da Baltazzar | Giu 5, 2013 | Chiesa, Liturgia
Dal Vangelo secondo Marco 12,18-27.
Vennero a lui dei sadducei, i quali dicono che non c’è risurrezione, e lo interrogarono dicendo:
«Maestro, Mosè ci ha lasciato scritto che se muore il fratello di uno e lascia la moglie senza figli, il fratello ne prenda la moglie per dare discendenti al fratello.
C’erano sette fratelli: il primo prese moglie e morì senza lasciare discendenza;
allora la prese il secondo, ma morì senza lasciare discendenza; e il terzo egualmente,
e nessuno dei sette lasciò discendenza. Infine, dopo tutti, morì anche la donna.
Nella risurrezione, quando risorgeranno, a chi di loro apparterrà la donna? Poiché in sette l’hanno avuta come moglie».
Rispose loro Gesù: «Non siete voi forse in errore dal momento che non conoscete le Scritture, né la potenza di Dio?
Quando risusciteranno dai morti, infatti, non prenderanno moglie né marito, ma saranno come angeli nei cieli.
A riguardo poi dei morti che devono risorgere, non avete letto nel libro di Mosè, a proposito del roveto, come Dio gli parlò dicendo: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e di Giacobbe? Non è un Dio dei morti ma dei viventi! Voi siete in grande errore».
Il commento di don Antonello Iapicca
Il roveto che arde e non si consuma è da sempre il segno della perpetua verginità di Maria. Quel roveto su cui si posarono gli occhi di Mosè, quel roveto ardente dal quale Dio ha rivelato il suo Nome è il segno dell’eternità. Esso ci rimanda alla fornace dove furono gettati i tre giovani da Nabucodonosor. Le fiamme alte e possenti tentavano di aggredire le loro carni, ma con loro, vi era un altro, un angelo, un vento, Qualcuno che li difendeva e impediva al fuoco di recar loro danno. Ecco, l’immagine della risurrezione e della vita eterna è racchiusa in queste immagini, fondamentali anche per noi. Non si tratta di dotte disquisizioni sull’immortalità, e neanche di dogmi freddi da credere e basta. Si tratta di un’esperienza. O la si ha o non la si ha. Non si scappa. La domanda dei sadducei la portiamo tutti nel cuore. Ma Gesù risponde senza trattati, senza speculazioni. Gesù ci mostra il Padre, e ci mostra uomini concreti con i quali ha intrapreso una storia di salvezza. Uomini chiamati, scelti, eletti per essere un segno del destino di ogni uomo. Gesù ci mostra l’opera di Dio, realizzata pienamente e definitivamente in Lui. La vita nella morte, il suo Mistero Pasquale, adombrato anche nella verginità di Maria. Questo Mistero raggiunge ciascuno di noi, trasforma le nostre vite e le strappa dalla corruzione. La vittoria sulla morte di Gesù è per noi oggi un evento capace di risuscitarci proprio nella concretissima storia che stiamo vivendo. E’ l’esperienza del perdono dei peccati, della liberazione dalla schiavitù che ci costringe a peccare, che ci impedisce di amare. E’, infatti, l’amore la prova più credibile e sperimentabile della risurrezione: “Quando Gesù parla della vita eterna, Egli intende la vita autentica, vera, che merita di essere vissuta. Non intende semplicemente la vita che viene dopo la morte. Egli intende il modo autentico della vita – una vita che è pienamente vita e per questo è sottratta alla morte, ma che può di fatto iniziare già in questo mondo, anzi, deve iniziare in esso: solo se impariamo già ora a vivere in modo autentico, se impariamo quella vita che la morte non può togliere, la promessa dell’eternità ha senso…. vita è relazione. Nessuno ha la vita da se stesso e solamente per se stesso. Noi l’abbiamo dall’altro, nella relazione con l’altro. Se è una relazione nella verità e nell’amore, un dare e ricevere, essa dà pienezza alla vita, la rende bella. Ma proprio per questo, la distruzione della relazione ad opera della morte può essere particolarmente dolorosa, può mettere in questione la vita stessa. Solo la relazione con Colui, che è Egli stesso la Vita, può sostenere anche la mia vita al di là delle acque della morte, può condurmi vivo attraverso di esse” (Benedetto XVI).
La vita eterna comincia qui, ed è sperimentabile mentre siamo nella fornace ardente quale spesso diventano il matrimonio con le liti e le incomprensioni, il posto di lavoro con le invidie e le ingiustizie, il fidanzamento con le vampe di passione che lo accerchiano e lo insidiano, le malattie, le preoccupazioni, le angosce di ogni giorno. La risurrezione si fa realtà quando possiamo vivere nella fornace ardente che è la nostra storia, uguale a quella che fu di “Abramo, di Isacco e di Giacobbe”, e ivi sperimentare la presenza concretissima di Dio, l’intima prossimità di Gesù, la sua vita più forte delle barriere della morte. La risurrezione è sperimentare la possibilità, con questa carne mortale che così spesso ci annichilisce, una vita nuova, che oltrepassa il muro del “finito”, il limite angusto delle passioni, dei ricatti, dei rancori, delle invidie, dell’ira, dei giudizi, delle mormorazioni. La risurrezione che ci attende oggi e ogni giorno è amare attraverso la nostra carne che, senza la vita celeste che il Padre ci dona, sarebbe un ostacolo insormantabile al dono di se stessi a chi si fa nemico. La risurrezione è sopportare le difficoltà, entrare nella Croce senza scappare, perché proprio essa, che all’apparire spaventa annunciandoci una morte certa, è invece il “letto d’amore” dove il Signore ci attende per consegnarci la sua vita che ha vinto la morte: “Sopportare è portare una difficoltà. Ma è portare addosso una difficoltà? No. Sopportare è prendere la difficoltà e portarla su, con forza, perché la difficoltà non ci abbassi… Sopportare perciò significa non lasciarci vincere dalle difficoltà. Il cristiano ha la forza di non abbassare le braccia, ma di portare su, di sopportare” (Papa Francesco, Omelia in Santa Marta, 24 maggio 2013). Questa forza è il potere della risurrezione, una vitalità che nessun uomo può dare a se stesso, il dono celeste che attira nel Regno di Dio, nella dimensione e nello spazio nuovi dilatati all’infinito dall’amore che non conosce confini. L’amore che vince il male è il territorio speciale, la porzione di paradiso dove i cristiani vivono ogni giorno: nel mondo ma non del mondo, nelle vicende comuni a quelle di ogni uomo ma con un amore e una forza che supera infinitamente quelle mondane. Così, ad esempio, essere sposati come non lo si fosse, direbbe San Paolo; vivere cioè, già qui come angeli nel cielo, non chiedendo al matrimonio, alla moglie, al marito, ai figli quello che non possono dare, la felicità piena ed eterna. E, al contrario, offrire agli altri le primizie della vita eterna ricevute in dono, l’amore, il perdono, la pazienza, la carità che non cerca il proprio interesse, che crede tutto e tutto spera, che non si adira e sopporta tutto. Perché chi ha vita eterna dentro non offre più nulla a se stesso ma offre se stesso a tutti. I figli del Dio dei Padri vivono ogni evento, ogni relazione impregnati dello Spirito Santo, lo Spirito di Dio, che fa contemporanei dell’eternità, partecipi della stessa vita celeste: “Padre nostro che sei nei Cieli…. sia fatta la tua volontà come in Cielo così in terra”, è la nostra preghiera, che mostra con chiara evidenza la nostra intercessione perchè il mondo intero possa compiere la volontà di Dio come essa si compie in noi. Attraversare la morte che ci insidia ogni giorno, pur essendo non ancora in pienezza passati nel Regno promesso. Con le debolezze, le cadute, le lotte possiamo sperimentare, in Cristo, ogni giorno la resurrezione che ci attende. La nostra vita diviene, con Cristo, come quel roveto che ardeva e non si consumava, dal quale la voce di Dio ha pronunciato l’unico Nome capace di dare vita e di salvare: Io Sono Colui che Sono: “La rivelazione del nome divino significa dunque che Dio, che è infinito e sussiste in se stesso, entra nell’intreccio di relazioni degli uomini; che Egli, per così dire, esce da se stesso e diventa uno di noi, uno che è presente in mezzo a noi e per noi. Per questo in Israele sotto il nome di Dio non si è visto solo un termine avvolto di mistero, ma il fatto dell’essere-con-noi di Dio” (Benedetto XVI). Siamo chiamati ad essere crocifissi con Cristo, perché in noi risuoni la stessa voce sgorgata dal roveto, parole e vita che annunciano e testimoniano l’immortalità per questa generazione: dalle stesse ferite della nostra carne, i problemi e le sofferenze di ogni giorno, filtrerà la luce della Pasqua, il potere di Dio sulla morte, il fuoco che arde e non consuma. Ogni nostro istante trasmetterà allora la voce di Dio, l’annuncio della Buona Notizia, e l’evangelizzazione giungerà ovunque saremo: il suo Nome, il suo Essere oltre ogni limite, il suo amore più forte della morte si farà presente sulla scena del mondo che conosce solo la corruzione. Testimoni di questo amore annunceremo a tutti l’unico e vero Dio, il Dio dei Padri, di ciascun uomo, amato infinitamente, oltre il peccato e la morte.
APPROFONDIMENTI
da Baltazzar | Giu 4, 2013 | Chiesa, Papa Francesco
L’omelia di papa Bergoglio a Santa Marta che ha ribadito che nessun è senza peccato. Ha inoltre ricordato il luminoso esempio di santità di Giovanni XXIII
da Vatican Insider
Peccatori, corrotti, cioè «peccatori consolidati, che hanno fatto un passo avanti nel peccato», e santi, tra cui Giovanni XXIII, di cui oggi ricorre il cinquantenario della morte. Li ha ricordati papa Francesco nella messa a Santa Marta, cui hanno preso parte preti e dipendenti della Congregazione per le cause dei santi, e gentiluomini di Sua Santità. Stralci dell’omelia sono pubblicati dalla Radiovaticana.
I corrotti, ha argomentato il Pontefice, «hanno fatto un passo avanti, come se fossero proprio consolidati nel peccato: non hanno bisogno di Dio», «si fanno un Dio speciale: loro stessi sono Dio».
I corrotti, ha spiegato, sono un «pericolo» anche «nelle comunità cristiane», «pensano solo al proprio gruppo»: ‘«Buono, buono. È di noi’ – pensano – ma, in realtà sono loro per se stessi». Come Giuda, «peccatore avaro è finito nella corruzione», i corrotti, travisando la «strada dell’autonomia», dimenticano «quale Signore ha fatto la vigna», e «diventano adoratori di se stessi». «Quanto male fanno i corrotti nelle comunità cristiane! – ha osservato papa Bergoglio – Che il Signore ci liberi dallo scivolare su questa strada della corruzione».
Papa Bergoglio commentando la parabola dei vignaioli, ha proposto «tre modelli di cristiani nella Chiesa: i peccatori, i corrotti e i santi». Dei peccatori, ha detto, «non è necessario parlare troppo, perché tutti noi lo siamo”. Ci conosciamo “da dentro e sappiamo cosa è un peccatore. E se qualcuno di noi non si sente così, vada a farsi una visita dal medico spirituale”, perché “qualcosa non va”. Poi ci sono i corrotti, quelli che “hanno perso il rapporto con il Signore».
Ricordando papa Giovanni, di cui oggi sono 50 anni dalla morte, il Pontefice ha spiegato che i santi sono «quelli che obbediscono al Signore, quelli che adorano il Signore, quelli che non hanno perso la memoria dell’amore, con il quale il Signore ha fatto la vigna. I santi nella Chiesa. E così come i corrotti fanno tanto male alla Chiesa, i santi fanno tanto bene».
Dei corrotti, «l’apostolo Giovanni dice che sono l’anticristo, che sono in mezzo a noi, ma non sono di noi. Dei santi la Parola di Dio ci parla come di luce, `quelli che saranno davanti al trono di Dio, in adorazione´. Chiediamo oggi al Signore – ha concluso il Papa – la grazia di sentirci peccatori, ma davvero peccatori, non peccatori così diffusi (generici ndr), ma peccatori per questo, questo e questo, concreti, con la concretezza del peccato».
«A volte sappiamo quello che dobbiamo fare, ma non ne abbiamo il coraggio. Impariamo da Maria la capacità di decidere, affidandoci a Dio». Così papa Francesco in un twitter, lanciato dal suo account @pontifex.
da Baltazzar | Giu 4, 2013 | Chiesa, Liturgia
Dal Vangelo secondo Marco 12,13-17. Gli mandarono però alcuni farisei ed erodiani per coglierlo in fallo nel discorso.
E venuti, quelli gli dissero: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e non ti curi di nessuno; infatti non guardi in faccia agli uomini, ma secondo verità insegni la via di Dio. E’ lecito o no dare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare o no?».
Ma egli, conoscendo la loro ipocrisia, disse: «Perché mi tentate? Portatemi un denaro perché io lo veda».
Ed essi glielo portarono. Allora disse loro: «Di chi è questa immagine e l’iscrizione?». Gli risposero: «Di Cesare».
Gesù disse loro: «Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio». E rimasero ammirati di lui.
Il commento di don Antonello Iapicca
Le tasse. Il denaro. La questione è sempre la solita, e riguarda le nostre tasche. Basta ricordare quale sia il vero argomento decisivo nelle campagne elettorali, i titoli di testa de giornali e telegiornali, giorno dopo giorno. E se invece leggessimo il Vangelo di oggi senza paura, lasciando che intercetti davvero la nostra vita, e magari anche che la sconvolga e che ci umili nella verità? Il portafogli ha sostituito il cuore, è opinione comune, accettata anche da psicologi e maître à penser d’ogni colore. Ma Gesù sposta la questione: Ipocriti! Si, l’ipocrisia delle analisi sociologiche che ci descrivono come materialisti, appiattiti solo su valori mondani, incapaci di vera felicità. E giù consigli e felicità prêt-à-porter, spiritualità fai da te, immagini ecosolidali per una vita sana e realizzata. Più tempo per il corpo e per gli altri, svaghi e libertà, nuove religioni accanto a nuovi contenuti per quelle tradizionali. I soldi non sono tutto, che diamine lo abbiamo capito tutti…. Eppure la domanda sottesa al buonismo imperante, al politicamente ed eticamente corretto, riassunta nel Vangelo in quella che sorge dalla bocca di farisei ed erodiani – “dobbiamo dare o no il contributo a Cesare” – ha il sapore rancido dell’ipocrisia. Il rapporto con il denaro è l’immagine più fedele del rapporto che abbiamo con Dio nostro creatore. E non è un caso che proprio in questo tempo sia sferrato un attacco frontale e cruento all’idea stessa di creazione, e, conseguentemente, a quella di un Creatore, o di un Padre. Il nocciolo della questione non è il denaro, ma il Padre. Se abbiamo un rapporto malato con il denaro è perché ne abbiamo uno pessimo con nostro Padre. Il denaro è un feticcio che ci rappresenta il potere, la solidità, la forza, il prestigio, l’autorità. Il denaro significa autonomia, certezze, libertà. Il denaro è un simulacro dell’affetto e, spesso, dell’amore. Con i danè lo possiamo comprare, per via diretta o indiretta, e fa quasi lo stesso. Non sapere che farne, agognarlo per poi esorcizzarlo quando non ci basta, quando fallisce nei suoi presunti poteri, e diventarne i più acerrimi denigratori, attraccati al carro di ideologie sinistre o di soavi nuove ere arcobalenate, illudersi di vomitare quello che invece è ben ancorato nelle nostre viscere, manifesta l’intermittenza che soffre il nostro sviluppo. Un rapporto incerto e malato con il denaro ci scopre bambini capricciosi, adulti inespressi. Ne abbiamo la rappresentazione negli eventi della politica, dove proprio chi sembra integerrimo e finalmente anti-casta, si avvita e implode proprio sui soldi, scoprendosene attaccato esattamente come gli altri. E così è per il nostro cuore, sempre pronto a giudicare gli altri per non accettare di essere uguale se non peggio.
Il vangelo di oggi smaschera la nostra profonda ipocrisia, che non è semplicemente un accento moralmente negativo. Ipocrita è colui che vive una doppiezza di fondo, che appare quel che non è, che cammina mascherato nella vita. Esattamente come i farisei che credevano di avere Abramo e Dio per Padre, mentre le loro opere ne denunciavano la completa ignoranza. Siamo, come loro, orfani che non conoscono il Padre, nell’illusione di essere figli, e adulti per giunta. Viviamo contro natura – e tutte le conquiste civili sbandierate da questa generazione ne sono l’inconfondibile prova, tutte contro la natura, così come Dio l’ha creata… – portiamo in noi inscritta l’immagine celeste del Padre e viviamo come se non esistesse. “Non lo conosciamo” e siamo telecomandati dal mondo, dalla carne e dal demonio sulle strade di quanto più anti-umano vi sia. Anche quando sembra tutto così spiritualmente rassicurante, si tratta solo del tentativo estremo e fallimentare di ricondurre sui binari naturali questa umanità impazzita. Viviamo il capovolgimento mortale della verità, per cui un disturbo, in sé neutro moralmente, come l’omosessualità, può garrire e reclamare orgogliosamente cittadinanza e diritti al suo libero compimento, infischiandosene di bambini condannati a vivere nella menzogna che ferisce e annichilisce. E tutto per legittimare la distruzione dell’uomo, opera inconfondibile del menzognero, dell’omicida, del demonio. La Chiesa infatti, nella sua sapienza, non ha mai disprezzato il denaro, ma ne ha denunciato senza posa gli usi malsani, le relazioni che la sapiente e occulta regia del demonio ha saputo indurre nell’uomo. Tanto è vero che la Chiesa si è spinta a chiamare il denaro “sterco di satana”, perchè la verità è che non solo il denaro ha preso dimora nel cuore dell’uomo, di ciascuno di noi, ma ne è divenuto il suo feroce maneggiatore. Un nuovo padre ha usurpato il posto del Padre: il demonio. Di lui siamo figli, dirà infatti il Signore. Orfani del vero Padre, siamo caduti tra le braccia di quello falso, il nostro vero nemico. Quella moneta tra le mani di Gesù è il segno di tutti noi schiavi della menzogna. Figli del demonio ci appelliamo a Cesare per uccidere Dio. Esattamente come è avvenuto durante il processo a Gesù. Ma non finisce qui. Quella moneta immagine di Cristo che siamo tutti noi, ma recante paradossalmente l’immagine di Cesare per l’inganno di satana, è stata davvero consegnata a Cesare: Cristo che giace nascosto nell’anima dell’uomo, sotto le macerie del mondo e del suo potere, è stato inchiodato alla Croce. Nel suo sangue è stata così cancellata l’immagine falsa del mondo e di satana che in ciascuno di noi si era sovrapposta a quella originaria. Il suo sangue ha lavato il fango e il peccato e ha ridato lucentezza a quello che in noi sembrava perduto, e ci ha ricreati come figli dell’unico e vero Padre. Si, in Cristo possiamo vivere come figli; è Lui che disseppellisce in noi l’immagine che ci ha chiamati alla vita. Crocifissi con Lui possiamo oggi dare a Dio quello che gli appartiene, la nostra vita. Tutta. Altro che denaro, tasse, altro che chiacchiere e talk-shows inconcludenti, che scherzano con la vita della gente per qualche punto di share in più. Siamo figli dello stesso Padre di Cristo, possiamo compiere le sue stesse opere, anzi di più grandi. Possiamo usare del denaro con libertà, senza viverci incollati. Siamo liberi dalla schiavitù dei soldi, radice di ogni male. Non più orfani diventiamo adulti, capaci di entrare negli eventi con il potere della Croce di Cristo e della sua vittoria, non abbiamo bisogno di comprare nulla dagli altri, la nostra economia si fonda sul dono totale di noi stessi: con i conti in rosso di una vita “perduta” per amore quaggiù, ma con un attivo infinito lassù, il guadagno di una vita che non muore. Figli nel figlio tutto di noi è dato a Dio, secondo Verità e natura, e ogni istante della nostra esistenza diviene un segno della bellezza nella quale ogni uomo è stato creato, la bellezza che salverà il mondo.
da Baltazzar | Giu 3, 2013 | Chiesa, Controstoria, Cultura e Società, Libri, Post-it
di Bruno Forte da www.tempi.it
Sette donne, storiche di professione e di diverse estrazioni religiose, ristabiliscono un po’ di verità in merito a luoghi comuni e leggende nere sulla Chiesa cattolica
Articolo tratto dall’Osservatore Romano – Dieci questioni, intorno a cui un’opinione diffusa e “politicamente corretta” chiama la Chiesa a giudizio davanti al tribunale della storia: la sua infedeltà rispetto alle origini del movimento cristiano, l’imposizione del celibato ecclesiastico, i tribunali dell’Inquisizione, l’arretratezza cattolica rispetto al progressismo evangelico, l’antisemitismo, la sessuofobia, l’anti-scientismo, la svalutazione della donna, il dolorismo. Sette donne, storiche di professione, di diversa estrazione religiosa, si confrontano con questi stereotipi senza pregiudizi, con un linguaggio ampiamente accessibile, mai rinunciando al rigore storico-critico delle affermazioni.
Ecco tema e autrici di un volume a dir poco “intrigante”, esposto a toccare sensibilità acute e a suscitare reazioni di segno diverso, e tuttavia utile e illuminante, perché capace di dar a pensare a chiunque lo legga senza preclusioni di sorta: La grande meretrice. Un decalogo di luoghi comuni sulla storia della Chiesa è il titolo del libro in questione, introdotto e curato da Lucetta Scaraffia, autrice ella stessa di due fra i saggi più stimolanti (“Sul celibato ecclesiastico” e “I protestanti sono più moderni”). L’intento dichiarato è di servire la verità storica, rettificando quei «luoghi comuni che ormai sembrano avere sostituito la realtà per quanto riguarda la storia della Chiesa, e che quindi hanno anche contribuito a deformarne l’identità pubblica» (p. 3): una rettifica che non ha nulla di meramente apologetico, che anzi non risparmia ammissioni di limiti e di ritardi nella bimillenaria vicenda ecclesiale e, proprio così, risulta convincente e feconda di incontri possibili con chi sia aperto a cercare la verità al di sopra di tutto.
L’approccio femminile, poi, riesce a spingere lo sguardo a quella ricchezza vitale di emozioni e sentimenti, sottesa ai fatti e decisiva per la vita, che spesso un certo razionalismo interpretativo è incapace di cogliere. La destinazione del testo a un vasto pubblico motiva non solo il suo stile discorsivo, spesso arricchito di narrazioni, ma anche la scelta dei luoghi comuni su cui far riflettere: «i più diffusi, quelli che generano il maggior numero di incomprensioni» e che, proprio per questo, è importante chiarire prima di iniziare un qualunque confronto teorico.
Il titolo del volume rende bene l’intreccio costante di prospettive che lo animano: come mostra efficacemente Sylvie Barnay nel primo dei dieci saggi, il tema della Chiesa santa e meretrice muove già dalla testimonianza biblica, in particolare dell’Apocalisse. Esso ritorna nei Padri della Chiesa come una sorta di canto fermo, non per denigrare la comunità dei fedeli, ma per stimolarla al bene nel continuo confronto fra ideale e reale.
Ricordo l’attenta riflessione che a esso dedicammo nel gruppo di lavoro della Commissione teologica internazionale, incaricato di approfondire le motivazioni e il senso della richiesta di perdono che il beato Giovanni Paolo II volle pronunciare a nome di tutta la Chiesa durante il Giubileo del 2000. In un memorabile incontro che avemmo con lui, ebbe a dirci una frase che ben rende il senso e l’importanza del tema: «Coraggio! Siate una Commissione coraggiosa! La verità ci farà liberi!».
L’applicazione delle parole di Gesù in Giovanni, 8, 32 alla testimonianza attuale della Chiesa è in realtà la chiave interpretativa fondamentale per comprendere come il riconoscimento sincero dei limiti e delle colpe faccia ancor più risplendere la santità e il bene di cui il popolo di Dio ha riempito l’universo nei tanti secoli del suo cammino. È questa anche la chiave di lettura del documento Memoria e riconciliazione che accompagnò poi il gesto profetico del Papa nell’anno giubilare. «Che l’istituzione, la Chiesa terrena, sia stata protagonista di pagine non edificanti e anche odiose — scrive nel suo bel saggio Sandra Isetta — è un dato inalienabile, fatalmente connesso alla natura umana».
Come questo vada compreso e coniugato all’idea della Ecclesia sancta, lo spiega la grande sintesi di Agostino sulle “due città”, «quella di Dio e quella degli uomini, in qualche modo confuse e mischiate fra loro nello scorrere dei tempi», tali però che «solo formalmente i non meritevoli sono parte integrante della Chiesa» e «che vero corpo di Cristo è quello che vivrà eternamente con lui dopo il giudizio» (p. 56). Il no a ogni puritanesimo che pretenda di comprendere nella vicenda storica del popolo di Dio unicamente chi è senza colpa, si congiunge alla coscienza di una necessaria, costante lotta contro il male e il maligno, che avrà il suo coronamento vittorioso solo nel finale ritorno del Cristo.
Particolarmente interessante è il saggio della storica ebrea Anna Foa, dedicato alla Chiesa, «madre di tutte le inquisizioni». Con singolare capacità narrativa e documentaria, l’autrice giunge a una conclusione tanto singolare, quanto efficace: «Vogliamo confessarlo alla fine? Se proprio dovessi scegliere da quale di questi temibili tribunali umani [quelli dei vari totalitarismi] preferirei essere processata per quello che penso o credo, non sceglierei mai un tribunale sovietico dell’epoca della grandi purghe staliniane. E nemmeno mi piacerebbe farmi processare dai tribunali laici dell’età dell’assolutismo. Sceglierei nonostante tutto l’Inquisizione, quella romana naturalmente. Sempre sperando che Dio me la mandi buona» (p. 111). Peraltro, è la stessa studiosa a notare — nel saggio dedicato all’antisemitismo — che «nell’insieme la protezione che la Chiesa svolge nei confronti della minoranza ebraica presente nel suo seno è una costante, almeno fino a che l’equilibrio tra Chiesa ed ebrei si mantiene intatto» (p. 143). Il rigore della ricerca storica si fonde qui con un non comune coraggio nel sostenere tesi che destabilizzano una certa “vulgata” e mostrano come nelle pieghe della complessità della storia la verità sia molto più ricca e variegata di ogni facile giudizio sommario di colpevolezza o di assoluzione!
A conclusioni analoghe su questioni diverse pervengono i saggi di Margherita Pelaja sull’«odio per il sesso» attribuito alla dottrina della Chiesa, senza alcuna considerazione del valore sacramentale da essa riconosciuto all’unione sponsale in una vera e propria esaltazione della corporeità, o di Giulia Galeotti sul tema della scienza, che mostra tanto la banalità di giudizi quali quello di Richard Dawkins sulla religione quale «malattia mentale che dovrebbe essere estirpata dai nostri cervelli», quanto la fondatezza di asserti come quello di padre Michael Heller sul fatto che «la scienza ci dà il sapere, la religione il significato».
La conclusione di Cristiana Dobner sul tema della sofferenza è suggello adeguato all’intero percorso del libro: tutt’altro che esaltazione del dolorismo, il cristianesimo è un costante inno alla vita e alla sua bellezza, che è tale anche nel tempo della prova e del dolore, se queste vengono assunte e trasfigurate dal di dentro con la forza dell’amore che ci viene del Figlio di Dio incarnato e con lui tutto offre per tutti. «Chi crede e vive con la Chiesa e nella Chiesa, sa che quello squarcio [della domanda sul dolore] è stato già, in antecedenza, colmato dal Padre che non solo è vicino a noi, ma soffre con noi e per noi» (p. 259). Qui la ricerca storica al servizio della verità si fa più cha mai proposta di vita, stimolo a sperimentare la bellezza di quanto la Chiesa può offrirci, al di là di ogni chiusura pregiudiziale che a essa si voglia opporre.
da Baltazzar | Mag 30, 2013 | Chiesa, Papa Francesco, Post-it
Succederà domenica 2 giugno: tutte le chiese del pianeta si uniranno al Papa. Un evento storico, nell’anno della Fede
da Vatican Insider

Il prossimo due giugno, dalle 17 alle 18, le cattedrali e le chiese di tutto il mondo si sincronizzeranno con l’ora di Roma e si uniranno al Papa per la adorazione eucaristica. Si tratta di un evento nell’ambito dell’Anno della fede che, ha spiegato mons. Rino Fisichella, «a ragione possiamo definire storico, perché si realizza per la prima volta nella storia della Chiesa».
Mons. Fisichella, presidente del Pontificio consiglio per l’evangelizzazione, ha raccontato che ci fu un tentativo di organizzare la adorazione simultanea mondiale agli inizi del Novecento, portato avanti da Elena Guerra e per il quale la religiosa italiana si impegnò anche in un carteggio con Leone XIII.
La adorazione eucaristica in contemporanea in tutto il mondo è una iniziativa per l’Anno della fede presentata in sala stampa vaticana da mons. Fisichella e dal segretario del suo dicastero, mons. José Octavio Ruiz Arenas, insieme all’incontro «Evangelium vitae» che si svolgerà il 16 giugno alle 10,30, sempre con il Papa per attestare, ha detto mons. Fisichella, «l’impegno della Chiesa sulla promozione, rispetto e difesa della dignità della vita umana».
Per la adorazione, ha precisato padre Federico Lombardi, non è finora previsto che il Papa tenga un discorso o un messaggio pubblico, giacché si tratterà di una occasione di preghiera. Il libretto preparato per l’occasione, ha sottolineato padre Lombardi, raccoglie anche alcune preghiere di papi per la adorazione eucaristica.
Mons. Ruiz Arenas ha sottolineato il «senso di comunione ecclesiale e di universalità della Chiesa» della adorazione che si sta organizzando in tutto il mondo: anche in Alaska. A una domanda se sia prevista l’adesione anche della Cina, mons. Fisichella ha risposto che ci si sta lavorando: «siamo in contatto – ha detto – e ci sono delle mediazioni che abbiamo posto in essere, attendiamo delle risposte, per la dovuta riservatezza».
Mons. Fisichella ha anche riferito che fino ad oggi gli eventi dell’Anno della fede hanno portato a Roma attorno ai papi circa 4.300.000 pellegrini, ma il dato è in continua evoluzione, giacché per esempio già domani si aggiungeranno i 90.000 previsti all’udienza generale del Papa.
da Baltazzar | Mag 30, 2013 | Chiesa, Papa Francesco
di Massimo Introvigne da www.lanuovabq.it

Nell’udienza generale del 29 maggio 2013, Papa Francesco ha continuato le sue catechesi sull’Anno della fede e sulla parte del Credo dove affermiamo la nostra fede nella Chiesa. Il Pontefice ha affermato di volere proporre una serie di meditazioni partendo da espressioni usate dal Concilio Ecumenico Vaticano II per definire la Chiesa. La prima che ha preso in esame è quella della Chiesa come «famiglia di Dio», e ha criticato ogni prospettiva che all’insegna dello slogan oggi diffuso «Cristo sì, Chiesa no» cada nell’errore di pensare che sia possibile andare a Cristo senza passare dalla Chiesa.
Il Pontefice è partito dall’importanza che ha per lui la parabola del figliol prodigo, la parabola per eccellenza della misericordia di Dio che «restituisce la dignità di figlio» a ciascuno di noi anche dopo i più gravi peccati, purché ci rendiamo «conto di avere sbagliato» e chiediamo perdono. I fedeli hanno già sentito Papa Francesco citare questa parabola «più di una volta». Una delle dimensioni della storia del figliol prodigo è appunto mostrare che il progetto di Dio è «fare di tutti noi un’unica famiglia dei suoi figli, in cui ciascuno lo senta vicino e si senta amato da Lui, come nella parabola evangelica, senta il calore di essere famiglia di Dio». Questa famiglia di Dio è precisamente la Chiesa.
La Chiesa non è una semplice invenzione umana, «non è un’organizzazione nata da un accordo di alcune persone, ma – come ci ha ricordato tante volte il Papa Benedetto XVI – è opera di Dio, nasce proprio da questo disegno di amore che si realizza progressivamente nella storia». Dio, non gli uomini, fonda la Chiesa. «La Chiesa nasce dal desiderio di Dio di chiamare tutti gli uomini alla comunione con Lui, alla sua amicizia, anzi a partecipare come suoi figli della sua stessa vita divina». La stessa parola «Chiesa» indica che non si tratta di un’opera umana. Viene dal greco ekklesia, «convocazione». Non ci si convoca da soli: nella Chiesa «Dio ci convoca, ci spinge ad uscire dall’individualismo, dalla tendenza a chiudersi in se stessi e ci chiama a far parte della sua famiglia».
Dio ha pensato da sempre alla Chiesa. La convocazione «ha la sua origine nella stessa creazione. Dio ci ha creati perché viviamo in una relazione di profonda amicizia con Lui, e anche quando il peccato ha rotto questa relazione con Lui, con gli altri e con il creato, Dio non ci ha abbandonati. Tutta la storia della salvezza è la storia di Dio che cerca l’uomo, gli offre il suo amore, lo accoglie». Dall’alleanza con Abramo e con il popolo d’Israele alla vicenda terrena di Gesù Cristo, tutta la storia della salvezza prepara la Chiesa e culmina nella Pentecoste.
Ma, se non nasce da una decisione di uomini, «da dove nasce allora la Chiesa? Nasce dal gesto supremo di amore della Croce, dal costato aperto di Gesù da cui escono sangue ed acqua, simbolo dei Sacramenti dell’Eucaristia e del Battesimo». Nella Chiesa continuano a scorrere questo sangue e quest’acqua: «la linfa vitale è l’amore di Dio che si concretizza nell’amare Lui e gli altri, tutti, senza distinzioni e misura. La Chiesa è famiglia in cui si ama e si è amati».
Papa Francesco ha fatto implicito riferimento al celebre discorso «Nel contemplare» del 12 ottobre 1952 del venerabile Pio XII (1876-1958), più volte citato dai Pontefici successivi, che descriveva la sequenza della scristianizzazione dell’Occidente attraverso tre tappe: «Cristo sì, Chiesa no. Poi: Dio sì, Cristo no. Finalmente il grido empio: Dio è morto; anzi: Dio non è mai stato». «Ancora oggi – ha affermato Francesco – qualcuno dice: “Cristo sì, la Chiesa no”», tradotto in termini più volgari dai tanti «che dicono “io credo in Dio ma non nei preti”».
In realtà, ha spiegato il Pontefice, non è possibile andare a Cristo se non attraverso la Chiesa. Cristo ha voluto rendersi incontrabile nella storia tramite la Chiesa. «È proprio la Chiesa che ci porta Cristo e che ci porta a Dio». È vero, la Chiesa «ha anche aspetti umani; in coloro che la compongono, Pastori e fedeli, ci sono difetti, imperfezioni, peccati, anche il Papa li ha e ne ha tanti», Ma questo non dà ragione a chi segue la logica sbagliata «Cristo sì, Chiesa no», perché il peccatore abbisogna di misericordia e il luogo della misericordia è la Chiesa. «Quando noi ci accorgiamo di essere peccatori, troviamo la misericordia di Dio, il quale sempre perdona. Non dimenticatelo: Dio sempre perdona e ci riceve nel suo amore di perdono e di misericordia. Alcuni dicono che il peccato è un’offesa a Dio, ma anche un’opportunità di umiliazione per accorgersi che c’è un’altra cosa più bella: la misericordia di Dio. Pensiamo a questo».
La meditazione del Papa chiede di diventare esame di coscienza per ognuno di noi: «Quanto amo io la Chiesa? Prego per lei? Mi sento parte della famiglia della Chiesa?». La risposta positiva implica un impegno personale: ma anche il sostegno della grazia, da chiedere con rinnovato fervore nell’Anno della fede.
– Il testo integrale dell’udienza