Due anni fa l’assassinio di Shahbaz Bhatti

Due anni fa l’assassinio di Shahbaz Bhatti

Momenti di preghiera in Pakistan e nel mondo per ricordare Shahbaz Bhatti, il ministro cattolico per le Minoranze, ucciso due anni fa a Islamabad. Impegnato fin da giovane per la difesa non solo dei cristiani ma di tutte le minoranze religiose presenti nel Paese, Bhatti venne ritenuto “colpevole” negli ambienti dell’estremismo islamico di volere la revisione della Legge sulla blasfemia, quella norma che ha colpito moltissime persone e tiene in carcere ormai da 1353 giorni Asia Bibi, la donna cristiana madre di 5 figli.
“Voglio solo un posto ai piedi di Gesù…Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire”. Le parole scritte da Shahbaz Bhatti nel testamento spirituale hanno scandito la sua vita fin da giovane. Da ragazzo si impegna per i pochi studenti cristiani che riescono ad arrivare all’università e vengono colpiti anche da aggressioni fisiche. Fonda un’associazione per la difesa delle minoranze, aiuta i terremotati del 2005, ottiene che in una prigione sia creata una cappella, va a trovare Asia Bibi, si batte per la revisione della Legge sulla blasfemia, in nome della quale in Pakistan centinaia di persone vengono accusate di aver offeso in qualche modo il Corano o Maometto ma che spesso viene usata in modo pretestuoso per dirimere questioni personali. Il 2 marzo del 2011, trenta colpi di arma da fuoco lo uccidono. Shahbaz sapeva di essere nel mirino dei fondamentalisti ma questo non lo ha mai fermato. Nel suo testamento spirituale scrive: “finche avrò vita, fino al mio ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri”. Sentiamo il padre domenicano Maris Javed, che questo pomeriggio presiede a Roma una Messa per ricordare Shahbaz Bhatti: “Questo è l’Anno della fede. Lui aveva una forte fede in Gesù Cristo. Noi dobbiamo avere una fede forte come i martiri della Chiesa, come i santi che hanno dato la loro vita per la fede. Io vedo la stessa cosa nella vita di Shahbaz Bhatti”.

Paul Bhatti, dopo l’uccisione di suo fratello Shahbaz, è tornato in Pakistan per proseguire la sua opera. Oggi è ministro per l’Armonia e consigliere del primo ministro per le Minoranze religiose. Gli abbiamo chiesto quali i suoi sentimenti in questo momento: 
Profonda tristezza perché abbiamo perso in maniera tragica questo nostro fratello che lottava per la giustizia, per la pace e per la difesa delle minoranze in Pakistan. D’altra parte, vedo che la gente lo ricorda con grande affetto, perciò sono anche incoraggiato e onorato di tutto questo amore che il mondo ha dimostrato. La gente – specialmente i cristiani – è determinata a continuare la sua missione in Pakistan. E’ un grande incoraggiamento per me il fatto che tutta questa gente vorrebbe che la sua missione continuasse e che siano disposti a fare qualsiasi sacrificio purché la sua missione continui, perché rimanga viva la voce di Shahbaz Bhatti.

L’omicidio di suo fratello si pensa sia avvenuto per mano di fondamentalisti islamici… 
Al momento del suo assassinio, sono stati distribuiti volantini in cui c’erano estremisti, che appartenevano ai talebani, che avevano accettato la responsabilità… Loro avevano dichiarato che lui voleva eliminare la Legge sulla blasfemia in Pakistan e che chiunque avesse parlato contro la blasfemia avrebbe fatto questa fine. Perciò noi crediamo che, per quanto riguarda il suo assassinio, è stato fatto da questi estremisti. La cosa più importante però è questa: stiamo lottando contro un determinato tipo di mentalità che ha ucciso Benazir Bhutto, Salmaan Taseer, che ha ucciso altre persone che operavano per la pace.

Suo fratello si era battuto molto per la revisione della Legge sulla blasfemia. Come sta andando la situazione?
Per quanto riguarda la Legge sulla blasfemia noi abbiamo fatto parecchi passi in avanti. Nel senso che io da tempo incontro i leader religiosi di tutti i gruppi religiosi in Pakistan. Ci siamo incontrati anche la settimana scorsa col primo ministro e poi infine anche col presidente per un grande dibattito, in una tavola rotonda, e abbiamo discusso tutti gli aspetti negativi di questa legge. Siamo arrivati a conclusioni molto incoraggianti. Una delle conclusioni è che qualunque persona accusata di blasfemia dovrebbe essere giudicata da una commissione che abbiamo formato noi. A questo incontro, che abbiamo avuto la settimana scorsa, erano presenti i leader religiosi di musulmani, cristiani, indù, sikh e di altre minoranze. Prima che qualcuno venga accusato e perseguito per legge, questa commissione dovrebbe dare la sua opinione. In questo modo tantissimi casi mistificati potrebbero essere eliminati e, in più, se qualcuno ha accusato falsamente dovrebbe avere la stessa punizione stabilita per l’accusato.

Sarà una commissione formata da esponenti religiosi delle varie religioni? 
Esatto e ogni gruppo religioso nominerà una persona che lo rappresenterà.

Quindi non è ancora legge ma molto probabilmente lo diventerà? 
Esatto. Noi siamo in una fase abbastanza positiva. C’è speranza perché vediamo spazi di dialogo interreligioso tra i musulmani e i cristiani. Ci si sta rendendo conto che in questo Paese dobbiamo avere una convivenza pacifica. Bisognerebbe arrivare a una strategia comune.

Debora Donnini (Radio Vaticana)
Ru486, altre drammatiche storie sulla kill pill. «Mi dicevano che dovevo solo aspettare»

Ru486, altre drammatiche storie sulla kill pill. «Mi dicevano che dovevo solo aspettare»

di Benedetta Frigerio da Tempi.it

La studentessa universitaria che racconta le pene atroci e il parto del figlio nel suo letto. E la donna che, ignorata dai medici, ha visto il figlio morto fra le sue mani, rischiando di morire dissanguata. 

Il 23 febbraio scorso la giornalista americana Sarah Terzo ha raccontato sul sito di Liveactionnews.org alcuni nuovi casi di aborti provocati dalla Ru486, la pillola abortiva chiamata “kill pill”. Alcuni giornali e siti stranieri hanno ripreso alcune delle storie citate dalla Terzo. Fra le tante, due vicende sono emblematiche.

CONVULSIONI E CRAMPI. La prima storia è tratta dal Boston Phoenix e parla di una donna che, alla sesta settimana di gravidanza, decise di abortire con la Ru486. La ragazza, una studentessa universitaria, aveva assunto il farmaco ed era subito tornata «al dormitorio, qualche ora più tardi», nonostante l’aborto non fosse ancora avvenuto. «Mi contorcevo nel mio letto a due piazze – ha raccontato – soffrendo convulsioni e crampi debilitanti. I miei compagni di stanza, il mio migliore amico e il mio ragazzo si aggiravano intorno a me. Mi portavano antidolorifici, Balsamo di Tigre, borse d’acqua calda…». E se fosse stata sola? La ragazza sapeva solo di aver «versato moltissimo sangue», mentre il suo corpo espelleva il figlio: «Allora ho vomitato. E, infine, mi sono addormentata».

RISCHIO DI MORTE. La seconda storia è tratta da un post apparso sul sito Pregnant Pause. Una donna ha raccontato del suo aborto a domicilio che credeva fosse indolore e che invece «mi ha fatto urlare lamenti terribili. Mi sdraiai sul divano del mio ragazzo, la prima notte ero sola, e mi contorcevo pregando che finisse tutto o piuttosto di morire. Ho chiamato il numero di emergenza che mi avevano dato e dissi loro che gli antidolorifici non funzionavano. Mi risposero, molto cinicamente, che non c’era più nulla da fare per me». Solo allora, ha detto ancora, «mi informarono che questo era normale e che dovevo aspettare». Ma «i dolori continuavano» e solo «dopo due notti di quello che pensavo sarebbe stato la fine di un incubo ho cominciato a sanguinare».
Giunto il terzo giorno sono iniziate le contrazioni: «Pensai: ecco, è finita, ora posso cominciare a guarire, giusto? Sbagliato!!». Circa una settimane e mezzo più tardi, mentre guardava la televisione, la donna ha cominciato a sentirsi male. I crampi erano tornati di nuovo: «Pensando che dovesse essere normale, in un primo momento ho creduto che non fosse nulla. Ma nel giro di due ore cominciai a sanguinare molto. L’emorragia si era aggravata sempre più, non riuscii a raggiungere il bagno». Poi le contrazioni, fino a vedere in faccia quel figlio, descritto come una «massa di carne». Così «chiamai di nuovo il numero di emergenza della clinica, mi risposero che era normale e bastava aspettare». Più i giorni «passavano, più faticavo a muovermi e camminare», fino alla decisione di chiamare il ginecologo che le ha ordinato di andare in pronto soccorso: «Scoprirono che la mia pressione era di circa 60 su 52». La donna, a rischio di morte, aveva bisogno di ben due litri di sangue. Quindi le trasfusioni, e altre «12 ore degradanti, umilianti, dolorose, stressanti e quasi insopportabili».

Una vita degna di essere vissuta

Una vita degna di essere vissuta

La straordinaria vicenda umana di Salvatore Crisafulli nelle parole del fratello Pietro

da (Zenit.org). Irene Bertoglio

«Quando prevale la tendenza ad apprezzare la vita solo nella misura in cui porta piacere e benessere, la sofferenza appare come uno scacco insopportabile»: così affermava Giovanni Paolo II nell’Enciclica Evangelium Vitae. I frutti di tale mentalità si stanno manifestando tragicamente soprattutto nelle questioni di bioetica: in quale direzione si sta dirigendo il progresso scientifico? Quali sono i parametri per giudicarlo, riconoscendone anche le derive? Chi stabilisce i criteri di giudizio sulla qualità della vita o tra vite degne e vite indegne di essere vissute? Sono domande che interpellano le nostre coscienze. Il principio che attualmente non è più scontato sottolineare è la dignità della vita: essa non è mai inutile ma è sempre degna di essere vissuta e il suo valore prescinde dalle circostanze in cui ci troviamo. I mass media diffondono l’idea che la vita abbia senso solo finché si è sani e in grado di autogestirsi. In una società in cui ciò che conta sembra essere solo il fattore estetico, diventa sempre più difficile accettare l’altro per quello che è, senza mettere in gara anche le sue capacità. Viene così affermato un concetto di qualità della vita che concepisce la dignità in senso discriminatorio e che non considera più ogni singola vita dotata di valore. Si sente spesso dire che le persone in condizioni gravi siano sempre pronti a richiedere che sia loro “staccata la spina”. A questo proposito, spiega Mario Melazzini, medico di successo travolto dalla SLA (sclerosi laterale amiotrofica): «ci sono cento persone che, in nome di altre migliaia, invocano il diritto a essere riconosciute invalide, a essere ammesse alle sperimentazioni, a essere prese in carico, ma nessuno se ne accorge. Poi c’è uno che evoca la morte come un diritto e non si parla d’altro». Proprio sull’etica di fine-vita, Giovanni Paolo II osservava che «gravi minacce incombono sui malati inguaribili e sui morenti, in un contesto sociale e culturale che, rendendo più difficile affrontare e sopportare la sofferenza, acuisce la tentazione di risolvere il problema del soffrire eliminandolo alla radice con l’anticipare la morte al momento ritenuto più opportuno». Salvatore Crisafulli aveva testimoniato in un bellissimo libro la sua storia, diventando simbolo delle battaglie del Movimento per la Vita italiano: nel settembre 2003, all’età di 38 anni, fu travolto da un furgone insieme al figlio tredicenne. La diagnosi è di stato vegetativo post-traumatico: viene portato in Toscana a casa del fratello Pietro, dove poi avverrà il risveglio. Salvatore ci ha lasciati ieri dopo aver sostenuto la dignità della vita in qualsiasi condizione, come testimonia in un passo di questa intervista, insieme al fratello. Nelle parole commoventi di Salvatore ritroviamo un forte senso della propria dignità e del proprio valore umano, unico e irripetibile, come ci ricorda il Cardinal John Henry Newman: «qualsiasi cosa e dovunque io sia, non posso mai essere buttato via. Se sono ammalato, la mia malattia può servire a Lui; se sono nel dolore, il mio dolore può servire a Lui. La mia malattia, o perplessità, o dolore possono essere cause necessarie di qualche grande disegno il quale è completamente al di sopra di noi. Egli non fa nulla inutilmente; può prolungare la mia vita, può abbreviarla; sa quello che fa. Può togliermi gli amici, può gettarmi tra estranei, può farmi sentire desolato, può far sì che il mio spirito si abbatta, può tenermi celato il futuro, e tuttavia Egli sa quello che fa».

Con gli occhi sbarrati è il libro scritto da Salvatore attraverso gli occhi e un computer con appositi sensori. Quanto tempo ha impiegato per scrivere il suo libro? Cosa ha sostenuto questo immenso sforzo?

Pietro Crisafulli: Prima che Salvatore terminasse di scrivere la sua esperienza è passato quasi un anno, durante il quale noi fratelli ma anche nostra madre gli siamo sempre stati vicini. Lo sforzo di Salvatore è stato possibile grazie all’aiuto di tutti noi fratelli, che non lo abbiamo mai lasciato solo, neanche per un attimo.

Quando Salvatore si sveglia, si rende conto che tutti lo ritengono incosciente, compresi i suoi famigliari. Vive così la drammatica esperienza di non poter comunicare, mentre riesce a sentire perfettamente tutto ciò che viene detto, comprese le parole dei medici che, a proposito del movimento dei suoi occhi o del suo pianto, affermano che sono soltanto riflessi incondizionati involontari. Quando avete cominciato ad avere il sospetto che fosse cosciente?

Pietro Crisafulli: Quasi fin da subito. Dopo che abbiamo portato Salvatore a casa mia, in Toscana, ci siamo accorti, accudendolo giorno e notte, che sembrava reagire ai nostri stimoli. Apriva e chiudeva gli occhi a comando e piangeva spesso. Più volte abbiamo interpellato i medici, portandolo in camper anche nei migliori centri dell’Europa, per accertare le reali condizioni di Salvatore, ma loro dicevano sempre la stessa cosa: che era un vegetale, una foglia di lattuga. Una sera, stanchi di aspettare un ricovero in ospedale che non arrivava mai, ci riunimmo tutti a casa mia, dove vivevo prima a Monsummano Terme. C’eravamo io, mia madre, mia moglie, mio fratello Marcello e un cugino. Decidemmo di mettere alla prova Salvatore. Gli chiedemmo di aprire gli occhi se ci sentiva. Lui li aprì. Poi cominciammo a fargli tante domande. Lui doveva rispondere sì o no semplicemente aprendo o chiudendo gli occhi. Così accertammo che Salvatore c’era, era presente e capiva tutto. Ma per la scienza medica europea erano riflessi incondizionati, in poche parole si trattava di nostre illusioni.

Nel viaggio del lettore attraverso le pagine sembra di vivere insieme a Salvatore tutti i momenti drammatici di questa incredibile storia. Oltre all’angoscia da lui provata, viene descritta molto bene la condizione di estrema solitudine e di povertà in cui tutta la vostra famiglia si è ritrovata. Ad esempio, per ritardi burocratici, non viene riconosciuta la pensione di invalidità a Salvatore. Come avete trovato la forza per andare avanti?

Pietro Crisafulli: Nell’amore che ci unisce tutti e che tutti proviamo per Salvatore. Abbiamo fatto di tutto, anche l’impossibile. Dovevamo lottare per lui, perché arrenderci significava condannarlo a rimanere per sempre un vegetale, come dicevano i medici, se non a morte certa.

Lei e l’altro vostro fratello, Marcello, avete rinunciato al vostro lavoro per seguire Salvatore. Durante il periodo di rianimazione durato 53 giorni, avete anche dormito sulle panche della sala d’attesa. Nel suo libro, Salvatore non smette mai di fare riferimenti alla dedizione con la quale è stato da lei accudito. Diversi sono i passaggi di questa testimonianza: «Io e Pietro eravamo molto uniti e ci facevamo forza l’un l’altro, siamo diventati indivisibili e lo siamo rimasti fino ad oggi»; «l’altro giorno (Pietro) è arrivato nella mia stanza tutto contento portando con sé un materasso antidecubito». E ancora: «ha sistemato la telecamera davanti al mio letto, che trasmette la mia immagine sugli schermi di alcuni televisori sistemati in ogni stanza della casa. Non mi perde d’occhio un attimo, neanche di notte»;  «per acquistare i macchinari necessari per curarmi Pietro ha dato fondo a tutti i suoi risparmi». Potremmo andare avanti con questi esempi all’infinito. Quanto è importante la relazione d’amore in casi come questi? Quanto vi ha sostenuto il ruolo giocato da vostra madre?   

Pietro Crisafulli: Vorrei precisare che dopo i primi 53 giorni di rianimazione ci sono stati altri 81 giorni di rianimazione in un altro ospedale: la bellezza di oltre 4 mesi in rianimazione. Certamente senza l’amore che ci unisce non avremmo mai portato Salvatore a casa, e mai avremmo scoperto che era cosciente. È stato con la vicinanza e con le cure continue che gli abbiamo prestato che ci siamo accorti che Salvatore capiva tutto. Nostra madre è stata la prima a crederci, non si è mai arresa, neanche quando i grandi luminari ci dicevano che per Salvatore non c’era niente da fare. Lei non ha mai smesso di lottare. Il ruolo di mia madre Angela è stato fondamentale.

Salvatore fa molti richiami alla preghiera: «Prego Dio di aiutarmi» (p. 35), «trascorro il tempo ad osservare i miei famigliari, a pregare e a dormire» (p. 36), «prego Dio che sblocchi questa situazione» (p. 47), «Signore, fa che serva a qualcosa» (p. 60), «ho pregato tanto, per l’ennesima volta ho chiesto al Signore di aiutarmi. Pietro e mia madre mi hanno promesso che mi porteranno ancora in Chiesa e che d’ora in poi ci andremo tutte le domeniche». Quanto è stata importante la fede?

Pietro Crisafulli: A casa mia siamo molto legati alla patrona di Catania, Sant’Agata. Abitavamo proprio nel centro storico e per noi la festa di sant’Agata è sempre stata un grande evento, al quale abbiamo sempre portato Salvatore dopo l’incidente. La fede può essere un sostegno in momenti terribili come quelli che abbiamo vissuto.

In ogni pagina del libro emerge il grande desiderio di Salvatore di vivere. C’è stato un momento in cui lei ha pensato di urlare al mondo: o mi aiutate o uccido Salvatore. Nel suo racconto, Salvatore scrive: «Vorrei supplicarlo di non farmi del male, di lasciarmi vivere. Non voglio morire, voglio vivere […] Ragazzi, dico col pensiero, aspettate, non fate sciocchezze». Quante volte sentiamo dire superficialmente dalla gente: «se io fossi in quelle condizioni, vorrei morire!». Crede che la testimonianza di Salvatore possa essere una chiara battaglia contro il fronte dei sostenitori dell’eutanasia e del testamento biologico?

Pietro Crisafulli: La storia di Salvatore dimostra che anche la scienza può sbagliare e che quelle che ci vengono propinate come certezze a volte non lo sono affatto. La testimonianza di Salvatore vuole aiutare tutte le persone nelle sue condizioni: in Italia ce ne sono centinaia paralizzate, con la sindrome di Locked-in, in stato vegetativo, che vengono accudite a casa dai familiari, che non hanno nessun aiuto dallo Stato e dalle istituzioni. Non è accettabile che persone in queste condizioni vengano abbandonate a sé stesse. Chi lotta per la vita dovrebbe mettere al primo posto l’aiuto verso questa gente. La storia di Salvatore dimostra con certezza che dallo stato vegetativo è possibile uscire. In merito all’eutanasia lo stesso Salvatore si è ampiamente esposto, addirittura intervenendo con una sua diretta testimonianza che le faccio pervenire per correttezza: «Dal mio letto di quasi resuscitato alla vita cerco anch’io di dare un piccolo contributo al dibattito sull’eutanasia. Il mio è il pensiero semplice di chi ha sperimentato indicibili sofferenze fisiche e psicologiche, di chi è arrivato a sfiorare il baratro oltre la vita, ma ancora vivo, di chi è stato lungamente giudicato dalla scienza di mezza Europa un vegetale senza possibile ritorno tra gli uomini e invece sentiva irresistibile il desiderio di comunicare a tutti la propria voglia di vivere. Durante quegli interminabili anni di prigionia nel mio corpo intubato e senza nervi, ero io il muto o eravate voi, uomini troppo sapienti e sani, i sordi? Ringrazio i miei cari che, soli contro tutti, non si sono mai stancati di tenere accesa la fiammella della comunicazione con questo mio corpo martoriato e con questo mio cuore affranto, ma soprattutto con questa mia anima rimasta leggera, intatta e vitale come me la diede Iddio. Ringrazio chi, anche durante la mia “vita vegetale”, mi parlava come uomo, mi confortava come amico, mi amava come figlio, come fratello, come padre. Ma cos’è l’eutanasia, questa morte brutta, terribile, cattiva e innaturale mascherata di bontà e imbellettata col cerone di una falsa bellezza? Dove sarebbe finita l’umana solidarietà se coloro che mi stavano attorno durante la mia sofferenza avessero tenuto d’occhio solo la spina da sfilare del respiratore meccanico, pronti a cedermi come trofeo di morte, col pretesto che alla mia vita non restava più dignità? E invece tu, caro Pietro, sfidavi la scienza e la statistica dei grandi numeri e ti svenavi nel girovagare con me in camper per ospedali e ambulatori lontani. E urlavi in TV minacce e improperi contro la generale indifferenza per il mio stato di abbandono. E mi sussurravi con dolcezza di mamma la ninna-nanna di “Caro fratello mio”, per me composta, suonata, cantata e implorata come straziante grido d’amore, ma non d’addio. Vi ricordate di quel piccolo neonato anancefalico di Torino, fatto nascere per dare inutilmente e anzitempo gli organi e poi morire? Vi ricordate che dalla sua fredda culla d’ospedale un giorno strinse il dito della sua mamma, mentre i medici quasi sprezzanti spacciavano quel gesto affettuoso per un riflesso meccanico, da avvizzita foglia d’insalata? Ebbene, mamma, quando mi coprivi di baci e di preghiere, anch’io avrei voluto stringerti quella mano, rugosa e tremante, ma non ce la facevo a muovermi né a parlare, mi limitavo a regalarti lacrime anziché suoni. Erano lacrime disprezzate da celebri rianimatori e neurologi, grandi “esperti” di qualità della vita, ma era l’unico modo possibile di balbettare come un neonato il mio più autentico inno all’esistenza avuta in dono da te e da Lui. Sì, la vita, quel dono originale, irripetibile e divino che non basta la legge o un camice bianco a togliercela, addirittura, chissà come, a fin di bene, con empietà travestita da finta dolcezza. Credetemi, la vita è degna di essere vissuta sempre, anche da paralizzato, anche da intubato, anche da febbricitante e piagato. Intorno a me, sul mio personale monte Calvario, è sempre riunita la mia piccola chiesa domestica composta da Mamma Angela, Marcello, Pietro, Santa, Francesca, Rita, Mariarita, Angela, Antonio, Rosalba, Jonathan, Agatino, Domenico, Marcellino: si trasfigurano ai miei occhi sbarrati nella Madonna, nella Maddalena, nella Veronica, in Sant’Agata in San Giovanni, nel Cireneo. Mi bastano loro per sentirmi sicuro che nessun centurione pagano oserà mai darmi la cicuta e la morte».

Commovente. Gli anni passano e altre vicende famigliari fanno sprofondare la vostra famiglia in forte depressione. La lotta per la vita non è sempre sicura, ma segue un corso tormentato: cosa vi ha dato la forza di continuare, nonostante tutto?

Pietro Crisafulli: L’amore nei confronti di Salvatore. Dopo che la sua storia è diventata “famosa”, tante persone ci hanno contattato, tante famiglie di pazienti che vivono come lui o similari. Persone che volevano raccontare la loro esperienza, che chiedevano consigli e aiuto. Gettare la spugna avrebbe significato abbandonare non solo Salvatore, ma anche tutta la battaglia che è nata intorno alla sua voglia di vivere.

La storia di Salvatore è molto importante per il fronte per la vita. Fa riflettere soprattutto quando, riferendosi a Terri Schiavo, scrive: «Anche nel mio caso è la mia famiglia che sostiene che sono cosciente e i medici, invece, ribattono che non è possibile […] Mi chiedo se per caso non significhi proprio questo essere in stato vegetativo permanente, cioè capire tutto e non poterlo dimostrare agli altri e vivere nell’incubo di essere considerato un vegetale». Voi avete fondato un’associazione per aiutare tutte le persone che si sono trovate nelle condizioni di Salvatore. Cosa chiedete alla sanità italiana?

Pietro Crisafulli: Tante famiglie adesso si rivolgono a noi. Per amore di Salvatore abbiamo fondato l’associazione Sicilia Risvegli Onlus, in collaborazione con la Fondazione Terri Schindler Schiavo, che ha come obiettivo quello di aiutare le persone e le loro famiglie vittime di gravi e gravissime lesioni cerebrali, traumatiche e non traumatiche, responsabili di stati di grande dipendenza fisica. Ciò include le persone in fase di risveglio, in stato di minima coscienza, in stato vegetativo breve o prolungato, con locked-in sindrome (che si risvegliano con funzioni cognitive preservate, ma con deficit fisici maggiori, costrette a comunicare tramite codici motori SI/NO, come i movimenti oculari o quelli di una parte del corpo). L’attività primaria dell’associazione è integrata da azioni di sensibilizzazione e di informazione dell’opinione pubblica, dei mass media, delle autorità politiche e amministrative, del personale medico e paramedico, del mondo scientifico e accademico. Abbiamo un grande sogno: costruire un centro risvegli in Sicilia. In particolare chiediamo di non abbandonare le persone come Salvatore, che devono invece essere curate a casa e avere tutto il sostegno possibile (medici, attrezzature, aiuti economici) per poter continuare ad avere una vita dignitosa.

[Questa intervista, realizzata pochi mesi prima della morte di Salvatore Crisafulli, sarà pubblicata nell’e-book Interviste ai maestri – volume II (Leo Libri), di imminente uscita, a cura di Irene Bertoglio]

Il giorno in cui mi battezzò e poi disse: “Abbiamo vinto”

Il giorno in cui mi battezzò e poi disse: “Abbiamo vinto”

di Magdi Cristiano Allam da Il Giornale

Le dimissioni del Papa - Il giorno in cui mi battezzò e poi disse:

Ho mantenuto finora il riserbo sulla mia esperienza diretta con la realtà interna alla Chiesa, che mi ha fatto toccare con mano la gravità di un conflitto acceso tra il Papa e l’apparato che sovrintende alla gestione dello Stato del Vaticano, in considerazione della mia eterna gratitudine a Benedetto XVI per aver scelto di essere lui a darmi il battesimo, la cresima e l’eucaristia nella notte della Veglia Pasquale il 22 marzo 2008.

Ero ancora musulmano quando scaturì in me non solo una stima particolare ma un’attrazione irresistibile per il Papa quando, in occasione della Lectio Magistralis pronunciata nell’Università di Ratisbona il 12 settembre 2006, ebbe l’onestà intellettuale e il coraggio umano di dire la verità storica sull’espansionismo islamico compiutosi attraverso guerre, conversioni forzate e un fiume di sangue che sottomisero le sponde orientale e meridionale del Mediterraneo che erano al 95% cristiane. Non lo fece direttamente ma citando l’imperatore bizantino Manuele II Paleologo. Si tratta di una ovvietà storica attestata negli stessi libri di storia che si insegnano nelle scuole dei Paesi islamici. Eppure per averla detta il Papa, si ritrovò condannato, anche a morte, dai governi e dai terroristi islamici. Così come scoprì di avere contro l’insieme dell’Occidente sempre più scristianizzato e, soprattutto, dovette fronteggiare le critiche interne alla sua stessa Chiesa. Benedetto XVI fu di fatto costretto dai reggenti della diplomazia vaticana a giustificarsi per ben tre volte, ripetendo che non intendeva offendere i fedeli musulmani, rasentando ma mai cedendo alla pressione di trasformare la giustificazione in una pubblica scusa. Non bastò a placare né le ire degli islamici né la tendenza alla resa dei diplomatici vaticani. Fu così che il Papa fu costretto ad andare in Turchia e si ritrovò al fianco del Gran Mufti a pregare insieme rivolti alla Mecca nella Moschea Blu di Istanbul.

Quella di fatto segnò un successo della diplomazia vaticana costringendo il Papa ad arrendersi a quella che lui stesso definisce la “dittatura del relativismo”, considerata come il male profondo della nostra civiltà perché mettendo sullo stesso piano tutte le religioni e le culture, a prescindere dal loro contenuto, finisce per legittimare tutto e il contrario di tutto, il bene e il male, la verità e la menzogna, facendoci perdere la certezza della fede nel cristianesimo.

Mi ero immedesimato nel vissuto di Benedetto XVI e lo immaginai come un Papa isolato e assediato da un apparato clericale ostile all’interno del Vaticano. La sua straordinaria intelligenza, la sua immensa cultura e la sua ineguagliabile capacità di interpellare la nostra ragione e di accompagnarci per mano alla fede, dimostrandoci con umiltà come il cristianesimo sia la dimora naturale di fede e ragione, hanno per me rappresentato un faro che mi ha illuminato dentro fino a farmi scoprire il dono della fede in Cristo.

Fu così che quando grazie alla saggezza e alla fraterna disponibilità di monsignor Rino Fisichella, all’epoca Rettore dell’Università Lateranense, che mi accompagnò nel mio cammino spirituale per accedere ai sacramenti d’iniziazione alla fede cristiana, il Papa accettò di essere lui a darmi il battesimo, considerai che il Signore aveva scelto di unire la mia vita a quella del Santo Padre, indicandomelo come il più straordinario testimone di fede e ragione.

Ebbene quando alla fine della cerimonia religiosa nella sontuosità della Basilica di San Pietro, dopo tre infinite ore che ho percepito come il giorno più bello della mia vita, mi sono trovato al cospetto del Papa in compagnia del mio padrino Maurizio Lupi, lui si limitò ad un sorriso lieve ma di una serenità assoluta di chi è in pace con se stesso e con il Signore. Ma non appena ci spostammo sulla sinistra per salutare il suo assistente, monsignor Georg Gänswein, scoprimmo sulle sue labbra un sorriso intenso, due occhi radiosi e dalle sue labbra uscì un’esclamazione di giubilo: “Abbiamo vinto!”.

Abbiamo vinto! Se c’è qualcuno che vince, significa che c’è qualcuno che ha perso. Chi aveva perso lo capii appena varcato la porta della Basilica per andare ad abbracciare monsignor Fisichella. Apparve il cardinale Giovanni Battista Re, all’epoca Prefetto della Congregazione per i Vescovi, che rivolgendosi ad alta voce e con un fare vagamente minatorio a monsignor Fisichella, gli disse: “Se Bin Laden dovesse farsi vivo, sapremmo a chi indirizzarlo!”.

Successivamente da varie fonti ho avuto la certezza che fino all’ultimo istante l’apparato dello Stato del Vaticano esercitò forti pressioni su Benedetto XVI per dissuaderlo dall’essere lui a darmi il battesimo, per paura delle rappresaglie da parte degli estremisti e dei terroristi islamici, ma che il Papa non ebbe mai alcuna esitazione.

E’ un fatto specifico e concreto che evidenzia come Benedetto XVI ha dovuto scontrarsi con poteri interni al Vaticano che, al fine di tutelarsi sul piano della sicurezza, sono arrivati a concepire che il Papa non dovesse adempiere a quella che è la sua missione, portare Cristo a chiunque liberamente lo scelga. Ed è un caso emblematico dello scontro tra la Chiesa universale che si sostanzia di spiritualità e un Vaticano terreno che si cala nella materialità al pari di qualsiasi altro Stato. Questo è il nodo da sciogliere ed è la sfida che, con le sue dimissioni, Benedetto XVI ci lascia. La Chiesa è ad un bivio: restare ancorata alla sua missione spirituale incarnandosi nei dogmi della fede e nei valori non negoziabili oppure cedere alla ragion di Stato per auto-perpetuarsi costi quel che costi? E’ la pesante eredità che graverà sulle spalle del prossimo Papa.

«La Yasmin mi ha sconvolto la vita. Ora apro una pagina Facebook contro la pillola»

«La Yasmin mi ha sconvolto la vita. Ora apro una pagina Facebook contro la pillola»

Benedetta Frigerio da Tempi.it

L’incredibile vicenda di una giovane ragazza che ha assunto l’anticoncezionale che le ha rovinato la salute e la carriera. E che ora è decisa a combattere

«Una morsa alla testa stranissima localizzata dietro e in alto alla nuca, bagliori accecanti e allucinazioni». Così è cominciata l’odissea di Eliana, iniziata quattro anni fa e non ancora terminata. Nel 2008 Eliana aveva 21 anni e, in seguito a forti dolori mestruali, decise con il suo ginecologo di assumere il nuovo anticoncezionale della Bayer, la Yasmin, che «veniva prescritta in maniera massiccia. Io studiavo ostetricia e vedevo che in tantissime la assumevano. Mi accorsi subito che in me, al contrario di come si diceva, gli effetti si sentivano e non erano affatto leggeri: ingrassai per via della ritenzione idrica e cominciai a soffrire d’ansia». Allora perché continuare? «Ne feci uso per un anno e mezzo, fino a quando i benefici mi sembravano maggiori dei fastidi: preferivo avere dei momenti di malessere e qualche chilo in più, piuttosto che rimanere a letto per una settimana al mese a causa dei dolori mestruali».

È GIUSTO CHE SIA IN COMMERCIO? Finché una sera Eliana ha avvertito uno strano mal di testa, che «non era quello solito che mi causava la miopia», a cui seguirono anche delle allucinazioni. La ragazza fu portata in Pronto Soccorso e lì sottoposta a una Tac da cui non risultò nulla di problematico. «Passai la notte in ospedale, ma il giorno dopo i dolori erano insopportabili, perciò decisero di trasferirmi nel reparto di neurologia». Esami approfonditi rivelarono la causa del malessere: «La diagnosi era di trombosi cerebrale a livello del seno trasverso causata da pillola anticoncezionale».

ALTRI PROBLEMI. Sulla ragazza fu effettuato quello screening a cui ogni donna dovrebbe essere sottoposta prima di assumere la Yasmin: «Servivano per sapere se avevo problemi di coagulazione del sangue o se ero predisposta a trombosi, mi chiesero se fumavo e bevevo. Non c’era nulla di tutto ciò. Dunque, se anche avessi fatto gli esami prima di prendere la Yasmin, la pillola mi sarebbe stata comunque prescritta e io sarei stata male lo stesso. Per questo mi domando: se anche lo screening consigliato non può assicurare che non si verifichino gli effetti collaterali contenuti nel foglio illustrativo, è giusto che la pillola rimanga in commercio? È vero, ad alcune ragazze non accade nulla, ma è lecito continuare a venderla a discapito della salute di altre donne? ».
Eliana rimase in ospedale per 15 giorni. Tornata a casa, dopo pochi giorni svenne di nuovo. Ricoverata, questa volta rimase in ospedale dieci giorni. «Una volta dimessa, continuai la terapia di anticoagulanti pera altri nove mesi». In quel periodo la ragazza fu costretta a tornare in Sicilia, dove vive la sua famiglia, e a lasciare l’università che frequentava a Novara. «Ogni settimana dovevo fare un prelievo del sangue per dosare gli anticoagulanti. Purtroppo, nonostante la dieta, il mio corpo faticava ad assimilarli e così ero costretta a dosaggi importanti che mi facevano sentire male».
Eliana cercò un’altra via per evitare ulteriori episodi di trombosi. «Mi recai al Centro per la cura delle cefalee: mi dissero che il mio malessere non era ascrivibile a nessun tipo di emicrania. Cercarono comunque di aiutarmi con una cura sperimentale, ma gli effetti collaterali mi provocavano una spossatezza che non mi permetteva di vivere normalmente».

RICADUTA E LICENZIATA. Finalmente, dopo un anno e mezzo dalla prima crisi, Eliana cominciò a sentirsi meglio e, seppur considerata parzialmente invalida, riuscì a concludere gli studi. «Mi laureai nel 2010. Incominciai a lavorare, finché nel dicembre scorso, quando pensavo che il veleno che avevo in corpo si fosse finalmente esaurito, ebbi un altro episodio di emicrania con allucinazioni sul posto di lavoro. Mi fecero un’altra Tac, ma non c’era nulla. Per quattro mesi mi diedero una nuova terapia preventiva, insieme mi prescrissero un farmaco che attaccasse il male nel momento in cui lo sentivo arrivare. Lo assumevo tramite iniezione intramuscolare. Ovviamente, questa operazione richiedeva di avere accanto a me persone in grado di somministrarmi il farmaco e anche questo mi ha creato non pochi problemi». Tutto ciò andò a discapito della sua brillantezza sul luogo di lavoro, «tanto che non mi rinnovarono il contratto. Non ero abbastanza sorridente».

L’INIZIATIVA. In questi anni Eliana ha conosciuto altre ragazze su cui la pillola Yasmin o Yasminelle ha avuto effetti tremendi come la trombosi o l’embolia polmonare. Per questo si è decisa ad aprire una pagina Facebook “DONNE… in pillole”. «So che in America molti si sono uniti per frenare il commercio di questa pillola. Occorre combatterlo anche in Italia», spiega. Anche se preceduto da esami: «Il mio caso, infatti, dimostra che nemmeno uno screening preventivo può darti la certezza che ingerendo queste pillole non ti accadrà quanto è accaduto a me».

“Io, sopravvissuta all’aborto, ho ispirato il film October Baby”

“Io, sopravvissuta all’aborto, ho ispirato il film October Baby”

L’americana Gianna Jessen ha partecipato ad un incontro pubblico organizzato dal “Movimento per la vita” di Biella

GIUSEPPE BRIENZA
da Vatican Insider

Gianna Jessen, 35 anni, sopravvissuta ad un aborto chimico richiesto dalla madre che non voleva assolutamente tenerla, è figura ormai nota nell’ambito del mondo “pro life” statunitense. Il “Movimento per la vita” italiano, sezione di Biella (www.mpvbiella.it), l’ha invitata il 1° febbraio scorso ad un incontro pubblico e, come accaduto in altre date del suo recente “tour” nel nostro Paese, gli organizzatori si sono visti costretti anche in questo caso a collegare una aula in videoconferenza per il numero imprevisto di partecipanti, oltre 800 persone. La Jessen è diventata un personaggio-simbolo della lotta anti-abortista da quando la sua vicenda personale ha ispirato “October Baby” (USA 2011, regia di Andrew e Jon Erwin, con Rachel Hendrix, Jason Burkey, John Schneider e Jennifer Price), film stroncato dal “New York Times” , ma che ha conquistato il cuore del pubblico americano incassando oltre 3 milioni di dollari. Gianna è nata viva in una clinica per aborti legata all’associazione statunitense “Planned Parenthood”. A aua madre, allora diciassettenne e al settimo mese di gravidanza, era stato consigliato di interrompere la gravidanza tramite aborto salino consistente nell’iniettare nell’utero una soluzione salina che corrode il feto e lo porta alla morte entro 24 ore. A dispetto di quanto previsto, Gianna vede la luce perché la tecnica dell’aborto salino non funziona e nasce quindi viva sebbene la mancanza d’ossigeno all’interno dell’utero le procuri una paralisi cerebrale e muscolare. Tuttavia Gianna impara a camminare con tutore all’età di tre anni, a vent’anni riesce a camminare senza tutore e, nel 2006, arriva a partecipare alla famosa maratona di New York per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema dell’aborto. Come ha testimoniato nell’incontro di Biella, Gianna ha perdonato sua madre per aver tentato di ucciderla. Il suo dolore, infatti, “si è trasformato in speranza”, e la sua rabbia in desiderio di realizzare una missione che è divenuta la vocazione della sua vita, cioè “ottenere la parità di diritti al nascituro così come avviene per la donna che lo ha concepito”.

La giovane americana anche a Biella non ha fatto un discorso “pro life” organico e sistematico, ma ha cercato piuttosto di trasmettere una delle ragioni profonde del delitto abortivo: quella, cioè, ha affermato, “che sta dentro il cuore di quei genitori che uccidono proprio figlio. Da un lato una donna che mendica amore perché non è stata amata come figlia e non si vuole bene, d’altro lato un uomo vile che usa il corpo della donna e, poi, quando dovrebbe assumersi la responsabilità di difendere e proteggere la mamma e il bambino, fugge dimostrato tutta la sua codardia”. Il discorso della Jessen ha rafforzato in quei dirigenti del “Movimento per la Vita” presenti a Biella, l’intenzione di denunciare l’esponenziale aumento dell’aborto eugenetico, quello cioè indirizzato ai bambini disabili che, in realtà, sarebbero maggiormente degni di cure e di amore, come ha sottolineato la relatrice.

Dopo aver sbancato i botteghini Usa, il dvd di “October Baby” è da poco uscito in Italia in Dvd, ed è stato proiettato in diverse sale in occasione dell’ultima “Giornata nazionale per la vita”, celebrata in tutta Italia Domenica scorsa, 3 febbraio. Occasione della quale ha approfittato Benedetto XVI, parlando all’Angelus, per invitare ad aderire alla iniziativa in difesa della vita “Uno di noi”, promossa dai “Movimenti per la Vita” europei come proposta di legge di iniziativa popolare dei cittadini dell’UE, per chiedere la protezione della vita umana a livello comunitario sin dal concepimento.