Da giovane comunista a sacerdote

Come l’esperienza del Rinnovamento nello Spirito ha cambiato la vita a don Fulvio Bresciani

di Antonio Gaspari

RIMINI, lunedì, 30 aprile 2012 (ZENIT.org).- Aveva nove anni quando ha perso il padre. Il dolore lo ha allontanato dalla Chiesa. E’ diventato un dirigente dei giovani comunisti. Ha iniziato a interessarsi del Rinnovamento nello Spirito (Rns) per capire come facevano ad attrarre i giovani. L’incontro con la preghiera, con i canti, con l’amicizia con lo Spirito, gli ha aperto il cuore, così quanto aveva poco più che ventiquattro anni ha chiesto di entrare in seminario. Da laico ha accompagnato monsignor Dino Foglio, da sacerdote è stato segretario del cardinale Tonini, ora è il delegato nazionale per i giovani del RnS.

Questa è la storia di Don Fulvio Bresciani, che ZENIT ha incontrato a Rimini il 30 aprile, alla convocazione Nazionale dei Gruppi e delle Comunità del Rinnovamento nello Spirito Santo.

La perdita del padre lo aveva allontanato da Dio e dalla Chiesa. Fulvio divenne un giovane comunista “ci credevo davvero” – ha sottolineato- “ero convinto che il comunismo avrebbe cambiato il mondo “.

Lavorava sodo, nei volantinaggi e nel tesseramento. Divenne segretario bresciano della Federazione dei Giovani Comunisti Italiani. Venne preso nella segreteria nazionale del partito.

Studiava come reclutare i giovani. Era preoccupato dei movimenti cattolici che toglievano tesserati ai comunisti.

Bisognava capire come facevano i cattolici ad attrarre i giovani. A Fulvio toccò di studiare e spiare il Rinnovamento nello Spirito. C’era il professore di religione, un salesiano, che lo invitava ad andare ai loro incontri. Fulvio andò con lo scopo di carpirne i segreti, invece ne rimase sconvolto.

Venne accolto con affetto, nessuno gli chiese da che parte stava, gli parlarono di Gesù e della rivoluzione cristiana, gli testimoniarono che si poteva vivere con fraterna amicizia liberati da paure e ideologie.

Quelle che sembravano certezze politiche inossidabili cominciarono a vacillare. Fulvio andava sempre meno al partito e sempre più da quelli del Rinnovamento nello Spirito. Il partito era preoccupato cominciò a spiarlo, ma Fulvio non aveva nessun secondo fine, era stato affascinato da Cristo.

Divenne aiutante, autista e amico di monsignor Dino Foglio, che stava fondando comunità del Rns ovunque in Italia. Nel corso di un incontro chiese a Fulvio di raccontare la sua storia, dopodiché lanciò un appello perché i giovani potessero donare la vita al Signore.

Più di trecento giovani si alzarono e cominciarono il cammino per diventare sacerdoti e religiosi. Di questi 190 hanno raggiunto la meta. Tra cui una ragazza che è entrata nelle Piccole Sorelle di Gesù di Charles de Foucauld ed ora è la superiora generale.

Il messaggio del RnS affascina i giovani. Si tratta di un carisma che non nasce da un essere umano ma che prepara la strada affinché lo Spirito Santo possa operare.

Il carisma del movimento si basa su tre attrazioni: la parola di Dio la preghiera, la gioia e l’entusiasmo.

Fin dalle origini nel RnS ha praticato fiducia nella Chiesa, nei Vescovi, passione per la parola pratica dei sacramenti, preghiera incessante e gioiosa, senza bisogno di imporre nulla.

“Il RnS – ha sostenuto don Fulvio – nasce da un azione dello Spirito, lo Spirito è nella Chiesa e quindi obbedienza alla Chiesa”.

Fulvio partì per il militare ed al ritorno avrebbe dovuto sposarsi, erano già state fissate le date.

Ma in quell’anno di leva, il tanto bene che aveva ricevuto lo ricambiò con i commilitoni. Parlava di Gesù, dava consigli e cercava Dio.

Molti tra quelli che lo conobbero si sono convertiti, hanno messo su famiglia, hanno battezzato i figli. Fulvio parlò con la sua fidanzata e gli spiegò che Dio voleva qualcosa d’altro per lui. E così di ritorno dal militare entrò in seminario.

Secondo don Fulvio, il compito delle comunità del RnS non è quello di creare seminari secondo la propria spiritualità, al contrario il RnS deve continuare a creare comunità che alimentano vocazioni.

Il centro della cultura della Pentecoste di cui parla il RnS è incentrato sulla Cresima, perché – ha concluso don Fulvio – “se lo Spirito è in noi, possiamo essere soldati di Cristo a servizio della Chiesa”.

Nek: spettacolo ed impegno sociale

Intervista al cantautore, presidente onorario del “Magna Grecia Awards”

di Giuseppe Brienza

ROMA, (ZENIT.org).- Il 30 marzo a Gioia del Colle (Bari), nella splendida cornice del Teatro Rossini, sono stati consegnati i riconoscimenti della quindicesima edizione del “Magna Grecia Awards”, premio internazionale ideato dallo scrittore Fabio Salvatore, per valorizzare l’operato di uomini e donne nell’ambito delle diverse forme dell’arte, della comunicazione e del sociale (www.magnagreciaawards.com/). La presidenza onoraria del premio è stata assegnata quest’anno al cantautore Filippo Neviani, in arte Nek, che nel 2010 fu insignito della menzione speciale “Giovanni Paisiello”.

Il Premio è promosso dalla Provincia di Bari e patrocinato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, dalla Presidenza del Consiglio della Regione Puglia, dalla Fondazione Ente dello Spettacolo, dal Comune di Gioia del Colle, dal Comune di Castellaneta. Quest’anno sono stati assegnati dieci Magna Grecia Awards, ad altrettanti personaggi della cultura, dell’arte e dello spettacolo che si sono particolarmente distinti nel corso del 2011. “Stella di cristallo” per Savino Zaba, conduttore di Raiuno della trasmissione Unomattina-StorieVere, per i traguardi raggiunti in tv, in radio – Radio2 – ed in teatro con lo spettacolo “Beato a chi ti Puglia”, tratto dall’omonimo libro. E poi, il regista Alessandro D’Alatri, la cantante Dolcenera, i giornalisti Alessio Vinci, Carlo Vulpio e Roberto Milone, l’attrice Giorgia Wurth, la scrittrice Catena Fiorello, Dario Cirrone e Don Davide Banzato.

Mi sono appassionato a questo premio – ha dichiarato Nek in occasione delle premiazioni – e al suo messaggio umano, dal significato più intimo, in una società dove tante volte si scappa di fronte alla bellezza ed alla semplicità del quotidiano”. Il musicista e compositore, nato a Sassuolo quarant’anni fa’ e che, ad oggi, ha pubblicato dieci album più due raccolte ed un live, è da sempre molto sensibile all’impegno sociale. Nel 2009, ad esempio, con altri artisti italiani ha dato vita al progetto discografico “Domani 21/04/09“, il cui ricavato è stato devoluto a favore dei terremotati dell’Abruzzo. Nel 2010 ha scritto la prefazione del libro di Irene Cianbezi “Quello che gli occhi non vedono” (Editore Sempre, 2010, pp. 120, € 9,00), che raccoglie la testimonianza di una ragazza uscita dal giogo della prostituzione, il cui ricavato è andato a favore dell’Associazione Onlus “Papa Giovanni XXIII“, fondata e diretta per quarant’anni da don Oreste Benzi (1925-2007).

A proposito del rapporto fra musica, arte ed impegno sociale gli abbiamo rivolto per ZENIT alcune domande.

Cominciamo dalla prefazione che hai scritto per il libro che celebra una “vita redenta” dalla schiavitù della prostituzione. Cosa intendevi esattamente dicendo che la prima cosa che ti aveva colpito del volume era il suo “profumo”, «un profumo che sa di voglia di vivere, di recuperare una felicità e una libertà negate»?

Nek: Intendevo dire che la libertà, specialmente quella ritrovata dopo una vita vissuta in un tunnel terribile come quello della prostituzione, profuma; come profuma anche la dignità ritrovata di essere umano. La Vita ha un odore meraviglioso.

Come vivi il tuo rapporto con la famiglia?

Nek: Il mio rapporto con la famiglia è viscerale. Lo è con i miei genitori e con mio fratello e continua ad esserlo con quella che ho creato. Con mia moglie, senza la quale difficilmente potrei portare avanti la mia vita in modo equilibrato; con la figlia di mia moglie, che oggi ha quasi 17 anni ed è come un fiore sbocciato e che ho in buona parte cresciuto. Poi Beatrice Maria che mi auguro diventi una donna dai sani principi.

Vorresti parlarci della genesi e del significato del testo della canzone inedita “È con te”, dedicata a tua figlia Beatrice Maria, che hai incluso nel Greatest Hits 1992–2010?

Nek: “È con te” è una spudorata dichiarazione d’amore di un padre verso sua figlia. L’ho scritta prima che Beatrice venisse al mondo immaginandola tra le mie braccia e, come credo faccia la maggior parte dei genitori, fantasticavo sulla nostra vita futura insieme. Il concetto di lei che è la continuazione di me e di mia moglie, sapere che in lei c’è un po’ di entrambi ha fatto scattare la scintilla perché poi nascesse la canzone.

Che ne pensi della svalutazione della maternità e della vita umana nascente che leggi e sotto-culture oggi ormai dominanti nel nostro Paese stanno veicolando?

Nek: Quando penso alla svalutazione della maternità non posso che riflettere sul nemico più grande della società odierna che è il relativismo. C’è l’incalzante desiderio di non prendersi quelle responsabilità che stanno alla base del rapporto umano. Io per natura non sono un pessimista ma trovo che al giorno d’oggi si parla spesso del “valore fai da te”; sulla fede o sul matrimonio che non viene più considerato come apice di un legame. Secondo me troppa libertà genera il caos.

Credi che la musica possa contribuire al recupero, nella vita individuale e sociale, della cultura della vita?

Nek: Credo molto nella musica. Credo che sia un linguaggio che arrivi lontano e che susciti nell’animo umano sensazioni forti tali da portare a porsi certi interrogativi. Credo anche che la musica da sola non basti. Può essere un gran bel pretesto ma poi serve sempre la volontà ferrea per compiere quei fatidici passi importanti. Una canzone può suggerirti il modo migliore per trovare una strada o correggerla ma rimane di ognuno di noi la decisione finale. Se non ci fosse la musica sarebbe un modo vuoto. D’altra parte qualcuno ha detto: “La musica, come la sapienza di Dio, unisce le cose del cielo e della terra“.

Mi chiamo Susanna, ho la Sla e voglia di vivere. E vi scrivo con gli occhi

Mi chiamo Susanna, ho la Sla e voglia di vivere. E vi scrivo con gli occhi

Con questo articolo Susanna Campus inizia la sua collaborazione con tempi.it

Mi chiamo Susanna e, fino a 15 anni fa, avevo una vita “normale”. Poi la classica “mazzata in testa”. Mi hanno diagnosticato la Sla e, da allora, la mia vita è cambiata radicalmente.

Sono sarda, di Sassari, e lavoravo come orafo e insegnavo oreficeria all’Istituto d’arte di Tempio. Mi sentivo realizzata al massimo, facevo due lavori che mi piacevano, e – giusto per essere chiari – non sono mai stata un tipo che perdeva tempo a guardare l’orario. Lavorare è sempre stato un divertimento: ho girato mezza Europa, trovando tutto interessante, gli usi e i costumi degli altri paesi, le loro bellezze artistiche. Mi aveste potuto conoscere allora, avreste incontrato una persona cui piaceva tutto, che non si fermava neanche un momento, che faceva tutto in allegra frenesia.

Forse il mio corpo “sapeva” che un giorno mi sarei bloccata…

Quando i medici mi hanno diagnosticato la Sla, mi è crollato il mondo addosso.  Confesso che, inizialmente, ho cercato l’incidente stradale (naturalmente, senza coinvolgere nessuno). Non so se potete capirmi. Ma voi non vi sareste disperati per un futuro tanto difficile? Poi, grazie al mio carattere testardo, alla vicinanza di mia madre e, soprattutto, di mia sorella Immacolata, ho superato questa fase drammatica e ho deciso che, comunque sarebbe andata, avrei sfruttato qualsiasi momento che mi era concesso per vivere “al massimo” ogni istante e per rendermi utile ai malati che non avevano il carattere “tosto” come il mio.

Quando sono stata ricoverata in rianimazione per un arresto respiratorio, ho conosciuto delle persone meravigliose, che si sono prese cura di me, in una maniera incredibile. Professionalità e amore per il proprio lavoro e i propri pazienti. Fossi in voi, mi farei un giretto dalle mie parti. Mi piacerebbe farvi conoscere il primario, il dottor Vidili e anche tutti gli altri medici e infermieri che mi hanno curato. Sono tante le persone che mi hanno fatto apprezzare la vita. Non tutto quello che si dice sulla nostra sanità è vero. Io ho le prove: esistono tanti esempi di bravi medici anche nelle corsie dei nostri ospedali.

Dopo che mi hanno dimesso, in regime di ospedalizzazione domiciliare, ho iniziato a lottare per la vita dei malati. Credo ricordiate: qualche anno fa, si parlava molto di noi, perché in quel periodo c’erano diverse discussioni su alcuni malati di Sla che si volevano lasciare morire.
In quell’occasione ho conosciuto Tempi. Era il 2007 e, grazie al giornale, ho potuto esprimere il mio pensiero riguardo alla nostra condizione. Che, chiariamolo subito, è per la vita. La nostra è vita. Dentro la malattia si può vivere con grande dignità.

Oggi, grazie anche a un mio amico, Mario, lotto per far sì che queste mie convinzioni abbiano voce e perché la vita trionfi.
Ora voi direte: va bene, cara Susanna, ma se sei immobilizzata dalla testa ai piedi, come fai a scrivere sul sito di Tempi? Calma, ora ve lo spiego.
Proprio in quel periodo l’Asl mi ha messo a disposizione il My Tobii, un computer che mi permette di scrivere e di parlare, attraverso un sofisticato meccanismo che io comando con i miei occhi. Adesso, ad esempio, vi sto scrivendo con gli occhi (quindi, se trovate dei refusi, siate comprensivi…). Se venite a trovarmi – anche gli “scocciatori” sono benvenuti – possiamo pure farci una bella chiacchierata. Il caffè lo offro io.

Il My Tobii è stata per me una manna dal cielo. Ho potuto riaprire una finestra sul mondo. Posso viaggiare su Internet, leggere libri, stringere amicizie vie email e, in seguito, mandare sms.
Per me, e per tanti altri, è una cosa normale, l’importante è comunicare e far sentire la propria voce. Fra noi ci sono persone che dipingono tenendo il pennello con la bocca, la ballerina senza braccia, persone che corrono senza gambe…
Siamo persone “normali” perché la malattia non ci ha annientato, anzi, forse ci ha fortificato. La nostra mente è libera e ci permette di vivere sempre e comunque con gioia e vitalità ogni istante. Non voglio dire che la nostra esistenza è facile, anzi è molto complicata e dobbiamo affrontare tanti problemi, ma vi chiedo: chi tra noi non ha problemi? Noi dobbiamo lottare un po’ più degli altri, ma è inutile piangersi addosso e fare gli struzzi, bisogna rialzarsi e andare avanti a “muso duro”.

Eccoci arrivati ai ringraziamenti. Circa tre anni fa, ho conosciuto Luigi Amicone e tutta la sua bellissima famiglia (ha dei figli splendidi) e adesso voglio ringraziare sia Luigi sia Lele Boffi che mi hanno offerto questa meravigliosa opportunità, di poter comunicare al mondo che anche se ci si ammala, si può provare lo stesso gioia nella vita e nelle cose quotidiane.
Intendo raccontarmi con tutte le mie gioie, i miei dolori e tutti i miei pensieri. Vi racconterò la mia quotidianità (d’altronde, c’è qualcosa di più interessante di ciò che accade nel quotidiano?). Spero vogliate seguire i miei racconti con grande entusiasmo, perché la mia vita si è solo modificata e non interrotta. Provo ancora gioia ed entusiasmo per quello che faccio e mi organizzo perché la giornata sia piena di impegni. Programmo tante cose, cercando di realizzarle tutte, e mi piacerebbe farvene partecipi. Vi ringrazio tutti.

Un bacione, Susanna

Piermario Morosini: venticinque anni vissuti intensamente

Uno che conosceva bene i dolori e le fatiche della vita, e forse proprio per questo sapeva dare il giusto valore alle gioie e agli affetti. 

di Nerella Buggio
Tratto dal sito Cultura Cattolica.it

Piermario Morosini, abbiamo conosciuto la sua vita, ora che lui l’ha perduta.

Nato nel 1986, non aveva ancora compiuto ventisei anni, giocava in serie B nel Livorno, ieri durante la partita Pescara-Livorno, al 31° del primo tempo, il giocatore della squadra toscana ha avuto un arresto cardiaco, il suo cuore si è fermato e non ha più ripreso a battere.

Il campionato è stato sospeso, qualcuno s’è messo a discutere sul web se fosse giusto o sbagliato non giocare. Altri si sono messi a cercare “il colpevole”, l’ebete che ha parcheggiato l’auto davanti all’entrata ambulanze rallentando i soccorsi, quello che non ha pensato di dotare gli stadi di un defibrillatore, il sistema che obbliga gli atleti a sottoporsi a ritmi di gioco che per alcuni potrebbero essere fatali.

Forse, l’autopsia ci dirà cos’è accaduto, o forse no, perché gli uomini non hanno la risposta a tutte le domande.

L’importante è che le polemiche, la ricerca di un colpevole, non siano una scusa per distrarre il pensiero, cercare un altro argomento che ci tenga occupata la mente.

E’ morto un ragazzo.

Uno che conosceva bene i dolori e le fatiche della vita, e forse proprio per questo sapeva dare il giusto valore alle gioie e agli affetti. uno che amava tornare sui campi dell’oratorio di Monterosso dove era cresciuto.

Non era il solito calciatore viziato, ricco e capriccioso, la vita lo aveva messo alla prova e lui cresciuto in fretta, la vita aveva cercato di prenderla a calci, di conquistarsi un posto facendo al meglio, il lavoro che più gli piaceva.

La mamma Camilla era morta quando lui aveva quattordici anni, un paio d’anni dopo, il padre era morto d’infarto, poi era toccato al fratello maggiore disabile, morto suicida, rimanevano soli lui e una sorella maggiore anch’essa malata e ricoverata in un istituto.

Ce n’era abbastanza da affossare la voglia di reagire di chiunque, ma lui no, chi lo conosceva racconta un ragazzo di poche parole, con l’animo generoso, determinato a raggiungere quel successo professionale che avrebbe reso orgogliosi i suoi genitori.

Amava la sua Anna, le cose belle che la vita regala a chi le sa cogliere.

In TV, FB, Twitter rimbalzano messaggi, una marea di dolore e anche, diciamolo, di banalità, davanti a un microfono, o a una tastiera tutti ci sentiamo protagonisti per venti secondi e diciamo qualsiasi cosa in quel momento transiti nella mente.

Frasi che spesso svelano che non sappiamo dare un senso al vivere e quindi diventa difficile anche dare un senso al morire.

Perché la morte di una persona giovane, sembra portare con sé un’ingiustizia, per noi che viviamo come se avessimo la certezza che ci sarà sempre un altro domani.

Nel 2005 in un’intervista al “Guerin Sportivo” Morosini parlando dei lutti che avevano colpito la sua famiglia aveva dichiarato: “Spesso mi sono chiesto perché sia capitato tutto a me, ma non riesco mai a trovare una risposta e questo mi fa ancora più male. Però la vita va avanti. ”

Lui aveva avuto l’onestà di riconoscere che ci sono domande a cui magari non troviamo risposta ma è inevitabile porsi.

Molti invece alzano il volume della vita per non sentire quelle domande, che prima o poi, quando meno te lo aspetti si ripropongono prepotenti.

Perché vivere se dobbiamo morire? Perché vivere se la morte è la fine di ogni cosa? Quale roulette russa decide il destino di chi muore per primo? Oppure abbiamo un compito, una strada segnata su questa terra, prima di nascere ad una vita nuova?

O morte, dov’è la tua vittoria? O morte, tu non sei più l’ultima parola per gli uomini, “Il solo e vero peccato è rimanere insensibili alla resurrezione” diceva Isacco il Siro, padre della chiesa antica. Proprio per questo nel giorno di Pasqua abbiamo detto a tutti che c’è per gli uomini una speranza, una certezza di resurrezione, altrimenti la vita sarebbe vana.

La certezza della resurrezione non toglie il dolore, non elimina il vuoto, la mancanza di carezze e di sorrisi, ma rende certi che la morte è un arrivederci.

Ritrova la fede studiando la Sindone

Barrie Schwortz, il fotografo ebreo della Sindone racconta la sua storia all’Ateneo Pontificio Regina Paostolorum

di Andrew Dalton, LC

ROMA, martedì, 3 aprile 2012 (ZENIT.org).- Barrie Schwortz è stato il fotografo ufficiale per la Shroud of Turin Research Project (STURP), il team che ha condotto il primo approfondito esame scientifico della Sindone nel 1978.

Attualmente svolge un ruolo importante nella ricerca sulla Sindone e nella sua spiegazione e divulgazione. E’ editore e fondatore del sito Shroud of Turin Website (www.shroud.com), noto come il più documentato e approfondito sito internazionale sulla Sindone. Conta più di dieci milioni di visitatori provenienti da oltre 160 paesi. Nel 2009Barrie Schwortzha fondato la Shroud of Turin Education and Research Association, Inc..(Stera, Inc.),un’organizzazione non-profit alla quale ha donato il sito e la sua raccolta fotografica sulla Sindone, al fine di preservare e mantenere materiale prezioso per la ricerca futura e di studio.

Schwortz ha condotto conferenze sulla Sindone in tutto il mondo. È apparso in programmi e documentari su ogni trasmissione importante e rete televisiva via cavo, tra cui The History Channel, Discovery Channel, Learning Channel, National Geographic Channel, CNN, PBS, BBC, Fox News, Channel 1 Russia, ecc.. Le sue fotografie sono apparse in centinaia di libri e pubblicazioni tra cui Life Magazine, National Geographic, Time Magazine e Newsweek, e in numerosi documentari televisivi. Ha scritti innumerevoli articoli sulla Sindone. E’ co-autore di un libro con Ian Wilson intitolato “The Turin Shroud: The Illustrated Evidence” pubblicato nell’agosto 2000 da MichaelO’Mara Libri, Ltd., London, e distribuito da Barnes & Noble negli Stati Uniti

In una intervista concessa a ZENIT, ha raccontato come lo studio della Sindone lo ha condotto a conoscere Dio e a essere un uomo di fede.

L’intervista si è svolta a Roma, presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum dove Barrie Schwortz ha tenuto delle lezioni all’Istituto di Scienza & Fede nell’ambito del corso per il Diploma di specializzazione in Studi Sindonici (http://www.uprait.org/index.php?option=com_content&view=article&id=793)

Il corso si svolge in collaborazione con Othonia e il Centro Internazionale di Sindonologia di Torino.

Cosa ha significato questa esperienza per lei?

La parte migliore dell’esperienza è stata la calda accoglienza che la facoltà e gli studenti mi hanno riservato. Mi hanno confermato l’importanza della mia esperienza scientifica e di fede. E’ anche abbastanza paradossale che un ebreo insegni in una Facoltà Pontificia. La prima volta che mi hanno chiesto di tenere le lezioni ho detto: “Capita spesso di portare un ebreo a parlare della Sindone ai futuri sacerdoti?” e tutti sono scoppiati a ridere.

E’ stato davvero un grande onore per me, poter portare la mia testimonianza sugli studi condotti sulla Sindone.

Quanto tempo ha impiegato ad accettare l’idea che la Sindone di Torino fosse il telo autentico in cui è stato avvolto Gesù?

Schwortz: All’inizio del mio lavoro, ero molto scettico sulla sua autenticità. Non provavo nessuna emozione particolare nei confronti di Gesù perché sono stato cresciuto come un Ebreo ortodosso. L’unica cosa che sapevo di Gesù era che anche lui era un ebreo, e questo era tutto.

Esaminando la Sindone, ho capito subito che non era dipinta. Guardandola da vicino è evidente che non si tratta di un dipinto.

Per quanto riguarda la sua autenticità però ci sono voluti altri 18 anni di studio e di prove.
Non era completamente convinto dell’autenticità fino a quando il chimico del sangue Allen Adler, un altro ebreo che faceva parte del gruppo di studio, mi ha spiegato perché il sangue è rimasto rosso sulla Sindone. Il sangue vecchio doveva essere nero o marrone, mentre il sangue sulla Sindone è di un colore rosso-cremisi. Mi sembrava inspiegabile invece eral’ultimo pezzo del puzzle. Dopo quasi 20 anni di indagini è stato uno shock per me scoprire che quel pezzo di stoffa era il telo autentico in cui era stato avvolto il corpo di Gesù. Le conclusioni a cui ero arrivato si basavano esclusivamente sull’osservazione scientifica.

Per quanto riguarda l’autenticità, i risultati della datazione al radiocarbonio del 1988 sono in contraddizione con le sue conclusioni.

Schwortz: Non sono un fisico, quindi non ho capito bene perché la datazione al radiocarbonio è stato così distorta. Per dieci anni avevamo esaminato il panno e eravamo convinti che fosse vero. Dai risultati della datazione al carbonio una parte del mondo ha cominciato a manifestare dubbi sull’autenticità.

Quale secondo Lei il significato della Sindone?

La Sindone non è stata trovata con un libro di istruzioni e, di conseguenza, il significato non si trova sul telo, ma negli occhi e nel cuore di chi guarda. Per me, una volta giunto alla conclusione scientifica che il telo fosse autentico, sono arrivato a capirne anche il significato. Si tratta del documento forense della Passione, e per i cristiani di tutto il mondo è la reliquia più importante, perché documenta con precisione tutto ciò che viene detto nei Vangeli di ciò che è stato fatto a Gesù.

Penso che ci siano abbastanza prove per dimostrare che quello è il telo che ha avvolto il corpo di Gesù. Non si tratta di dimostrare che lui fosse il Messia, non sto discutendo una questione di fede, sto solo dicendo che dal punto di vista scientifico quel telo ha avvolto il corpo dell’uomo di cui si parla nei Vangeli.

In che modo la scoperta progressiva dei dati sulla Sindone ha influenzato il suo cammino di fede?

All’inizio dell’indagine, sapevo di Dio, ma non era molto importante nella mia vita. Non avevo pensato a Dio, da quando avevo 13 anni e aveva avuto il mio bar mitzvah,  (il momento in cui un bambino ebreo raggiunge l’età della maturità e diventa responsabile per se stesso nei confronti della legge ebraica ndr). Non ero molto religioso, era quasi un obbligo per la mia famiglia. E ‘stato molto importante per loro, ma per me non ha avuto un grande significato. Da allora mi sono allontanato dalla fede, dalla religione e da Dio, fino a quando non ho raggiunto i 50 anni.

Quando nel 1995 sono arrivato alla conclusione che la Sindone era autentica, ho costruito il sito shroud.com. Ho iniziato a raccogliere il materiale e l’ho messo a disposizione del pubblico.

Ho iniziato a parlare pubblicamente della Sindone intorno al 1996.

Quando la gente ha iniziato a chiedermi se ero un credente, non trovavo la risposta.

A quel punto mi sono interrogato ed ho trovato Dio che mi stava aspettando. Quando ho guardato nel mio cuore, lui era lì. È stato uno shock. Ero davvero sorpreso di vedere che dentro di me c’era la fede in Dio. Fino a 50 anni avevo praticamente ignorato la fede ed improvvisamente mi sono trovato faccia a faccia con Dio nel mio cuore.

In sostanza posso dire che la Sindone, è stato il catalizzatore che mi ha riportato a Dio.

Quanti sono gli ebrei che possono dire che la Sindone di Torino li ha portati di alla fede in Dio?

Quel telo ha avuto un grande significato nella mia vita non solo dal punto di vista scientifico e intellettuale, ma anche da un punto di vista spirituale, nel senso che mi ha ricollegato con qualcosa che è molto importante per me: la fede in Dio.

Quali sono gli obiettivi futuri avete per shroud.com?

Il progetto più imminente è quello di raccogliere i fondi per archiviare digitalmente tutti il materiale disponibile e archiviarlo in un unico luogo, i futuri ricercatori potranno avere accesso a questo materiale, senza alcun costo.

Sue, mamma-nonna pentita. «Sono malata, chi penserà a mia figlia?»

di Benedetta Frigerio
Tratto da Tempi del 2 aprile 2012

Sue aveva 57 anni quando Freya è nata: ora che non ha più le forze e si è ammalata svela al Daily Mail la sua angoscia: «Perché non è un problema solo della mia vita. Ora che fatico ad accudirla capisco che non si tratta solo di me, ma di una persona e del suo futuro».

Sue ha 61 anni. È la mamma più anziana del Regno Unito e ha svelato al quotidiano Daily Mail l’angoscia che la tormenta da quando ha cercato di concepire la piccola Freya tre anni fa. Un’angoscia che il successo dell’inseminazione, dopo mesi di trattamenti, non ha attenuato. Anzi, dice Sue, «ora capisco che c’è un’età in cui è più facile che il desiderio di avere un bambino sia egoistico: se hai sessantasei anni quante sono le possibilità che ci sarai quando tuo figlio comincerà a camminare?». I critici della maternità in età avanzata argomentano che 57, gli anni di Sue quando ha concepito la figlia, sia un’età eccessiva: le probabilità di accompagnare i figli durante l’adolescenza fino all’età adulta si riducono, spiega l’articolo del quotidiano inglese.

La vicenda di Sue rivela l’illusione di un sogno che la natura, per quanto si cerchi di bypassarla, non è in grado di realizzare: dopo vari tentativi, i cicli di inseminazione sono andati a buon fine, ma oltre a ferire psicologicamente la donna l’hanno fatta ammalare anche fisicamente. La malattia che «mi ha colpito – continua Sue – mi sta facendo vedere che non sono invincibile e che, vista la mia età, fatico a reagire (…) a volte poi sono così esausta che vado a letto quando mia figlia dorme. La malattia, inoltre, non mi ha permesso di prendermi cura di lei per diverse settimane».

La donna prosegue raccontando del suo desiderio di avere una bambina che le colmasse la vita. Un desiderio, quello di generare, naturale ma che a certe condizioni può rivelare un accanimento. Per questo, continua Sue, «ora penso che ci debba essere un limite d’età entro cui permettere la fecondazione assistita». Ma l’articolo del Daily Mail prosegue con una domanda diversa. Il problema è l’età o la fecondazione in sé? Perché «ora che la bambina è davanti a me capisco che non si tratta solo di me, ma di una persona e del suo futuro».

Sue non pensa più solo «al dolore di poterla perdere», ma è preoccupata per quella figlia concepita «con il mio compagno di 49 anni: “Al massimo ci sarebbe stato lui”, pensavo. Il problema è che un anno fa Nick se ne è andato. Speravo di darle una famiglia stabile che avrebbe avuto una vita felice e che l’avrei vista crescere». Ma nessuna delle condizioni iniziali prometteva tutto ciò. E così «ora mi sveglio la notte preoccupata. Cosa le accadrà quando non sarò più qui? Tutti i pensieri peggiori mi vengono alla mente e vado in panico».