augustinus.it discorsi sui tempi liturgici)
«E si aprirono loro gli occhi»
“Dio verrà manifestamente, il nostro Dio, e non tacerà” (Sal 49,3 Vulg). Perché questo medesimo Cristo Signore, Dio nostro, Figlio di Dio, nel primo avvento venne di nascosto, nel secondo avvento verrà manifesto. Quando venne di nascosto, non si fece conoscere se non dai suoi servi; quando verrà manifesto, si farà conoscere sia dai buoni che dai cattivi. Quando venne nascosto, venne per esser giudicato; quando verrà manifesto, verrà per giudicare. Ecco perché, quando veniva giudicato, stette zitto, e del suo silenzio il profeta aveva predetto: “È stato portato al macello come una pecora e, come un agnello davanti al tosatore, così egli non ha aperto bocca” (Is 53,7). Però “Dio verrà manifestamente, il nostro Dio, e non tacerà”. …
Per adesso infatti quella che in questo mondo viene considerata felicità ce l’hanno anche i cattivi, e quella che viene considerata infelicità in questo mondo ce l’hanno anche i buoni. Ci fanno ben caso coloro che credono alle cose presenti e non credono a quelle future, che cioè questi beni e mali del tempo presente ce l’hanno indistintamente sia i buoni che i cattivi. Se si bada alle ricchezze, notano che le ricchezze ce l’hanno sia gli scellerati che gli onesti. Così anche, se si ha paura della povertà e delle miserie del tempo presente, tribolano in queste miserie sia i buoni che i cattivi. E concludono in cuor loro che “le cose umane Dio né le vede né se ne cura” (cfr Sal 94,7), ma che addirittura ha lasciato che noi fossimo mescolati a sorte come dentro un sacco, che è questo mondo, e non mostra per noi nessun interessamento. E così avviene che essi non fanno alcun conto dei comandamenti, dato che non vedono manifestarsi nessuna differenza di giudizio. …
Molte cose sono rimandate per il giudizio mentre alcune sono giudicate subito, affinché coloro che vengono risparmiati abbiano timore e si convertano. Perché Dio non desidera condannare, ma salvare e, se ha pazienza verso i cattivi, è per poter cambiare i cattivi e renderli buoni.
da Baltazzar | Dic 1, 2011 | Bioetica, Cultura e Società, Post-it
Gentile on. Bersani, arriveremo poi a conclusioni diverse, ma al convegno di Scienza e Vita (18 novembre, Roma) ha messo il dito sulla piaga.
Ha detto che negli ultimi anni c’è stata una rivoluzione culturale: la gente che un tempo aveva paura della morte improvvisa ora ha paura della morte “senza dignità” (e spesso se la augura, la morte improvvisa).
Sarebbe interessante trarne le stesse conclusioni, ma questo richiede dialogo e tempo. La mia conclusione è che nulla può togliere all’uomo la sua dignità, dunque va combattuto il dolore, ma non si può pensare che il dolore renda la vita indegna. La dignità è intrinseca; un fiore può essere sbattuto, calpestato, strappato, ma resterà sempre un fiore.
Invece per alcuni la dignità consiste nel “poter fare una certa cosa”, e nel nostro immaginario finisce che l’idea che abbiamo di dignità coincide con le nostre passioni (o le nostre fobie). Tutte cose buone, per le quali impegnarsi, spesso; ma un po’ poco per pensare che “lì” risieda la nostra dignità. E questo ha riflessi sociali: come si pensa che certe malattie tolgano la dignità, così si pensa che certi lavori non siano “degni” (e i cittadini dei Paesi ricchi non li fanno più perché si sentono sminuiti). Non è vero. Perché non c’è nulla che tolga all’uomo/donna la dignità di uomo/donna, neanche il lavoro più faticoso o la malattia mentale. Perché la dignità non dipende dallo stato in cui siamo: anche in un lager si conserva la dignità, vedi Primo Levi (questo però non toglie che il lager vada cancellato).
Dunque la lotta vera è quella contro il dolore e la solitudine e anche contro le cure inutili; non sul credere che una certa vita è “indegna”, e che l’unica soluzione è toglierla o togliersela. E perfida è la società che lascia le persone sole, obbligandole a scegliere tra una vita disegnata come “indegna” e scelte letali (aborto, eutanasia, droga): che razza di scelta “libera” è?
Per questo non concordo con quanto scriveva Stefano Semplici sull’Unità (21 novembre): “La Chiesa non raggiungerà l’obiettivo (…) fino a quando insisterà che la crisi morale del nostro tempo dipende da un difetto di conoscenza”. Invece, credo, il punto è qui: ri-conoscere. Ecco un’altra rivoluzione: un tempo si accusava la Chiesa di essere tesa solo al soprannaturale, al primato della coscienza sulla conoscenza; non era proprio così, ma poteva sembrarlo; oggi di essere tesa solo al naturale, alla conoscenza, ed in parte è vero, perché la Chiesa invita a riconoscere il reale, mentre sono altri che mettono la “coscienza” (cioè il soggettivismo) al centro dell’etica.
Ma cos’è la conoscenza di cui parliamo? La conoscenza è dare alle cose il loro nome. E’ riconoscere che l’uomo non diventa mai “meno degno”, e che proprio per questo deve essere sempre e comunque tutelato, anche dalle sue paure. E riconoscere che non si può defraudare il salario, che non si può uccidere, che non si può violentare; e riconoscere pari dignità a qualunque essere umano, indipendentemente dall’età, dalla razza o dalla malattia. Le sembrano cose su cui si può discutere? E’ essere certi che su alcuni temi non ci sono “due verità”, a seconda di chi parla: stuprare è sempre un male, frodare le tasse o rubare al povero è sempre una male, aggredire il bambino (nato o non nato che sia) è sempre un male; poi ci saranno attenuanti, ma il male è certo.
Il problema è che oggi prevale l’etica dell’auto-nomia, cioè che se TU decidi che una cosa non è male, diventa BENE, a condizione di avere la FORZA per farsi valere. E certa bioetica utilitarista (“io valgo solo se so farmi valere, se sono legge a me stesso”) toglie la qualifica di “persona” a coloro che avrebbero “perso dignità” (feti, disabili mentali, pazienti in coma prolungato).
Insomma, on. Bersani, oggi siamo in una società spaventata e solitaria in cui si cerca di pararsi e ripararsi da tutto e da tutti, perfino dalla morte, perfino dai nostri cari che ci guardano morire; e dal lavoro che genera poco potere spicciolo e spendibile socialmente (e questo accade non solo al manovale, ma anche tante volte ai manager). Magari pensando che una decisione presa nel chiuso della propria stanza, di fronte ad un foglio di dati sia garanzia di libera scelta e dignità. Ma – e immagino che su questo potremo dialogare – la vera dignità è un’altra cosa, e la solitudine, sommo ideale della società postmoderna, può farci scordare di averla.
Allora dobbiamo garantire che nessuno si senta mai abbandonato: empatia da parte di chi cura, accesso a cure psicologiche, ad un ambiente non deprimente, alla compagnia dei cari, provvedimenti che diano agevolazioni e addirittura mettano al di sopra degli altri le persone con disabilità e malattie gravi. Cioè ri-conoscere, leggere la realtà. Diamo queste poche ma forti garanzie a chi sta male. Poi, solo poi, si potrà domandare se la vita è degna; solo poi si può discutere sulle leggi.
di Carlo Bellieni
Tratto da Il Sussidiario.net