Il movimento unitario ha scristianizzato l’Italia

di Massimo Viglione *
Tratto da Il Giornale del 31 marzo 2011

Mario Cervi cita in maniera critica il mio libro – appena edito dalle Edizioni Ares – 1861. Le due Italie. Identità, unificazione, guerra civile, con accuse di genere («papalinismo», neoborbonismo, antimassonismo, antiunitarismo) che potrebbero però in realtà essere affibbiate a decine di altri studi – scientifici o meno – senza alcuna distinzione di sorta.

Intendo dire che, sebbene l’autore riporti una mia citazione, è assente qualsiasi specifico approfondimento di quanto io narro e valuto in 420 pagine di studio riportando decine e decine di indicazioni bibliografiche.

In realtà in questo studio io – lungi dal mettere minimamente in dubbio il valore odierno dell’unità nazionale e soprattutto il mio profondo e vivo amore verso l’Italia e la mia adesione completa e decisiva alla nostra 27 volte secolare civiltà – approfondisco tutte le principali tematiche e problematiche del movimento unitarista, dalle origini dei decenni del dispotismo illuminato fino al disastro della Seconda Guerra Mondiale.

È curioso notare che a distanza di 150 anni dall’unificazione, non si abbia ancora il diritto a essere considerati storici seri solo perché si ricorda agli italiani che vi furono 300. 000 loro antenati che presero le armi contro Napoleone e la Rivoluzione Francese, che decine di migliaia di italiani dopo il 1860 presero poi le armi nel Meridione perché non acconsenzienti con la forzata e fulminea piemontesizzazione e che milioni di loro furono poi costretti a emigrare (rendendo ricca e potente la criminalità organizzata), che il movimento unitario condusse di fatto un processo di scristianizzazione della Nuova Italia per decenni, che il Regno delle Due Sicilie non era esattamente una fucina di mali e barbarie, che non vi fu alcuna vera partecipazione popolare al movimento risorgimentale (Gramsci lo disse 70 anni fa e nessuno storico di quelli seri cui fa riferimento Cervi ha mai potuto negare ciò), che Garibaldi, Mazzini, il Re e Cavour non furono esattamente degli eroi senza macchia che si immolarono per l’ideale, che l’accentramento amministrativo imposto all’Italia appena fatta è stato una rovina per l’intera nazione, che vi furono ben tre guerre civili fra il 1796 e il 1945 (per non parlare del terrorismo), che ancora oggi siamo un popolo diviso e astioso e fazioso.

È davvero così riprovevole raccontare a tutti tali ormai acquisiti assunti storici e rifletterci sopra al fine di denunciare le cause remote dei mali odierni che attanagliano il nostro amato Paese? Ma gli italiani ormai iniziano sempre più a capire che il valore dell’unità nazionale e l’amore sincero per l’Italia, quella vera, sono disgiunti dalla passiva adesione a una «vulgata» mitologica dai toni sempre più mesti e lontani. I tricolori che abbiamo visto in queste settimane sventolare in molte piazze d’Italia non parlavano di Garibaldi e Mazzini, esprimevano l’amore e l’orgoglio di un popolo per la propria millenaria civiltà. Uniti, sì, da 150 anni, ma italiani da sempre.

* docente di Storia moderna e Storia del Risorgimento presso l’Università europea di Roma

LA LEGA INVECE DI FESTEGGIRE PREFERISCE STUDIARE L'UNITA' D'ITALIA E IL RISORGIMENTO.

Capita spesso sulla stampa descrivere il partito di Umberto Bossi come un ricettacolo di rozzi ignoranti, volgari, scurrili, sicuramente gente agli antipodi della Cultura. Una sorta di leggenda metropolitana smentita da quello che ho visto e ascoltato il 12 marzo, al Pirellone nell’Auditorium Gaber di Milano. L’onorevole piacentino Massimo Polledri della Lega Nord alla Camera dei Deputati ha organizzato in collaborazione con il quotidiano La Padania e Alleanza Cattolica, un interessantissimo convegno all’insegna della cultura e soprattutto dello studio della Storia. Il tema: “Quale identità, quale Stato dal Risorgimento ad oggi: le spine e le speranze. La Questione Cattolica”. C’era presente gran parte del Gruppo Consiliare della Lega Nord della Regione Lombardia, con in testa il presidente del Consiglio regionale Davide Boni.

All’insegna del motto senza Verità non si può festeggiare ha aperto i lavori l’onorevole Marco Reguzzoni, presentando la manifestazione, ha sottolineato che la Lega rispetta e fa sua la storia del nostro Paese che è fortemente legata alla cristianità occidentale e alle radici greco-romane, sono lontani i tempi quando il Carroccio inseguiva il dio Po, con aspetti fortemente pagani. E proprio questo passato leghista è stato ripreso dai due giornalisti del Corriere della Sera, presenti in sala: Luciano Fontana, moderatore del convegno e Massimo Franco, autore di C’era una volta un Vaticano che ha presentato nella sua relazione.

Massimo Franco si è interrogato perché la Chiesa sta perdendo peso in Occidente, da avamposto morale contro il comunismo, si è ridotta ad essere ininfluente dopo la guerra fredda. Il libro fa la storia di una sfida, di una crisi epocale. Fotografa le difficoltà di un cattolicesimo, quello Occidentale, che era maggioritario, che aveva una certa superiorità morale e che ora è crollato con gli scandali della pedofilia, soprattutto con l’increscioso episodio del caso dei prelati belgi “prigionieri” dei magistrati che indagavano su presunti abusi sessuali. Franco nel suo intervento ha discusso sulla  forte riduzione dell’influenza dei vescovi e del papa sull’elettorato cattolico. Infine ha posto la sua attenzione sul nuovo ministero che la Chiesa di Benedetto XVI  ha istituito: la rievangelizzazione dell’Europa, proprio per riconquistare il vecchio continente.

Al convegno è intervenuto Marco Invernizzi, dirigente di Alleanza Cattolica in veste di presidente Istituto Storico per l’Insorgenza e l’Identità Nazionale. Infatti Invernizzi inizia la sua relazione di alto profilo storico, ricordando le rivolte popolari (le insorgenze) che si sono manifestate in tutta la nostra penisola dopo il 1792 contro gli eserciti invasori francesi guidati da Napoleone. Parla di un “lungo Risorgimento” che comincia proprio da questo momento. Spesso noi cerchiamo motivi di identità a sostegno di un patriottismo che stenta a crescere e ci si dimentica completamente, nelle scuole come nella letteratura, di questa lunga guerra combattuta sulle montagne del Piemonte e della Liguria, che vide tanti italiani morire per difendere il Regno di Sardegna, che tanta parte avrebbe avuto nel fare l’Italia, dall’esercito della Francia rivoluzionaria.

Questi insorgenti, sono uomini e donne che scelgono di combattere contro lo straniero non per le sue diverse origini, ma per la sua visione del mondo incompatibile con quella praticata nei Paesi d’Italia dove s’insedieranno nel ventennio napoleonico, fino al Congresso di Vienna, prima le repubbliche giacobine nel Triennio 1796-1799, poi il regime propriamente napoleonico, fino alla sconfitta del 1814. Per Invernizzi proprio ora comincia la Questione Cattolica, con una caratteristica esplicitamente culturale, nel senso che questi strani italiani che avevano convissuto con spagnoli e austriaci, insorgono invece di fronte ai nuovi padroni che cercano di cambiare il loro modo di vivere, mettendo in discussione i fondamenti della vita civile, introducendo la leva di massa, aumentando le imposte, vietando le processioni e il suono delle campane, e spesso chiudendo le chiese come ancora oggi si può facilmente notare leggendo le storie di molte chiese fra le innumerevoli che coprono la penisola.

Con la fine del Sacro Romano Impero, penetra in Europa l’ideologia nazionalista, che sarà protagonista per tutto l’800. Nascono le società segrete che diffondono ideologie sovversive, un cattolico controrivoluzionario come Joseph de Maistre scrive un libro sul Papa che verrà adottato in molti seminari “papisti” e in qualche modo intuisce che la battaglia culturale in corso, oltre che contro le società segrete e le idee esplicitamente sovversive, si deve combattere anche all’interno dei governi della Restaurazione, dove appunto permangono tante idee rivoluzionarie sia di di impostazione illuministica sia di impostazione romantica.

Nel mondo cattolico controrivoluzionario si diffonde l’idea che bisogna mobilitarsi anche attraverso i nuovi strumenti come la stampa, sorgono giornali, associazioni controrivoluzionarie come l’Amicizia cristiana (Amicizia cattolica dopo il 1815) del ven. Pio Bruno Lanteri, che viene sacrificata, cioè condannata all’estinzione, nel 1827, dallo stesso governo piemontese. Questa cultura controrivoluzionaria non riesce a emergere, sostiene Invernizzi, nonostante importanti figure di intellettuali e uomini di governo, fra cui Clemente Solaro della Margarita, mons. Baraldi, Monaldo Leopardi, padre Ventura, il già ricordato principe di Canosa. Insomma tira una brutta aria per i cattolici militanti, se posso esprimermi in questo modo. Qualcuno, come il beato Antonio Rosmini, tenta una strada diversa, dopo avere frequentato e condiviso gli stessi ideali delle Amicizie. E così propone di seguire il movimento nazionale dell’indipendenza e della libertà, si rafforza la sua idea soprattutto dopo l’elezione di Pio IX.  Nasce così il tentativo neo-guelfo, come è stato successivamente ricordato dagli storici, di mettere i cattolici e il Papa alla guida del processo di unificazione della Penisola, in una prospettiva federalista che avrebbe rispettato le peculiarità dei popoli ma anche le differenze fra gli Stati italiani.

Ben presto, l’illusione svanisce, quando il Pontefice rifiuta il proprio assenso a che le truppe pontificie entrino in guerra contro l’Austria. Immediatamente le grida “viva Pio IX” che tutti i settari avevano urlato per due anni, si rivoltano contro Papa Mastai che diventa, e con lui la Chiesa, il principale nemico dell’unificazione.

Successivamente il papa spiegherà che l’ostilità della Santa Sede all’unificazione non è di principio, ma nel modo in cui si sta attuando. Ricorderà pure che un potere temporale è necessario perché la Chiesa possa svolgere liberamente la sua missione spirituale, ma che l’entità del territorio è discutibile, così come si comprenderà dopo il Trattato e il Concordato con lo Stato italiano del 1929.

Lo storico cattolico milanese conclude ricordando che i festeggiamenti per il 150 dell’Unità d’Italia, devono essere l’occasione per riflettere su che “cosa è l’Italia” e su “chi sono gli italiani”, cioè di favorire un esame di coscienza collettivo circa l’identità della nostra nazione. Ricordo anche che nel 1861 non nasce l’Italia, che esisteva almeno da un millennio, ma lo Stato nazionale, cioè un nuovo vestito per un corpo antico.

Oggi abbiamo alle spalle 150 anni di storia unitaria, raggiunta attraverso strappi e violenze, ma un altro strappo e nuove violenze servirebbero soltanto a esasperare le ferite. L’Unità va mantenuta – ha affermato Invernizzi – Il Risorgimento è un’altra cosa. Esso è il modo in cui questa unificazione è avvenuta, cioè riguarda le finalità ideologiche e le modalità politiche e militari con cui l’Italia è diventata uno Stato nazionale. Se l’unità è una realtà che sarebbe “ideologico” e imprudente disprezzare, sul Risorgimento bisogna dare un giudizio. Esso ha provocato alcune ferite profonde nel corpo sociale e queste ferite vanno conosciute, giudicate, per poter essere medicate e accettate. Il Risorgimento – afferma Invernizzi – ha provocato almeno tre ferite che hanno determinato a loro volta tre questioni, ancora aperte: la “questione cattolica”, la “questione federalista”, la “questione meridionale”. La prima è avvenuta in seguito al fatto che dopo il 1848 chi ha voluto unificare l’Italia lo ha fatto consapevolmente contro le sue radici cristiane. La seconda ferita riguarda la forma dello Stato, essendo stato scelto un modello centralista invece di un abito federalista, così palesemente più adatto alle caratteristiche dell’Italia preunitaria. La terza questione nasce dal fatto che fra il 1860 e il 1870 c’è stata in Meridione una guerra civile che ha provocato circa 100 mila morti, in seguito all’occupazione dell’esercito italiano.

Queste sono tre ferite che continuano a sanguinare, in modi diversi, nei 150 anni trascorsi, e soprattutto sono state affrontate con preclusioni ideologiche, anche se qualcosa è certamente migliorato negli ultimi vent’anni, dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989.

Ha concluso i lavori del Convegno, l’onorevole Massimo Polledri che cita il titolo del Corriere della Sera, a firma del direttore  Paolo Mieli, in un fondo dell’8 marzo: Questione cattolica e Sud. Le ferite del Risorgimento. Così nacque uno Stato lontano dalle masse popolari. Frasi che fanno rima con il titolo dei nostri lavori d’oggi ha detto Polledri. Abbiamo sempre più bisogno di radici condivise, di conoscere la storia, di apprezzare la verità, ma la Storia come dice Paolo Mieli nel suo intervento non viene spiegata ai nostri studenti che sono stati costretti a frequentare una scuola dell’oblio.

Polledri è convinto che La Lega è cambiata nel tempo, passando da una concezione puramente etnica al tema centrale della questione antropologica, che è poi l’argomento al centro del dibattito europeo”. Il nostro Paese ha ancora bisogno del collante culturale e spirituale rappresentato dalla Chiesa Cattolica, che non è affatto un indice di ritardo come pensa ancora il prof. Ernesto Galli della Loggia. Oggi bisogna superare per Polledri quel contrasto tra la nazione culturale italiana, tutta permeata di Cattolicesimo e la nazione politica, questa è la spina più grande alla nostra identità.

All’interessante incontro organizzato dalla Lega ha partecipato un numeroso pubblico, da segnalare le interessanti domande poste ai vari relatori.

 

DOMENICO BONVEGNA

domenicobonvegna@alice.it

 

Unità d’Italia. Non basta festeggiare bisogna studiare (parte 2)

di Domenico Bonvegna

Qualcuno mi ha suggerito che se si studiasse veramente come è stata fatta l’Unità d’Italia e il cosiddetto Risorgimento, probabilmente la voglia di festeggiare verrebbe meno. Comunque andiamo avanti con la lettura del testo di Francesco Pappalardo, L’Unità d’Italia e il Risorgimento, D’Ettoris Editori (pag. 76, euro 7,90), nel 3 capitolo, affronta il tema del Federalismo e del Neoguelfismo.

Il dibattito tra i cosiddetti “democratici”che aspiravano a soluzioni radicali, anche con metodi violenti, e il movimento liberale moderato. “L’orientamento predominante nella prima metà del secolo XIX, anche fra i democratici, è dunque quello di adottare – come nell’area germanica – una struttura confederale, cioè un ‘abito politico’ ritagliato su misura e adeguato alla nuova situazione, più realistico rispetto alla prospettiva unitaria e comunque da realizzare gradualmente, salvaguardando l’autonomia del regno delle Due Sicilie, di cui nessuno quasi fino all’ultimo immagina la dissoluzione, e dello Stato Pontificio, in modo di garantire la necessaria libertà d’azione al Papa”.

L’autore non può non menzionare Vincenzo Gioberti, poi Antonio Rosmini con il saggio Sull’Unità d’Italia, infine Carlo Cattaneo, più o meno federalisti. I loro progetti spariscono completamente, viene adottato per l’Italia non un ordinamento federale, ma quello dello Stato rivoluzionario francese, con una centralizzazione e un’omogeneizzazione delle istituzioni. Da questo momento nasce la questione istituzionale. Intanto prendono corpo le rivolte del cosiddetto 48, un’esplosione che poi si è rivelata prematura per i rivoluzionari, visti i fallimenti. A questo punto i cospiratori puntano alla rivoluzione in un solo paese, cioè nel Regno di Sardegna, diventato punto di riferimento del movimento liberale.

Entra in scena Camillo Benso conte di Cavour, lontano dalla tradizione culturale italiana, che si mette al servizio dell’unificazione politica italiana e delle ambizioni di Casa Savoia. Per fare questo spalanca le porte del regno ai dissidenti politici di tutto il paese, tecnici, militari, intellettuali, che formano i quadri della nuova Italia e preparano una vera e propria Rivoluzione culturale all’insegna del laicismo e dell’anticlericalismo.

Ma soprattutto con Cavour inizia una campagna di persecuzione contro la Chiesa cattolica con l’approvazione delle leggi Siccardi nel 1850, con l’arresto dell’arcivescovo di Torino, mons. Luigi Fransoni, di Sassari, mons. Alessandro Domenico Varesino e l’espulsione dell’arcivescovo di Cagliari, mons. Giovanni Marongiu Nurra. Nel 1857 addirittura vengono annullate le elezioni perché i cattolici raddoppiano i consensi.

Intanto Cavour riesce a tessere una serie di rapporti soprattutto con l’Inghilterra, per avere poi il suo appoggio nell’eventuale conquista-annessione dei vari stati della penisola. Da questo momento inizia pure, la campagna denigratoria nei confronti dell’Austria. Il totale fallimento dell’avventura dei trecento rivoluzionari di Carlo Pisacane che intendevano far sollevare il popolo meridionale contro i borbonici, convince molti a convergere sulla Società Nazionale, fondata da Giuseppe La Farina, ora i rivoluzionari capiscono che hanno bisogno della monarchia sabauda.

Nel 1860 Garibaldi viene scelto come l’uomo adatto per guidare la spedizione per la conquista del regno delle Due Sicilie, si parte dalla Sicilia, il punto debole del Regno. Ci pensa a tutto la Società delle Nazioni, armi, le navi, ma anche la massoneria del Grande oriente d’Italia fa la sua parte. I mille non sono degli sprovveduti patrioti per Pappalardo, ma rappresentano il nerbo del volontariato garibaldino, cioè esperti veterani, vero e proprio esercito di quadri pronti ad assumere il comando di reparti sempre più consistenti e destinati, in molti, a veloci carriere nell’esercito sardo.

Da Marsala fino a Napoli, Garibaldi e le sue camice rosse vincono tutte le battaglie, quasi senza combattere, grazie agli ufficiali borbonici che tra tradimenti e inettitudini non hanno fatto nulla per bloccare gli eserciti rivoluzionari. Soltanto a Gaeta l’esercito borbonico riesce ad esprimere il proprio valore, Francesco II e sua moglie Maria Sofia di Wittelsbach, resistono fino al 13 febbraio ai continui bombardamenti della flotta piemontese.

Negli anni successivi al 1860 scoppia in tutto il meridione la rivolta antiunitaria del popolo che si manifesta in forme molto articolate, dalla opposizione parlamentare, all’astensionismo elettorale, al rifiuto della coscrizione obbligatoria, fino alla resistenza armata, che coinvolge tutta la società del tempo. E’ una guerra spietata che insanguinerà per anni il Mezzogiorno, fino a diventare una vera e propria guerra civile, chiamata impropriamente brigantaggio. Siamo alla questione meridionale. E poi nell’ultimo capitolo, la questione romana, che non può essere risolta per via diplomatica, nemmeno per insurrezione popolare, il popolo romano non è mai insorto contro il Papa; l’unica via è quella delle armi, attraverso la breccia di Porta Pia, Roma viene invasa dall’esercito sabaudo il Pontefice, Pio IX, aveva ordinato agli zuavi una simbolica resistenza, per dimostrare al mondo che non rinuncia ai suoi diritti.

Da questo momento la questione cattolica: la Chiesa e i cattolici subiscono una lunga emarginazione dalla vita politica, tra le varie conseguenze, Pappalardo sottolinea quella di una mancanza di una classe politica integralmente cattolica.

Il testo della D’Ettoris Editori, adotta una tesi fondamentale: distingue l’ Unità dal Risorgimento. La prima, un fenomeno di natura politica, il secondo di natura culturale. E su questo aspetto che Pappalardo pone l’attenzione: il Risorgimento, è stato una vera e propria Rivoluzione culturale, che ha accompagnato e seguito il processo di unificazione con l’obiettivo di ‘modernizzare’il Paese, cioè di costruire una nazione nuova caratterizzata da una nuova cultura. In pratica si intendeva snaturare l’identità cristiana del Paese.

Concludiamo con il commento che fa sull’unità dell’Italia, lo scrittore russo Fedor Michajlovic Dostoevskij, dopo aver affermato che i popoli italiani vissuti in questi duemila anni erano consapevoli di essere portatori di un’idea universale, tutto intorno dall’arte alla scienza, avevano un significato mondiale. Ammesso che questa idea mondiale, si sia esaurita o logorata, “ma che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? E’ sorto un piccolo regno di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, (…) un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del su essere un regno di second’ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour!”.

Domenico Bonvegna
domenicobonvegna@alice.it

Unità d'Italia. Non basta festeggiare bisogna studiare (parte 2)

di Domenico Bonvegna

Qualcuno mi ha suggerito che se si studiasse veramente come è stata fatta l’Unità d’Italia e il cosiddetto Risorgimento, probabilmente la voglia di festeggiare verrebbe meno. Comunque andiamo avanti con la lettura del testo di Francesco Pappalardo, L’Unità d’Italia e il Risorgimento, D’Ettoris Editori (pag. 76, euro 7,90), nel 3 capitolo, affronta il tema del Federalismo e del Neoguelfismo.

Il dibattito tra i cosiddetti “democratici”che aspiravano a soluzioni radicali, anche con metodi violenti, e il movimento liberale moderato. “L’orientamento predominante nella prima metà del secolo XIX, anche fra i democratici, è dunque quello di adottare – come nell’area germanica – una struttura confederale, cioè un ‘abito politico’ ritagliato su misura e adeguato alla nuova situazione, più realistico rispetto alla prospettiva unitaria e comunque da realizzare gradualmente, salvaguardando l’autonomia del regno delle Due Sicilie, di cui nessuno quasi fino all’ultimo immagina la dissoluzione, e dello Stato Pontificio, in modo di garantire la necessaria libertà d’azione al Papa”.

L’autore non può non menzionare Vincenzo Gioberti, poi Antonio Rosmini con il saggio Sull’Unità d’Italia, infine Carlo Cattaneo, più o meno federalisti. I loro progetti spariscono completamente, viene adottato per l’Italia non un ordinamento federale, ma quello dello Stato rivoluzionario francese, con una centralizzazione e un’omogeneizzazione delle istituzioni. Da questo momento nasce la questione istituzionale. Intanto prendono corpo le rivolte del cosiddetto 48, un’esplosione che poi si è rivelata prematura per i rivoluzionari, visti i fallimenti. A questo punto i cospiratori puntano alla rivoluzione in un solo paese, cioè nel Regno di Sardegna, diventato punto di riferimento del movimento liberale.

Entra in scena Camillo Benso conte di Cavour, lontano dalla tradizione culturale italiana, che si mette al servizio dell’unificazione politica italiana e delle ambizioni di Casa Savoia. Per fare questo spalanca le porte del regno ai dissidenti politici di tutto il paese, tecnici, militari, intellettuali, che formano i quadri della nuova Italia e preparano una vera e propria Rivoluzione culturale all’insegna del laicismo e dell’anticlericalismo.

Ma soprattutto con Cavour inizia una campagna di persecuzione contro la Chiesa cattolica con l’approvazione delle leggi Siccardi nel 1850, con l’arresto dell’arcivescovo di Torino, mons. Luigi Fransoni, di Sassari, mons. Alessandro Domenico Varesino e l’espulsione dell’arcivescovo di Cagliari, mons. Giovanni Marongiu Nurra. Nel 1857 addirittura vengono annullate le elezioni perché i cattolici raddoppiano i consensi.

Intanto Cavour riesce a tessere una serie di rapporti soprattutto con l’Inghilterra, per avere poi il suo appoggio nell’eventuale conquista-annessione dei vari stati della penisola. Da questo momento inizia pure, la campagna denigratoria nei confronti dell’Austria. Il totale fallimento dell’avventura dei trecento rivoluzionari di Carlo Pisacane che intendevano far sollevare il popolo meridionale contro i borbonici, convince molti a convergere sulla Società Nazionale, fondata da Giuseppe La Farina, ora i rivoluzionari capiscono che hanno bisogno della monarchia sabauda.

Nel 1860 Garibaldi viene scelto come l’uomo adatto per guidare la spedizione per la conquista del regno delle Due Sicilie, si parte dalla Sicilia, il punto debole del Regno. Ci pensa a tutto la Società delle Nazioni, armi, le navi, ma anche la massoneria del Grande oriente d’Italia fa la sua parte. I mille non sono degli sprovveduti patrioti per Pappalardo, ma rappresentano il nerbo del volontariato garibaldino, cioè esperti veterani, vero e proprio esercito di quadri pronti ad assumere il comando di reparti sempre più consistenti e destinati, in molti, a veloci carriere nell’esercito sardo.

Da Marsala fino a Napoli, Garibaldi e le sue camice rosse vincono tutte le battaglie, quasi senza combattere, grazie agli ufficiali borbonici che tra tradimenti e inettitudini non hanno fatto nulla per bloccare gli eserciti rivoluzionari. Soltanto a Gaeta l’esercito borbonico riesce ad esprimere il proprio valore, Francesco II e sua moglie Maria Sofia di Wittelsbach, resistono fino al 13 febbraio ai continui bombardamenti della flotta piemontese.

Negli anni successivi al 1860 scoppia in tutto il meridione la rivolta antiunitaria del popolo che si manifesta in forme molto articolate, dalla opposizione parlamentare, all’astensionismo elettorale, al rifiuto della coscrizione obbligatoria, fino alla resistenza armata, che coinvolge tutta la società del tempo. E’ una guerra spietata che insanguinerà per anni il Mezzogiorno, fino a diventare una vera e propria guerra civile, chiamata impropriamente brigantaggio. Siamo alla questione meridionale. E poi nell’ultimo capitolo, la questione romana, che non può essere risolta per via diplomatica, nemmeno per insurrezione popolare, il popolo romano non è mai insorto contro il Papa; l’unica via è quella delle armi, attraverso la breccia di Porta Pia, Roma viene invasa dall’esercito sabaudo il Pontefice, Pio IX, aveva ordinato agli zuavi una simbolica resistenza, per dimostrare al mondo che non rinuncia ai suoi diritti.

Da questo momento la questione cattolica: la Chiesa e i cattolici subiscono una lunga emarginazione dalla vita politica, tra le varie conseguenze, Pappalardo sottolinea quella di una mancanza di una classe politica integralmente cattolica.

Il testo della D’Ettoris Editori, adotta una tesi fondamentale: distingue l’ Unità dal Risorgimento. La prima, un fenomeno di natura politica, il secondo di natura culturale. E su questo aspetto che Pappalardo pone l’attenzione: il Risorgimento, è stato una vera e propria Rivoluzione culturale, che ha accompagnato e seguito il processo di unificazione con l’obiettivo di ‘modernizzare’il Paese, cioè di costruire una nazione nuova caratterizzata da una nuova cultura. In pratica si intendeva snaturare l’identità cristiana del Paese.

Concludiamo con il commento che fa sull’unità dell’Italia, lo scrittore russo Fedor Michajlovic Dostoevskij, dopo aver affermato che i popoli italiani vissuti in questi duemila anni erano consapevoli di essere portatori di un’idea universale, tutto intorno dall’arte alla scienza, avevano un significato mondiale. Ammesso che questa idea mondiale, si sia esaurita o logorata, “ma che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? E’ sorto un piccolo regno di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, (…) un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del su essere un regno di second’ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour!”.

Domenico Bonvegna
domenicobonvegna@alice.it

Unita’ d’Italia. Non basta festeggiare bisogna studiare (parte 1)

di Domenico Bonvegna

Continuano i festeggiamenti per ricordare i 150 anni dell’unità d’Italia, ma pochi sono i momenti di studio, di conoscenza, di quei fatti, di quegli avvenimenti che hanno caratterizzato gli anni del cosiddetto risorgimento.

Pochi i convegni di studio, interessante quello che ha organizzato Alleanza Cattolica il 12 febbraio scorso presso il Campidoglio a Roma, tra l’altro sarà replicato il 19 marzo prossimo a Milano. Hanno partecipato diversi studiosi al convegno, tra cui Francesco Pappalardo, che è autore di un piccolo e agile saggio, L’Unità d’Italia e il Risorgimento, d’Ettoris Editori di Crotone (pag 76, euro 7, 90). (www. dettoriseditori. it)

Questo piccolo pamphlet che ho appena letto è un vero compendio di studio, abbastanza sintetico, magari utilizzabile a scuola, docenti permettendo. Otto capitoli, dalla Nazione Italia, fino alla Questione Romana.

Pappalardo distingue la nazione italiana dallo Stato, che è nato nel 1861. La nazione italiana esisteva già da un millennio, come “unità culturale, pur nella diversità delle sue componenti, e si è formata, all’interno della Cristianità occidentale, nei secoli dell’Alto Medioevo, sulla base di una preziosa eredità romana, a sua volta maturata in un complesso mosaico di lingue e di stirpi. In pratica scrive Pappalardo, l’Italia è stata un ‘campionario’ di Stati, da quello municipale al grande regno, dal principato regionale alla repubblica aristocratica, dalla monarchia elettiva della Stato Pontificio alle repubbliche senza territorio ma con vasti domini marittimi”.

Sono formazioni politiche, durate per secoli, ben settecento anni i Regni di Napoli e di Sicilia. Un pluralismo politico, che ha reso possibile la fioritura di innumerevoli centri di cultura e di prosperità. “Nonostante l’assenza di uno Stato unitario, gli italiani si sono sempre sentiti tali, avendo la percezione di essere parte di un’unica comunità, caratterizzata da una cultura unitaria e profondamente permeata dal cristianesimo, di cui l’Italia è la sede storica. Eredi dell’universalismo romano e cristiano, hanno oscillato sempre fra l’apertura all’universale e l’attenzione al particolare (…)

La forma politica più diffusa nella Penisola è stata quella dei ‘piccoli Stati’, che hanno costituito particolari modelli di vita e di cultura con le loro corti, i loro condottieri, i loro principi e i loro artisti e letterati. Sono stati definiti ‘piccoli’ per le dimensioni ma erano uguali ai ‘grandi’ perché titolari di una sovranità che consentiva loro di battere moneta e di legiferare, di amministrare la giustizia, d’intraprendere guerre e di concludere trattati di pace”.

Il libro di Pappalardo rivaluta i secoli XVI, XVII, quando le Case regnanti, i ceti dirigenti, si mettono al servizio della Santa Sede, della monarchia spagnola e del Sacro Romano Impero, condottieri e soldati italiani servono per secoli la Cristianità fin nelle aree più lontane. Questo periodo è stato letto dagli storici, non solo di ritardo istituzionale rispetto alle altri parti d’Europa, ma anche di decadenza civile e morale, per colpa soprattutto della Corona spagnola, della Controriforma e del Barocco. De Sanctis ha usato la formula di “malgoverno papale spagnolo”. Negli ultimi decenni, grazie ai nuovi studi, in particolare di Giuseppe Galasso, è stata sfatata l’immagine del rapporto semicoloniale fra la Spagna e i domini italiani.

L’eroismo di migliaia di valorosi e sconosciuti combattenti sono parte integrante dell’epopea del popolo italiano, qualche nome: Alessandro Farnese, Ambrogio Spinola, Ottavio Piccolomini, Raimondo Montecuccoli, Eugenio di Savoia e poi tanti altri meno noti, Gian Battista Colloredo, Michele d’Aste, Gian Vincenzo Sanfelice.

Un retaggio glorioso che viene ripreso poi da centinaia e migliaia di uomini che prendono le armi tra il 1796 e il 1814 contro gli eserciti rivoluzionari e napoleonici, dando vita al fenomeno dell’ Insorgenza, con la quale i popoli italiani si schierano ancora una volta in difesa della patria comune. Gli eserciti rivoluzionari sconvolgono il tradizionale assetto della Penisola e ne ridisegnano traumaticamente la geografia politica e amministrativa. E’ il popolo che intuisce che i nuovi arrivati giacobini francesi intendono impadronirsi del potere ma vogliono soprattutto “rifare il mondo”. A questo punto Pappalardo sottolinea l’importanza del fenomeno delle insorgenze antirivoluzionarie, con caratteristiche unitarie e soprattutto di omogeneità culturale. Un vero movimento di popolosenza eguali nella storia italiana, proprio il contrario del Risorgimento.

Poi nel 1815 arriva la Restaurazione, che non fu poi una vera restaurazione, perché molti governi preferiscono non rinunciare ai vantaggi offerti da una struttura di governo accentrata. Pappalardo ricorda i tanti uomini che si sono battuti per una restaurazione integrale, almeno nei principi, per ristabilire l’influenza della dottrina della Chiesa; meritano essere ricordati: Nikolaus Albert von Diessbach, Pio Brunone Lanteri, Cesare d’Azeglio, Gioacchino Ventura, Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa, Monaldo Leopardi.
(Continua)

Domenico Bonvegna
domenicobonvegna@alice.it

Unita' d'Italia. Non basta festeggiare bisogna studiare (parte 1)

di Domenico Bonvegna

Continuano i festeggiamenti per ricordare i 150 anni dell’unità d’Italia, ma pochi sono i momenti di studio, di conoscenza, di quei fatti, di quegli avvenimenti che hanno caratterizzato gli anni del cosiddetto risorgimento.

Pochi i convegni di studio, interessante quello che ha organizzato Alleanza Cattolica il 12 febbraio scorso presso il Campidoglio a Roma, tra l’altro sarà replicato il 19 marzo prossimo a Milano. Hanno partecipato diversi studiosi al convegno, tra cui Francesco Pappalardo, che è autore di un piccolo e agile saggio, L’Unità d’Italia e il Risorgimento, d’Ettoris Editori di Crotone (pag 76, euro 7, 90). (www. dettoriseditori. it)

Questo piccolo pamphlet che ho appena letto è un vero compendio di studio, abbastanza sintetico, magari utilizzabile a scuola, docenti permettendo. Otto capitoli, dalla Nazione Italia, fino alla Questione Romana.

Pappalardo distingue la nazione italiana dallo Stato, che è nato nel 1861. La nazione italiana esisteva già da un millennio, come “unità culturale, pur nella diversità delle sue componenti, e si è formata, all’interno della Cristianità occidentale, nei secoli dell’Alto Medioevo, sulla base di una preziosa eredità romana, a sua volta maturata in un complesso mosaico di lingue e di stirpi. In pratica scrive Pappalardo, l’Italia è stata un ‘campionario’ di Stati, da quello municipale al grande regno, dal principato regionale alla repubblica aristocratica, dalla monarchia elettiva della Stato Pontificio alle repubbliche senza territorio ma con vasti domini marittimi”.

Sono formazioni politiche, durate per secoli, ben settecento anni i Regni di Napoli e di Sicilia. Un pluralismo politico, che ha reso possibile la fioritura di innumerevoli centri di cultura e di prosperità. “Nonostante l’assenza di uno Stato unitario, gli italiani si sono sempre sentiti tali, avendo la percezione di essere parte di un’unica comunità, caratterizzata da una cultura unitaria e profondamente permeata dal cristianesimo, di cui l’Italia è la sede storica. Eredi dell’universalismo romano e cristiano, hanno oscillato sempre fra l’apertura all’universale e l’attenzione al particolare (…)

La forma politica più diffusa nella Penisola è stata quella dei ‘piccoli Stati’, che hanno costituito particolari modelli di vita e di cultura con le loro corti, i loro condottieri, i loro principi e i loro artisti e letterati. Sono stati definiti ‘piccoli’ per le dimensioni ma erano uguali ai ‘grandi’ perché titolari di una sovranità che consentiva loro di battere moneta e di legiferare, di amministrare la giustizia, d’intraprendere guerre e di concludere trattati di pace”.

Il libro di Pappalardo rivaluta i secoli XVI, XVII, quando le Case regnanti, i ceti dirigenti, si mettono al servizio della Santa Sede, della monarchia spagnola e del Sacro Romano Impero, condottieri e soldati italiani servono per secoli la Cristianità fin nelle aree più lontane. Questo periodo è stato letto dagli storici, non solo di ritardo istituzionale rispetto alle altri parti d’Europa, ma anche di decadenza civile e morale, per colpa soprattutto della Corona spagnola, della Controriforma e del Barocco. De Sanctis ha usato la formula di “malgoverno papale spagnolo”. Negli ultimi decenni, grazie ai nuovi studi, in particolare di Giuseppe Galasso, è stata sfatata l’immagine del rapporto semicoloniale fra la Spagna e i domini italiani.

L’eroismo di migliaia di valorosi e sconosciuti combattenti sono parte integrante dell’epopea del popolo italiano, qualche nome: Alessandro Farnese, Ambrogio Spinola, Ottavio Piccolomini, Raimondo Montecuccoli, Eugenio di Savoia e poi tanti altri meno noti, Gian Battista Colloredo, Michele d’Aste, Gian Vincenzo Sanfelice.

Un retaggio glorioso che viene ripreso poi da centinaia e migliaia di uomini che prendono le armi tra il 1796 e il 1814 contro gli eserciti rivoluzionari e napoleonici, dando vita al fenomeno dell’ Insorgenza, con la quale i popoli italiani si schierano ancora una volta in difesa della patria comune. Gli eserciti rivoluzionari sconvolgono il tradizionale assetto della Penisola e ne ridisegnano traumaticamente la geografia politica e amministrativa. E’ il popolo che intuisce che i nuovi arrivati giacobini francesi intendono impadronirsi del potere ma vogliono soprattutto “rifare il mondo”. A questo punto Pappalardo sottolinea l’importanza del fenomeno delle insorgenze antirivoluzionarie, con caratteristiche unitarie e soprattutto di omogeneità culturale. Un vero movimento di popolosenza eguali nella storia italiana, proprio il contrario del Risorgimento.

Poi nel 1815 arriva la Restaurazione, che non fu poi una vera restaurazione, perché molti governi preferiscono non rinunciare ai vantaggi offerti da una struttura di governo accentrata. Pappalardo ricorda i tanti uomini che si sono battuti per una restaurazione integrale, almeno nei principi, per ristabilire l’influenza della dottrina della Chiesa; meritano essere ricordati: Nikolaus Albert von Diessbach, Pio Brunone Lanteri, Cesare d’Azeglio, Gioacchino Ventura, Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa, Monaldo Leopardi.
(Continua)

Domenico Bonvegna
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