da Baltazzar | Mar 30, 2012 | Carismi, Chiesa, Testimonianze
I coniugi Macina, con 4 dei dieci figli, operano in diverse diocesi del Paese africano, trovandosi in mezzo ad attacchi cruenti
In Nigeria sperano di rientrare fra qualche mese, in estate: «Lì Dio parla in modo speciale: quando hai paura, ti appoggi davvero a Lui», dice Andrea Macina, 48 anni, da 19 missionario itinerante in varie diocesi nigeriane con la moglie Francesca e quattro dei dieci figli.
«I più grandi vivono a Roma e ci raggiungono quando vogliono, mentre i più piccoli stanno con noi», racconta. Una passione e una vocazione, quella missionaria, che vive nella coppia ancor prima del matrimonio. Lei ex hostess, lui impiegato «con lunghe aspettative» in uno studio notarile, fanno parte di una comunità neocatecumenale, nella parrocchia dei Martiri Canadesi.
Hanno dato la loro disponibilità e sono partiti quando erano sposati da 6 anni, con cinque figli e uno in arrivo. Destinazione: la città di Kaduna, capitale dell’omonimo Stato al centro-nord della Nigeria, con circa 3 milioni di abitanti, dove cattolici e musulmani si equivalgono numericamente. E dove le tensioni non mancano, «ma le religioni vengono strumentalizzate politicamente», osserva Andrea. Lo scorso anno, a causa degli scontri in prossimità delle elezioni presidenziali, «abbiamo vissuto la Pasqua chiusi in casa e la Pentecoste in un luogo protetto, aspettando l’alba per poter celebrare l’Eucaristia». Insieme a loro, anche don Eduardo, cileno, che condivide da due anni la missione in una terra complessa, difficile da decodificare attribuendo le violenze al fondamentalismo islamico.
«L’intolleranza è anzitutto politica, poi entrano in gioco fattori etnici e religiosi, ma non sono scatenanti e, anzi, vengono strumentalizzati. Gli attuali estremisti, ad esempio, uccidono anche musulmani; il loro obiettivo è arrivare al potere, attaccando le istituzioni».
Per il crescendo di violenze, il 7 dicembre la famiglia Macina è rientrata temporaneamente in Italia: «Era difficile fare catechesi, vedersi per le riunioni e per gli incontri con le comunità», confida il capofamiglia, che la prossima settimana festeggerà la laurea in matematica della primogenita Benedetta, 23 anni, mentre a novembre sarà il turno di Miriam, la seconda figlia, che ha scelto di laurearsi in storia. Poi c’è Tommaso, che studia ingegneria, fino all’ultimo arrivato, che frequenta la seconda elementare. «I presidi ci concedono di farli studiare con noi, quando siamo in Nigeria, così quando rientrano nella loro classe si trovano in pari con il programma svolto», assicura il papà.
Che ci tiene a sottolineare: «Non facciamo niente di speciale: l’annuncio che portiamo è infinitamente più grande di noi stessi. Ci muoviamo in diverse diocesi, da Kaduna e Zaria al nord, a Minna, nel centro-nord del Paese, fino ad Awka (nella zona orientale) e a Ekiti, a sud-ovest». Non è la prima volta che i Macina si ritrovano in mezzo ad attacchi cruenti, «nella precarietà più assoluta»: è successo anche nel 2000 e nel 2002. Allora preferiscono rientrare a Roma, riunendo tutta la famiglia. «Non ci andiamo a cercare il martirio», precisa Andrea, che insieme a Francesca e ai suoi figli ha visto frutti evangelici. Qualche esempio? «Il perdono: fratture secolari risanate tra persone di tribù diverse, che stanno da 27 anni nella stessa comunità. E il regredire di una mentalità abortistica: non è facile essere aperti alla vita e fidarsi della Provvidenza in un Paese dove le scuole e la sanità si pagano».
Laura Badaracchi
fonte: www.avvenire.it
da Baltazzar | Mar 27, 2012 | Chiesa, Cultura e Società, Post-it, Testimonianze
Milano, lunedì 26 marzo. Le aule del seminario “Malattia e Cura” della facoltà di Medicina dell’Università Bicocca aprono le porte a un sacerdote per spiegare cosa significhino la malattia e la cura in ambito psichiatrico. Davanti a padre Aldo Trento, missionario in Paraguay, dove il sacerdote ha fondato una clinica per moribondi, anziani, bambini violentati e malati di mente, ci sono diversi studenti e più di una decina di psichiatri, alcuni fra i più famosi d’Italia (Italo Carta, Cesare Cornaggia, Lorenzo Calvi, Leo Nahon, Rodolfo Reichmann, Massimo Clerici). «Conoscendo la sua esperienza – dirà ad un certo punto uno di loro – ho ritrovato un modo di guardare al malessere profondo che è positivo. Padre Trento, ma lei come riesce a stare davanti alla sofferenza altrui in questo modo?».
Racconta il missionario: «Non so nulla delle teorie psichiatriche. Ho passato 15 anni della mia vita a cercare di farmi curare e, mentre qualcuno mi stava a fianco, la Provvidenza faceva crescere la clinica di cui oggi sono il vice-direttore. Perché il direttore è il Santissimo Sacramento». Gli occhi degli studenti strabuzzano e gli sguardi si catalizzano sull’uomo che racconta della sua «depressione, di cui Dio ha usato per salvarmi». Padre Trento narra la vicenda che nel 1968, già prete, lo portò alla follia: «Non capivo più nulla. Solo una cosa sapevo: non potevo fuggire da quello che mi stava accadendo. Non è che se scappi dai problemi, andando nella Terra del Fuoco, le cose si risolvono. Perché il problema è nell’Io. La mia unica risorsa fu l’urlo, la richiesta d’aiuto, la confessione e l’abbraccio fisico, prima di don Luigi Giussani (quando tutti volevano ricoverarmi, mi mandò ad Asunción) poi di un prete che passava le giornate con me, volendomi bene anche quando ero una larva lamentosa».
Per lui è vero quello che diceva don Giussani e che lo psichiatra Eugenio Borgna ripete sempre: «C’è in tutti noi della follia. Chi può dire di essere completamente equilibrato? Forse un morto». Secondo padre Trento l’unico modo per stare davanti al disagio altrui è un metodo «di cui nessuno parla più: l’abbraccio all’altro. Una carne che ti stia a fianco. È stato fissando una presenza fisica che mi amava che, nel tempo, ho iniziato ad accettare me stesso, a guardare a questo bene anziché alla mia pochezza. A ironizzare sul nulla che sono. Oggi tanti si odiano perché non riconoscono questo sguardo misericordioso su di sé».
Per padre Trento il nocciolo della questione non è la malattia,
ma l’uomo: «Io non conosco la patologia, ma so chi è l’uomo e di cosa ha bisogno. Solo per questo posso cercare di curare la malattia». Il sacerdote si ostina a parlare di un “Io” bisognoso di una compagnia che lo abbracci. «Solo questo rende grande la vostra arte medica e la tecnica. Solo se al centro c’è l’uomo guardato così: come un essere in relazione al Padre, che poi è la persona di Cristo. Pensate a chi ha inventato la medicina e le tecniche moderne. Sono i grandi santi come san Camillo de Lellis che, amando il malato come Cristo, rivoluzionò la medicina».
Il punto per il sacerdote è offrire un abbraccio «che risponde a questo grido. Un abbraccio che non è il mio, ma quello di Cristo attraverso di me. Il metodo nella mia clinica è fissare il Santissimo: tutti i medici, gli operatori, io, dobbiamo inginocchiarci davanti al Corpo di Cristo ogni giorno. Così portiamo il suo sguardo ai pazienti e accadono miracoli. Gente che muore cantando, bambine violentate che crescono e diventano buone mamme».
In aula non vola una mosca. Padre Trento racconta dei propri malati, di mille storie di umanità sfibrate e poi redente «perché se non ci fosse l’abbraccio di Dio risorto l’uomo dovrebbe maledire chi lo ha messo al mondo». Si sofferma sulla vicenda di una piccola undicenne, appena arrivata nella sua clinica, violentata per due mesi e poi gettata su una strada: «Stando con me, certo del bene che Cristo vuole a me e a lei, la bimba ha cominciato a volermi al suo fianco, a chiamarmi “papà” e a dirmi che mi vuole bene. I miei pazienti? Alcuni muoiono felici, altri tristi ma sorridenti. C’è chi ringrazia della malattia per aver incontrato Cristo e chi si converte, come accaduto a un musulmano di recente». Padre Trento dice di non avere altro metodo per curare se non quello che cura anche lui. «E allora porto loro il Santissimo e li abbraccio perché loro sono Cristo sofferente nel Getsemani che chiede di non essere abbandonato».
Uno psichiatra chiede come deve essere organizzato il luogo della cura: «Questa è una conseguenza, come la tecnica – risponde il missionario -. La clinica esiste per fare compagnia a Gesù “nevrastenico nel Getsemani”, come scrive Charles Péguy. Allora la pizzeria, allora la ricerca delle cure migliori, allora la confessione. Come i viados che vengono da me e con la confessione si riconoscono amati a tal punto da ritrovare la loro identità nell’amore di Dio».
Quindi viene la tecnica migliore, le medicine più adeguate e tutto il resto: «Perciò ho scelto il lavoro in équipe settimanali dove ciascun operatore (siamo più di 20) deve prima parlare di quello che vive con ogni paziente. Solo poi si fa l’analisi clinica e si pensa al miglior farmaco o modo per curarlo. Anche i soldi arrivano di conseguenza perché chi conosce la nostra clinica si affeziona e dona. E, poi, in modo inaspettato, arrivano sempre anche i farmaci in un paese dove non si trovano quelli basilari».
«Capite quale responsabilità avete voi, dottori? Per curare dovete riunire quello che si è separato». Padre Trento chiude così il suo intervento. Un gruppo di studenti lo segue, pieno di domande, sin fuori dalle porte dell’aula.
Di Benedetta Frigerio da Tempi.it
da Baltazzar | Mar 22, 2012 | Chiesa, Libri, Testimonianze
Card. Tauran: “Modello di dialogo autentico, perché riconosceva la propria fede”
di H. Sergio Mora
ROMA, martedì, 20 marzo 2012 (ZENIT.org) – Il libro Shahbaz Bhatti. Vita e martirio di un cristiano in Pakistan (Paoline), di Roberto Zuccolini e Roberto Pietrolucci è stato presentato venerdì 16 presso la basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina.
La figura che emerge è quella di un ministro pakistano, un cattolico convinto martirizzato per aver desiderato il dialogo con tutte le minoranze del suo Paese, un dialogo autentico e non relativista, perché partiva dalla convinzione della sua fede.
Sono intervenuti Andrea Riccardi, ministro per la Cooperazione Internazionale e l’Integrazione; Paul Bhatti, fratello di Shahbaz e consigliere speciale del primo ministro del Pakistan per gli Affari delle Minoranze; Marco Tarquinio, direttore di Avvenire; il cardinale Jean-Louis Pierre Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso. Hanno presenziato gli autori e il sottosegretario agli esteri Staffan De Mistura, con un pubblico di circa ottocento persone.
La basilica di San Bartolomeo conserva la bibbia di Shahbaz, quella che lo accompagnava sempre e sulla quale aveva meditato poco prima di essere ucciso.
Il cardinale Jean Louis Touran nel suo intervento ha definito Bhatti come “un martire del dialogo”, consapevole che la sua vita di politico poteva costargli cara.
Una persona della quale, anche nelle foto, emerge uno sguardo pieno di forza e, al contempo, di dolcezza. Il porporato ha riferito che l’ultima volta che si incontrarono all’aeroporto di Islamabad, Bhatti dichiarò: “So che mi uccideranno, offro la mia vita per il dialogo interreligioso”.
Sua Eminenza ha ricordato che il cristiano sarà sempre scomodo in un mondo che fa fatica ad accettare lo scandalo della croce, ma i cristiani devono esercitare un potere che è quello del cuore.
E citando l’enciclica Spes Salvi di Benedetto XVI, il cardinale francese ha ricordato che i cristiani continuano a credere nella bontà di Dio e rimangono saldi nella certezza che Dio è Padre di tutti. Ha invitato a cogliere l’impegno per il dialogo che emerge del martirio di Shahbaz “che non è un martirio contro gli altri ma un modo di dare la vita per tutti”.
Dopo la presentazione Zenit ha chiesto a Sua Eminenza se ci sono gli estremi per aprire un processo di beatificazione per Shahbaz: è un compito che spetta alla Chiesa locale, aggiungendo, tuttavia, che Bhatti è “la figura di un vero martire, non c’è dubbio”.
Il vero dialogo ha spiegato il card. Tauran, “per essere autentico e fecondo, le parti devono iniziare per affermare la propria fede, contrariamente è relativismo, perché non si può dialogare su qualunque base”. Infatti “nel dialogo, come prima cosa, le parti devono conoscere il contenuto della propria fede e religione, di modo da poter dialogare con le idee chiare. Lui pregava e conosceva il Catechismo della Chiesa cattolica. Aveva le idee chiare, così il dialogo era fecondo, con lui non c’era relativismo”.
Il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio ha sottolineato che “Shahbaz era un uomo che non aveva mai pensato di andarsene del Pakistan, come succede in altri Paesi dove ci sono minoranze perseguitate”. E ha osservato che “dalla sua figura emerge una grande chiarezza che ci invita a guardare più lontano degli orizzonti un po’ rinchiusi”. Non una certezza improvvisata ma “una scelta fatta da giovanissimo, visto che, a 17 anni aveva già deciso di spendersi per le minoranze e per il dialogo, non come un optional ma come elemento fondamentale”.
Il ministro Andrea Riccardi ha trovato molto opportuna la pubblicazione di un libro in coincidenza del primo anniversario della morte di Shahbaz, “per non dimenticare”, in un tempo dove tutto tende a essere banalizzato.
Il tragico evento di un anno fa ci impone di riflettere sul nostro modo di essere cittadini del mondo e di essere cristiani. Bhatti era un uomo che aveva nella Bibbia una compagna quotidiana della sua vita, una persona che non ha cercato la morte ma non ha indietreggiato davanti al pericolo. Che non ha rinunciato al suo ministero, cioè di essere “ministro” nel senso profondo, vale a dire servitore.
Riccardi ha ricordato che Shabhaz vedeva alle radici del Pakistan una scelta plurale, democratica e laica, non teocratica, né condotta dai militari. Era un uomo che non sentiva il suo destino fuori dal Pakistan, un cristiano orgoglioso di essere pakistano, il che era anche un servizio a favore dei mussulmani in quanto un fattore di pluralismo.
Il ministro ha concluso ricordando che “Shahbaz sapeva di essere sotto il tiro dei talebani e di Al-Qaeda”. “Noi crediamo che esempi come questi debbano parlare di più e aiutarci a capire, perché la storia è piena di sorprese e a volte le storie più difficili emergono di modo inaspettato”. E ha concluso ricordando che “lui era un cattolico convinto che Gesù era la forza della sua vita”.
Il fratello di Shahbaz, Paul Bhatti, ha detto che l’uccisione del suo fratello “ci ha insegnato che la dignità umana non ha prezzo”. Già da piccolo si vedeva in lui uno speciale carisma e una fede forte, ha spiegato, un uomo che non soltanto ha predicato ma anche praticato e che ha sofferto a 18 anni l’accusa di blasfemia.
Paul ha raccontato quanto detto dal primo ministro del Canada: “ho parlato cinque minuti con lui e questo mi ha cambiato tutta la vita”. E ha riportato alcuni piccoli ma importanti particolari su quanto Sahabaz teneva in conto la vita della sua famiglia.
Ha poi spiegato che da giovane suo fratello aveva fondato il Partito di Liberazione Cristiana, ma poi preferì ribattezzarlo come Alleanza di Tutte le Minoranze, “perché la religione non deve dividere ma unire”.
Non a caso ai funerali di suo fratello, Paul ha visto tante persone, molte di queste importanti, piangere per Shahbaz, capendo che si trattava di un uomo di Dio.
Se c’era in lui un forte desiderio di dialogo non mancava nemmeno quello di giustizia: ad esempio, quando venne bruciato un villaggio cristiano, Shahbaz volle che la polizia trovasse subito i responsabili e si sedette sui binari del treno fino a quando non furono trovati.
Paul poi ha confidato che, temendo per la sua vita, qualcuno gli consigliò di rimanere in Italia e di non tornare in Pakistan, ma lui rispose: “E chi mi può garantire che in Italia la morte non esiste?”.
Infine ha ricordato come Shahbaz si è battuto per cambiare la legge contro la blasfemia, ma soprattutto per cambiare una certa mentalità, che trova radici nei problemi di analfabetismo e povertà, dovuti alla situazione di difficoltà che si vive quotidianamente in questi Paesi, poiché, mentre in Italia si soffre una crisi che si traduce in alcune limitazioni, là si tratta di sopravvivenza.
In conclusione Paul Bhatti ha menzionato, tra i frutti concreti del martirio di suo fratello, che ora in Pakistan ci sono 4 parlamentari su 54 eletti tra le minoranze.
Per acquistare la biografia di Shahbaz Bhatti, cliccare al seguente link:
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da Baltazzar | Mar 20, 2012 | Cultura e Società, Famiglia, Testimonianze
La testimonianza di Paolo, papà di dieci figli
di Salvatore Cernuzio
ROMA, lunedì, 19 marzo 2012 (ZENIT.org) – “San Giuseppe è realmente un padre e signore che protegge e accompagna nel cammino terreno coloro che lo venerano, come protesse e accompagnò Gesù che cresceva e diveniva adulto”.
Così scriveva San Josemarìa Escrivà, spiegando come questo “uomo comune, padre di famiglia, lavoratore che si è guadagnato la vita con lo sforzo delle sue mani”, aiuti a conoscere l’Umanità di Cristo, poiché fu eletto da Dio per essere suo padre sulla terra.
San Giuseppe è, quindi, un esempio per tutti i papà che oggi festeggiano il loro giorno: modello di padre ideale che insegna ad accettare questo compito come un’elezione, oltre che una missione.
E in un’epoca in cui la figura del padre è così svalutata tanto da essere ritenuta non necessaria o secondaria e dove la stessa paternità è considerata spesso un “intralcio”, c’è ancora qualcuno che ha voluto concretizzare l’insegnamento di San Giuseppe dicendo incondizionatamente sì alla volontà di Dio.
È la storia di Paolo, 57 anni, sposato da trentaquattro, padre di dieci figli, sei maschi e quattro femmine, che mantiene con un unico stipendio da libero professionista.
Non un eroe, né un santo o un fanatico, ma un uomo qualunque che sperimenta ogni giorno la provvidenza di Dio nella sua famiglia e che in questa intervista a ZENIT ha voluto raccontare la gioia di essere padre, ovvero “immagine terrena della paternità celeste”.
Paolo, dal ’68 ad oggi si è assistito ad un graduale rifiuto di alcuni valori, tra cui, in modo particolare, la figura del padre, inteso come principale riferimento dell’autorità. Come vivi tu oggi questo ruolo, soprattutto essendo il padre di una famiglia così numerosa?
Paolo: La realtà mostra che le persone vengono al mondo, ordinariamente, tramite un padre ed una madre e crescono in maniera armoniosa e soddisfacente – potremmo dire integrata – quanto più queste persone, padre e madre, esercitano il loro ruolo secondo caratteristiche specifiche e soprattutto in comunione fra loro.
Non ho quindi particolari dubbi sulla validità, anzi sull’assoluta necessità di una figura paterna autorevole e riconosciuta. Il fatto che vi siano forti correnti e influenze culturali e sociali contrarie a questo indirizzo lo vedo più come uno stimolo che come un ostacolo. Il problema è piuttosto correggere in se stessi quelle fragilità e debolezze che tendono a rovinare e impedire l’esercizio della paternità…
A cosa ti riferisci?
Paolo: All’incapacità di amare insita nella natura umana, che in certi momenti ti spinge o addirittura ti obbliga a pretendere dai figli vita per te invece di donare la tua per loro.
Dare la vita a volte può voler dire anche dire dei no e sicuramente vuole dire caricarsi di tutti gli oneri materiali, morali e spirituali che il rapporto con un altro da te e dipendente da te comporta. Per rispondere più direttamente alla domanda di prima posso dire che vivo il mio ruolo di padre con timore e tremore, in costante combattimento con la mia inadeguatezza che viene tuttavia sostenuta dalla grazia del matrimonio.
Hai avuto difficoltà nell’esercitare in pieno la tua autorità di genitore?
Paolo: Le difficoltà maggiori non sono venute dall’esterno. A parte momenti particolari, non ho mai desiderato un’accettazione della mia autorità facile dettata magari dall’abitudine, dal conformismo o dalla paura.
Le difficoltà vere sono venute sempre dalla mia inclinazione a trasformare l’autorità in autoritarismo con la conseguente pretesa di obbedienza laddove questa non era causata da una vera autorevolezza.
Inoltre di fronte ai fallimenti che ci sono – un figlio che disobbedisce, o cade in gravi difficoltà, o si ribella o prende una cattiva strada, ecc. – la superbia ti spinge a rinnegare tutto e a rinchiuderti in te stesso, mentre l’umiltà di aiuta ad accettare la correzione del Signore attraverso la storia e a ricominciare ogni giorno da capo.
Avere tanti figli è sicuramente una grazia e un dono del Signore, ma spesso è anche fonte di preoccupazione o problemi, come possono essere quelli economici, del lavoro o addirittura del giudizio degli altri o delle stesse famiglie d’origine. Da questo punto di vista qual è stata la tua esperienza?
Paolo: I problemi, le preoccupazioni non sono mancati in questi anni e continuano a non mancare, insieme a gioie e soddisfazioni molto grandi. La sussistenza materiale ha sicuramente causato angustie, ma ci ha anche permesso di sperimentare la provvidenza in maniera multiforme e in certi casi entusiasmante.
Devo dire poi che la dialettica sia con le famiglie d’origine, sia con l’ambiente circostante, in certi periodi particolarmente serrata, io e mia moglie non l’abbiamo vissuta come un limite, ma come una occasione di approfondimento e di testimonianza della possibilità di una vita più ricca e più piena.
Il dato fondamentale del generare i figli è stato il riconoscimento di una potestà superiore e di un’elezione: Dio è l’autore della vita (eterna), ci ama e ci elegge come suoi collaboratori per trasmettere la vita (eterna) per la nostra felicità, di genitori e figli. Tutto ciò si realizza nel combattimento della fede e nella libertà, nostra e dei figli.
Da chi e come sei stato aiutato in tutto questo e in che modo hai visto concretamente agire il Signore nella tua vita?
Paolo: Sono stato aiutato dalla Chiesa per mezzo di un cammino di iniziazione cristiana vissuto insieme ad una comunità di fratelli.
Il Signore si è manifestato in molti modi, ma soprattutto mi ha permesso di esercitare “indegnamente” il ruolo di Catechista per adulti, regalandomi una predicazione che mi ha mosso a riconoscermi peccatore, facendomi sperimentare il perdono e la misericordia, la riconciliazione e la comunione con Dio, con i fratelli, con mia moglie e con i figli, sempre con itinerari di “morte e resurrezione, desolazione e consolazione”.
Come già accennato anche dal punto di vista materiale, il Signore ha sempre provveduto a lavoro e risorse, educandomi e portandomi alla conoscenza di me stesso per insegnarmi la misericordia e l’amore per gli altri.
Devo dire sinceramente che io ce la metto tutta per rovinare la Sua opera ma, fino ad oggi, ogni volta che mi è stato concesso di confidare in Lui non sono rimasto deluso.
da Baltazzar | Mar 15, 2012 | Cultura e Società, Libri, Post-it, Testimonianze
di Andrea Zambrano
da La Bussola Quotidiana
I produttori che stanno realizzando il film tratto dal suo primo libro, “Bianca come il latte, rossa come il sangue”, di lui dicono che è trasgressivo. «E’ perché ho fatto un libro su un professore che ama il suo lavoro, che parla di dolore e di Dio». Alessandro D’Avenia scava nel significato etimologico delle parole per restituircene la freschezza originaria. Le presentazioni dei suoi libri poi, l’ultimo è “Cose che nessuno sa”, vengono accolte con ovazioni da star, ma il prof-scrittore fa di tutto, e la sfida è titanica, per mantenersi normale: sa infatti che il primo obiettivo è difendere dall’esterno la materia prima dei suoi libri, che sono poi quegli adolescenti invischiati, troppo invischiati con la modernità 2.0, che lo hanno eletto a loro punto di riferimento. A loro parla di padri e talenti, di dimensione verticale da ricercare e della funzione terapeutica di Dostoevsky, di dolori da superare e di abbandoni da colmare. Decisamente trasgressivo.
Eppure tanto normale non deve esserlo questo palermitano destinato a imbracciare il trapano del dentista come il padre, ma oggi in missione in un liceo milanese, se i suoi libri sono dei veri e propri casi letterari: e non solo per i dati di vendita, ma forse proprio per quella caratteristica che lo fa essere l’unico esempio vivente di scrittore che sa mettere d’accordo insegnanti e studenti. Di solito al termine delle sue presentazioni qualche 15enne se ne esce sempre con la domanda delle domande: “Prof, perchè non viene lei a farci lezione”.
Già D’Avenia, a conciliare insegnanti sindacalizzati e demotivati e studenti persi dietro il mare vischioso del web, non ci era ancora riuscito nessuno. Chi sono questi adolescenti 2.0?
Sono adolescenti la cui dimensione verticale va risvegliata. La cultura delle immagini li abitua ad una grande curiosità, ma anche ad una grande passività. Loro se la fanno bastare, ma non è detto che sia il nutrimento giusto.
Dunque, web bandito?
No, il web gli fa avere uno sguardo a 360°, entrano in contatto con tante cose, ma il rischio è che non riescano ad andare a prendere quello che serve. Così come insegnante ti ritrovi a lavorare su quel nucleo interiore da cui loro guardano per renderli più attivi: la svolta del 2.0 è non subire il web, ma sono io che metto e oriento i contenuti.
Tra la nostra generazione, lei ha 34 anni, e quella dei suoi studenti, c’è un salto breve: eppure è già così diverso.
La nostra generazione unisce due mondi e noi non apparteniamo del tutto a nessuno dei due. Ma questo ci aiuta a conciliare la loro dimensione orizzontale con una dimensione verticale. In classe la sfida più difficile è trovare il modo di arrivare a questa modalità di apprendimento: la pagina web è tutta sullo stesso piano orizzontale: proviamo ad entrare dentro e andare in profondità verso l’alto.
Appunto, la dimensione spirituale dei giovani: assente o addormentata?
Direi addormentata, d’altra parte più la addormenti, più cresce la sete. Spesso mi faccio questa domanda: vado in un posto a parlare a mille studenti che si trovano di fronte ad un prof che parla loro di un libro: cioè ciò da cui sono “scappati” alla mattina. I ragazzi hanno le antenne perché a lungo l’orizzontalità annoia. Ogni adolescente va alla ricerca di questo e se i miei libri risvegliano questo non credo che sia solo marketing editoriale.
Ecco, nell’ultimo libro si parla del tema dell’abbandono. Da chi sono abbandonati questi ragazzi?
Hanno bisogno di maestri, oggi c’è una grande nostalgia di padri. La parola padri la possiamo declinare con la p minuscola per arrivare alla P maiuscola. Facciamoci caso: i primi 4 libri dell’Odissea non parlano di Ulisse, ma di Telemaco che va alla ricerca del padre. Ogni uomo fa una ricerca di se stesso e questa incomincia con il confronto con la generazione precedente e serve come termine di paragone, ma se questo padre non c’è, a partire da che cosa scopro la mia originalità? E si badi bene che per originalità non intendo il suo significato corrente…
… cioè eccentricità…
L’originalità ha che fare con le origini. I ragazzi cercano dei padri tra gli adulti per capire da cosa distanziarsi. Ogni figlio lo fa incominciando a chiedere spazi e tempi propri, ma se non hai nessuno a cui chiederli come fai?
E’ perchè oggi i padri sono assenti?
E da qui nasce il senso di abbandono perché non si sa dove andare e la vita non viene percepita come un progetto che ti fa staccare dalla casa. Io me ne andai a 18 anni da casa non perché ero un ribelle, ma perché i miei genitori mi lasciarono libero di prendere il largo dopo questo percorso di distacco.
Dunque se i figli sono dei bamboccioni è colpa dei loro padri?
A volte i figli diventano una soddisfazione per i genitori: o li trattieni troppo a te o li trascuri.
Quali sono i padri che possono dare questa opportunità se i padri biologici non ci riescono?
Non servono surrogati, la stagione delle ideologie è in archivio: servono dei padri veri nonostante la crisi della famiglia: oggi non c’è quantità nei rapporti perché i ritmi di lavoro non lo permettono, ma bisogna che i padri di oggi investano in qualità. Il ragazzo deve guardare quel nucleo attraverso cui osservare il mondo, ma il nucleo deve essere protetto, coltivato e amato. Però in generale è padre chiunque riesca a proteggere questo nucleo.
Lei che padri ha avuto?
Tanti, ad esempio don Giuseppe Puglisi, il parroco di Brancaccio ucciso dalla mafia. Aveva un ruolo di guida, di potere e lo viveva in un’ottica di servizio. Invece oggi si esercita un paternalismo egoista, che altro non è che una forma di controllo. Come a dire: “Ti comprendo, ma ti tengo sotto controllo perché mi servi”.
Chi sono i padri della letteratura da riscoprire?
Sono sempre gli stessi: Omero, Dante, Shakespeare…
I classici.
Li chiamiamo così proprio perché sono dei padri. Una volta instaurai un bel rapporto con un alunno difficile. Gli dissi: “Leggiti Dostoevsky. E’ uno dei miei autori preferiti, poi ne parliamo”.
Come è andata?
Stiamo ancora continuando il discorso. Il fatto è che i padri della letteratura sono tali perché hanno le parole per possederti nel momento in cui tu ti identifichi e dici: “Ecco, questo sono io. Ecco cosa ci stiamo a fare”.
E lei come insegnante è padre?
Cerco di esserlo, ma so che il mio compito è quello di proteggerli dall’esterno e sfidarli dall’interno. I ragazzi vanno protetti a volte da loro stessi perché si sentono incapaci, dunque bisogna promuovere la bellezza che in loro non vedono, ma vanno sfidati nel campo delle qualità: se un alunno può dare 8 devo chiedergli dieci, magari mi dà 9, ma se gli chiedo sette lo sto prendendo in giro.
Un insegnante che ama il proprio lavoro, che non si lamenta dei tagli alla scuola, dei colleghi, dei ragazzi, del magro stipendio. Come si fa?
Sono i ragazzi stessi che non sopportano chi non è professionale. Amare i giovani vuol dire che io sono implicato nella loro vita e questo richiede che ogni giorno mi devo mettere in gioco e continuamente reinventarmi.
Domanda marzulliana, ma decisiva: si sente un insegnante che fa lo scrittore o uno scrittore che insegna?
Un insegnante. La scrittura è arrivata come conseguenza: ho capito a poco a poco che le due cose hanno un’origine comune. Raccontare storie è ciò che faccio anche in classe.
Nel primo libro ha affrontato il tema del dolore. Perché oggi non sappiamo soffrire?
Perché del dolore non si parla. Quando incontrai i produttori del film da cui è tratto il libro mi dissero che avevo scritto un romanzo trasgressivo. Sa perché?
Perché?
Perché sono un insegnante che ama il suo lavoro, che parla di dolore e di Dio.
Bè, allora, trasgressioni ordinarie.
D’altra parte come si fa a non affrontare le ombre della vita quotidiana?
In quanto a Dio, immaginiamo i soliti cliché.
E’ perché c’è una domanda su Dio, che però va tematizzata non solo come domanda sulla fede. I ragazzi mi scrivono perché sono alla ricerca di un senso che abbracci la loro vita. La nostra società spesso ti dà degli strumenti, ma non ti spiega a che cosa servono. Così quando la vita ti presenta il conto non sappiamo perché.
Domanda impertinente. Non teme di essere classificato come il Moccia dei cattolici?
Le etichette sono il privilegio di voi giornalisti perché fa sempre comodo incasellare. Rispedisco al mittente la provocazione. Mi sono ritrovato a scrivere a questo tipo di pubblico perché è questo che vivo adesso, ma questo è un libro trasversale. Se è tra i primi dieci della narrativa italiana non può non parlare che a più generazioni. E poi il libro che sto scrivendo ora parla di 30enni.
D’accordo, ma il mercato editoriale vive di fissazioni. E uno scrittore cattolico rischia sempre l’etichetta…Come ci si attrezza?
Questa cosa del cattolicesimo come colpa mi infastidisce. Cattolico vuol dire universale, dunque se cattolico significa affrontare la realtà a 360° mi sta bene, ma se qualcuno ci vede una lezione di catechismo, bè, semplicemente non è il mio ruolo.
Oggi nel mondo della scuola e dell’impresa sono richieste sempre più competenze tecniche. Il mercato richiede ingegneri, tecnici specializzati, il saper fare. Le discipline umanistiche sono in crisi e un laureato in lettere se non un disoccupato è destinato a diventare un precario a vita. Non è più sufficiente dire: fai quello che ti piace. Che cosa consiglia ai suoi ragazzi?
Il problema è l’emergere del talento in ogni ragazzo. E’ sposare ciò che ti piace fare con ciò che sai fare. Che senso ha incoraggiare una ragazza che vuole ballare, ma che non sa ballare perchè non ha il talento?
Allora, fai quello che serve al mercato?
Se avessi ascoltato tutti quelli che mi consigliavano di fare il dentista o che mi dicevano che facendo l’insegnante sarei morto di fame, sarei stato frustrato e adesso non sarei qui a fare questa intervista. E poi, diciamolo, ha letto “Non per profitto” di Martha Nussbaum?
L’elogio del pensiero umanistico…
La tecnica la usiamo e i ragazzi si sentono nello spazio e nel tempo perché hanno l’I-phone, ma quando si rompe l’I-phone? Se non spieghi il senso per cui lo usi sei fregato.
Allora che cosa risponderà in classe?
Guardate a ciò che sapete fare, a quel talento nascosto che vi fa aprire al mondo con la vostra curiosità.
da Baltazzar | Mar 2, 2012 | Chiesa sofferente, Post-it, Testimonianze
Un anno fa veniva assassinato Shabhaz Bhatti (1968-2011), il ministro per le Minoranze religiose del Pakistan, cristiano, cattolico. Venne abbattuto perché attraverso un incarico di governo interpretato secondo una precisa idea della politica aveva osato affermare pubblicamente che ciò che anima l’uomo, sotto ogni sole e in ogni tempo, è quell’irriducibile libertà di rapportarsi al Signore del tempo e delle cose che ne fa un essere naturalmente e strutturalmente religioso. Molto più, cioè, di una banale “libertà di coscienza”: si tratta infatti di quella libertà suprema e fondamentale che consiste nel corrispondere all’elezione con cui Dio onora ciascuna persona, dapprima chiamandola all’essere, poi accompagnandola provvidentemente per i giorni che gli concede, infine convocandola per il giudizio finale particolare in vista di quello definitivo universale.
Bhatti ha offerto la propria vita in olocausto affinché sia continuamente possibile qui e ora l’epifania di questa totale signoria di Dio sulla storia delle sue creature. Bhatti ha militato e lottato per garantire a ogni persona lo spazio necessario ad affrontare adeguatamente la questione fondamentale dell’esistenza: il rapporto con Dio che dà senso alle cose. Solo l’otium che libera da quelle che san Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) apostrofava come le «maledette occupazioni» quotidiane può infatti garantire l’onestà necessaria ad affrontare bene – direbbe il filosofo Josef Pieper (1904-1997) – la “questione Dio”, e quindi a decidersi per il “Dio giusto”, quello vero, l’unico. La libertà religiosa per tutti, in particolare per le conculcate, vessate e perseguitate minoranze religiose che si trovano a vivere come isole in un oceano ostile, è insomma il prerequisito fondamentale per la missione, per l’evangelizzazione.
Bhatti lo ha capito nel profondo, con il cuore oltre che con la mente, e si è dato tutto per i diritti basilari – quelli religiosi – delle minoranze del suo Pakistan non solo perché così ha sperato di lucrare vantaggi per la minoranza a cui egli stesso apparteneva, ma perché era convinto che la libertà di adorare Dio secondo coscienza fosse – come la tradizione e i dottori del pensiero cristiano hanno sempre affermato, sostenuto e difeso – un bene inalienabile in sé. L’unico che conduce al Dio vero, Gesù Cristo incarnato, morto e risorto.
Bhatti ha dato la vita per cercare di garantire a tutti l’occasione della propria vita: la conversione a Cristo che senza il preambulum fidei della libertà non è concretamente possibile. Chi ha fermato questa sua piccola grande crociata probabilmente aveva capito, se non altro intuito, e per questo ha odiato. Ce lo dice scopertamente la Chiesa Cattolica del Pakistan, che infatti da mesi ha presentato al Santo Padre la richiesta di proclamare martire Shabhaz, onorandolo come «patrono della libertà religiosa». Un titolo sublime, che non è certo una versione riveduta e corretta della vera fede ai tempi dell’ecumenismo, ma l’intuizione più profondamente adatta alle cogenze dell’ora presente, come sempre ha fatto nella storia la Chiesa madre e maestra, esperta di umanità oltre che – il va sans dire – di santità.
Accade però sempre nella storia del popolo cristiano che la Chiesa riconosca e benedica esperienze in atto, gesti vissuti e pratiche condivise, agendo all’esatto contrario dell’illuminismo che prima sogna l’inesistente e poi cerca di imporlo alla realtà. Affinché Shabhaz Bhatti venga riconosciuto dalla Cattedra di Pietro «martire e patrono della libertà religiosa» bisogna che il popolo cristiano cominci da sé a farlo, a venerarlo, a pregarlo. La Chiesa Cattolica che è in Pakistan ha già cominciato, a noi non resta che seguirla. Perché la cosa più stupefacente dell’intero martirio di Bhatti è che noi che ancora non godiamo della visione beatifica del Signore di tutto abbiamo però da un anno esatto a questa parte un protettore celeste in più, un patrono che ci guida, ci conduce e ci ispira nella nostra battaglia quotidiana, sia essa culturale, giornalistica, o altro, per l’affermazione della libertà religiosa che è conditio sine qua non dell’evangelizzazione, della conversione e dell’adveniat regnum tuum.
Dal giorno in cui Bhatti ha offerto la propria vita per questa verità, l’esigenza di una libertà autentica per tutti, la necessità che siano garantiti i diritti di Dio che fondano quelli dell’uomo, la possibilità di esprimere la propria fede in piena coscienza e la Signoria dolce di Cristo sulla storia non hanno infatti smesso di avere nemici feroci, mitra in mano o giacca e cravatta indosso. La lotta contro la cristianofobia e per la libertà religiosa nel mondo resta dunque la battaglia campale del nostro tempo. L’esempio del martire Shabhaz Bhatti ci insegna come combatterla attraverso una frase del suo testamento spirituale che potrebbe essere la preghiera da rivolgergli: «Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire».
di Marco Respinti da La Bussola Quotidiana