L’omosessualità non è una malattia, ma lasciatemi la libertà di cambiare

L’omosessualità non è una malattia, ma lasciatemi la libertà di cambiare

Eliseo Del Deserto da www.tempi.it

Lettera di un omosessuale al presidente dell’ordine degli psicologi dopo le polemiche sulle teorie riparative. «È una grave carenza di amore vissuta durante l’infanzia» 

Eliseo del Deserto ha scritto sul suo blog una lettera aperta a Giuseppe Luigi Palma, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi, che – in seguito a un talk show sulla proposta di legge sull’omofobia – aveva diramato questo comunicato

Lettera a Giuseppe Luigi Palma

Sig. presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi Giuseppe Luigi Palma,

mi chiamo Eliseo Del Deserto, sono un ragazzo omosessuale e vorrei darle il mio parere in merito alle sue dichiarazioni odierne. Anch’io penso che l’omosessualità non sia una malattia. Dare all’omosessualità tutta questa importanza?! Non credo sia realistico… L’omosessualità è molto meno. Ecco perché tanti uomini in passato omosessuali, oggi sono felicemente etero. La sessualità è un orientamento, lo saprà bene no? Penso alle bussole o alle navi, com’è facile cambiarne la rotta!

L’omosessualità maschile è secondo me una grave carenza di amore vissuta durante l’infanzia, un immaturità affettiva, un rifiuto netto di crescere. Mi ricordo quando davanti allo specchio, da piccolo, dopo aver sentito litigare per l’ennesima volta, mia madre e mio padre, giurai di non crescere mai! Mi ricordo la veemenza con cui lo feci, in quelle parole volevo solamente dire: “Non voglio assolutamente diventare come mio padre!”.

Trovare un modello di mascolinità positiva e affettuosa mi è stato davvero difficile nella vita, anche quando ho incominciato ad avere esperienze omosessuali. Sì anche molti uomini come me non sono bravi ad amare. Siamo bambini egocentrici e capricciosi. Si scordi l’immaginario romantico del mondo gay descritto da alcuni registi come Ozpetek (che ammiro molto tra l’altro). Comunque essendo psicologo ne avrà sentite più di me!

Non voglio convincerla di niente, se non dirle che vorrei essere libero di decidere da me stesso come cambiare, tanto quanto un uomo che decide di diventare donna.

Mettiamola così: non mi interessa “guarire” dall’omosessualità! Non è l’omosessualità che mi rende infelice. Non mi dica quindi che ho interiorizzato una sorta di omofobia perché trovo invece per alcuni versi che quel tratto della mia personalità mi renda in qualche modo migliore, ed inoltre ho carissimi amici che stimo profondamente, omosessuali come me. Quindi nessun istinto nazista interiorizzato! Voglio però smettere di masturbarmi davanti a siti pornografici gay, voglio smettere di passare giornate intere a cercare un rapporto sessuale occasionale su internet, voglio essere libero di non guardare un ragazzo muscoloso che entra in metro ed immaginare parti anatomiche del suo corpo, voglio essere padrone della mia vita e sentirmi realizzato come maschio e se questo significa “guarire”, beh, allora sì… Voglio guarire da questa cosa qui, se proprio non vogliamo dargli un nome.

Per brevi periodi, mi sono reso conto di riuscire ad instaurare intense e profonde amicizie disinteressate con maschi eterosessuali anche belli come Brad Pitt ed a desiderare un pacificante rapporto di tenerezza con delle ragazze. Questo mi fa stare bene, al contrario di quando provo a lasciarmi andare alle mie pulsioni omosessuali. Ora non le chiedo il quadro psicologico che emerge dalle mie parole, ma la possibilità di essere felice.

Conosce bene il significato della parola “empatia” (ho frequentato la vostra categoria per un bel po’ di anni) e so che ora che l’ho citata almeno proverà a pensare a quello che le ho chiesto.

Tanti saluti!

Eliseo Del Deserto

Meeting. Morire per la fede: Paul Bhatti e il martirio di suo fratello Shahbaz

Meeting. Morire per la fede: Paul Bhatti e il martirio di suo fratello Shahbaz

di Rodolfo Casadei da www.tempi.it

«In Pakistan ci sono forze che puntano all’instabilità. E non è solo colpa degli estremisti islamici. Ma l’esempio di mio fratello ci dà il coraggio di vivere in qualsiasi condizione» 

shahbaz-bhatti-morte-anniversario-jpg-crop_displayPaul Bhatti, ex ministro dell’Armonia nazionale e degli Affari delle minoranze e medico, è il fratello maggiore di Shahbaz Bhatti, il politico e ministro cattolico pakistano ucciso dagli estremisti islamici nel marzo del 2011 a Islamabad per la sua azione in difesa delle minoranze religiose. Paul, che è stato invitato a rendere la sua testimonianza alla Giornata dei Movimenti il 19 maggio scorso a Roma, è oggi ospite per la seconda volta del Meeting per l’Amicizia fra i popoli. Qui anticipa i temi che tratterà nel corso dell’appuntamento riminese.

Dottor Bhatti, lei ha testimoniato a Roma alla Giornata dei Movimenti. Che giudizio dà di questa sua esperienza?
Per me è stata una vera sorpresa ricevere l’invito mentre mi trovavo in Germania. Era una cosa bella, e come tale l’ho vissuta. Da una parte è stato un onore parlare davanti a tante persone, dall’altra è stato molto utile perché la testimonianza di fede forte di Shahbaz, che ho rievocato, è un esempio da seguire per i giovani di oggi. La vita e la morte di Shahbaz significano che la nostra fede e la Chiesa sono vivi anche oggi, che ci sono persone come mio fratello che credono, vivono e muoiono per questa fede. Spero inoltre di poter collaborare in futuro coi movimenti ecclesiali che ho incontrato, non solo per le nostre comunità cristiane pakistane, ma per tutte le persone che sono emarginate e maltrattate in nome della religione.

Sono passati due anni e mezzo dall’assassinio di suo fratello. Che legame c’è ora fra di voi?
Io ho avuto sempre un rapporto particolare con lui quando era vivo. In famiglia eravamo sei fratelli, e io ero il maggiore. Lui mi prendeva a modello: studiava per essere il primo della classe come me. Accettava i miei consigli, c’era un affetto molto forte fra noi. Quando mi sono trasferito in Italia con una borsa di studio, lui ha sofferto per l’interruzione della nostra relazione. Quando tornavo in Pakistan lui sospendeva tutti i suoi impegni e passava il tempo con me a chiacchierare. Andavamo a passeggiare in campagna e lui mi raccontava tantissime cose, ma soprattutto la sua visione della Chiesa e di Gesù Cristo, quello che lui avrebbe voluto fare. Mi sembrava solo l’esaltazione di un giovane, ma parenti e amici mi dicevano: «Attento, Shahbaz è una persona particolare, ha un grado di intelligenza e di fede molto diverso da quello di un ragazzo comune». Negli ultimi anni la sua fede era sempre più intensa; pregava col Rosario, e quando gli comunicavo qualche piccolo problema in Italia mi diceva: «Pregherò, e vedrai che il problema si risolverà». Adesso tengo molte fotografie di lui, in soggiorno e in ufficio. Ogni tanto, quando mi trovo in difficoltà, ne guardo una e parlo con lui: «E adesso cosa facciamo?». Tantissime volte quando dovevo parlare col primo ministro, o prendere una decisione importante come nel caso di Rimsha Masih, prima parlavo con lui: «Shahbaz, adesso tu cosa faresti?». Soltanto quando penso al fatto che è stato assassinato mi rendo conto che è morto, altrimenti tantissime volte parlo con lui come se fosse una persona viva. E molto allegra, com’è sempre stato.

Paul BhattiIncontra spesso persone a lei sconosciute che invece hanno frequentato suo fratello? Che cosa le dicono?
La cosa che mi meraviglia di più sono le tante persone importanti con cui Shahbaz aveva familiarità molto tempo prima di diventare ministro. Noi eravamo una famiglia comune e lui apparteneva a una minoranza, non aveva allora cariche politiche. Eppure persone ricche e importanti lo conoscevano. Quando aveva solo 24-25 anni i suoi ospiti erano già le persone più elevate della società: politici, governatori, ministri, parlamentari. E anche oggi la sua figura affascina: nei giorni scorsi a Islamabad trecento giovani cristiani appartenenti anche a classi elevate si sono riuniti e mi hanno chiamato dicendo che volevano seguire il suo cammino. La settimana prossima celebreranno una Messa durante la quale giureranno di mettersi alla sequela della missione di mio fratello Shahbaz. Sono trecento studenti.

Lei è stato ministro dell’Armonia nazionale e degli Affari delle minoranze per due anni. Che bilancio fa della sua esperienza?
Direi positivo. E ho intenzione di continuare l’opera iniziata anche senza essere più ministro. Durante il mio mandato ho avuto un buon dialogo con tantissimi leader religiosi, coi vertici dello Stato e coi diplomatici stranieri. Oggi la comunità internazionale è più decisa nel fornirci appoggio: la settimana prossima sono inviato al parlamento britannico a Londra a parlare di libertà religiosa e di minoranze. Anche se non sono più ministro sarò ricevuto con lo stesso protocollo, e questo significa in qualche modo che loro hanno apprezzato quello che abbiamo fatto. Il mio più grande successo è stato la soluzione del caso di Rimsha Masih.

Perché invece Asia Bibi è ancora in prigione?
Il caso di Rimsha Masih l’ho seguito sin dall’inizio personalmente. Il caso di Asia Bibi, dopo l’assassinio del governatore del Punjab e di mio fratello, ha preso una piega particolare. Io credo che questo caso possa essere ancora risolto, ma purtroppo è stato strumentalizzato da tantissime Ong per farsi pubblicità e raccogliere fondi. Io finora non ho ricevuto nessuna richiesta di seguire il suo caso. Comunque proporrei una strategia diversa da quella che si sta seguendo attualmente.

Una strategia diversa?
Sì, completamente diversa.

asia-bibiRecentemente in Pakistan un attentato contro un bus di studentesse ha provocato una strage a Quetta. Perché succedono queste cose?
Le ragazze sono state attaccate in quanto sciite, ma non è una questione di persecuzione religiosa. In Pakistan ci sono forze molto attive che puntano all’instabilità. Non sempre si tratta di fanatismo religioso o di estremismo: spesso ci sono dietro grandi organizzazioni o Stati stranieri che vogliono creare instabilità in Pakistan.

È possibile far cambiare idea agli estremisti? Cosa si dovrebbe fare?
Non è questo il punto. Gli estremisti sono organizzati in gruppi che sono il risultato di un lungo lavoro di formazione e di preparazione da parte di sostenitori di certe ideologie. Io non punto il dito contro il ragazzo o il fanatico in genere che si fa esplodere o che uccide: questi soggetti sono stati cresciuti sin da piccoli in base a una determinata ideologia, è stato fatto loro il lavaggio del cervello in scuole che accoglievano i più poveri. È gente che non conosce nulla del mondo e non ha gli strumenti né la capacità per valutare. Si tratta di andare alle radici, di prosciugare le sorgenti che riescono a creare questo tipo di scuole dove si insegna l’odio ai bambini.

Lo Stato potrebbe fare di più per proteggere i cristiani, gli sciiti o le studentesse da questa violenza?
Io credo di sì, ma per fare di più lo Stato deve avere una sua integrità e stabilità. Sfortunatamente questi gruppi estremisti agiscono in modo che nessun governo diventi stabile e forte. I politici dedicano tutti i loro sforzi a sopravvivere al terrorismo, e non fanno altro.

blasfemia-pakistanOggi i cristiani sono più accettati o meno accettati nella società pakistana di quando era vivo Shahbaz?
Dipende dal gruppo sociale al quale appartengono. Molti cristiani sono anche persone economicamente emarginate, discriminate perché fanno i lavori più umili, e vivono in contesti degradati e pericolosi. Finché questi cristiani non vengono aiutati, quel tipo di discriminazione e di violenze continuerà a esistere. Al livello di noi professionisti, invece, i cristiani sono accettati come gli altri.

Come vivono i cristiani la loro condizione di evidente persecuzione?
Alcuni sono ottimisti, perché hanno una fede forte. Però bisogna dire che l’attuale condizione dei cristiani non è soltanto colpa del governo e colpa di estremisti: anche noi cristiani siamo colpevoli della situazione. Le migliori scuole del Pakistan sono cristiane, appartengono alla Chiesa, ma non le abbiamo usate per educare i nostri emarginati; Asif Ali Zardari e Yousaf Gilani, rispettivamente primo ministro e presidente, hanno studiato nelle scuole cristiane, come me e Shahbaz. Ma pochi o nessuno dei nostri cristiani poveri ha studiato a quel livello.

Come vede il futuro del cristianesimo in Asia? Come dovrebbe essere condotta l’evangelizzazione in questo continente?
È importante potenziare il dialogo fra le grandi religioni. Mettere in evidenza i valori comuni dell’amore per gli esseri umani e allentare le loro paure nei nostri confronti: credono che vogliamo distruggere le loro religioni per convertirli alla nostra. Dobbiamo trasmettere il messaggio che il cristiano non ha per obiettivo convertire l’altro, ma portare l’amore di Cristo a tutti e l’amore per il prossimo.

Lei è stato invitato anche quest’anno al Meeting di Rimini. Di cosa parlerà ai giovani che saranno presenti?
Della fede. E di Shahbaz, di come, pur avendo risorse limitate, si è impegnato e non ha avuto mai paura di niente. La fede ci dà il coraggio di vivere anche in condizioni molto difficili, ci toglie la paura. La società materialista di oggi ci insegna a vivere solo per noi stessi, ma quelli come mio fratello testimoniano che il modo giusto di vivere è un altro. È quello di vivere per un Altro e per gli altri.

L’omosessualità non è una malattia, ma lasciatemi la libertà di cambiare

Philippe Ariño: io, omosessuale, vi spiego perché la Chiesa ha ragione

Che Philippe Ariño sia un tipo decisamente controcorrente è un dato di fatto. Francese, nato nel 1980 da una famiglia profondamente cattolica, professore di spagnolo, saggista, blogger, omosessuale dichiarato da quando aveva 17 anni: fin qui la sua biografia non sembrerebbe diversa da quella di altri suoi coetanei, se non fosse che, due anni fa, Philippe lascia il compagno con cui stava dal 2009. “Da allora ho abbracciato la via della continenza che la Chiesa chiede alle persone omosessuali”, racconta senza giri di parole in un mondo “sessocentrico” in cui i vocaboli “astinenza” e “castità” appaiono relitti di un passato morto e sepolto alla maggior parte delle persone, qualsiasi sia il loro orientamento sessuale. Nel suo blog L’Araignée du desert, il “ragno del deserto” ci tiene a precisare di non voler essere etichettato con “un ex gay” come il “Luca era gay e adesso sta con lei” cantato da un discutibile Povia, ma semplicemente come una persona che si è sentita pienamente accolta per quello che è. Un semplice “ragno”, potrebbe dire qualcuno, per tornare alla metafora del titolo, ma un ragno amato.

In molti accusano la Chiesa di essere “omofoba” mentre tu dici di esserti sentito accolto e di aver voluto addirittura intraprendere il cammino della continenza. Perché?
Prima di iniziare il percorso che propone la Chiesa non ero felice, e vedevo che non lo erano nemmeno molte delle persone che mi stavano intorno e ho deciso, per la prima volta, di obbedire a quello che la Chiesa chiede alle persone omosessuali. Da quel momento ho scoperto non solo un’unità che non avevo mai avuto prima, ma soprattutto mi sono sentito amato senza dover rinnegare quello che sono.

Quindi non hai dovuto cambiare per essere accolto?
No, mi è bastato fidarmi della Chiesa e questa cosa mi ha – paradossalmente – permesso di accettarmi come pienamente omosessuale: non ha cancellato quello che sono, ma lo ha esaltato.

In che modo?
Ho capito che la mia vera identità è quella di uomo e di figlio di Dio, e questo è l’essenziale, poi viene il mio desiderio affettivo, che non nego, perché esiste, ma la Chiesa, dividendolo dalla pratica, lo riconosce e non mi forza a rinnegarlo. Ma non è più il fulcro attorno al quale ruota la mia vita: per la prima volta mi sono sentito veramente felice e responsabile.

Quindi hai visto un cambiamento reale nella tua vita? 
Sì, ho visto in me un’esplosione di vita: nelle amicizie, nei rapporti e nella spiritualità ma persino a livello artistico e professionale. Mi sono accorto che quando una persona si riduce a identificarsi nel suo desiderio omosessuale si annienta, allontanandosi da se stesso e dagli altri, mentre la continenza permette di essere pienamente me stesso ma al contempo libero dalla violenza e dalla schiavitù della pratica fisica.

Perché dici che mettere in pratica l’omosessualità sia qualcosa di violento?
La pratica omosessuale è violenta perché annulla completamente la differenza oggettiva tra i sessi che invece la Chiesa è ormai l’unica a far notare. Tutto il dibattito in materia, da sempre, è incentrato sulla dicotomia omosessuale-eterosessuale ma in questo modo si distoglie lo sguardo dal dato principale: prima deve esserci il fatto di essere uomo o donna, una diversità indiscutibile tra corpi, poi l’orientamento sessuale.

La legge da poco approvata in Francia che equipara i matrimoni tra uomo e donna a quelli tra persone dello stesso sesso dimentica le differenze di cui parli.
Certo: i politici hanno cavalcato il fatto che la gente non sappia abbastanza in materia di omosessualità per fare dei diritti dei gay la loro bandiera, in modo da ingraziarsi una fetta dell’elettorato. Ma la legge di Hollande è in realtà violentissima, perché banalizza la differenza tra i sessi mettendo tutte le coppie allo stesso livello.

In che senso dici che è una legge “banalizzante”?
Paradossalmente, la legge contro l’omofobia per eccellenza è la più omofoba di tutte: è come se fosse un “contentino” per le coppie omosessuali che ora possono scimmiottare qualcosa che loro, per natura, non potranno mai essere. È una sorta di presa in giro che aggiunge una lacerazione alla ferita di quanti vivono con coscienza la loro vita e, infatti, al di là della apparenze, non sono pochi dal fronte Lgbt che non hanno preso bene la notizia.

Lo stesso ragionamento pensi possa valere per l’America, dove la legislazione ha aperto ai matrimoni per tutti?
Esattamente. Nell’ossessione di equiparare i diritti, si è cancellato con un colpo di spugna ciò che non potrà mai essere uguale. Il risultato sarà solo confusione, nella quale l’unica visione corretta delle cose è quella fornita dalla Chiesa, che trascende il concetto di orientamento sessuale e va dritto all’essenziale, cioè all’essere maschio o femmina.

(Maddalena Boschetto) da http://cristianofobia.altervista.org

Io, nella stanza dell’aborto. L’ipocrita routine della 194 e i medici che non volevano far nascere Benedetta

Io, nella stanza dell’aborto. L’ipocrita routine della 194 e i medici che non volevano far nascere Benedetta

Concetta Mallitti da www.tempi.it

La scelta dell’intervento, poi il rifiuto «perché sono un essere umano». La sciatteria dei medici, la compagnia degli amici. Fino al funerale con centinaia di persone. Lettera di una giovane mamma 

Titti, Michele e Sonia«…perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena», (Gv15). Credo di aver sentito questo passo centinaia di volte, ma mai mi sono soffermata ad ascoltarlo con il cuore e così Dio ha visitato la nostra casa proprio per sigillare questa certezza nella nostra vita, la certezza della Gioia Piena.
La nostra storia è una storia ordinaria, che trova la sua straordinarietà in questa certezza. È la storia di una famiglia normale, ancora in cammino, verso la conversione nella certezza della vita eterna.

 * * *

Appena un anno dopo la prima gravidanza ecco che si affaccia alla vita la nostra seconda figlia, io e Michele eravamo felicissimi. Lei era già lì con noi: erano in programma i biscottini a forma di cuore da regalare alla sua nascita, il lenzuolino ricamato dalla nonna, le coccole di tutti noi, per lei avevamo fatto mille progetti.
Ma tutta questa gioia si trasformò in tristezza, dolore e solitudine. Alla 22esima settimana di gravidanza arrivò la diagnosi: displasia tanatofora incompatibile con la vita. Per i medici era già morta: «Signora, è necessario l’aborto terapeutico», questo mi disse il ginecologo che fece l’ecografia. Nessuna parola in merito alla “comfort care”, alla depressione post-aborto, alla possibilità di portare avanti la gravidanza. Niente, solo il bigliettino con su scritto Dott.ssa x, Policlinico x, edificio 9, ore 8.00: «Le dica pure che l’ho mandata io».

* * *

Non riesco a spiegare la morte che era in me, non ci sono parole per spiegare il dolore, ricordo solo me, piegata in due, che urlavo: «Dio, consolami, voglio essere consolata». Ma Dio mi sembrava lontano. Il giorno dopo, io e Michele andammo ad aprire la pratica per l’aborto terapeutico. Seguì un iter di tre giorni, in cui mi trovai immersa in un mondo totalmente estraneo a me e che di umano non ha nulla: pareva un “mercato” di donne che andavano a uccidere i propri figli. Quante mamme, quante in una sola mattina! Contai più di 10 bambini che non sarebbero mai nati.
Le scritte sui muri di chi vi era passato erano terribili. Una diceva: «Dio qui è morto». Pensai ad Auschwitz…
Non c’era niente di umano nei discorsi che, allegramente, quelle donne si scambiavano tra di loro; senza vergogna raccontavano perché erano lì. C’era la quarantenne esperta già al suo secondo aborto e la ragazzina (credo minorenne) impaurita che chiedeva consigli. L’esperta le diceva di non preoccuparsi e di prendere la Ru468. Una trentenne con già due figli diceva: «Questo sarebbe il terzo, ma da poco ho ripreso la palestra e riconquistato un po’ la mia vita». E poi c’era una donna, con la mia stessa panciona. Mi feci forza e le chiesi: «E tu?». Mi rispose: «Ha la sindrome di Down». Li capii e pensai: «Ma perché se il mio è un aborto terapeutico inevitabile, viene considerato come quello di chi un figlio Down? Non si fa solo per i bimbi incompatibili con la vita?».
La prima luce si accese. Toccava a me, era il mio turno. Ecco la Dott.ssa X, alta, bionda, occhi azzurri, pensai che fosse la donna più bella che avessi mai visto. Mi invitò a sedermi. Mi spiegò che lei avrebbe effettuato l’aborto: «Ti indurrò un parto con le prostaglandine». Ora i sui occhi erano vicini, li osservai, erano azzurri ma vuoti. «Partorirai il feto vivo o morto!», mi disse. Le chiesi: «Vivo?». E lei: «Sì e se capita purtroppo la legge ci impone di rianimarlo». Guardai mio marito e gli dissi: «Io non lo farò mai, e non perché sono cristiana, ma perché sono un essere umano». La Dott.ssa X mi invitò a terminare la pratica e a fare la visita dallo psichiatra, ci andai pensando di tranquillizzare me e mio marito, ma avevo già deciso.

* * *

Invece lì conobbi l’ipocrisia più grande. Eccolo lo psichiatra, la superbia in persona, a suo seguito una laureanda inesperta, trattata come un cane. C’era anche la donna con il bimbo Down. Lui aveva le gambe accavallate, disteso come se stesse in poltrona: «Secondo la legge 194 l’aborto terapeutico è permesso per salvaguardare la salute fisica e psichica della donna, inoltre anche la Chiesa non si espone su questi tipi di aborto. Siete d’accordo? Firmate?». «Tutto qui?», pensai. Poi la laureanda ci passò il foglio, l’altra donna firmò e lo passò a me in silenzio.
«Mi scusi – dissi sobbalzando sulla poltrona – io voglio una visita». E lui esterrefatto: «Cosa?». Risposi che ero venuta a fare una visita psichiatrica. Poi continuai: «Lei ha detto che per la legge 194 l’aborto è permesso per la salvaguardia della salute psichica della donna, ma siamo sicuri che non la peggiori? Secondo lei non è più traumatizzante per una donna uccidere il proprio figlio?».
A questo punto fece uscire dalla stanza la laureanda e mi disse: «Ma lei lo vuole fare o no questo aborto?». «No!» risposi, mi alzai e lo salutai. Mi lasciò di ghiaccio quando, con un sorriso cinico e sarcastico, mi rispose: «Tanto fra due giorni tornerà qui e firmerà».
Credo che mi pensi spesso, perché era davvero certo che sarei tornata.

* * * 

Invece il giorno dopo ero felice. Andai in ospedale e spiegai all’infermiera che ero andata lì a ritirare la pratica. Lei era incredula. Alzò la mia cartella clinica e chiamò le altre infermiere «Mallitti è venuta a ritirare la pratica! Avete capito, Mallitti ritira la pratica», poi a me: «Brava fai fare alla natura!». Non osò nominare Dio… come parlare di Dio in quel posto? Ma io ero davvero felice, lasciandomi il reparto alle spalle. Mi voltai solo un momento e vidi la madre del bimbo Down che mi disse: «Ti ammiro, io non avrei avuto la tua stessa forza». La salutai. Avrei voluto dirle: «Vieni via con me». Ma mi mancò la voce e il coraggio che lei mi attribuiva. Ora penso a lei tutti i giorni, penso spesso che per lei non ho fatto niente. Vorrei sapere come sta e che cosa mi direbbe se le chiedessi se sta meglio ora che ha ucciso suo figlio.
Come desiderava mio marito, decidemmo che nostra figlia si sarebbe chiamata Benedetta, perché per la nostra famiglia era una benedizione. I mesi successivi non furono facili, ricevemmo critiche da familiari e medici. Mi sentii dire di tutto: «Come fai a tenere in pancia una bimba che morirà?»; «devi abortire per il bene della tua famiglia»; «il problema te lo devi togliere adesso»; «è un sacrificio inutile, tanto deve comunque morire»; «metti al mondo un essere per farlo soffrire».
Queste sono solo alcune delle parole che mi sentii dire, come se uccidere un figlio avrebbe fatto stare meglio me e lui. Ma insieme arrivarono anche mille fratelli in aiuto, e molte grazie: la prima fu mio marito, uno sposo fedele che mi ha sempre sostenuta, poi l’amicizia di don Antonio e i miei fratelli della comunità Neocatecumenale di Pomigliano d’Arco. Anche mia Madre, mia sorella, mia cugina Teresa e il mio ginecologo di fiducia mi appoggiarono. E come la vedova molesta chiesi preghiere a tutti: «O la guarigione o la grazia di portare una croce insopportabile».

* * *

Così il 26 ottobre del 2012 alle 11.08 nacque Benedetta. Mi fecero un cesareo che fu molto doloroso, ma solo fisicamente. Conosco la mia debolezza, per questo in quei mesi di gravidanza cercai di fortificarmi più che potevo con la preghiere. Sentii che mentre entravo nella sala operatoria con me c’erano anche le preghiere delle suore e dei carmelitani e dei loro 150 conventi di clausura, che ad uno ad uno avevo chiamato chiedendo di pregare. Entrò con me l’Eucarestia presa tutti i giorni, le preghiere dei fratelli della mia comunità, di mia madre, dei Servi di Cristo Vivo, di quell’estraneo che mi regalò la sua medaglia miracolosa dicendomi: «Questa me l’hanno regalata per la mia guarigione, io rinuncio alla mia guarigione per tua figlia!!!».
C’era anche la preghiera di quel funzionario del Comune, che pianse con me dopo che mi avevano comunicato che per Benedetta avevano preparato un loculo e che non c’era una culla ad aspettarla. Entrai in sala operatoria più ricca che mai. Alla nascita Benedetta piangeva e respirava da sola. Fu una sorpresa per i medici che dicevano che sarebbe potuta morire subito. Benedetta poi era bella, non un mostro come mi avevano detto i dottori. «Quando ti ho operata e ho preso il viso di tua figlia tra le mani, ho pensato che non avevo mai visto una bimba così bella», queste furono le parole piene di commozione del mio ginecologo.
Nel pomeriggio Benedetta ricevette il Battesimo. Don Antonio fu felicissimo di battezzarla e con lei c’erano la sua madrina, il suo papà e tutti i medici e gli infermieri del reparto.

* * *

Michele per due giorni le ha cantato instancabilmente i salmi tenendola per mano. E il 28 ottobre, alle ore 20.30, Benedetta è nata in cielo, l’abbiamo accompagnata con i salmi. Non so perché, ma l’unico che usciva dalla mia bocca era: «Esultate giusti nel Signore, ai retti si addice la lode». Alle ore 20.00 i medici mi dissero che Benedetta sarebbe vissuta ancora per 12 ore. In quel momento mia figlia era fra le mie braccia e le sussurrai: «Benedetta, amore di mamma, se vuoi andare vai. Noi non ti tratteniamo, vai da Gesù e digli che siamo felici di aver messo al mondo una bimba speciale come te, che ci ha insegnato cos’è l’Amore».
Appena le ho detto questo, lei è spirata tra le mia braccia. Ho la certezza della vita eterna ed ho la certezza che l’anima è matura già quando una vita nasce in noi mamme. E che l’anima di Benedetta era pronta, pregustava già la Gioia Piena verso cui non ha esitato un attimo ad andare. Aspettava solo che fossi pronta io: voleva andarsene, ma voleva che la salutassi amandola veramente.

* * *

Porto in me il dolore di aver perso una figlia che con i seni pieni di latte non potevo allattare, ma questa non è paragonabile alla felicità piena. Così quando penso a mia figlia mi assale una gioia immensa e so che non viene da me, è una una Gioia Donata. Ringrazio Dio che, come ha combattuto con noi la “buona battaglia”, restandomi fedele nonostante le mie infedeltà. Spesso ci dicono: «Siete stati coraggiosi», ma non è così, noi non siamo gli eroi di una tragedia. Io sono un’indecisa, una debole. Per questo di fronte a una Croce troppo pensante ci siamo aggrappati con tutte le forze a Dio.
Il 30 ottobre, poi, fu celebrato il funerale. La chiesa era stracolma di persone. Erano a centinaia e sembrava tutto fuorché un funerale. Fu una festa con canti, cembali, bonghi, chitarre, perché quando una persona cara muore si è umanamente tristi ma nella Gioia cristiana. Per questo quando la piccola bara bianca entrò in chiesa cantammo un passo del Cantico de Cantici: «Cercai l’amore dell’anima mia, lo cercai senza trovarlo, trovai l’amore dell’anima mia l’ho abbracciato e non lo lascerò mai». Benedetta aveva abbracciato il suo Sposo.
Ciò che mi fece più felice fu vedere alla fine della celebrazione le persone presenti dirci «grazie». Al funerale di mia figlia nessuno mi aveva fatto le condoglianze. Un collega di mio marito pianse dicendo che noi eravamo fortunati, perché avevamo una cosa bellissima che lui non aveva.

* * *

Se mi pento di aver anche solo pensato di aprire la procedura per l’aborto, ora capisco che dovevo passare dal vedere quella realtà. Per dire a tutti che non esiste aborto che sia terapeutico e che Benedetta poteva non nascere. Il nostro è stato un “NO” all’aborto, scandaloso per coloro che dicevano che mia figlia doveva morire, perché non conforme alla “normalità”. Ma è proprio attraverso la “stoltezza della Croce”, quella più assurda, che l’uomo può vedere la resurrezione e dire «grazie» a Dio.
Benedetta ha fatto della sua vita una lode a Dio ed io come madre non posso che provare gioia, perché un figlio si fa per ricondurlo a Colui che lo ha creato. Al funerale abbiamo regalato centinaia di segnalibri.
Dicevano così: «Mettere alla luce un bimbo, pur sapendo che deve morire ha un senso, abortire, anche quando ci sono tutti i presupposti medici e legali per farlo, non impedisce al feto di morire come un “rifiuto”, senza nome e buttato chissà dove. Partorirlo significa donargli la dignità di essere umano, con un nome e un’identità, anche se per poche ore, significa battezzarlo e donargli la dignità di cristiano, significa farlo morire nell’amore dei genitori, dei nonni, degli zii e dei familiari, tra le coccole, le cure e le attenzioni di tutti, con un funerale e tutto quello che ogni essere umano dovrebbe ricevere per diritto. Questo è il senso per chi non l’avesse capito! Ciao Benedetta, la tua famiglia è fiera di Te».
Benedetta ora giace e adagiato su di lei c’è un lenzuolino ricamato dalla nonna su cui c’è scritto: «Benedetta Dono di Dio».

Concetta Mallitti, 30 anni, di Napoli

Chiara Corbella, il seme della vita

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Ad un anno dalla morte familiari, amici e tanta gente comune si è radunata al Santuario del Divino amore per ricordarla

di DOMENICO AGASSO JR. da Vatican Insider

Chiara Corbella

C’era anche il piccolo Francesco, nato due anni fa poco dopo la scoperta che sua madre aveva un tumore. Mamma Chiara Corbella aveva scelto di sospendere le cure per metterlo al mondo. E c’era il marito di Chiara, Enrico Petrillo. Insieme a loro, migliaia di persone, che giovedì si sono riunite nel santuario del Divino Amore (Roma) per ricordare con una Messa il primo anniversario della scomparsa della 28ennne Chiara Corbella Petrillo, venuta a mancare il 13 giugno 2012. Aveva avuto altre due gravidanze, ma Maria Grazia Letizia e Davide Giovanni erano morti subito dopo la nascita a causa di gravi malformazioni. “Chiara è tutti noi”, ha detto don Fabio Rosini, direttore del servizio vocazioni della diocesi di Roma, che ha presieduto la Messa, “Lei ci ha insegnato a vivere secondo il segreto del dolore”.

La storia di Chiara Corbella si può conoscere da lei stessa, con un messaggio che ha scritto nel gennaio 2011 dopo la scoperta della malattia (pubblicato sul sito  www.chiaracorbellapetrillo.it): “Sono cresciuta in una famiglia cristiana che sin da bambina mi ha insegnato ad avvicinarmi alla fede.
Quando avevo 5 anni mia madre cominciò a frequentare una comunità del Rinnovamento dello Spirito e così anche io e mia sorella cominciammo questo percorso di fede”. Chiara a 18 anni in un pellegrinaggio incontra Enrico “e pochi mesi dopo ci fidanzammo.
 Nel fidanzamento durato quasi 6 anni, il Signore ha messo a dura prova la mia fede e i valori in cui dicevo di credere”.
Dopo quattro anni infatti “il nostro fidanzamento ha cominciato a barcollare fino a che non ci siamo lasciati.
In quei momenti di sofferenza e di ribellione verso il Signore partecipai a un Corso vocazionale ad Assisi e lì ritrovai la forza di credere in Lui, provai di nuovo a frequentare Enrico e cominciammo a farci seguire da un padre spirituale, ma il fidanzamento non ha funzionato fintanto che non ho capito che il Signore non mi stava togliendo niente ma mi stava donando tutto”. E così, ecco il matrimonio. Poi, “il Signore ha voluto donarci dei figli speciali: ma ci ha chiesto di accompagnarli soltanto fino alla nascita ci ha permesso di abbracciarli, battezzarli e consegnarli nelle mani del Padre in una serenità e una gioia sconvolgente”.
”Ora – proseguiva Chiara – ci ha affidato questo terzo figlio, Francesco che sta bene e nascerà tra poco, ma ci ha chiesto anche di continuare a fidarci di Lui nonostante un tumore che ho scoperto poche settimane fa e che cerca di metterci paura del futuro, ma noi continuiamo a credere che Dio farà anche questa volta cose grandi”.

Nonostante il carcinoma che ha colpito Chiara, lei ed Enrico hanno scelto innanzitutto di difendere Francesco. Hanno deciso di portare avanti la gravidanza mettendo a rischio la vita della mamma. Solo dopo il parto infatti Chiara ha potuto sottoporsi a un intervento più radicale e ai successivi cicli di chemio e radioterapia. I loro amici e conoscenti sono stati testimoni oculari di come tutte queste prove Chiara ed Enrico le abbiano affrontate “con il sorriso e con un sereno e incomprensibile affidamento alla Provvidenza”.

Giovedì “abbiamo proiettato un video”, ha raccontato Enrico Petrillo a Radio Vaticana, “dove c’erano Francesco e Chiara. Era il 5 giugno, una settimana prima che Chiara andasse da Gesù. Eravamo al mare, a Santa Severa, al castello. Chiara, in spiaggia, cantava a Francesco: ‘La nostra festa non deve finire, non deve finire e non finirà’. Ci siamo salutati praticamente con quel video di Chiara che, credo, abbia ‘spaccato’ i cuori di tutti”.

Ero morto e il perdono mi ha resuscitato

Ero morto e il perdono mi ha resuscitato

In un libro la storia di Pietro Maso: assassino dei suoi genitori che grazie al perdono di Dio, delle sorelle e alla cura di don Guido Todeschini, dopo ventidue anni di carcere è rinato a vita nuova

di Antonio Gasperi da www.zenit.org

Per anni ha nutrito solo il suo narcisismo: soldi, vestiti firmati, profumi, auto lussuose, feste. In fondo un male banale. Poi la tentazione al limite della follia: uccidere i genitori per prenderne l’eredità. Tentò una prima volta con delle bombole a gas che dovevano esplodere e uccidere anche le due sorelle. Poi provò a manomettere il volante dell’auto del padre. Pensò a usare il veleno per topi e lo schiaccia bistecche come arma contundente.

Alla fine, il 17 aprile del 1991, lui a volto scoperto con tre amici con maschere di carnevale e capelli postici, aspettò i genitori Antonio e Rosa, li colpì con un tubo di ferro, fino a massacrarli e ucciderli. Una ferocia inspiegabile. Secondo lo psichiatra Vittorino Andreoli che ha fatto la perizia si tratta di “ipertrofia narcisistica” con il “padre e la madre percepiti solo come un salvadanaio da cui prelevare quando serviva, e da rompere se il bisogno lo richiedeva”.

Nel libro “Il male ero io” scritto da Raffaella Regoli, edito da Mondadori, Pietro Maso racconta: “Hanno scritto di me, di noi, che abbiamo ucciso per fare la bella vita. Noi volevamo entrare nella vita. E invece, macchiandomi del più terribile dei crimini, a diciannove anni sono entrato nella tomba insieme a mamma e a papà”.

Ma come si fa a uccidere i propri genitori? Maso dice: “Dare la vita e dare la morte può farti sentire eterno. Ma non c’è piacere. Io non l’ho provato. Uccidere è privazione. Assenza. Una vertigine distruttiva. E’ come lanciarsi da un palazzo sapendo che non puoi volare”. Il 19 aprile 1991, all’età di 19 anni, Maso entrò nel carcere Campone di Verona, dove fu condannato a 30 anni di reclusione.

Sarebbe dovuto restare in prigione fino al 2021, ma i 3 anni di indulto e i 5 di buona condotta (45 giorni maturati ogni sei mesi) gli hanno permesso di tornare libero il 15 aprile scorso.

Ventidue anni di duro carcere a Verona e poi a Milano, quindi, tra paure, angoscie, sensi di colpa, solitudine. Un crimine enorme che schiaccia mente e cuore.

Maso racconta del carcere: “Ci sono corridoi profondi e bui. E muri sporchi di piscio e sangue, di cibo e sputi. (…) Ci sono porte di legno grosso, scuro, con cerniere di ferro. Quando si aprono quella voce rauca, assordante, volgare, pare un urlo vomitato dalla pancia di un mostro. Ma quello che non riuscirò mai a cancellare è l’odore: quel puzzo che ti si appiccica addosso. Ti sporca dentro. E’ puzzo di carne umana, marcia, di cancrena aperta”.

Tra la disperazione, il peso della coscienza e la paura di subire violenze dagli altri detenuti, a Maso capita di ascoltare alla radio don Guido Todeschini, direttore di Telepace, che parlando di lui disse: “Che facciamo, lo abbandoniamo, lo seppelliamo vivo come meriterebbe o gli tendiamo la mano e cerchiamo di recuperarlo, tenendo conto della sua giovane età? Certo, in questo momento è più facile essere giustizialisti che muoversi al perdono. Ma se noi lo lasciamo lì in carcere, dimenticato, noi commettiamo lo stesso delitto”.

Don Todeschini non si limita a parlarne: lo cerca, gli scrive delle lettere, chiede di incontrarlo. Racconta Maso: “Io, sepolto vivo. Odiato. Rinnegato. Dimenticato. Io che quando arrivava il giorno dei colloqui mi rintanavo in cella in completa solitudine, ora avevo qualcuno che si interessava a me. Accettai”.

L’incontro è l’inizio di una nuova vita. Il perdono di Dio che arriva portato da un sacerdote. Continua Maso “Lo ricordo come fosse ieri. Sono le dieci del mattino. Quanto l’ho atteso questo giorno. Finalmente è arrivato. (…) Dopo quasi dieci mesi qualcuno viene per me (…) Don Guido è in piedi. Volge le spalle al tavolo. La porta si chiude. Finalmente. Davanti a me c’è un uomo sulla cinquantina, alto circa un metro e settanta, corporatura normale. Indossa l’abito nero con il colletto bianco. Quando faccio per entrare lui, invece di ritrarsi come ero abituato a veder fare, mi viene incontro. Mi abbraccia. Non era mai successo”.

Da quel momento don Guido va ogni sabato al carcere. Dice a Maso: “Sai Pietro quanti chilometri ho fatto per portarti tutti i sabati il corpo di Cristo? Se sommiamo i chilometri che ho fatto da Verona a Milano in tutti questi anni, equivarrebbero a più di tre giri attorno al mondo”.

Confessa Maso che don Guido “a volte era paterno, altre duro, aspro. Non sapevo mai cosa aspettarmi. Ma c’era sempre. Non ha mai saltato un sabato. La sua fede, la sua tenacia, mi hanno dato una forza incredibile. Se lui faceva questo per me, dovevo diventare degno del suo sacrificio”.

Don Guido va avanti e porta le due sorelle Nadia e Laura a incontrare Pietro. Ha scritto Maso: “Ci dividono pochi passi. Ma i miei piedi sono inchiodati a terra. Come i miei occhi. Don Guido capisce e mi fa un cenno con la testa. Io non mi muovo. Nadia e Laura mi vengono incontro. Mi abbracciano. Ora siamo abbracciati. Siamo tre in uno. Mi sarei aspettato di tutto: sguardi di rimprovero, rabbia, schiaffi. E tutto ci sarebbe stato. Ma non ero pronto a questa stretta d’amore. Senza saperlo Laura e Nadia posano una pietra importante sul mio cammino. Questa stretta scioglie tutto: il dolore, la paura, l’odio: la morte”.

“Pietro, ti vogliamo bene, sei nostro fratello” dicono Laura e Nadia. Lui dice: “Ho gli occhi chiusi. Dio mi sta facendo il regalo più grande della mia vita. Non posso crederci, sta succedendo davvero, a me. Non me lo merito. Il loro perdono mi ha liberato da me stesso. Come se qualcuno mi fosse entrato dentro e mi avesse rovesciato”.

Nel giorno di Pasqua del 2008, don Guido trasmette su Telepace l’intervista a Laura e Nadia. Nel suo Blog, Luigi Accattoli, ha trascritto le parole di Laura. (http://www.luigiaccattoli.it/blog/?page_id=9014):

“Sono la sorella di Pietro Maso che 17 anni fa uccise i nostri genitori. Noi sorelle insieme alla perdita dei due genitori avevamo perso anche un fratello e dunque ci trovammo a ricominciare un percorso nuovo e difficile, con una sofferenza dentro che era abbastanza forte, perché non è facile perdonare una cosa così grave. Ringraziamo don Guido per il suo aiuto: è stato lui ad andare a trovare per primo Pietro in carcere e a seguirlo in questi anni. Così anche noi piano piano abbiamo ricostruito un bel rapporto con quel fratello che avevamo perso, come avevamo perso tutta la famiglia.

Lo potevamo anche abbandonare quel fratello, sarebbe stato facile. Invece perdonare è una cosa un poco più profonda e difficile, ma che ci ha anche procurato una gioia dentro per i piccoli passi che vedevamo fare al nostro fratello, il suo cammino, la sua conversione. L’abbiamo perdonato in ascolto delle parole di Gesù: ‘Amatevi gli uni gli altri’.

E’ facile amare quando ci si vuole bene, ma è difficile quando ci si sente dire ‘ha ucciso i genitori’ e sono parole molto forti per noi, ma noi sappiamo che dobbiamo far nostre anche quelle altre parole di Gesù che dice “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Noi abbiamo perdonato con l’aiuto di Dio ed ecco che questo fratello che era morto è come risorto ed è lui, a volte, che ci conforta con il suo cammino. Oggi, che è il giorno di Pasqua, ci pareva bello di poter dire: ‘Eravamo morte e siamo risuscitate’. Alle volte andiamo alle tombe dei nostri genitori e li sentiamo in paradiso e che ci sono vicini e approvano il cammino che i loro figli stanno facendo.

Perdonare non vuol dire voltare pagina e fare come se non fosse successo nulla. Vuol dire vedere tutto, anche quel delitto, alla luce della fede. Non è che uno dimentica. Il perdono è una cosa profonda e uno deve sentirsela dentro per poter vivere bene. Odiando non so come si potrebbe vivere.

Tante volte siamo andate a trovarlo in carcere, ogni due o tre mesi circa. Non ce l’aveva chiesto, magari era don Guido che ce lo chiedeva e all’inizio noi eravamo contrarie perché temevamo che lui si approfittasse di noi. A poco a poco, trovandoci con lui ci riscoprivamo fratelli e ci dicevamo che magari tanti fratelli che vivono insieme non provano quel sentimento. Così è finita la nostra paura del suo approfittamento e oggi siamo sicure che ha compiuto un cammino senza il quale si sarebbe perso e ci saremmo perse anche noi, in fondo.

I nostri mariti ci hanno assecondato in questa scelta. I nostri bambini piano piano hanno cominciato a capire e sanno e lo chiamano zio e vivono bene il rapporto con lui. La gioia che sentiamo nel cuore di aver ritrovato un fratello ci ha forse aiutate a dare questo insegnamento.Il vescovo Flavio Carraro, che era informato da don Guido, più di una volta ci ha detto: ‘Stategli vicino, perdonatelo, pregate per lui’. Noi abbiamo cercato di farlo”.

Il male aveva trasformato Pietro in un mostro, ma il perdono di Dio, delle sue sorelle, di don Guido, hanno fatto il miracolo, hanno riportato in vita un giovane che era morto e dannato.