da Baltazzar | Dic 7, 2011 | Chiesa, Liturgia
Mt 11, 28-30
In quel tempo, rispondendo Gesù disse: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò.
Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero».
IL COMMENTO di don Antonello Iapicca
Andare al Signore, come un discepolo. Ai suoi piedi imparare, apprendere, ascoltare. L’umiltà e la mitezza si “ascoltano” e si accolgono, come Parole di Dio che hanno il potere di realizzarsi. “Imparate da me” dice il Signore. Il termine adottato rimanda ad un rapporto, ad una relazione profonda, ben al di là d’una superficiale conoscenza. Quella tra Didaskalo e Discepolo, tra il Maestro e l’allievo. Imparare è la coniugazione di un’intimità. Imparare è conoscersi, secondo la pregnante etimologia biblica del termine, è donare e ricevere, è amare. “Rimanete nel mio amore”, ecco le Parole di Gesù per noi oggi. Imparare è restare ai suoi piedi, come Maria, lasciandosi attirare dalla Parte Buona, l’unica eredità che dà la Vita. Imparare, riposare.
Siamo stanchi dei nostri sforzi, dei tentativi, delle sfide, oppressi da leggi e moralismi. Non ce la facciamo più. Schiavi di speranze infrante, di rincorse a perdifiato sui sentieri dei compromessi, per acciuffare un sorriso, uno sguardo di benevolenza, sperando di rifiatare nell’affetto di chi ci è accanto. E nulla, qualche aperitivo che ci è parso preludere al banchetto agognato, al riposo sperato, e d’un colpo, invece di una tavola imbandita, ci siamo ritrovati soli di nuovo, nel mezzo di una strada da percorrere ancora, senza forze, con una delusione in più sulle spalle. Un figlio, per quanto santo e giusto, è forse il ristoro? Una figlia che si sposa con l’uomo ideale, cristiano, di sani valori, con la testa sulle spalle, è forse il riposo? La moglie, il marito, al chiudersi della giornata, è forse il porto sospirato? Unirsi, quando è concesso, è forse il capolinea di tanta fatica? Non ci si ritrova poi, comunque, soli? Carne della propria carne, è vero, ma è pur sempre qualcosa di parziale, incompleto, che rimanda a un di più, a qualcosa che superi le barriere del tempo e dello spazio. E una buona semina del Vangelo, i miracoli nei cristiani affidati, le vite ricostruite, il potere di Cristo operante nei fratelli, è questo il riposo per il quale siamo venuti al mondo, per cui siamo preti, apostoli, missionari? Non si tratta ora di quando si fa di tutto ciò un assoluto, porta spalancata sulle più cocenti delusioni. Si tratta piuttosto di quel desiderio di pace e riposo che cerchiamo, semplicemente, proprio nel Signore e nelle sue cose. Laddove più subdolo si può annidare l’inganno del demonio. La parvenza di rettitudine nasconde la perversione di voler fare della terra il Cielo, della carne il Paradiso. Comunismo, rivoluzioni, lotta alle ingiustizie, non sono aspetti lontani da noi. Basta scrutare il nostro cuore e cercare l’atteggiamento che abbiamo di fronte alle crisi economiche, ai provvedimenti del Governo, ai fatti di cronaca. E comprendere come, al di là di ogni pretesa rettitudine, il nostro cuore è attaccato al denaro, alla carne, al mondo. E a tutto ciò chiediamo la vita, il riposo e il ristoro. Come a una vacanza, a una settimana bianca, a quello staccare per un po’ la spina per il quale ci illudiamo di rigenerarci… Mentre la storia scorre e i personaggi e gli eventi non riposano mai. Possiamo fare delle cose più sante un giocattolo di Lego da costruire per rifugiarci al riparo della precarietà, materiale e spirituale. Una croce d’oro esibita sul petto che scaccia perversamente la Croce autentica che ci inchioda alla volontà di Dio. La sicurezza religiosa che butta fuori la precarietà nella quale, sola, si può davvero sperimentare l’opera di Dio, la sua prossimità, il suo amore.
Ci viene in aiuto San Giovanni della Croce:
Per giungere a gustare il tutto
non cercare il gusto in niente;
per giungere alla conoscenza del tutto
non cercare di sapere qualche cosa in niente;
per giungere al possesso del tutto,
non voler possedere niente;
per giungere ad essere tutto,
non voler essere niente.
Per venire a ciò che non godi,
devi passare per dove non godi;
per giungere a ciò che non hai,
devi passare per dove non sai;
per giungere al possesso di ciò che non hai,
devi passare per dove ora niente hai;
per giungere a ciò che non sei,
devi passare per dove ora non sei.
Quando ti fermi in qualche cosa,
tralasci di slanciarti verso il tutto;
per giungere interamente al tutto,
devi totalmente rinnegarti in tutto;
e quando tu giunga ad avere il tutto,
devi possederlo senza voler niente.
In questa povertà lo spirito trova
il suo riposo poiché, non desiderando niente,
niente lo appesantisce verso l’alto
e niente lo spinge verso il basso,
poiché sta al centro della sua umiltà.
Al centro della propria umiltà, della verità, che è l’unica nella quale il Dio vero è presente e operante. La verità che è la nostra totale precarietà. La storia ci ha fatti piccoli, poveri, “tapini”, ultimi, secondo l’accezione del termine “umile” che compare nel Vangelo di oggi. Nella terra, nell‘humus dove ci troviamo possiamo raggiungere, o meglio, possiamo essere accolti nel riposo vero, perchè è esattamente il luogo dove Cristo è disceso. Il Signore s’è abbassato sino a noi, umiliato nella morte, mite come un agnellino condotto al macello. Lui s’è offerto volontariamente laddove noi dobbiamo andare senza nessuna voglia. Mite dove noi recalcitriamo. E Lui stesso, pur essendo Figlio, ha “imparato” l’obbedienza dalle cose che patì.
E anche oggi il Signore ci chiama. Ci ha scelto e ci chiama. Lui è esattamente dove siamo noi oggi. Affaticati e oppressi. E’ Lui la salvezza. E’ Lui la gioia. E’ Lui l’unica Vita, l’unica Via, l’unica Verità. Imparare sulle sue orme, laddove Lui ha imparato. In un’intimità che è essere con Lui crocifissi, oggi, nella storia concretissima che ci attende. Uniti al punto che sia Lui a vivere in noi. Il Suo giogo, abbassato al nostro collo. L’unico giogo che non pesa, l’unico carico leggero, l’unico adatto a noi. Gesù Cristo, l’unico per noi. Carne, mondo, desideri, progetti, leggi, tutto è per noi troppo pesante, inadeguato. Tutto troppo terreno. Siamo fatti per Dio, siamo suoi. Per questo non v’è altro giogo perfetto per noi se non il giogo di Cristo. La Croce, dove siamo figli nel Figlio, il giogo leggero e soave nel quale troviamo la nostra unica realizzazione. La volontà di Dio, l’unica pace, il vero riposo. Le nostre braccia distese con le sue, per la moglie, il marito, i figli. Per ogni uomo.
La mente cinta da una corona di spine, i criteri trafitti per essere consegnati alla mente di Dio. Rinunciare a noi stessi per fare la volontà del Padre. Il cuore trapassato, la vita donata e perduta per puro amore. Lo Shemà compiuto, l’amore che unisce mente, cuore e forze in un’unica oblazione offerta con Cristo al Padre. Oggi, nella semplicità delle ore che ci accolgono, negli incontri, nelle cose da fare e ripetere mille volte, si compie una liturgia d’amore. La nostra vita è il dono del Figlio al Padre. Siamo il tesoro di Dio, il frutto dell’intimità divina.
Il Vangelo di oggi ci aiuta a comprendere la nostra storia, laddove siamo crocifissi per imparare ad essere quello per cui siamo nati. Andare a Cristo per essere veramente noi stessi, laddove Lui è divenuto ciascuno di noi, per farci, in Lui, figli amatissimi. Istante dopo istante conformati alla sua immagine, portando in noi il Suo mistero Pasquale, salvezza nostra e del mondo. Imparare, ascoltare, obbedire, essere. In Cristo, di Cristo, veramente ed eternamente felici. Accolti nel riposo che solo un cuore docile e obbediente può gustare, anche se nulla nella nostra vita riposa, né il male, né il dolore, né le avversità. Un riposo crocifisso, un ristoro nel mezzo della battaglia. Con Cristo, ogni istante, reclinare il capo sulla Croce, spirare vita per riaverla piena e compiuta. Avvento di Cristo, avvento del riposo in un amore senza riserve.
Pietro di Celle (v.1115-1183), monaco poi vescovo
3° discorso per l’Avvento (Guéranger, L’Année liturgique, 2e merc Avent, trad. italiana)
L’Agnello di Dio, mite e umile di cuore
Signore, mandaci l’Agnello; è l’agnello che ci occorre, non il leone (cfr Ap 5,5-6). L’agnello che non si irrita e la cui mitezza non viene mai meno; l’agnello che ci darà la lana bianca come la neve per riscaldare in noi ciò che è freddo e per coprire in noi ciò che è nudo; l’agnello che ci darà da mangiare la sua carne per paura che sveniamo per la debolezza lungo la strada (cfr Gv 6,51; Mt 15,32).
Mandalo pieno di sapienza, poiché con la sua divina prudenza vincerà lo spirito orgoglioso; mandalo pieno di forza, poiché è scritto che «il Signore è forte e potente in battaglia» (Sal 24,8); mandalo pieno di dolcezza, poiché «scenderà come pioggia sull’erba» (Sal 71,6 Vulg); mandalo come vittima, poiché deve essere venduto e immolato per la nostra redenzione (cfr Mt 26,15; Gv 19,36; Es 12,46); mandalo, non per sterminare i peccatori, poiché deve «venire a chiamare loro e non i giusti» (Mt 9,13); mandalo infine «degno di ricevere la gloria, l’onore e la potenza, degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli» (Ap 4,11; 5,9), cioè il mistero ineffabile dell’Incarnazione.
da Baltazzar | Dic 7, 2011 | Chiesa, Cultura e Società, Famiglia, Post-it
La decisione dell’autorità comunale di consentire l’accesso alla Consulta per la famiglia ad alcune associazioni a orientamento omosessuale costituisce una grave offesa in primo luogo alla ragione e al buon senso comune, perché non si capisce la congruenza dell’una con le altre; poi alla comunità civica, perché in palese contrasto con l’articolo 29 della Costituzione; e inoltre alla comunità cattolica – che pure è parte rilevante del consorzio bolognese – perché degrada a un relativismo senza fondamento nella persona umana quella concezione della famiglia che da secoli è patrimonio della nostra gente.
Di fronte alla comunità civica la Chiesa di Bologna denuncia tale decisione. Alla comunità cattolica dei credenti ricorda l’insegnamento perenne del magistero ecclesiale fondato sulla stessa dottrina apostolica (cf per es. Rom 1). Un insegnamento ribadito – come abbiamo ricordato anche di recente – dall’Arcivescovo Card. Caffarra nella sua Nota dottrinale «Matrimonio e omosessualità» e dalla Congregazione per la Dottrina della Fede che così si esprimeva in una Nota dottrinale il 24 novembre 2002: «Devono essere salvaguardate la tutela e la promozione della famiglia fondata sul matrimonio monogamico tra persone di sesso diverso […] ad essa non possono essere giuridicamente equiparate in alcun modo altre forme di convivenza»; e il 3 giugno 2003: «Nessuna ideologia può cancellare dallo spirito umano la certezza secondo la quale esiste matrimonio soltanto tra due persone di sesso diverso, che per mezzo della reciproca donazione personale, loro propria ed esclusiva, tendono alla comunione delle loro persone. In tal modo si perfezionano a vicenda, per collaborare con Dio alla generazione e alla educazione di nuove vite».
Pertanto i singoli fedeli e le associazioni che fanno riferimento all’appartenenza ecclesiale hanno il grave dovere, in forza della coerenza con la fede che professano, di astenersi da qualsiasi forma di cooperazione volta a promuovere o applicare concezioni della famiglia in palese contrasto con il magistero cattolico (cf Congregazione per la Dottrina della Fede n. 5 del 3. 6. 2003). «La Chiesa – continua la nota della Congregazione – insegna che il rispetto verso le persone omosessuali non può portare in nessun modo all’approvazione del comportamento omosessuale oppure al riconoscimento delle unioni omosessuali». In questo contesto la presenza in organismi che nella denominazione si riferiscono alla famiglia costituzionale ma poi accolgono chi propugna orientamenti diversi è un messaggio carico di ambiguità e perciò contrario allo spirito di verità. Il dovere è perciò quello di uscirne.
Tratto da Avvenire – Bologna 7
da Baltazzar | Dic 6, 2011 | Chiesa, Liturgia
dal vangelo secondo Mt 18, 12-14
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Che ve ne pare? Se un uomo ha cento pecore e ne smarrisce una, non lascerà forse le novantanove sui monti, per andare in cerca di quella perduta? Se gli riesce di trovarla, in verità vi dico, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite.
Così il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli.
IL COMMENTO di don Antonello Iapicca
Sono io. Si, quella pecora smarrita sono io. Per me il Signore ha percorso un cammino infinito, dal Cielo alla terra. E, sulla terra, sino a me, alla mia vita, oggi. E com’è oggi la mia vita, quali sono i sentieri che sto percorrendo, quali pascoli vado cercando? Ho dimenticato la fonte d’acqua viva, come Esaù sono uscito dalla tenda per cercare da mangiare, seguendo gli istinti confusi così spesso con le intuizioni. Sono scappato, preso da un’irrefrenabile frenesia di cambiare foraggio, suvvia sempre lo stesso… Ho smarrito il cammino vagando dietro ad altri compagni. Ho perso il pastore, la sua voce ormai lontana sembra non potermi più raggiungere. E angoscia, e fame, e solitudine. E lacrime, sono precipitato in una valle di lacrime. Io e il peccato mio tra le mani. Quel giudizio tagliente. Quella concupiscenza indomata. Quell’idolatria assassina. Io, solo, perduto.
Ma mentre me ne andavo sui passi del peccato il Signore era già alla mia ricerca. Si, proprio mentre saliva gagliarda la violenza dal mio cuore e seminavo di morte il mio cammino, Lui era sulle mie tracce. Amore infinito. Un fuoco d’amore ad attirarlo verso di me. “Se homo non peccasset, Filius hominis non venisset”, così S. Agostino: “Se l’uomo non avesse peccato, il Figlio dell’uomo non sarebbe venuto”. Il peccato, e il Salvatore. La scena del mondo, del mio mondo e della storia di ciascuno è nella verità di entrambi. E’ vero il mio peccato. E’ vero il Salvatore. E’ vero il Suo amore. Anche se fossi l’unico peccatore di questa terra e della storia.
Non è scontato questo amore. “Che ve ne pare?” ci chiede oggi il Signore. Lasciamoci scrutare sino al profondo del nostro cuore. Chi lascerebbe il guadagno sicuro di novantanove pecore per andare a cercare un’unica pecora dispersa, senza alcuna certezza di trovarla, senza sapere se sia viva o morta, o sbranata dai lupi e così inutilizzabile per lana e carne? Chi metterebbe a repentaglio il successo assicurato, il valore acquisito, le certezze conquistate, i progetti avviati, per qualcosa di piccolo, probabilmente senza alcuna speranza di utile? Chi lascerebbe la parrocchia piena di fratelli avviati ad un pascolo tranquillo per un fratello traviato, l’unico, scappato, perduto, ostinato nei suoi peccati, cieco nei suoi inganni? Chi, facendo due lucidi calcoli, si sognerebbe di rischiare la vita per un’unica pecora, avendone messe al sicuro novantanove? Chi, dinanzi alla logica stringente di teologia ed esperienza, come dinanzi all’evidenza di anni scivolati senza concludere nulla di quanto creduto, sperato, sofferto, sarebbe disposto a ricominciare tutto da capo? Chi sarebbe disposto ad azzerare il contachilometri del cammino fallimentare nei confronti di una sola persona, dura, cocciuta, decisa a fare per conto suo, dimenticando le certezze accumulate con novantanove pecore obbedienti, semplici, secondo i canoni e gli schemi “santi , giusti e puri” della religione, della missione, della famiglia, della Chiesa? Chi è così libero da se stesso, dagli anni accumulati e dalle ragioni raccolte nella mente e nel cuore, da ripresentare, ogni giorno, dinanzi alle mille speranze frustrate, la propria vita, il proprio corpo, la propria mente ed il proprio cuore come un foglio completamente bianco, nell’assoluta certezza che Dio può stupire e compiere l’impossibile? Chi è così abbandonato a Dio e al suo cuore da credere che davvero per Lui mille anni sono come un giorno solo, e che ciò che non è accaduto in tanto tempo può compiersi in un istante? E, soprattutto, chi è così radicalmente folle da prendere i suoi pensieri, le ragioni, le esperienze, la mente e il cuore, di prete, di padre, di madre, di fratello, di sorella, e caricare il tutto di legna salendo il Moria dell’assurda immolazione all’illogica logica di Dio? Chi è così libero, e innocente, da rinunciare a tutto, per gettarsi nell’impresa di cercare e salvare quel rapporto perduto, quell’amico diventato nemico, quella pecora stolta? Chi può rinunciare alla propria vita al punto di accettare che Dio sconvolga decenni di certezze, di conclusioni cementate dall’esperienza, di arguzie e discernimenti “forgiati sul campo”? Chi? Solo Gesù Cristo!
Egli è l’unico che ha nel cuore cento pecore, sempre. Anche quando una scappa, si perde, lo rifiuta, lo bestemmia, spezza l’Alleanza, lo tradisce, e distrugge la propria vita e dilapida la primogenitura e le Grazie ad essa legate. Gesù non cancella nessuno, non considera nessuno spacciato, sino alla fine. Per Lui è sua pecora anche la peggiore, la più ribelle; anche quella che lo umilia, e lo calunnia, e lo uccide… E’ una sua pecora sempre, parte della sua eredità consegnatagli dal Padre: cento ne ha ricevute, cento vuole portare all’ovile eterno del Cielo. Per questo ha lasciato che calpestassero il suo onore, la propria volontà, gli schemi messianici nei quali era stato educato, il suo stesso essere Figlio di Dio, sino a terminare su una croce come il peggiore dei bestemmiatori. Ogni progetto, ogni logica, e che logica!, tutto è saltato, ed in Lui, Pastore buono gettato alla ricerca della pecora perduta, la peggiore e senza umana speranza, si è svelato il pensiero di Dio. Lontano da quello umano come il cielo sovrasta la terra, come l’oriente dista dall’occidente. Il pensiero di Dio su chi ci è vicino, e si è fatto il più lontano, l’amico che mangiava con noi e ci ha tradito, vendendoci per trenta stupide monete. Uno sguardo e un pensiero che non ci appartengono, contabili pii e saggi quali crediamo di essere, mentre ci stringiamo alle novantanove certezze e dimentichiamo nell’inferno quella pecora che Dio ci ha dato come un tesoro unico e prezioso da custodire e amare. E nel fondo lo sappiamo, per quanto cerchiamo di rimuovere, di darci ragione con le nostre ragioni, di dirci che abbiamo fatto tutto il possibile e che ora basta, il confine della libertà altrui è invalicabile, e che vada per la propria strada… Ma la strada di quell’unica pecora così strana da perdersi, da uscire dai nostri schemi, è proprio quella che siamo chiamati a percorrere, l’imprevisto che fa saltare il banco delle nostre precarie certezze. Se non è presente all’appello del branco, al sicuro dell’ovile, per quanto si brighi e si ragioni, ci lascia il cuore inquieto; ed è il segnale che siamo nati per amare davvero, al di là di ogni ragione, per sperare contro ogni speranza, e per accogliere tutti, senza distinzione, nel nostro cuore. Quell’unica pecora che ci è sfuggita, che non ha accolto il nostro amore, le nostre cure, parla al nostro cuore: è il Signore stesso che, in lei, ci chiama alla luce della verità. Forse gli sforzi che abbiamo profuso hanno dimenticato chi quella pecora fosse realmente, e abbiamo tentato di rinchiuderla nei nostri criteri. O forse no, forse è stata davvero così perversa da rigettare il nostro amore, da rifiutarci e tradirci. Il fatto è che ora manca all’appello. E fa parte di noi, dell’eredità che Dio ci ha dato nel momento stesso in cui ci ha pensato e chiamato all’esistenza. Non saremo noi stessi sino a che non l’avremo ritrovata, issata sulle spalle e ricondotta a Dio. Ma come? Per questo non esiste manuale di teologia o di pastorale; è un affare dello Spirito Santo, dell’amore di Dio che, riversato nei nostri cuori, li rende docili alla sua follia, allo zelo che rade al suolo ogni umana sapienza, per far posto ad una misericordia che spinge a cercare laddove nessuno si avventurerebbe. Lo Spirito che ci fa giungere ad un centimetro dalla pecora perduta, ad accettare le sue fughe, ad aver pazienza, a ricominciare la ricerca, a rinunciare ad ogni piano e progetto di recupero, a lasciare che sia Dio a determinare tempi e modi. Lo Spirito di libertà che fa amare senza misura, senza sperare nulla donando tutto! Lo Spirito che ha mosso il Signore a cercarci nell’inferno nel quale ci siamo mille volte cacciati.
Per me Egli ha dato la Sua vita. Vera, intinta nei giorni che ha vissuto, la sua vita offerta in sacrificio. Per me ogni goccia del suo sangue. Per me l’umiliazione, la passione, la croce. Lui per me. Ha lasciato tutto e si è gettato sulle mie tracce: mi ha desiderato ardentemente. Il suo amore era già accanto a me, lì dov’è abbondato il peccato ha sovrabbondata la Grazia, e con essa la Gioia. Stretto dal suo abbraccio sono finalmente salvo, e libero. Che gioia rivedere il Signore. Come Pietro sulle sponde del Mare di Galilea, come quella sera di Pasqua con i suoi compagni impauriti e nascosti nel cenacolo. Anche loro perduti. Come i due compagni di Emmaus sulla strada del ritorno, pieno di delusione, alla solita vita, all’immenso sconforto d’una speranza svanita, perduti nei loro pensieri. E lì, nello sconforto, nella valle di lacrime che è tutta la nostra vita, lì può vibrare il cuore di gioia purissima. L’incontro di due così diversi eppure fatti l’uno per l’altro. “Ossa delle mie ossa, carne della mia carne”, sono queste le parole del Pastore al ritrovare la sua amata pecora smarrita.
“Mia colomba, mia perfetta”, la mia anima, perduta e ritrovata, la Sposa amata del Cantico dei Cantici. Sì, sei Tu Signore che mi cerchi da dietro la grata dei miei segreti, sei tu che balzi al mio incontro, sei tu che guardi dalla finestra in ascolto della mia voce, sei tu che bussi al mio cuore. Oggi, con questa sofferenza, con questa angoscia, con questa insoddisfazione, con questa Croce. Sei Tu che mi ami nei minuti di questa mia vita, sei Tu che mi cerchi, la tua sete di me accende in me la mia sete di Te.
Essere trovato in Te, ecco la Vita, ecco la gioia. Nessuna condanna, è svelato l’inganno d’una vita sperduta. La tua gioia invade il mio cuore. E’ passata, anche oggi è svanita la paura della morte che già m’afferrava la gola, sei Tu Signore ed io sulle tue spalle, ferito, piagato, ma salvo. Nessuno, ma proprio nessuno dei piccoli andrà perso. Nessuno di noi. Anche oggi il cuore è in attesa, Lui è alle porte, la salvezza è vicina. Così come, nel fondo dei peccati, delle incomprensioni, dei giudizi e delle divisioni, ogni pecora che è sfuggita dal nostro ovile, aspetta il nostro cuore immerso in quello di Cristo. Che il Signore ci conceda un desiderio ardente di ritrovare e amare quanti si sono allontanati, non importa per quale motivo. Che il nostro cuore sia dischiuso nella libertà senza limiti, nella speranza che supera ogni criterio, nell’amore struggente che, testardamente, non vuole che nessun piccolo sia perduto. Perchè la gioia autentica, il destino per il quale siamo nati, ci è dato come primizia nel ritrovare chi era perduto! E’ questa l’intimità con Dio, la partecipazione ai suoi sentimenti, il pensare con il suo pensiero. La sua gioia in noi, ed è, finalmente, gioia piena! La gioia di chi, al di là di ogni ragionamento, di ogni calcolo, di ogni speranza, ritrova il volto di chi aveva perduto! La gioia della misericordia! E’ in essa che si fa presente il Paradiso, esattamente come ci dice oggi il Signore. Quanti fratelli mancano all’appello del nostro cuore! Gettiamoci allora con Cristo sulle loro tracce, cerchiamoli come discepoli del Pastore, e gusteremo la gioia vera, che sgorga dall’incontro insperato dove l’amore ha ragione della carne, profumo inconfondibile del Cielo, l’ovile che tutti ci attende.
Basilio di Seleucia ( ?-circa 468), vescovo
Omelia 26, sul Buon Pastore; PG 85,299 (Bouchet, Lectionnaire, p. 219, trad. italiana)
«Si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite»
Guardiamo Gesù, il nostro pastore; vediamo il suo amore per gli uomini e la sua dolcezza nel condurli al pascolo. Gioisce delle pecore che lo circondano, cerca quelle che si smarriscono. Non rifiuta di percorrere monti e foreste, attraversa precipizi per raggiungere quella perduta. Se la trova affaticata è mosso a compassione e, presala sulle spalle, cura la fatica della pecora con la propria fatica. E’ una fatica che lo riempie di gioia, poiché ha ritrovato la pecora perduta e ciò lo guarisce dal dolore: «Chi tra voi – egli dice – se ha cento pecore e ne smarrisce una, non lascerà forse le novantanove nel deserto, per andare in cerca di quella perduta finché non l’ha ritrovata?»
La perdita di una sola pecora turba la gioia di tutto il gregge, ma la gioia di essere di nuovo insieme scaccia ogni tristezza: «Ritrovatala, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta» (Lc 15,6). Ecco perché Cristo, che è questo pastore, diceva: «Io sono il buon pastore» (Gv 10,11). «Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata» (Ez 34,16).
da Baltazzar | Dic 6, 2011 | Chiesa, Cultura e Società
di Antonio Socci
Tratto da Libero
C’è qualcosa di sorprendente – per me, cattolico – nel silenzio della Chiesa di fronte a quello che sta accadendo in Italia e in Europa (come di fronte alla sanguinosa guerra alla Libia o ai tamburi di guerra che arrivano dal Medio Oriente attorno alle armi nucleari iraniane).
I vescovi e la Santa Sede ci hanno abituato a un grande interventismo (per molti perfino esagerato).
E’ dunque strano che da settimane non si sia sentita una parola su una crisi che rischia di travolgere l’Europa e il mondo intero e che ha come epicentro l’Italia.
Eppure è la più grave crisi dalla seconda guerra mondiale (nemmeno l’invito – che mi ero permesso di fare – a un’iniziativa di preghiera per l’Italia è stata raccolta).
LA MAZZATA
Lo scenario è cupissimo. Personalmente ho visto di buon occhio la nascita di questo governo, sperando in una grande pacificazione nazionale e nel risanamento economico (sono stato fra i pochi, su questo giornale, a sostenerlo).
Mi auguro ancora che riesca.
Ma devo riconoscere che ormai la delusione è grande non solo per le cadute di stile, l’arroganza o i tempi sbagliati. Soprattutto perché si annunciano provvedimenti disastrosi per gli italiani e per l’economia in generale.
Le famiglie del nostro Paese stanno per essere colpite da una mazzata di dimensioni inaudite da parte dello Stato e i vescovi italiani – che continuamente e giustamente alzavano la loro voce fino a un mese fa chiedendo il “quoziente familiare” e “la crescita” – non proferiscono parola.
Sembrano intimiditi dai professori. Ma spennare così i contribuenti con irpef e ici non sembra una performance da “luminari”: sarebbe stato capace qualsiasi politicante.
Da “scienziati” tanto celebrati ci si aspettava che finalmente tagliassero gli sprechi, non la sanità (che è già al lumicino). Dovevano andare a tassare i conti correnti in Svizzera (come hanno fatto Germania e Francia) e non dissanguare ancor più i contribuenti onesti che già sono messi in ginocchio dal fisco.
Avrebbero dovuto finalmente mettere a reddito (magari a garanzia del debito) l’enorme patrimonio pubblico, non affamare le famiglie e colpire i malati, deprimendo ancora di più l’economia.
D’altra parte se questi “professori” fossero economisti così bravi non sarebbero stati a suo tempo così entusiasti dell’euro magnificandolo come la via del paradiso. Quando invece è stata la via dell’inferno.
Adesso sono stati chiamati a sistemare le cose. Ma il timore è che costoro non siano i medici, bensì la malattia. Anche perché è il rigore monetarista che ha creato il problema, non può essere dunque la soluzione.
FINE DELLA LIBERTA’ ?
La nascita del governo dei tecnici è già stato un colpo alla democrazia (a proposito: dove sono coloro che hanno strillato finora contro il “porcellum” e il parlamento dei nominati? Com’è che si fanno piacere un governo di non eletti da nessuno?).
Ma ora vi si aggiunge un colpo pure alla libertà civile ed economica, perché l’ulteriore vessazione fiscale (oltretutto con misure poliziesche) porta a una drastica riduzione della libertà.
Lo Stato è sempre più padrone delle nostre vite, dei nostri beni, del nostro lavoro e questo è drammatico.
Dov’è la Marcegaglia che strillava contro la pressione fiscale e che ogni giorno protestava per la “crescita”? E’ in corso un formidabile passaggio di ricchezza dalle famiglie (dai loro risparmi) verso altre destinazioni. E gli italiani sono indifesi.
Tutte le polemiche sulla casta (concentrate solo sulla politica) hanno portato a questo: nessuna riduzione dei privilegi e in più una nuova casta tecnobancaria che domina con una democrazia sospesa. Pure il Pdl tace e acconsente.
In questa generale mancanza di dibattito, di posizioni critiche, il silenzio dei vescovi italiani si nota poco. Ma c’è e pesa.
Io non condivido naturalmente il malizioso sospetto di chi insinua che la Cei starebbe coperta per evitare che il governo apra il dossier “ici degli enti ecclesiastici” e “otto per mille”.
Ma proprio perché non credo a queste insinuazioni mi aspetto che i vescovi facciano sentire fragorosamente la loro voce.
Non è “Avvenire” che ha celebrato il presunto “ritorno” dei cattolici alla politica grazie al convegno di Todi? Non è a Todi che è stato abbattuto il precedente governo?
LA BEFFA DI TODI
Ebbene, ieri, proprio il protagonista di Todi, cioè il leader della Cisl Bonanni – che fu arbitrariamente considerato per l’occasione la voce ufficiale del mondo cattolico – è apparso deluso dal governo tecnico che se ne infischia di lui e della Cisl.
Quelli di Todi sono stati cattolici “usa e getta”. Oggi non servono più.
Il “Corriere della sera”, che con “Repubblica” considerò la dichiarazione di Bonanni come il colpo di grazia della Chiesa sul governo Berlusconi, ieri ricordava “crudelmente” che col governo di centrodestra Bonanni aveva il filo diretto: praticamente la Cisl pesava enormemente.
Oggi meno del due di briscola. E questa è la “vittoria” di Todi.
Fra le pochissime voci critiche c’è quella di Giuseppe de Rita, con il Rapporto Censis.
Ha denunciato che la crisi viene dal “non governo della finanza globalizzata”, che siamo ormai “etero diretti, vista la propensione degli uffici europei a dettarci l’agenda” e che la politica è “prigioniera del primato dei poteri finanziari”.
In sostanza i cittadini non contano più nulla: “in basso il primato del mercato, in alto il primato degli organismi apicali del potere finanziario”. Così muore la democrazia e anche l’economia perché “la finanza certo non fa sviluppo”.
Sembra una denuncia pesantissima, ma è stata pressoché ignorata. Pure in casa cattolica benché De Rita sia da sempre il sociologo di riferimento della Chiesa italiana (anno scorso c’è stato perfino qualche movimento ecclesiale che ha fatto, del precedente Rapporto Censis – che nel 2010 era grigio e astruso – un argomento di riflessione pubblica: oggi nulla di nulla).
Impressiona pure che l’insieme dei vescovi europei e la Santa Sede che così fortemente hanno chiesto il richiamo alle “radici cristiane” nella Costituzione europea assistano oggi in totale silenzio al possibile disfacimento dell’Europa stessa.
Eppure sono stati i cattolici (De Gasperi, Schuman, Adenauer) a costruire l’unità europea, mentre sono i tecnocrati che hanno rifiutato le “radici cristiane” ad averla portata sull’orlo del baratro.
E il “caso Merkel-Germania” ?
I TEDESCHI NON RICORDANO
Perfino due grandi statisti tedeschi come Kohl e Schmidt hanno criticato l’assurda rigidità della Merkel (una protestante cresciuta sotto il comunismo della Ddr).
Chi più e meglio del Papa tedesco potrebbe parlare a quel popolo per dirgli che magnanimità e solidarietà converrebbero pure a lui?
Ci sarebbe bisogno di ricordare ai tedeschi che, dopo la Prima guerra mondiale, proprio la feroce imposizione da parte dei vincitori dei “risarcimenti di guerra” scaraventò la Germania (e l’Europa) nella crisi.
Mentre nel secondo dopoguerra – quando i tedeschi avrebbero meritato ben più pesanti ritorsioni – ebbero invece il piano Marshall americano. E convenne a tutti. E’ la prova che proprio la magnanimità costruisce benessere e pace.
Bisognerebbe ricordare agli amici tedeschi che la loro riunificazione (con la parità del marco) in parte l’abbiamo pagata tutti.
E pure che loro pretendono di imporre sanzioni agli altri, ma non le accettano per sé (com’è noto furono proprio loro, con la Francia, a sgarrare sul patto di stabilità nel 2003. E non ebbero penalizzazioni).
I tedeschi non hanno memoria storica. E anche la fissazione della moneta forte, contro lo spauracchio dell’inflazione, non ha fondamenti storici: infatti ad aprire le porte a Hitler non fu l’inflazione del primo dopoguerra, ma la depressione (e la disoccupazione) per la crisi del 1929.
Chi, più e meglio della Chiesa, potrebbe oggi ricordare ai tedeschi il dovere della solidarietà che hanno verso questa Europa che la Germania ha devastato con il suo orrore? Ci guadagnerebbero anche loro.
Speriamo che una voce si alzi…
da Baltazzar | Dic 6, 2011 | Chiesa sofferente, Cultura e Società
di Marco Respinti
Tratto da La Bussola Quotidiana
Con un messaggio al mondo affinché denunci apertamente e senza indugi la persecuzione contro i cristiani – un’emergenza mondiale, addirittura umanitaria, che coinvolge un milione di vittime, con oltre 100mila morti all’anno come da tempo pubblicamente noto – si è conclusa ieri, 1° dicembre, a Mosca la “Conferenza internazionale sulla discriminazione e persecuzione dei cristiani” organizzata dal Patriarcato di Mosca, suggellata da un intervento del patriarca Kirill e ampiamente riecheggiata dai media russi.
Il metropolita Hilarion di Volokolamsk, responsabile delle relazioni esterne del Patriarcato di Mosca, l’ha definita, a ragione, la più grande riunione ecclesiastica mai organizzata su questo tema.
La Conferenza è stata infatti animata, tra gli altri, dai vibranti interventi degli arcivescovi cattolici Paolo Pezzi, arcivescovo della diocesi di Mosca, Ivan Jurkovic, nunzio apostolico in Russia, e Joseph Ender, rappresentante speciale della Santa Sede alla conferenza; quindi del metropolita della Chiesa Assira irachena Mar Gewargis, il quale ha denunciato il clima di terrore che si vive nel suo Paese, clima che costringe molti cristiani a emigrare così che la comunità cristiana rischia oramai l’estinzione; nonché di numerosi arcivescovi e patriarchi del mondo ortodosso. Alla Conferenza hanno pure – significativamente – preso parte rappresentanti delle comunità ebraica e islamica russe.
La Conferenza è stata aperta dal sociologo italiano Massimo Introvigne, rappresentante dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e Cooperazione in Europa) per la lotta al razzismo e alla discriminazione contro i cristiani, nonché collaboratore di spicco de La Bussola Quotidiana, il quale – prendendo spunto dalla mostra sulla pittura italiana dell’Ottocento in corso all’Hermitage di San Pietroburgo – ha ricordato come uno dei temi passati nel secolo XIX dalla pittura italiana a quella russa e documentati nell’esposizione è quello del naufragio. Se continua a tacere sulla persecuzione dei cristiani per paura di offendere i persecutori, «che magari», ha detto Introvigne, «ci forniscono petrolio o acquistano i nostri buoni del tesoro», l’Europa rischia un naufragio morale e spirituale che sarà perfino più dannoso della crisi economica.
Decisivo quindi il documento finale della Conferenza moscovita. In esso si indicano infatti come Paesi a rischio particolare l’Egitto, Pakistan, l’Afghanistan, la Nigeria, il Sudan, l’Indonesia, l’Eritrea e l’India. Si plaude all’OSCE per avere organizzato il vertice di Roma del 12 settembre 2011 sui crimini contro i cristiani. Quindi si chiede a tutti gli Stati un’effettiva azione giudiziaria per perseguire gli autori di violenze contro i cristiani. E infine si propone di creare un «organismo internazionale che tenga monitorate le discriminazioni contro i cristiani e che offra loro assistenza»: un’iniziativa, questa, di assoluto rilievo, visto che alla Conferenza di Mosca è stata promossa dagli ortodossi ed è perfettamente in linea con quanto auspicano anche i cattolici – in primis la Santa Sede -, gli organismi internazionali già oggi attivi su questo fronte – come l’OSCE e in particolare il rappresentante Introvigne – e la sensibilità di diversi osservatori indipendenti.
È del resto significativo ricordare il fatto che – molti lo hanno notato -, quando la battaglia contro il tentativo di rimuovere il crocifisso dalle aule delle scuole italiane (tutto partì del “caso Lautsi” a cui il patriarca Kirill ha fatto espresso riferimento durante la Conferenza moscovita) vide mobilitarsi anche Papa Benedetto XVI attraverso la diffusione di un appello che avrebbe dovuto indurre altri Paesi ad affiancare l’Italia nel ricorso contro la sentenza di primo grado della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, solo dieci Paesi presentarono ricorsi insieme all’Italia ma che di questi solo quattro, e piccoli, erano e sono cattolici (Lituania, Malta, San Marino e Monaco) mentre gli altri sei – il “grosso” di quell’“offensiva” giuridico-culturale – erano e sono ortodossi (Russia, Grecia, Romania, Bulgaria, Cipro, Armenia).
Da tempo la questione della cristianofobia (da cui non è esente nemmeno l’Europa) tiene del resto banco. Durante la Conferenza, la Chiesa Copta ha presentato in anteprima – una vera e propria “chicca” – un filmato (realizzato in lingua inglese) sulle violenze e sulle brutalità praticate della polizia oggi in Egitto, le quali continuano “allegramente” anche dopo la cosiddetta “primavera araba” e ancora a urne aperte.
Inoltre, un religioso cattolico pakistano (che per evidenti ragioni di sicurezza chiede l’anonimato) ha presentato documentazione inedita sulla persecuzione di cui sono oggetto quotidiano i cristiani in Pakistan, addirittura con episodi di sacerdoti bruciati vivi. E un rappresentante copto ha persino riferito che in Egitto si verificano anche casi di “donazione” forzata di organi da parte di cristiani negli ospedali.
Davvero importante è stato quindi l’intervento del muftì di Mosca e della regione centrale della Russia, Albir Krganov, il quale ha affermato che la legge islamica deve essere interpretata in termini che impongano il divieto di uccidere sacerdoti e monaci cristiani, impegnando pubblicamente l’islam russo a denunciare le violazioni. Del resto, solo giovedì 30 novembre il muftì aveva apertamente invitato i musulmani a integrarsi attivamente nella società russa a seguito del grande raduno del martedì precedente, allorché migliaia di islamici russi si sono dati convegno nel famoso parco Sokol’niki di Mosca.