La Manif Pour Tous Italia torna a vegliare in difesa della famiglia e della libertà di espressione

Appuntamento in varie città italiane per venerdì 11 ottobre «per chiedere ancora una volta, a gran voce, il ritiro dell’assurda proposta di legge Scalfarotto»
da www.tempi.it 

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La Manif Pour Tous Italia chiama a raccolta la società civile a vegliare in difesa della famiglia e della libertà di espressione, e a manifestare il proprio dissenso contro il disegno di legge Scalfarotto, un provvedimento ideologico che, se approvato dal Senato – nonostante l’emendamento Gitti – non farebbe altro che impedire ai liberi cittadini, e alle associazioni, di esprimersi in modo civile su proposte di legge come il matrimonio tra persone dello stesso sesso, e la possibilità di adozione dei bambini da parte degli stessi. Conseguenze sottaciute, ma inevitabili, di questa linea legislativa.

In tutta Italia stanno nascendo comitati per combattere assieme a noi questa battaglia antropologica in difesa della famiglia e della libertà d’espressione. Pertanto, venerdì 11 ottobre, dalle ore 19:00, daremo vita, nel pieno rispetto dell’ordine pubblico, ad una prima grande mobilitazione nazionale, con manifestazioni a Roma, Bisceglie, Bologna, Bolzano e Pisa, per chiedere ancora una volta, a gran voce, il ritiro di un’assurda proposta di legge che, come ha dimostrato il recente “caso Barilla” (Barilla & Boldrini. «Anche noi Ostellino ci sentiamo discriminati in quanto famiglia “sessista”» di Piero Ostellino), non genera altro che odio nei confronti di chi non si rassegna ad esprimere la propria opinione e non intende sottomettersi ad un provvedimento degno del peggior stato totalitario. 

Il Comitato

La Manif Pour Tous – Italia

Australia, coppia indiana vuole un aborto perché il nascituro è femmina. Medico si oppone: indagato

Australia, coppia indiana vuole un aborto perché il nascituro è femmina. Medico si oppone: indagato

Hobart ha fatto obiezione di coscienza e non ha indirizzato la coppia a un altro medico, obbligo previsto per legge, «perché non ne conosco». Ora è sotto indagine
di Benedetta Frigerio da www.tempi.it 

aborto-ecografiaUn medico di Melbourne è stato indagato e rischia di non poter più esercitare la sua professione perché ha cercato di impedire un aborto selettivo. Una coppia indiana si è recata dall’australiano Mark Hobart per abortire alla 19esima settimana, solo perché il nascituro era femmina. L’uomo si è rifiutato e «poiché tutti i miei colleghi sono contrari all’aborto selettivo» non ha neanche indicato alla coppia un medico non obiettore. Per questo ad aprile il Medical Board dello Stato di Victoria ha deciso di indagarlo.

«LEGGE ESTREMA». La legge sull’aborto australiana, riformata nel 2008, non permette alle infermiere di rifiutarsi di assistere alle interruzioni di gravidanza e obbliga i medici che vogliono fare obiezione di coscienza a indicare un collega non obiettore. Da quando la nuova legge, definita «estrema», è stata approvata gli aborti “late-term” al Royal Women’s Hospital ad esempio sono aumentati del 600%.

HOBART INDAGATO. Quando Hobart è venuto a sapere che la coppia indiana era riuscita a interrompere la gravidanza con un altro medico, ha denunciato l’aborto selettivo al Medical Board e in un’intervista. Il Medical Board, però, non solo non ha fatto niente, dal momento che la legge permette le interruzioni di gravidanza fino alla 24esima settimana e non vieta formalmente l’aborto selettivo, ma ha aperto un’indagine a carico di Hobart perché non ha «rinviato una donna che voleva un aborto o consigli sull’aborto a un collega non obiettore».

«STO FACENDO LA COSA GIUSTA?». Hobart ora rischia di perdere il lavoro e fa anche fatica a «preparare la sua difesa» dal momento che il Medical Board non ha rivelato chi siano i membri che hanno aperto l’indagine contro di lui. Pressioni di questo tipo, ha detto il dottore, «ti rendono ansioso e ti fanno anche venire il dubbio: “Sto facendo la cosa giusta?”. Ma poi non trovo alcuna ragione per obbedire a questa legge. È semplicemente ingiusta».
Più volte Hobart ha dichiarato che «per la Chiesa cattolica chi aiuta o assiste nella pratica di un aborto commette peccato mortale». Inoltre, ha sempre sostenuto che «la ragione e la logica portano a concludere che l’aborto è un omicidio» e forse anche per queste sue posizioni è stato indagato.

Mercoledì della XXVII settimana del T.O.

Mercoledì della XXVII settimana del T.O.

Dal Vangelo secondo Luca 11,1-4.
Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». 
Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore, e non ci indurre in tentazione». 
Il commento di don Antonello Iapicca
 
Il Padre Nostro è la preghiera del “discepolo”, di chi segue il Signore e sperimenta la necessità impellente di pregare. E, proprio perché è “discepolo”, ha bisogno che Gesù glielo insegni. Umiltà innanzitutto… E non è così scontata. Troppo spesso ci illudiamo di poter vivere di rendita e di saper gestire le situazioni, evitando accuratamente la “fatica” quotidiana della preghiera. Solo chi non la conosce e non l’ha frequentata può parlarne in termini sentimentali. La preghiera è un “ufficio” ci insegna la Chiesa, un compito e una vocazione, come quella di uno sposo con sua moglie, o di un figlio verso suo padre. E sappiamo bene che ogni relazione è un cammino da percorrere, piuttosto che emozioni da sentire. Ogni giorno, ogni ora, ogni istante, in un tessuto di gioie e dolori, bonacce e tempeste, comprensioni e incomprensioni. Comunque, una dura fatica, perché siamo sulla terra e non nel Paradiso, e c’è da confrontarsi con il peccato e le sue conseguenze, le ferite che ci indeboliscono e sporcano ogni rapporto. Anche quello con Dio, nostro Padre. Per questo, per insegnare ai suoi discepoli a pregare, Gesù insegna ad essere figlio: ammaestra offrendo se stesso come “materia” da studiare, Maestro e più che Rabbì, che ha lottato ogni istante per vivere da Figlio: “Yose ben Yo’ezer ha detto: Sia la tua casa un luogo di convegno per i dotti; impolverati della polvere dei loro piedi e sii sempre assetato delle loro parole” (Avot 1:4). Per imparare a pregare i discepoli di Gesù devono fare della propria casa, della propria vita, un “luogo” di convegno, e sedersi ai suoi piedi come fece Maria. Per imparare a pregare devono impolverarsi della polvere dei piedi di Gesù, condividere il suo cammino, la sua storia, sino alla Croce.
Proprio le parole del Padre Nostro sono la polvere dei suoi piedi; le sue lacrime e le sue grida, le orme che lo hanno condotto al Getsemani e alla Croce, per entrare nella morte e risorgere vittorioso: “Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime … e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb. 5, 7-8). Gesù si è messo alla scuola del Padre, come un discepolo, e ha imparato, nell’intimità dell’amore, che cosa sia davvero essere figlio. Per Lui, come per ciascuno di noi, era preparato un cammino: esso ha, per così dire, “un luogo” – quel “luogo” dove Gesù “si trovava a pregare” – ed è la prossimità, l’intimità, la frequentazione di padre e figlio. In questa relazione intima la libertà trova il suo compimento nell’obbedienza. Ed essa è sempre la coniugazione dell’amore.
Tra gli ulivi del Getsemani, nella notte di forti grida e lacrime, Gesù ha cominciato ad essere crocifisso: la sua volontà era ormai consegnata a quella del Padre, trafitta dal male e trasformata in pura compassione. All’arrivo delle guardie tutto era già stato consumato, Gesù aveva imparato l’obbedienza nel patimento più grande, era libero, era perfetto come il Padre; lo stesso cuore, la stessa compassione, era Figlio: nato dal Padre Nostro pregato mille volte durante mille notti, nella solitudine che abbracciava ogni uomo della storia. La preghiera insegnata da Gesù, infatti, è una profezia della sua Passione: inizia con Abbà, Padre, ed è il Getsemani. Prosegue poi con le diverse petizioni, e sono lo svolgersi concreto della Passione: il Nome santificato dinanzi al Sommo Sacerdote, il Regno che giunge con la corona di spine, il pane della Croce, la protezione dal maligno nel suo estremo tentativo di far scendere Gesù dalla Croce, e il perdono dei peccati, le ultime sue parole prima di spirare.
Per questo, quando un discepolo chiede a Gesù di insegnargli a pregare, in realtà chiede che gli insegni l’obbedienza, perché solo in essa si può vivere sino in fondo. Pregare, dunque, è l’atteggiamento più esistenziale che ci sia, altro che sentimentalismi: è la chiave con la quale entrare giorno dopo giorno nella storia di dolore e precarietà che ci attende. E lì dentro imparare l’Abbà con il quale Gesù si è consegnato al Padre e a ogni uomo. Per essere discepoli occorre essere figli, perché ogni vocazione nasce dal battesimo: prima si è cristiani e poi preti, suore o genitori. E per essere figli di Dio, ovvero cristiani, non possiamo restare un istante senza pregare. Ma abbiamo sperimentato nella nostra vita la paternità di Dio? Il suo Nome che ha fatto santo il nostro, la sua presenza che ha dato senso e dignità alla nostra vita? Il suo amore provvidente che ci ha sfamato ogni giorno con il Pane della Parola e dei sacramenti, insieme a quello che ha nutrito il nostro fisico? Il perdono dei peccati, il trionfo del suo Regno su quello del demonio che ci teneva schiavi, e la sua protezione potente dalle tentazioni? Se non c’è questa esperienza il Padre Nostro resterà una pia preghiera che non avrà nulla a che fare con la nostra vita. In essa, invece, possiamo imparare a vivere “misticamente” ogni evento, con uno sguardo di fede e innamorato, capace di riconoscere in ogni “luogo” l’opera di Dio. Ed è proprio questa la missione alla quale siamo chiamati, aprire il Cielo a un mondo sul quale invece esso pesa come una lapide. Predicare il Vangelo al mondo è un frutto della preghiera, come qualunque altra attività: non una parola, non un gesto  che non sgorghi dalla profonda intimità con il Padre. Non si può essere pastori senza vivere nel respiro del Padre Nostro, come non si può compiere la missione di padri e madri, mariti e mogli, usciere e medico. Se non si ha lo Spirito di Gesù Cristo si cercherà di piegare la realtà ai propri criteri carnali e mondani, attraverso una preghiera con la quale chiedere a Dio appoggio e aiuto su quanto già deciso e intrapreso. Il Padre Nostro, invece, è la preghiera che, umilmente, prima di tutto, chiede a Dio “che cosa vuoi da me, che cosa mi dici di fare perché si compia ciò che è tuo“?
QUI IL COMMENTO ESTESO

Il Padre Nostro è la preghiera del “discepolo”. Chi segue il Signore sperimenta la necessità impellente di pregare. Ma, proprio perché è “discepolo”, ha bisogno che Gesù glielo insegni. Umiltà innanzitutto… E non è così scontata. Troppo spesso ci illudiamo di poter vivere di rendita e di saper gestire le situazioni, evitando accuratamente la “fatica” quotidiana della preghiera. Solo chi non la conosce e non l’ha frequentata può parlarne in termini sentimentali. La preghiera è un “ufficio” ci insegna la Chiesa, un compito e una vocazione, come quella di uno sposo con sua moglie, o di un figlio verso suo padre. E sappiamo bene che ogni relazione è un cammino da percorrere, piuttosto che emozioni da sentire. Ogni giorno, ogni ora, ogni istante, in un tessuto di gioie e dolori, bonacce e tempeste, comprensioni e incomprensioni. Comunque una dura fatica, perché siamo sulla terra e non nel Paradiso, e c’è da confrontarsi con il peccato e le sue conseguenze, le ferite che ci indeboliscono e sporcano ogni rapporto. Anche quello con Dio, nostro Padre.

Per questo, per insegnare ai suoi discepoli a pregare, Gesù insegna ad essere figlio: ammaestra offrendo se stesso come “materia” da studiare, Maestro e più che Rabbì, che ha lottato ogni istante per vivere da Figlio: “Yose ben Yo’ezer ha detto: Sia la tua casa un luogo di convegno per i dotti; impolverati della polvere dei loro piedi e sii sempre assetato delle loro parole” (Avot 1:4). Per imparare a pregare i discepoli di Gesù devono fare della propria casa, della propria vita, un “luogo” di convegno, e sedersi ai suoi piedi come fece Maria. Per imparare a pregare devono impolverarsi della polvere dei piedi di Gesù, condividere il suo cammino, la sua storia, sino alla Croce. I “discepoli” dei rabbini, infatti, imparavano non solo dalle parole, ma anche dalla loro vita e dal loro esempio. Per imparare entravano a servizio del maestro: allo stesso modo, per imparare a pregare, è necessario servire Cristo e consegnargli la vita, perché Lui, l’unico Maestro, ha offerto ai suoi discepoli gratuitamente le sue parole e la propria vita; e non solo come esempio, ma come un dono da accogliere.

La preghiera del Padre Nostro è il tesoro di sapienza che il Rabbì Gesù ha trasmesso ai suoi discepoli, la preghiera rivelata nella stessa sua vita. Le parole del Padre Nostro sono la polvere dei suoi piedi; le sue lacrime e le sue grida, le orme che lo hanno condotto al Getsemani e alla Croce, per entrare nella morte e risorgere vittorioso: “Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime … e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb. 5, 7-8). Gesù si è messo alla scuola del Padre, come un discepolo, e ha imparato, nell’intimità dell’amore, che cosa sia davvero essere figlio. Lo era per natura, come ciascuno di noi è figlio naturale del suo padre nella carne. Ma vi era per lui, come per ciascuno di noi, un cammino che coinvolge la libertà, perché l’identità con il padre superi il livello biologico e divenga un’identità che abbracci la persona nella sua totalità. Questo cammino ha, per così dire, “un luogo” – quel “luogo” dove Gesù “si trovava a pregare” – ed è la prossimità, l’intimità, la frequentazione di padre e figlio. Questo percorso ha bisogno di una serie di atteggiamenti: guardare, ascoltare, domandare, a volte anche discutere e litigare… Qualcosa di vero, impastato di polvere e sudore, come la nostra storia di ogni giorno. In questa relazione intima la libertà trova il suo compimento nell’obbedienza. Ed essa è sempre la coniugazione dell’amore. Può sembrare paradossale, perché obbedienza “è una parola che non piace a noi, nel nostro tempo. Obbedienza appare come un’alienazione, come un atteggiamento servile. Uno non usa la sua libertà, la sua libertà si sottomette ad un’altra volontà, quindi uno non è più libero, ma è determinato da un altro, mentre l’autodeterminazione, l’emancipazione sarebbe la vera esistenza umana.” (Benedetto XVI, Lectio sul sacerdozio nella Lettera agli Ebrei, nell’incontro con i parroci ed i sacerdoti di Roma, 18 febbraio 2010).

Per questo, quando un discepolo chiede a Gesù di insegnargli a pregare, in realtà chiede che gli insegni l’obbedienza, quella che anche Lui ha imparato dalle sue sofferenze. Pregare è l’atteggiamento più esistenziale che ci sia, altro che sentimentalismi. Pregare è la chiave con la quale entrare giorno dopo giorno nella storia di dolore e precarietà che ci attende. E lì dentro imparare l’obbedienza che incarna l’amore autentico. Proprio nel Getsemani, al culmine di una vita consumata nell’obbedienza al Padre, Gesù rivela come la libertà sia condizione ineludibile dell’amore e raggiunga la sua perfezione proprio nell’obbedienza: “Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio” (Gv. 10, 17-18). Gesù offre la sua vita liberamente rispondendo così al comando del Padre; Egli riconosce nella volontà paterna un’opera così grande e urgente – quella per la quale è venuto al mondo – da assorbire in sé stessa la propria volontà, sino al punto di identificarla con quella di suo Padre. La libertà è stata come il veicolo attraverso il quale la volontà del Figlio si è disciolta in quella del Padre, rivelando così la somiglianza perfetta tra i due. La libertà legata profetizzata da Isacco nel celebre episodio della aqedà, il Targum del capitolo 22 del Libro della Genesi:

“Abramo prese la legna dell’olocausto e la caricò sul figlio Isacco, prese in mano il fuoco e il coltello, poi proseguirono tutti e due insieme con cuore integro. Isacco si rivolse al

padre Abramo e disse: «Padre mio!». Rispose: «Eccomi, figlio mio». Riprese: «Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?». E rispose Abramo: davanti al Signore, Lui ha preparato per se l’agnello per l’olocausto e se non, tu sarai l’agnello che
è per l’olocausto, figlio mio!». Proseguirono tutt’e due insieme con cuore integro; così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare collocò la legna, legò il figlio Isacco e lo depose sull’altare, sopra la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare Isacco suo figlio. Rispose Isacco e disse al Abramo suo padre: Padre mio, legami bene, affinché non ti colpisca con calci e la tua offerta non diventi inadatta da parte tua e poniamo fiducia nella fossa della distruzione che sta arrivando al mondo.. Gli occhi di Abramo erano sugli occhi di Isacco e gli occhi di Isacco si muovevano verso gli angeli dall’alto. E Abramo non li vide. In questo momento uscì la voce divina dai cieli e disse: Venite! Guardate due esseri unici che sono nel mio mondo. Uno sta per immolare e uno sta per essere immolato. Quello che sta per immolare non esita e quello che sta per essere immolato ha steso il suo collo” (Targum Neophiti).
La completa identità tra Abramo ed Isacco è profezia e immagine di quella rivelata da Gesù nel Getsemani: Tutt’e due insieme con cuore integro, due esseri unici, l’uno legato all’altro in una medesima volontà. E’ dunque la volontà il tratto somatico che rivela la somiglianza tra Padre e Figlio: “Siate perfetti come è perfetto il Padre mio che è nei Cieli”. La perfetta libertà è rivelata nel legame indissolubile della perfetta obbedienza: Padre e Figlio sono entrambi legati nel medesimo volere, l’amore perfetto, sino alla fine. Nel Getsemani Gesù ha offerto se stesso, liberamente e senza condizioni, alla Croce preparata dal Padre. Tra quegli ulivi, nella notte di forti grida e lacrime, Gesù ha cominciato ad essere crocifisso: la sua volontà era ormai consegnata a quella del Padre, trafitta dal male e trasformata in pura compassione. All’arrivo delle guardie tutto era già stato consumato, Gesù aveva imparato l’obbedienza nel patimento più grande, era libero, era perfetto come il Padre; lo stesso cuore integro, la stessa compassione, era Figlio. nato dal Padre Nostro pregato mille volte durante mille notti, nella solitudine che abbracciava ogni uomo della storia. La preghiera insegnata da Gesù, infatti, è una profezia della sua Passione: dall’arresto allo spirare sulla Croce tutto sarà naturale, il compiersi del suo essere figlio. 
 
Il discepolo che ascolta accoglie, nella preghiera, l’Abbà con il quale Gesù si è consegnato al Padre e a ogni uomo. Per essere discepoli e vivere secondo la volontà di Dio nella quale siamo stati chiamati, non possiamo restare un istante senza pregare. Anche quando si fa pesante, si vorrebbe far altro, esattamente come in una relazione d’amore che si nutre, proprio nei momenti difficili, della consegna all’altro. Ecco, attraverso la preghiera ci consegniamo a Cristo, per vivere immersi nel suo Abbà. Abbiamo sperimentato nella nostra vita lapaternità di Dio? Il suo Nome che ha fatto santo il nostro, la sua presenza che ha dato senso e dignità alla nostra vita? Il suo amore provvidente che ci ha sfamato ogni giorno con il Pane della Parola e dei sacramenti, insieme a quello che ha nutrito il nostro fisico? Il perdono dei peccati, il trionfo del suo Regno su quello del demonio che ci teneva schiavi, e la sua protezione potente dalle tentazioni? Se non c’è questa esperienza il Padre Nostro resterà una pia preghiera che non avrà nulla a che fare con la nostra vita.

La preghiera insegnata da Gesù, infatti, è una profezia della sua Passione: inizia con Abbà, Padre, ed è il Getsemani. Prosegue poi con le diverse petizioni, e sono lo svolgersi concreto della Passione: il Nome santificato dinanzi al Sommo Sacerdote, il Regno che giunge con la corona di spine, il pane della Croce, la protezione dal maligno nel suo estremo tentativo di far scendere Gesù dalla Croce, ed il perdono dei peccati, le ultime sue parole prima di spirare. Con il Padre Nostro Gesù ci chiama a vivere la sua vita, ad essere discepolo per imparare, seguendo le sue orme, ad essere figlio: “nonostante tutta la nostra miserevole insufficienza, ci accoglie in sé, nel suo sacrificio vivente e santo, così che diventiamo veramente il suo corpo” (J. Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazareth. Seconda parte). Dicendo Padre Nostro siamo chiamati a dire Padre di Gesù e Padre mio, e Padre di ogni mio fratello. E’ questa la buona notizia annunciata da Gesù alla Maddalena perché la trasmetta ai suoi discepoli: “io salgo al Padre mio e Padre vostro!”. Il cammino al Cielo è ormai dischiuso e la via crucis che ci attende ogni giorno è il cammino alla beatitudine eterna dell’amore di Dio. Il Padre Nostro è il nostro respiro quotidiano consegnato al respiro di Dio, per imparare l’obbedienza dalle cose che patiamo, divenire figli somiglianti del Padre, lo stesso cuore per vivere eternamente del suo amore.

Il Padre Nostro è la preghiera del figlio che segue le orme di suo Padre. Per questo è la preghiera di Gesù. E la nostra. In essa impariamo a vivere “misticamente” ogni evento, che non è fuggire in un’alienazione pseudo-spirituale, ma con uno sguardo di fede e innamorato capace di riconoscere in ogni “luogo” l’opera di Dio. Ed è proprio questa la missione alla quale siamo chiamati, aprire il Cielo a un mondo sul quale invece esso pesa come una lapide. Predicare è un frutto della preghiera, come qualunque altra attività. Tutto nasce dall’Abbà ripetuto come un sigillo su ogni relazione e ogni evento. Non una parola, non un gesto che non sgorghi dalla profonda intimità con il Padre. Non si può essere pastori senza vivere nel respiro del Padre Nostro, come non si può compiere la missione di padri e madri, mariti e mogli, usciere e medico. Se non si ha lo spirito di Gesù Cristo che ha vissuto tutto nell’obbedienza piena di amore a suo Padre, si cercherà di piegare la realtà ai propri criteri carnali e mondani, attraverso una preghiera con la quale cercare da Dio appoggio e aiuto su quanto già deciso e intrapreso. Il Padre Nostro, invece, è la preghiera che, umilmente, prima di tutto, chiede a Dio “che cosa vuoi da me?”.
La fecondazione in vitro aumenta a dismisura il rischio di cancro e leucemia per i figli

La fecondazione in vitro aumenta a dismisura il rischio di cancro e leucemia per i figli

Lo studio più ricco di dati mai condotto (25 analisi da 12 paesi) mostra il legame fra trattamenti di fertilità e probabilità che i concepiti contraggano malattie. E «solleva preoccupazioni» nella comunità scientifica
di Benedetta Frigerio da www.tempi.it 

fecondazione-assistita-jpg-crop_displayI bambini nati tramite fecondazione in vitro (Fiv) sono tre volte più esposti al rischio di sviluppare tumori. A dirlo è lo studio più ricco di dati mai condotto, pubblicato sulla rivista scientifica Fertility and Sterility.

25 ANALISI DA 12 PAESI. Svolto da un team di ricercatori danesi della Danish Cancer Society di Copenhagen, unisce 25 analisi effettuate nei 12 paesi in cui la Fiv è maggiormente utilizzata. Fra questi ci sono, oltre alla Danimarca, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. «Il risultato della meta-analisi – si legge – mostra il legame fra i trattamenti di fertilità e il cancro dei figli». Che la fecondazione assistita possa generare disordine nell’imprinting genetico del bambino, causando sindromi di Beckwith-Wiedemann, di Angelman, di Prader Willi o altre ancora, è noto da tempo. Ma ora gli scienziati danesi aggiungono numeri preoccupanti: i nati con la Fiv hanno il 65 per cento di probabilità in più di sviluppare la leucemia e l’88 di ammalarsi di cancro al cervello.

IL FUNZIONAMENTO DEI GENI. La causa di questo sarebbe legata al bombardamento ormonale che serve a iperstimolare l’ovulazione, alla modalità di inseminazione, al congelamento degli embrioni, alla condizione in cui questi crescono e al ritardo di impianto degli ovuli fecondati. Tutti questi fattori incidono sul funzionamento dei geni, alterandolo. Mentre l’ovulo viene rimosso dalle ovaie per essere fertilizzato in laboratorio e successivamente tornare nell’utero materno, il dna dell’embrione subisce infatti degli stimoli innaturali che possono causare lo sviluppo di malattie. Stimoli che aumentano con il congelamento, il tempo di inseminazione e gli altri fattori artificiali. L’ipotesi che a contribuire al fenomeno siano anche gli estrogeni somministrati per stimolare le ovaie è dovuta al fatto che un tempo lo stesso trattamento era utilizzato sulle donne incinte per evitare complicazioni e che si smise di prescriverlo proprio perché alzava il rischio di sviluppo del cancro nei bambini.

LA PREOCCUPAZIONE DEI MEDICI. La ricerca danese ha colpito la comunità scientifica perché, oltre ad essere la più ricca di dati, copre un arco di tempo molto prolungato: si va dal 1990 al 2010. Geeta Nargund, direttore della Create Health Clinics, fra le cliniche inglesi che praticano la fecondazione in vitro, ha commentato: «Questo è uno studio interessante che solleva preoccupazioni sui potenziali effetti di lungo periodo per i bambini nati in seguito ai trattamenti di fecondazione».

Siria, 13enne assoldato dai ribelli come cecchino: «Ho ucciso 32 persone, ormai sono abituato»

Siria, 13enne assoldato dai ribelli come cecchino: «Ho ucciso 32 persone, ormai sono abituato»

La terribile storia di Shaaban Abdallah Hamedah in un’intervista a una tv araba: «Mi ha ingaggiato mio zio, uccidere non mi fa nessun problema»
da www.tempi.it di Leone Grotti 

Si chiama Shaaban Abdallah Hamedah, ha appena 13 anni e ad Aleppo ha già ucciso 32 persone, dopo essere stato ingaggiato dai ribelli come cecchino. È lo stesso ragazzino a raccontare la sua esperienza a una televisione araba in un’intervista tradotta in inglese dal canale Eretz Zen.

«BUONA PAGA E UNA PISTOLA». Shaaban era impiegato in una fabbrica che lavora la plastica, quando suo zio Yahya Aziz Aziz l’ha ingaggiato: «Mi ha proposto di unirmi a lui in un gruppo chiamato “Perdonami, padre”, affiliato con i “Nipoti del profeta”. Mi ha detto che mi avrebbe dato una buona paga e una pistola da mostrare ai miei amici e io ho lavorato con loro per tre mesi».
L’armata ribelle Ahfad Al Rasoul, Nipoti del profeta, è una brigata di circa 15 mila uomini finanziata dal Qatar. È guidata da Ziad Haj Obaid, che fa parte del Commando militare supremo dell’Esercito libero siriano, che Stati Uniti, Francia e Inghilterra vorrebbero armare.

 «SPARARE A TUTTI». Shaaban è stato addestrato come cecchino per un mese, «quando ho imparato bene [mio zio] ha fissato un fucile da cecchino sul tetto di un edificio da cui si vedeva bene il ponte Shaar. Quando vedevamo civili o soldati mi diceva di colpirli». Shaaban lavorava dalle sette di mattina alle quattro di pomeriggio, «poi venivo sostituito. Mi dicevano di colpire chiunque attraversasse il ponte, ogni persona o macchina che passava, civile o militare. Anche se era una mamma, dovevo colpirla lo stesso. Se qualcuno del nostro gruppo invece doveva passare, me lo facevano sapere».

«LA PRIMA PERSONA CHE HO UCCISO». Il ragazzino racconta della prima persona che ha ucciso senza la benché minima emozione: «La prima persona che ho ucciso, l’ho vista da lontano e quando è salita sul ponte, Yahya mi ha detto di sparargli. Mi sono bloccato e ho cominciato a tremare. Era la prima persona che uccidevo. Avevo i brividi, lui mi ha detto: “Sparagli, non aver paura”. Mi ha preso la mano e gli ho sparato. Per tre giorni non sono stato in grado di dormire. Continuavo a vedere quell’uomo nel sonno. Poi mi sono abituato e non ho più avuto incubi. Quando ho cominciato a sparare bene, ne uccidevo tre al giorno».

«COLPIVO ANCHE ALTRI RIBELLI». Shaaban ricorda di avere ucciso anche altri combattenti ribelli. Quando l’intervistatore gli chiede perché, risponde: «Ho sparato anche a dei ribelli perché c’erano dei dissidi tra loro e il gruppo di mio zio. Tutto questo fatto di uccidere le persone per loro sembrava un gioco». Ovviamente uccideva anche soldati dell’esercito di Assad: «Quando i soldati salivano sul ponte, io dovevo colpirli. Avanzavano 15 alla volta e io riuscivo a ucciderne uno o due su 15. A quel punto loro capivano che c’era un cecchino e io chiamavo Yahya, gli dicevo dove si dirigevano, avevo paura che venissero da me. Lui veniva con tre o quattro guerriglieri, che aspettavano sotto l’edificio per aiutare me e gli altri cecchini a scappare».

«ORMAI SONO ABITUATO». In tutto Shaaban afferma di aver ucciso «circa 10 soldati, 13 civili e 9 militanti ribelli, come Yahya mi ha chiesto di fare». Alla fine dell’intervista afferma con una freddezza e una calma disumane: «Da un tetto posso uccidere chiunque. Non mi fa nessun problema ammazzare delle persone. Ormai ci sono abituato».