da Baltazzar | Nov 11, 2013 | Bioetica, Biopolitica, Segni dei tempi
di Gianfranco Amato da www.lanuovabq.it
Sono centinaia i bambini perfettamente sani che potrebbero essere stati abortiti per errore in un famoso ospedale di Cardiff, in Galles. Una storia che ha dell’incredibile e ancora più incredibili sono le reazioni di giudici e opinionisti, che hanno derubricato lo scandalo a semplice «errore» medico per quanto «sgradevole».
La vicenda ha cominciato a emergere lo scorso anno quando una donna di 31 anni, Emily Wheatley, incinta di nove settimane, con una gravidanza a rischio, si è recata all’University Hospital of Wales di Cardiff per un controllo. Dopo l’ecografia si è sentita dire che il suo bambino purtroppo era morto per cui si doveva procedere alla revisione della cavità uterina (raschiamento). Per questo intervento però la signora Wheatley decideva di andare in un altro ospedale, il Nevill Hall Hospital di Abergavenny, dove le hanno fatto un’ulteriore ecografia scoprendo che il bambino era ancora vivo e perfettamente sano.
Emily Wheatley è fortemente traumatizzata dalla situazione, ci pensa sua madre a sporgere immediatamente denuncia al Public Services Ombudsman for Wales, il difensore civico gallese per i disservizi pubblici. Segue un’approfondita inchiesta, i cui dati – riferiti nei giorni scorsi – si rilevano agghiaccianti. Si scopre, infatti, che presso l’University Hospital of Wales si applica fin dal 2006 un protocollo ormai superato dalle nuove linee guida emanate dal Royal College of Obstetricians and Gynaecologists per prevenire i margini di errori diagnostici degli aborti spontanei nel primo stadio della gravidanza. In pratica si usano ecografie addominali laddove è disponibile e consigliata l’ecografia transvaginale. In quell’ospedale nascono ogni anno seimila bambini, mentre si registrano tra i 600 e i 1200 aborti spontanei. Da qui la stima che le donne vittime di diagnosi sbagliate possano essere state centinaia.
Le conseguenze di questa incredibile vicenda appaiono, però, più surreali degli antefatti che le hanno generate. L’ospedale, infatti, si è semplicemente scusato imputando tutto ad un semplice «errore medico»; dovrà solo provvedere a cambiare immediatamente il metodo di accertamento delle condizioni del feto. La Wheatley, la cui figlia scampata all’aborto ha ora 8 mesi, è stata risarcita con la risibile somma di 1.500 sterline, mentre l’Ombudsman, Peter Tyndall, nel rapporto ufficiale se ne è uscito con una sortita dal tipico aplomb anglosassone: «Le donne a cui è stato recentemente diagnosticato un aborto spontaneo all’University Hospital of Wales, e a cui è stata conseguentemente praticata un’evacuazione uterina, troveranno tutto ciò estremamente sgradevole (“extremely disturbing”)».
Insomma, è stata compiuta una vera e propria strage ma tutto si risolve con delle scuse. Del resto, anche da noi in Italia il fatto non ha trovato alcuna eco. Il che non dovrebbe neanche sorprendere più di tanto vista la concezione che ormai sta diventando comune. Ricordiamo come non più di un mese fa Filomena Gallo e Gianni Baldini, rispettivamente Segretario dell’Associazione Luca Coscioni e docente di Biodiritto Università di Firenze, abbiano dichiarato senza mezzi termini che «gli embrioni sono di proprietà della coppia» che li ha generati, e come tali nella loro piena e assoluta disponibilità, al punto da potersene disfare come meglio aggrada.
Di fronte a vicende come quella di Cardiff appare sempre più evidente come l’uomo moderno abbia perso il senso della ragione. Quando si giunge a teorizzare la reificazione dell’essere umano, considerandolo alla stessa stregua di un “prodotto”, di cui si può rivendicare la proprietà e persino distruggere con assoluta nonchalance – essendo semplice “cosa” –, allora tutto diventa possibile e accettabile. Anche la storia di ordinaria follia accaduta all’University Hospital of Wales.
Non può non venire alla mente, a questo proposito, il noto concetto di banalità del male di Hanna Arendt, un male che sembra trascendere ogni possibilità di comprensione e persino di attribuzione di responsabilità personale. La banalità del male in questo caso, oltre che nella tragedia dell’uccisione di centinaia di innocenti perpetrata presso il prestigioso ospedale gallese, sta anche nelle incredibili reazioni a quella strage: nessuna conseguenza concreta di carattere giuridico a livello di sanzioni, ma soprattutto l’assenza di qualunque sincero sentimento di umana compassione. A questo siamo ormai ridotti.
da Baltazzar | Ott 14, 2013 | Bioetica, Biopolitica, Segni dei tempi
Chiara Lalli è una figura emergente nel dibattito sui problemi della bioetica in Italia. Il suo blog è uno dei più consultati dai giornalisti. I suoi libri, che in genere pretendono di presentare tesi “controverse”, vengono recensiti con entusiasmo dai principali quotidiani nazionali (è il caso del Corriere della Sera con “La verità, vi prego, sull’aborto.” dove, con molta approssimazione scientifica si sostiene l’innocuità dell’aborto volontario per la psiche della donna); viene invitata da radio e televisioni quando si deve dibattere qualche punto alla frontiera della bioetica.
Così è successo ad esempio durante la trasmissione radiofonica “Tutta la città ne parla” andata in onda su Radio Rai Tre il 31 gennaio 2013 (a questo indirizzo il podcast). La puntata era dedicata alla giornata internazionale per la Sindrome di Down. Tanta attenzione verso un tema di solito trascurato dai mezzi di comunicazione di massa, era causata da uno spiacevole episodio che si era guadagnato la ribalta dei notiziari proprio in quei giorni: il caso di un ragazzo affetto dalla sindrome, figlio di immigrati, ai quali era stata negata la cittadinanza italiana perché, nonostante tutti i requisiti previsti dalla legge fossero ottemperati, il giudice non aveva ritenuto presente la capacità di intendere e di volere.
Seguendo uno schema consolidato la trasmissione, dopo avere proposto alcuni contributi di persone che si occupano di persone affette dalla sindrome per professione o per esperienza personale (un avvocato di una associazione che si occupa dei diritti dei disabili, la mamma di un ragazzo con la sindrome di Down) ha sottoposto il tema ai rappresentanti di due concezioni della bioetica contrapposte tra loro: il direttore di Avvenire Marco Tarquinio e appunto Chiara Lalli, presentata come “filosofa della scienza”.
Bisogna riconoscere al conduttore di essere stato buon giornalista, lanciando ai suoi ospiti una domanda alquanto spinosa. Il tema è stato introdotto, infatti, ricordando che in tempi di diagnosi prenatale e didiritto di aborto molti bambini affetti dalla sindrome non nascono più, proprio come temeva Jerome Lejeune, lo scopritore delle sue cause genetiche. In Italia si può stimare che ogni anno vengano abortitipiù di mille bambini ogni anno per il semplice fatto di avere un cromosoma in più (i dati possono essere consultati qui). Tanto che nel 2004 è stato lanciato dal governo danese un piano che prevede l’accesso gratuito ai test prenatali per l’individuazione della sindrome e che in 25 anni dovrebbe rendere la Danimarca un paese “Down Free” (i primi effetti sono stati valutati da questo articolo pubblicato dalBritish Medical Journal). Un’iniziativa che ha fatto scalpore per la sua scoperta impostazione eugenetica: selezionare sistematicamente quali bambini “meritino” di venire al mondo e quali no.
Non è stato difficile per Marco Tarquinio porre a confronto il governo danese degli anni 2000 con ilgoverno tedesco degli anni ’30 del ventesimo secolo. Quando è arrivato il suo turno, Chiara Lalli si è trovata in una situazione difficile: da un lato non poteva non sostenere con forza i diritti delle persone affette dalla sindrome di Down già nate; dall’altro, però, voleva difendere il diritto di sopprimere quellenon ancora nate. Non si è però persa d’animo, imbarcandosi in una argomentazione un po’ arzigogolata per mostrare la coerenza della sua posizione. Per chi non avesse voglia di risentire il file audio originale trascrivo qui sotto i principali passaggi del suo intervento prima di commentarli. Parlando della agghiacciante prospettiva di una Danimarca “Down Free” la “filosofa della scienza” ha sostenuto che “…bisognerebbe distinguere l’obbligo dal condizionamento culturale, da un invito, da un’idea. Insomma, ci sono molti livelli che si possono intravedere in una posizione del genere. Il punto fondamentale è che credo le singole scelte debbano sempre rimanere degli individui, individui già esistenti e quindi persone a tutti gli effetti su eventuali, possibili, potenziali, possiamo scegliere gli aggettivi che vogliamo, persone. Però ripeto, il nodo fondamentale è che se io come potenziale genitore decido di interrompere una gravidanza non implica questa mia scelta la mancanza di rispetto per determinate persone ma sto compiendo una scelta perché magari non sono in grado, non mi ritengo in grado di affrontare una situazione del genere. Quindi, in qualche modo, non è una lesione della dignità di altre persone, questo è un nodo fondamentale, è anche un po’ complicato da capire, però insomma … altrimenti è estremamente difficile non connotare una scelta di questo tipo come una scelta nazista, per usare un termine chiaro”.
Si può senz’altro concordare che sia “estremamente difficile non connotare come nazista” il piano del governo danese. Purtroppo le spiegazioni che, con un po’ di didattica degnazione (“è un po’ complicato da capire”) Chiara Lalli ha proposto ai radioascoltatori, non fanno superare affatto tale difficoltà. Vediamole in dettaglio.
Alla domanda se la Danimarca sia paragonabile con la Germania del Terzo Reich Chiara Lalli risponde di no proponendo due argomenti: a) il piano danese non è coercitivo (“distinguere l’obbligo dal condizionamento culturale da un invito, da un’idea”) mentre quello nazista lo era; b) i bambini non ancora nati sono solo persone “potenziali” mentre gli adulti che decidono della loro vita sono persone “a tutti gli effetti”. Si tratta di due tesi francamente deboli, che possono valere per tenere il punto in un dibattito radiofonico che si risolve in una decina di minuti ma che non reggono assolutamente ad una riflessione rigorosa.
Il punto a) è il più semplice da contestare. Il programma eugenetico nazista, dall’eliminazione dei disabili allo sterminio degli ebrei (perché sempre di eugenetica si trattava per i nazisti, basta leggere i testi della loro propaganda) è stato possibile perché nella società tedesca esisteva un sufficiente consenso su di esso. Per dimostrarlo qualche anno fa uno storico di Harvard, Daniel Goldhagen, ha pubblicato un saggio che è diventato un best seller mondiale intitolato “I volenterosi carnefici di Hitler”. Dunque il “condizionamento culturale” degli esecutori del programma era all’opera anche allora: le personecollaboravano spontaneamente, proprio come spontanea dovrebbe essere la scelta delle donne che decidessero di ascoltare l’”invito” lanciato dal governo danese ad eliminare tutti i bambini concepiti affetti dalla sindrome di Down. Dov’è dunque la differenza? Si potrebbe forse dire che in realtà la presenza di un regime totalitario rendeva molto più “costringente” la capacità di persuasione dei nazisti. Ma la filosofa della scienza Chiara Lalli saprà certamente che è stato John Stuart Mill (che certo non era un sostenitore del totalitarismo) a spiegare nel suo saggio “Sulla libertà” che il condizionamento culturale della maggioranza può essere tanto oppressivo quanto quello di un regime autoritario. In realtà, tutte le volte che viene riproposta questa distinzione tra eugenetica “coercitiva” (che sarebbe cattiva) e eugenetica “volontaria” (che invece sarebbe buona) per sdoganare nuovamente tale pseudo-scienza (succede sempre più spesso, non solo sul blog di Chiara Lalli ma anche su paludate riviste di filosofia), bisognerebbe ricordare che in entrambi i casi la vittima non viene ascoltata: per la persona eliminata l’eugenetica è sempre “coercitiva”.
E qui si comprende perché Chiara Lalli deve aggiungere il punto b) alla sua argomentazione affermando che i bambini con la sindrome di Down non ancora nati in realtà non sono “persone a tutti gli effetti” ma solo “persone potenziali”. Proprio per questo motivo non sarebbe necessario chiedere il loro parere per eliminarli. In questo caso l’eugenetica sarebbe buona perché le uniche “persone a tutti gli effetti” coinvolte, cioè gli adulti che dovrebbero decidere la loro eliminazione, prenderebbero tale decisione volontariamente. Per quanto l’argomentazione suoni decisamente capziosa è importante discutere esplicitamente la distinzione tra persone “potenziali” e persone “ a tutti gli effetti”. Chiara Lalli la enuncia come se fosse un fatto assodato, sul quale non c’è alcuna discussione, aderendo a una sorta di mantra che sempre più spesso si affaccia nel dibattito sui temi bioetici più scottanti (aborto, eutanasia, fecondazione artificiale). In realtà si tratta di un’affermazione di tipo filosofico e come tale può e deve essere sottoposta ad un vaglio critico, soprattutto quando viene utilizzata per giustificare le decisioni sulla vita o sulla morte di esseri umani.
Poichè dal punto di vista biologico il processo di sviluppo di un essere umano non conosce alcuna soluzione di continuità dal momento del concepimento fino alla morte, l’idea di “potenzialità” della persona deve necessariamente trovare un altro fondamento. Questo fondamento è l’autocoscienza. Sarebbe l’autocoscienza a rendere un essere umano “persona a tutti gli effetti”. In ultima analisi, quindi, sarebbe un particolare “funzionamento” del soggetto, la sua autocoscienza, che ne renderebbe l’esistenza “personale” e quindi di valore. Si tratta della versione moderna di un argomento filosofico con una lunga tradizione, i cui ascendenti nobili possono essere fatti risalire a Cartesio e Locke, basato sul dualismo corpo-anima, per quanto espresso nella sua moderna versione mente-corpo.
Nel nostro caso l’argomento si applica così: il bambino non ancora nato ha la potenzialità di diventare cosciente ma non lo è ancora, dunque è in qualche misura sottoposto alle scelte degli adulti che invece hanno già raggiunto lo stadio di autocoscienza (notate la particella usata da Chiara Lalli, che implica una subordinazione dei bambini rispetto agli adulti: le … scelte [delle] persone a tutti gli effetti su … potenziali … persone). L’argomento è piuttosto debole: in base ad esso infatti si potrebbe giustificare unasubordinazione dei diritti di una persona incosciente a causa di una anestesia o di uno svenimento, rispetto a quelli delle persone che la soccorrono. Anch’esse infatti sono in quel momento coscienti solo “in potenza”, proprio come il bambino non nato: eppure, come è ovvio, non ci sogneremmo affatto di non considerarle persone “a tutti gli effetti”. Anzi, è proprio il possibile risveglio della loro coscienza che normalmente viene invocato come ragione delle cure da prestare loro: tanto che viene viceversa suggerita l’eutanasia per le persone in “stato vegetativo permanente”, una espressione medica non corretta (l’esperienza clinica insegna che non si può dimostrare ex ante come definitivo alcuno stato vegetativo, tanto è vero che oggi si preferisce l’aggettivo persistente) usata per esprimere la convinzione che di quella persona ormai funzioni solo il corpo, mentre la mente sarebbe invece “morta”.
Al fine di renderlo più difendibile l’argomento della personalità “potenziale” viene spesso sviluppato introducendo una seconda condizione per l’esistenza della persona: l’esistenza di una capacità di giudizio e di un vissuto. Lo hanno fatto ad esempio Giubilini e Minerva, due bioeticisti italiani che su una delle più importanti riviste internazionali di etica medica hanno sostenuto la liceità morale dell’infanticidio, suscitando come è ovvio grande scalpore. Ho già mostrato in un articolo sulla stessa rivista alcune debolezze del loro ragionamento e i rischi sociali di una tale posizione bioetica. Vorrei però qui discutere la loro definizione di persona potenziale, in base alla quale arrivano a giudicare “sopprimibile” un neonato. Giubilini e Minerva affermano in sostanza che lo stato di incoscienza di un bambino non ancora nato o appena nato è diverso da quello che potrebbe temporaneamente vivere un adulto. Quest’ultimo infatti, avendo già un vissuto di cui ha memoria, al momento del risveglio sarà in grado di dare giudizi, e disporre del suo potenziale futuro e soffrire delle minacce alla sua esistenza. In realtà non è difficile mostrare che quella che sembra essere una condizione diversa è in realtà la stessa. Ammesso e non concesso che il bambino non ancora nato non abbia alcuna forma di coscienza (la scienza medica continua infatti a retrodatare tutta una serie di funzionamenti neurologici e di rapporti intensi di scambio con la madre fino a fasi sempre più precoci della gravidanza) è comunque tutta una questione di tempo: anche il bambino non ancora nato, se sarà lasciato vivere sufficientemente a lungo ad un certo punto potrà dare giudizi, disporre del suo futuro e soffrire delle minacce alla sua esistenza. Se accettassimo questa versione dell’argomento della coscienza, allora dovremmo postulare una gradualità dell’essere persona (e quindi dei diritti che ne derivano) via via che gli individui accumulano conoscenza e capacità di giudizio: è evidente infatti che un bambino di tre anni non ha la stessa capacità di un adulto di decidere del suo futuro o di valutare ciò che minaccia la sua vita; e lo stesso si potrebbe dire per distinguere tra adulti con differente grado di istruzione.
La verità è che l’argomento usato dai sostenitori dell’aborto o dell’infanticidio eugenetico andrebbe totalmente rovesciato. Infatti, almeno in un certo senso, siamo tutti persone potenziali. Come un bambino è un potenziale adulto, un adulto è un potenziale vecchio. Un adolescente che non ha ancora completato i suoi studi è un potenziale scienziato e allo stesso tempo un potenziale artista. Nessuno in realtà può realmente disporre del suo futuro ma solo accoglierlo con ciò che porta e richiede alla sua esistenza. Lo sviluppo dell’organismo neonato in organismo adulto è un processo altrettanto irresistibile e fuori dal controllo del soggetto di quello che porta un organismo adulto alla dissoluzione per una malattia degenerativa. Per non parlare dei legami che ci legano con il mondo che ci circonda: probabilmente a tutti, nel corso dell’esistenza, capiterà almeno una volta di esclamare ‘se avessi saputo prima!’; oppure di scoprire che quello che aveva ritenuto uno sbaglio si era rivelato come una preziosa opportunità verso qualcosa di imprevisto e positivo.
Ciò che connota l’essere persona è proprio il mettere continuamente in atto una potenzialità: un articolo un po’ difficile ma che illumina in modo affascinante questo punto è stato pubblicato on line da Damiano Bondi sul sito di mondodomani.org. Il vivere è un tendere verso qualcosa in ogni momento: è un processo in cui una inesauribile potenzialità continuamente si realizza. A partire dalla magnifica e misteriosa potenzialità contenuta nella prima cellula con identità biologica del tutto nuova che viene all’esistenza al momento del concepimento.
Se dunque siamo tutti persone potenziali allora più semplicemente siamo tutti persone (altri argomenti su questo punto possono essere trovati qui). La condizione esistenziale di un bambino affetto dalla sindrome di Down non è diversa da quella degli adulti che rivendicano un diritto di vita e di morte su di lui: semplicemente egli subisce la loro maggiore forza. Per questo Chiara Lalli si sbaglia. Per questo non esiste un’eugenetica “buona”. Per questo il programma eugenetico danese non differisce da quello nazista.
di Benedetto Rocchi*
*Dipartimento di Scienze per l’Economia e l’Impresa, Università di Firenze
da :http://www.uccronline.it/2013/10/13/e-buona-leugenetica-contro-i-bambini-down/
da Baltazzar | Ott 9, 2013 | Bioetica, Biopolitica, Flatulenze
Hobart ha fatto obiezione di coscienza e non ha indirizzato la coppia a un altro medico, obbligo previsto per legge, «perché non ne conosco». Ora è sotto indagine
di Benedetta Frigerio da www.tempi.it
Un medico di Melbourne è stato indagato e rischia di non poter più esercitare la sua professione perché ha cercato di impedire un aborto selettivo. Una coppia indiana si è recata dall’australiano Mark Hobart per abortire alla 19esima settimana, solo perché il nascituro era femmina. L’uomo si è rifiutato e «poiché tutti i miei colleghi sono contrari all’aborto selettivo» non ha neanche indicato alla coppia un medico non obiettore. Per questo ad aprile il Medical Board dello Stato di Victoria ha deciso di indagarlo.
«LEGGE ESTREMA». La legge sull’aborto australiana, riformata nel 2008, non permette alle infermiere di rifiutarsi di assistere alle interruzioni di gravidanza e obbliga i medici che vogliono fare obiezione di coscienza a indicare un collega non obiettore. Da quando la nuova legge, definita «estrema», è stata approvata gli aborti “late-term” al Royal Women’s Hospital ad esempio sono aumentati del 600%.
HOBART INDAGATO. Quando Hobart è venuto a sapere che la coppia indiana era riuscita a interrompere la gravidanza con un altro medico, ha denunciato l’aborto selettivo al Medical Board e in un’intervista. Il Medical Board, però, non solo non ha fatto niente, dal momento che la legge permette le interruzioni di gravidanza fino alla 24esima settimana e non vieta formalmente l’aborto selettivo, ma ha aperto un’indagine a carico di Hobart perché non ha «rinviato una donna che voleva un aborto o consigli sull’aborto a un collega non obiettore».
«STO FACENDO LA COSA GIUSTA?». Hobart ora rischia di perdere il lavoro e fa anche fatica a «preparare la sua difesa» dal momento che il Medical Board non ha rivelato chi siano i membri che hanno aperto l’indagine contro di lui. Pressioni di questo tipo, ha detto il dottore, «ti rendono ansioso e ti fanno anche venire il dubbio: “Sto facendo la cosa giusta?”. Ma poi non trovo alcuna ragione per obbedire a questa legge. È semplicemente ingiusta».
Più volte Hobart ha dichiarato che «per la Chiesa cattolica chi aiuta o assiste nella pratica di un aborto commette peccato mortale». Inoltre, ha sempre sostenuto che «la ragione e la logica portano a concludere che l’aborto è un omicidio» e forse anche per queste sue posizioni è stato indagato.
da Baltazzar | Ott 8, 2013 | Bioetica, Scienza
Lo studio più ricco di dati mai condotto (25 analisi da 12 paesi) mostra il legame fra trattamenti di fertilità e probabilità che i concepiti contraggano malattie. E «solleva preoccupazioni» nella comunità scientifica
di Benedetta Frigerio da www.tempi.it
I bambini nati tramite fecondazione in vitro (Fiv) sono tre volte più esposti al rischio di sviluppare tumori. A dirlo è lo studio più ricco di dati mai condotto, pubblicato sulla rivista scientifica Fertility and Sterility.
25 ANALISI DA 12 PAESI. Svolto da un team di ricercatori danesi della Danish Cancer Society di Copenhagen, unisce 25 analisi effettuate nei 12 paesi in cui la Fiv è maggiormente utilizzata. Fra questi ci sono, oltre alla Danimarca, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. «Il risultato della meta-analisi – si legge – mostra il legame fra i trattamenti di fertilità e il cancro dei figli». Che la fecondazione assistita possa generare disordine nell’imprinting genetico del bambino, causando sindromi di Beckwith-Wiedemann, di Angelman, di Prader Willi o altre ancora, è noto da tempo. Ma ora gli scienziati danesi aggiungono numeri preoccupanti: i nati con la Fiv hanno il 65 per cento di probabilità in più di sviluppare la leucemia e l’88 di ammalarsi di cancro al cervello.
IL FUNZIONAMENTO DEI GENI. La causa di questo sarebbe legata al bombardamento ormonale che serve a iperstimolare l’ovulazione, alla modalità di inseminazione, al congelamento degli embrioni, alla condizione in cui questi crescono e al ritardo di impianto degli ovuli fecondati. Tutti questi fattori incidono sul funzionamento dei geni, alterandolo. Mentre l’ovulo viene rimosso dalle ovaie per essere fertilizzato in laboratorio e successivamente tornare nell’utero materno, il dna dell’embrione subisce infatti degli stimoli innaturali che possono causare lo sviluppo di malattie. Stimoli che aumentano con il congelamento, il tempo di inseminazione e gli altri fattori artificiali. L’ipotesi che a contribuire al fenomeno siano anche gli estrogeni somministrati per stimolare le ovaie è dovuta al fatto che un tempo lo stesso trattamento era utilizzato sulle donne incinte per evitare complicazioni e che si smise di prescriverlo proprio perché alzava il rischio di sviluppo del cancro nei bambini.
LA PREOCCUPAZIONE DEI MEDICI. La ricerca danese ha colpito la comunità scientifica perché, oltre ad essere la più ricca di dati, copre un arco di tempo molto prolungato: si va dal 1990 al 2010. Geeta Nargund, direttore della Create Health Clinics, fra le cliniche inglesi che praticano la fecondazione in vitro, ha commentato: «Questo è uno studio interessante che solleva preoccupazioni sui potenziali effetti di lungo periodo per i bambini nati in seguito ai trattamenti di fecondazione».
da Baltazzar | Ott 7, 2013 | Bioetica, Flatulenze, Segni dei tempi
Scoppia la polemica per la nuova trovata della banca americana del seme 23andMe: «A te e al tuo partner la possibilità di scegliere i tratti di vostro figlio»
di Benedetta Frigerio da www.tempi.it
Scegli il bimbo che vuoi e ti darò quello che più si avvicina ai tuoi gusti. Questa la nuova offerta del mercato dei figli. Brevettato dalla banca americana del seme 23andMe, l’algoritmo darà «a te e al tuo partner la possibilità di sapere quali tratti vostro figlio potrebbe ereditare». Almeno così si legge sul sito dell’azienda che martedì scorso ne ha dato notizia.
Si tratta di una selezione del donatore di gameti basata su calcoli genetici. A denunciare «l’operazione particolarmente aberrante» e la sua dubbia scientificità è stata ieri Repubblica. La banca per la fecondazione eterologa sottoporrà diverse domande sulle caratteristiche dei bambini ideali per «procedere con lo sperma o l’ovulo (a seconda del sesso dell’aspirante genitore) che più si avvicina ai propri desideri». Ma l’approvazione da parte dell’ufficio brevetti americano ha suscitato non poche polemiche: «Un editoriale pubblicato su Genetics in Medicine chiede oggi che la concessione dei brevetti negli Usa sia subordinata a un rispetto più rigoroso dei principi morali».
COME L’OROSCOPO. Intervistato da Repubblica il neo rettore dell’università di Tor Vergata a Roma, Giuseppe Novelli, ha parlato di un sistema che sembra predittivo quanto gli oroscopi. Il professore ironizza su quanti ancora credono che si possa creare l’uomo perfetto che non esiste: «Ognuno di noi è pieno di difetti dal punto di vista genetico. E a questo non si può rimediare». Selezionando i figli non si fa che illudersi, viste le 70 mutazioni che qualsiasi embrione porta in sé. Non solo, esistono 4 milioni di differenze in ogni Dna, dunque «non c’è algoritmo che possa cancellare questa diversità».
LA DURA REALTA’. Il genetista Bruno Dallapiccola parla di «troppi medici cattivi maestri…», censurando il mito moderno della perfezione che oltre che scartare i bambini con difetti anche minimi, emargina qualcosa che «fa parte di ciascuno di noi». L’imperfezione appunto. Per il genetista questa è l’origine grave di una mentalità violenta che «diffonde l’idea che attraverso la selezione degli embrioni, o come in questo caso addirittura di algoritmi, si possano creare esseri senza difetti».
La paura alimentata dall’informazione fasulla genera l’angoscia vista negli occhi di due donne incontrate da Dallapiccola «proprio ieri». Incinte, erano terrorizzate per via dell’ecografia: «I bambini presentavano delle piccole informazioni (…) abbiamo parlato e ho spiegato loro la vera entità di quelle imperfezioni. E le due mamme in attesa sono cambiate. Hanno accettato la situazione».
da Baltazzar | Set 19, 2013 | Bioetica, Biopolitica, Cultura e Società
di Benedetta Frigerio da www.tempi.it
Lo ha detto Ann Furedi, direttrice della più grande clinica abortiva della Gran Bretagna, a sostegno della decisione dei giudici che non hanno voluto perseguire due medici che hanno fatto aborti selettivi
«Se le donne non sono felici del sesso dei figli possono abortire (…). O accettiamo fino in fondo ogni scelta della madre, oppure no». È il ragionamento di Ann Furedi (nella foto), la direttrice della più grande clinica abortiva della Gran Bretagna, la British Pregnancy Advisory (Bpas), a margine della decisione del Procuratore generale inglese di non perseguire i due medici che hanno acconsentito alla richiesta di abortire di due donne che non volevano una figlia femmina.
IL POTERE DELLA SCELTA. Il discorso della nota pro choice non fa una grinza: «Non puoi essere pro choice, salvo quando la scelta non ti piace». Ed è la logica della legge che permette l’aborto dei bambini malati, ma anche sani nel caso in cui la loro nascita leda la psiche della madre e della famiglia. Furedi ha continuato spiegando che la legge permette l’aborto nel caso in cui «il sesso del figlio danneggia la salute mentale della donna che non lo accetta», così come lo autorizza se «una donna non vuole il bambino perché povera, abbandonata o ancora non se la sente». Qual è la differenza? Nessuna, in entrambi i casi il figlio è un peso per la madre o la sua famiglia e questo basta ad abortirlo.
200 MILA ABORTI L’ANNO. In Inghilterra si verificano 200 mila aborti all’anno e il colosso Bpas, che ne pratica circa 55 mila (più di un quarto del totale), riceve 26 milioni di sterline dallo Stato, in gran parte pagate dai contribuenti. Il fenomeno dell’interruzione di gravidanza in base al sesso sembra sia in crescita con l’immigrazione asiatica. Non a caso Furedi ha concluso: «È giusto che una donna incinta di una femmina non possa abortire se la sua famiglia la disonorerà, se lei perderà la casa, suo marito e chi ama?». La domanda è retorica, e a ragion veduta, dal momento che la legge prevede che una difficoltà della donna sia sufficiente per giustificare l’eliminazione di una vita.