La “follia” del perdono di una madre

di Anna Di Gennaro
Tratto da Il Sussidiario.net

Quando già i giorni convulsi della crisi delle borse e della manovra finanziaria stavano assorbendo la maggior parte dei notiziari fino all’esasperazione di noi comuni mortali, che poco e niente possiamo in queste circostanze se non affidarci a chi ha il dovere costituzionale di porre mano con giustizia alla situazione, ecco accadere qualcosa di inaspettato, seppure nella tragedia.

Il telegiornale della Lombardia ha infatti intervistato la mamma del ragazzo ucciso in provincia di Monza poche ore dopo la tragedia. Raramente mi capita di dover ammettere che la TV insegna qualcosa, ma questa volta, ho dovuto ricredermi.

Sono rimasta stupita dalla dignità della sofferenza che ho colto nell’ascoltare la semplice testimonianza della mamma del ragazzo morto a soli 18 anni. Essa lascia intravedere che certi incontri possono davvero cambiare la vita di ciascuno di noi, indipendentemente dalla propria educazione, da ciò che ha condizionato, nel bene o nel male, le reazioni agli episodi di violenza più o meno efferati. Mentre l’interessante intervista a Luigi Ballerini coglie – tra l’altro – l’aspetto dell’ “elaborazione” del delitto, la madre di Lorenzo affronta, con sincera preoccupazione, l’incerto futuro che attende l’esecutore materiale, l’omicida non ancora maggiorenne. Probabilmente è il senso della maternità a renderla capace di esprimere simili parole, inaspettatamente del tutto prive di rabbia e rancore, ma invece così intrise di pietà per un giovane a cui la vita ha già tolto il padre in modo altrettanto drammatico. Imitazione speculare di un gesto già visto? L’insondabile mistero non ci aiuterà di certo a rispondere.

Ma di una cosa possiamo essere sicuri. Posto che ciascuno di noi è frutto al 95percento dei vissuti dei primi quindici/vent’anni di vita, resta pur sempre quella piccola percentuale per la quale gli “incontri” potrebbero invertire l’apparente determinismo che guida le nostre scelte. “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”. Se Dante scelse Virgilio per farsi accompagnare nella visita all’inferno è probabile che al giovane ecuadoriano “segnato” dall’omicidio occorra una compagnia del tutto simile alla donna di Sovico dalla quale abbiamo imparato una vera lezione di vita.

La Bibbia sta trasformando l’Africa

Per padre Mose Adekambi è il fondamento per una nuova società
Tratto dal sito ZENIT, Agenzia di notizie il 25 luglio 2011

Molti nigeriani sono in grado di citare la Bibbia a memoria, ma non perché si sono messi lì, con il Vangelo, a fissarsi delle parole nella testa. In una popolazione in cui solo il 68% non è analfabeta, non è quello il modo per memorizzare.

Allora dove imparano la Bibbia i nigeriani? A Messa. Hanno ascoltato la parola di Dio proclamata nelle loro chiese e l’hanno custodita nei loro cuori.

C’è fame della parola di Dio in Africa, afferma padre Mose Adekambi, sacerdote diocesano della diocesi di Porto Nuvue nel Benin.
Padre Adekambi è entrato in seminario da giovane, con il sogno di diventare un semplice prete diocesano. Ma con il tempo e l’incoraggiamento del suo vescovo è stato mandato a Roma ed è diventato uno studioso della Bibbia. Oggi, questa conoscenza la mette in pratica bene come direttore del BICAM, il Biblical Center for Africa and Madagascar.

È responsabile per la promozione della conoscenza della Bibbia per l’intera Africa.
Padre Adekambi ha parlato con il programma televisivo “Where God Weeps”, realizzato da Catholic Radio and Television Network (CRTN), in collaborazione con Aiuto alla Chiesa che soffre, sulla Bibbia in Africa e su come sta determinando un cambiamento sociale.

Padre Mose, prima di parlare del suo lavoro di promozione della Bibbia in Africa, ci parli della sua vita. Quando ha preso coscienza della sua chiamata al sacerdozio?
Padre Adekambi: Ho sentito la mia vocazione quando avevo circa 12 anni, alle elementari. Come ogni altro ragazzo della mia età, volevo fare molte cose nella vita. Volevo essere un medico, un giudice, un insegnante. Volevo anche essere un prete perché giocavo a essere prete come molti altri ragazzi miei coetanei.

I suoi genitori appartenevano alle religioni africane tradizionali. Qual è stata la loro reazione?
Padre Adekambi: I miei genitori sono diventi cattolici da adulti. Io ero già nato quando mia madre è stata battezzata e si è sposata in Chiesa. Io sono cresciuto in una famiglia cattolica e ho ricevuto un’educazione cattolica. Un giorno mi chiedevo cosa avrei voluto fare da grande e mia madre mi ha chiesto: “Tu non sai esattamente cosa vorrai fare?”. Credo che quello stesso giorno ho deciso di diventare sacerdote. Più tardi, nell’ultimo anno delle elementari, dovevo decidere se passare alle superiori o entrare nel seminario minore. Ho scritto al primo sacerdote del Benin, che è cugino di mia nonna.

Il primo sacerdote originario del Benin è cugino di sua nonna?
Padre Adekambi: Esatto. Gli ho scritto dicendo: “Vorrei diventare sacerdote come te”. Lui mi ha risposto dicendo: “Per quest’anno è troppo tardi per entrare nel seminario minore perché la lista è già chiusa e il periodo d’esame è già passato”. Ma essendo un po’ testardo sono anche andato dal parroco dicendo la stessa cosa e lui mi ha accolto e mi ha trovato il modo per entrare in seminario. Sono andato a informare mia nonna e a dirle che volevo diventare sacerdote come suo fratello. Quindi queste sono le due figure che stanno dietro la mia vocazione. Mia madre che inconsapevolmente mi ha spinto a prendere una decisione…

… Inconsapevolmente. Ma quando poi ha preso una decisione, è stata accolta con gioia in famiglia?
Padre Adekambi: Il giorno della mia ordinazione, il 4 agosto 1984, ho pubblicamente ringraziato i miei genitori. E il motivo è semplice: sono il primogenito maschio. Sapevo che per loro era un grande sacrificio e li ho ringraziati perché mi hanno permesso di essere libero. Non hanno mai detto “non lo fare”. Né hanno mai detto “Fai così”. Sapevo che se avessi cambiato idea probabilmente sarebbero stati contenti, per questo li ho ringraziati pubblicamente per avermi dato la libertà di seguire la mia scelta nonostante la sofferenza che so che hanno provato.

Qual è la sfida più grande nel suo sacerdozio, nella sua vocazione?
Padre Adekambi: Essere disponibile. Quando ho deciso di diventare prete e durante la mia ordinazione, ho usato il simbolo dell’acqua piovana. Nella mia lingua abbiamo un detto: “L’acqua piovana è usata senza cura e poi è gettata via”. In Africa usiamo l’acqua del rubinetto e l’acqua piovana. Io volevo essere disponibile, come l’acqua piovana, a Dio e ai miei fratelli e sorelle, per andare incontro alle loro necessità, qualunque cosa avessero bisogno. L’acqua piovana è utilizzata per irrigare i fiori, lavare i piatti, per l’orto, per bere, è usata per ogni cosa. Quindi per me la “disponibilità” è una grande sfida come sacerdote: fare non ciò che voglio io ma ciò che la gente vuole che io faccia…

… e ciò che la gente le chiederà.
Padre Adekambi: Esattamente, perché hanno bisogno di me per quelle cose e in quel modo. Non è facile abbandonare i propri desideri, consegnare la propria libertà agli altri, per servirli in ciò che desiderano. Io lotto per rendermi disponibile e, leggendo i Padri della Chiesa, uno in particolare mi ha colpito. Credo che fosse Alessandro di Gerusalemme, che ha paragonato lo Spirito Santo all’acqua piovana che si adatta a ogni creatura. Ha detto che l’acqua piovana non è la stessa cosa per una palma o per un mango, perché essa si adatta sempre a ciascuna creatura su cui cade.

Così è stato per me una seconda sfida: adattare me stesso a ogni persona. Sono disponibile come Paolo che nella prima Lettera ai corinzi, capitolo 9, ha detto: “mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei; con coloro che non hanno legge sono diventato come uno che è senza legge… ”, ma non è facile.

Perché l’accento sulla Bibbia?
Padre Adekambi: L’accento sulla Bibbia è dovuto al fatto che la Chiesa, soprattutto i vescovi africani, si erano resi conto che non esiste evangelizzazione senza la parola di Dio. Ed era diventato evidente che la parola di Dio non era conosciuta e che la gente aveva fame e sete della parola di Dio. Ora, per esempio, i nigeriani missionari, vescovi o preti, mi dicono che la gente spesso cita la Bibbia a memoria. Hanno grande facilità e amore per la parola di Dio. Per quanto riguarda l’Africa, posso dire che siamo più orientati alla parola di Dio che al libro contenente la parola di Dio.

Perché?
Padre Adekambi: Proprio perché la nostra cultura è in gran parte una cultura orale. Diciamo che una gran parte della popolazione non sa leggere. Se aspettiamo che imparino prima a leggere e scrivere, per poi proclamare la parola di Dio, come facciamo? Quanto dovremmo aspettare? Quindi dobbiamo considerare questo fattore: la dimensione orale della nostra cultura. Come dicevo, la gente in Nigeria è in grado di citare la Bibbia proprio perché ha ascoltato la parola di Dio nelle chiese e riesce a fissarla nella loro memoria.

Grazie a questa tradizione orale…
Padre Adekambi: … la tradizione orale, e non dimentichiamo che secondo il libro del Deuteronomio, la parola di Dio deve essere conservata sulle labbra e nel cuore.

Allora perché tornare alla parola scritta? Perché tornare alla Bibbia?
Padre Adekambi: In qualche modo, è la parola visibile di Dio, in termini sacramentali, è il Libro che è ispirato. Per questo il Libro è importante, ma non dovremmo neanche fissarci solo sul Libro perché avere un significato più ampio della Parola di Dio è utile anche in termini teologici. Io dico sempre alla gente che il capitolo 6 è l’ultimo capitolo preceduto da cinque capitoli su ciò che io chiamo la teologia della Parola di Dio. Quindi è necessaria prima una teologia della Bibbia, per poi avere un buon apostolato della Bibbia.

L’Africa, come è noto, soffre terribili mali sociali come la povertà, la guerra, ecc. Nel promuovere la Bibbia è possibile affrontare alcuni di questi mali? Fa parte del suo lavoro?
Padre Adekambi: La parola di Dio può aiutare molto. Si prenda la Lettera agli ebrei, capitolo 4, in cui si afferma che la parola di Dio è una spada a doppio taglio; scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Se ci si apre alla parola di Dio e la si lascia penetrare, sicuramente le cattive intenzioni vengono messe alla prova e veniamo spinti verso la conversione. Credo che la nostra visione comune sia erronea. Oggi, quando si parla delle questioni sociali in Africa si parla sempre delle cose che vanno male: il problema con i nostri leader, l’odio, la violenza. Ma ciò di abbiamo bisogno è ciò che io chiamo un approccio oggettivo; un approccio incentrato sull’oggetto.

… Che va dritto al cuore.
Padre Adekambi: Esatto. Per risolvere i problemi dell’Africa dobbiamo concentrarci sugli africani, come cambiare i loro cuori, la loro mentalità. La parola di Dio, in questo senso, aiuta molto a cambiare, proprio perché ci spinge alla conversione attraverso le generazioni. Nel 2007 il tema biblico era: “Dove è tuo fratello?”. Stiamo lottando uno contro l’altro? Posso ridefinire l’immagine dei miei fratelli a immagine di Dio? Solo allora impariamo a rispettare i nostri fratelli. Da questo punto passiamo poi a Matteo, capitolo 5: amare i nostri nemici. Questo può aiutarci in Africa. Questo è veramente il nostro principale impegno. Questo è il nostro laboratorio.

Vorrei condividere con voi ciò che ho constatato in Africa, in seguito a questi laboratori. Quando ho visitato il Rwanda – io vado in giro per conoscere ciò che sta avvenendo nel Paese, come parte di questo apostolato – mi è stato detto: “Padre, la lettura in comune della Bibbia è una cosa buona: ci aiuta alla riconciliazione”.

Dopo il genocidio?
Padre Adekambi: Non dobbiamo mai dimenticarlo. Anche in Sud Africa, durante l’apartheid, la Bibbia ha fatto molto in termini di riconciliazione e di aiuto alle persone ad affrontare questioni sociali, compreso l’apartheid e, dopo l’apartheid, per la riconciliazione e la ricostruzione del Paese.

Quindi per lei la Bibbia e la reintroduzione della parola di Dio è un buon fondamento su cui costruire una nuova società?
Padre Adekambi: Ne sono convinto. Questa è la mia speranza per l’Africa. È la mia speranza; il mio sogno. È un sogno realizzato perché l’ho visto in Rwanda. L’ho visto in Sud Africa. L’ho visto in Zambia dove le piccole comunità cristiane, al livello più basso, stanno veramente cercando di staccarsi dalle loro vecchie mentalità e di cambiare il mondo che li circonda, ascoltando la parola di Dio e l’insegnamento sociale della Chiesa.

E mettendola in pratica?
Padre Adekambi: Esattamente. Il significato biblico dell’ascolto è quello di metterla in pratica. Come dice la Lettera di Giacomo: “Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi”. Quindi siamo chiamati ad ascoltare, tutti noi.

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Questa intervista è stata condotta da Mark Riedemann per “Where God Weeps”, un programma televisivo e radiofonico settimanale, prodotto da Catholic Radio and Television Network in collaborazione con l’organizzazione internazionale Aiuto alla Chiesa che soffre.

Aiuto alla Chiesa che soffre: www.acn-intl.org

Where God Weeps: www.wheregodweeps.org

«Ero gay, ora ho una moglie Il professor Veronesi non sa di che sta parlando…»

«Macché amore puro! Solo sesso orgiastico. Ma a Medjugorje sono guarito» La storia della sua vita nelle strofe cantate da Povia al Festival di Sanremo
di Stefano Lorenzetto
Tratto da Il Giornale del 24 luglio 2011

«Luca era gay e adesso sta con lei / Luca parla con il cuore in mano / Luca dice sono un altro uomo». Quando il 17 febbraio 2009 sentì questi versi al Festival di Sanremo, Luca Di Tolve ebbe un sussulto: sul palco del teatro Ariston, Giuseppe Povia stava cantando la storia della sua vita. Luca era gay e adesso non lo è più. Lo è stato dai 13 ai 31 anni e si sentiva considerato niente più che «un bel pezzo di carne». Se gli chiedi il numero dei partner che ha cambiato in quel periodo, ti risponde, abbassando gli occhi, «almeno due a settimana», cioè poco meno di 1. 900, il che lo pone una spanna al di sopra del cantautore Franco Califano, recordman dell’acchiappo, che ha cominciato anche lui a 13 anni e che mi ha confessato d’aver avuto nella sua vita 1. 500 donne. Solo che quando il Califfo ha improvvisato questo calcolo era prossimo alla settantina e ancora si applicava di buona lena, mentre Di Tolve ha smesso per sempre di andare a uomini da quasi un decennio.

Luca, milanese di 39 anni, adesso sta con Teresa, bergamasca di 35, detta Terry, operatrice sanitaria in una casa di riposo, che s’è licenziata per stargli vicino – è sieropositivo, ha avuto un’epatite, ogni giorno deve ingollare 12 pastiglie – e per aiutarlo nel Gruppo Lot, una Onlus intitolata al nipote di Abramo fuggito da Sodoma prima che la città venisse incenerita da una «pioggia di zolfo e fuoco proveniente dal Signore», così narra la Genesi. Per seguire l’associazione che ha creato, Luca ha invece chiesto un’aspettativa di due anni al Comune della Lombardia dov’è guardia giurata e ora insieme con la moglie gira l’Italia (l’ho rintracciato a Pescara, nella parrocchia di Santa Caterina da Siena), per raccontare la sua storia a ragazzi che vorrebbero cambiare vita, come ha fatto lui. Attraverso Internet lo hanno cercato in 2. 000, dai 18 ai 45 anni, e un centinaio di loro ha già seguito il percorso di preghiera, supportato dalla terapia riparativa messa a punto dallo psicologo clinico statunitense Joseph Nicolosi, membro dell’American psychological association, fondatore del Narth (National association for research and therapy of homosexuality) e della clinica San Tommaso d’Aquino di Encino, in California. Dieci di questi percorsi si sono conclusi con altrettanti matrimoni e la nascita di quattro figli – «un quinto è in arrivo», annuncia raggiante Di Tolve – e tre con altrettante ordinazioni sacerdotali.

Luca era gay e adesso dice «sono guarito», e questo manda in bestia i gruppi omosessuali, Arcigay in testa. Non solo perché fin dal 1973 nel Dsm (Diagnostic and statistical manual of mental disorders) l’omosessualità è stata derubricata da malattia mentale a variante non patologica del comportamento sessuale, ma soprattutto perché Di Tolve non è un tizio qualunque. Nel 1990 fu uno dei primi a essere eletto Mister Gay nella discoteca Nuova idea international di via De Castillia, il locale più trasgressivo di Milano, che ancor oggi offre «ragazzi tanti e boni» e «le migliori cubiste trans». È stato per due anni nel direttivo dell’Arcigay milanese. Era diventato l’impresario turistico di riferimento dell’associazione. Organizzava crociere e vacanze per gay pubblicizzate su Adam e Babilonia, i due periodici trendy della comunità omosessuale. Nel 1996 aveva addirittura organizzato, d’intesa con le Ferrovie dello Stato, un treno speciale che avrebbe dovuto portare militanti da tutta Italia al Gay pride di Napoli, anche se poi il convoglio rimase fermo sui binari perché l’Arcigay partenopea negò la sponsorizzazione concessa invece dall’Arcigay milanese. Frequentava il jet set internazionale: ha potuto avvicinare Gianni Versace e Giorgio Armani; ha conosciuto Dolce e Gabbana a Taormina; una foto lo ritrae con Carla Bruni, non ancora divenuta premièr dame di Francia; tra Portofino e la Costa Smeralda è stato accolto alle feste o sui panfili di famosi stilisti, insieme con Naomi Campbell, Flavio Briatore e Sean Combs, il rapper americano noto come Puff Daddy.

Da quando Luca Di Tolve non è più gay, si ritrova tutti contro, specialmente dopo che ha avuto il coraggio di mettere nero su bianco la sua storia nelle 248 pagine del libro Ero gay, che è stato edito da Piemme col sottotitolo A Medjugorje ho ritrovato me stesso, perché l’autore è arcisicuro che ci sia la Madonna apparsa trent’anni fa a sei veggenti nel villaggio della Bosnia-Erzegovina all’origine di quella che lui considera una vera e propria redenzione. S’è trovato minacce di morte nella casella della posta, tanto che oggi è costretto a non rivelare a nessuno il luogo di residenza. Quando va a parlare in giro per l’Italia, deve farsi proteggere dalla Digos e dai carabinieri. A Brescia, nella Casa dei diaconi messagli a disposizione dalla curia vescovile, è stato assediato da circa 200 sostenitori dell’Arcigay, capeggiati dal presidente nazionale Aurelio Mancuso e da quello onorario Franco Grillini, ex deputato e leader storico del movimento gay. Portavano appeso al collo un certificato Asl di sana e robusta costituzione fisica e inalberavano cartelli con l’ammonizione «Non guarirete mai!» lanciata all’indirizzo di coloro che avevano accettato di partecipare alla sua conferenza. Alla fine è stato scortato da due poliziotti in un’altra sede, tenuta segreta per precauzione. Lo stesso è accaduto a Milano, nella parrocchia di San Giuseppe Calasanzio. «Per la visita del professor Nicolosi in Italia sono stati mobilitati 20 agenti. E poi i gay hanno il coraggio di sostenere che quelli discriminati sono loro! Mi considerano un reietto, un rifiuto umano. Hanno scritto che sono a libro paga del Vaticano e che prendo ordini da Rocco Buttiglione, escluso dalla Commissione europea per aver detto che come cattolico considera l’omosessualità un peccato, ma non un crimine. Evidentemente per loro è invece un delitto il matrimonio fra un ex omosessuale e una donna. Se un eterosessuale diventa gay viene salutato come un eroe, lo invitano in Tv, gli offrono un posto da opinionista nei giornali, mentre se un omosessuale compie il percorso inverso viene messo al bando».

A che età s’è scoperto diverso?
«Nell’età degli ormoni. Alla scuola media fin dal primo giorno ho cominciato a provare un’attrazione irresistibile per il compagno di banco, Paolino. Mia madre mi portò da due psicologi, che emisero la stessa diagnosi: “È omosessuale, si deve solo accettare”. La televisione e il resto del mondo mi dicevano la stessa cosa. Fu come darmi via libera. Mi misi subito alla ricerca di altri uguali a me».

La sua inclinazione che origine ha?
«Il movente profondo che spinge ad adottare comportamenti omosessuali è sempre il medesimo: assumere le caratteristiche maschili che non riesci a esprimere in te stesso. Ho avuto una madre ansiogena e amorevolmente oppressiva. Si sposò a 17 anni. All’epoca mio padre lavorava alla Ri-Fi, la casa discografica di Mina e Fred Bongusto. In casa non c’era mai e, quelle poche volte che c’era, litigava. Alla fine si separarono. A 6-7 anni mamma mi mandava a scuola in calzamaglia. “Ma sei maschio o femmina?”, mi prendevano in giro i miei compagni di classe. Mi tolsero le mutande con la forza per accertarlo. Quando il gruppo dei pari ti respinge, tu che fai? Finisci nel gruppo delle femmine. Ho avuto solo maestre. Alle medie persino l’insegnante di ginnastica era una donna».

Interrotti gli studi, divenne prostituto.
«Mi facevo mantenere. È una consuetudine piuttosto diffusa nell’ambiente gay. Conobbi Riccardo, un trentenne milanese figlio di un miliardario. Lavorava per l’industria orafa e per la moda. Agli stilisti mi presentava come il suo fidanzato. Mi versava tre milioni e mezzo di lire al mese solo per stare con lui. Più la carta di credito. Mi pagava il personal trainer perché diventassi sempre più bello e palestrato. Nel frattempo ognuno di noi aveva storie parallele. Abitavo in Montenapoleone, giravo con l’autista e il Rolex d’oro al polso».

Poi si mise a fare il personal shopper.
«Sì, accompagnavo gay danarosi di tutto il mondo, soprattutto americani, a far compere nelle boutique di lusso. Il mio nome era su Spartacus, la guida internazionale per gay. M’è anche capitato di portare in giro principesse degli Emirati arabi. Una di loro spese in poche ore 150 milioni di lire in vestiti, scarpe e borsette. Ero arrivato a guadagnare 30 milioni al mese in questo modo. Ogni anno io stesso andavo a fare shopping a New York e svernavo a Miami. Fu lì che vidi un grande cartello stradale: “Gay cruise”. Caspita, mi dissi, qui siamo accolti anche al Club Med! Decisi di organizzare crociere omosex in Italia».

E le navi dove le trovò?
«Interpellai la Costa e la Moby. Nessuno dei funzionari delle due compagnie sollevò obiezioni. Per la prima crociera scelsi la Corsica. Partenza da Genova con 60 passeggeri, tutti travestiti. Naked party, dove si stava nudi. Docce di gruppo. La sera sorteggio delle cabine per favorire gli scambi di coppia».

Perché solo travestiti?
«Ero attratto dai lineamenti efebici dei transessuali. Stavo per ore a osservare quelli che battevano in corso Sempione. Fu lì che conobbi Diego».

Un travestito?
«Sì, in arte Belladonna. Ma sul più bello che s’era stabilita fra noi una forte intesa, la morte aprì le danze. Allora per l’Aids non c’erano cure, si crepava nel giro di un anno. Belladonna perse progressivamente la vista. Il suo corpo scultoreo si ridusse allo stato larvale. Dai, Bella, rifatti il trucco che ti porto in crociera!, cercavo di rassicurarla. Non volevo vederla soffrire, perciò ripresi dopo tanti anni a pregare e le misi fra le mani un santino della Madonna delle Lacrime di Siracusa. In quel momento Belladonna perse per sempre conoscenza. “È una fortuna per il suo amico”, mi dissero i medici. “Ha sviluppato anche una toxoplasmosi che porta alla putrefazione del cervello. Meglio che sia in coma: fosse rimasto lucido, avrebbe sofferto le pene dell’inferno”. E lì ebbi per la prima volta la percezione che le mie suppliche alla Vergine fossero state esaudite».

Fintantoché anche a lei non diagnosticarono il virus dell’Hiv.
«Accadde al ritorno da Miami. Avevo sempre la febbre a 40. Subito i medici ipotizzarono che avessi contratto la malaria in qualche zona paludosa della Florida. La sentenza di morte fu pronunciata da una sbrigativa dottoressa dell’ospedale Sacco di Milano: “Sieropositivo. Mi spiace. Ecco qua i suoi esami. Si metta in coda per la prassi”. Mi resi conto che dovevo morire. Tornai ad abitare con mia madre. Alla festa che diedi per il trentesimo compleanno un ragazzo gay dimenticò a casa mia un opuscolo sulla terapia riparativa del professor Nicolosi. Lo lessi con avidità».

E che cosa scoprì?
«Che era tutto vero. Per anni hai bevuto, hai sniffato coca, hai fatto sesso con più partner contemporaneamente e in trenta pose diverse, ma sei infelice. Non riuscendo a diventare uomo, tenti con gli amplessi di appropriarti degli attributi esteriori della mascolinità, una sorta di cannibalismo collegato al godimento. Di giorno provi a difenderti da quanto vorresti fare di notte, perché ti rendi conto che ogni senso di pienezza svanisce insieme con l’eiaculazione. Ma la sera basta un nonnulla per scatenare la nevrosi che si esaurisce solo al termine del coito. Per riaccendersi più forte subito dopo».

Sa di girone dantesco.
«All’inizio pensai di poter trovare la salvezza nel buddismo. Ore e ore a ripetere il mantra “Nam myoho renge kyo” davanti ad altari fatti con le mele. Poi un giorno vidi una corona del rosario sul contatore della luce e sentii una locuzione interiore che mi ordinava: “Prendilo!”. Mi misi a recitarlo. Alla terza posta caddi in ginocchio, letteralmente. Avvertii un amore indescrivibile, materno, che non esiste sulla Terra, e scoppiai a piangere. Fu una liberazione. Da quel momento sparirono pulsioni omosessuali, angosce, tristezza, sconforto, pensieri negativi, paura di morire. Ripresi a lavorare in un call center. Continuavo a frequentare i gay, ma come fossero fratelli. In fin dei conti erano la mia famiglia. Loro mi prendevano in giro: “ecco Giovanni il Battista!”, “cara, sei nella fase mistica”, “è arrivato Medjugorje!”. Avrebbero voluto rivedermi ballare sul cubo col sedere di fuori. Vivevo nel terrore che le pulsioni omosessuali si ripresentassero».

E per scongiurare quest’eventualità che fece?
«Cercai Giancarlo Ricci, psicoterapeuta aderente alla rete Narth del professor Nicolosi. Cominciai a lavorare sulla mia virilità. Dopo essere stato assunto come guardia giurata, mi misi a studiare La Gazzetta dello Sport e a guardare Il processo di Biscardi in televisione per non farmi cogliere impreparato dai colleghi che parlavano solo di calcio. Sentii d’avercela fatta il giorno in cui m’invitarono con loro al bar a bere una birra. Ero tornato nel gruppo dei pari. Pensai: tu puoi essere eterosessuale, tu puoi formarti una famiglia. Era un’idea che mi faceva sentire bene».

Le mancava solo una donna.
«M’innamorai di una ragazza bionda, bel viso, bei seni. Purtroppo era atea e di sinistra, mi parlava della pillola del giorno dopo, mentre io volevo che si convertisse. Dopo tre mesi ci lasciammo. Nel 2005 andai a Medjugorje per ringraziare la Madonna d’avermi salvato. All’ora dell’apparizione, fu come se la creazione si fermasse. Un silenzio assoluto, irreale. Guardai il sole a occhio nudo. Caddi di nuovo in ginocchio. Tornato in Italia, a casa di una coppia di amici che era stata in pellegrinaggio con me, conobbi Teresa. Il 22 agosto 2008, dopo tre anni di fidanzamento, la sposai. Ora vorrei diventare padre».

Ma lei non è sieropositivo, scusi?
«Sì, ma c’è stato un altro miracolo: da quando mi sono convertito, la carica virale dell’Hiv è completamente azzerata. Sto benissimo. Quindi un figlio non correrebbe rischi. Purtroppo tarda ad arrivare».

Lei dice: «Sono guarito», dando implicitamente dei malati agli omosessuali. Ma sul sito per le Pari opportunità trovo scritto: «L’omofobia è una malattia dalla quale si può guarire». Quindi è chi ha paura dei gay a essere malato.
«Guarito in senso etimologico: mettere al riparo. Una guarigione spirituale. Potrei usare un altro verbo. Uso questo perché ci vogliono rubare anche le parole. Mai pensato che l’omosessualità sia una malattia».

E l’omofobia è una malattia?
«Secondo il Dsm, il manuale dei disordini mentali, perché si possa diagnosticare una fobia devono presentarsi almeno quattro dei seguenti sintomi: palpitazioni, tachicardia, sudorazione, tremori, dispnea, dolore al petto, nausea, disturbi addominali, sbandamento o svenimento, depersonalizzazione, paura d’impazzire o di morire, parestesie. Chi viene dipinto come omofobo prova quattro di questi sintomi mentre parla dei gay? Ma andiamo!».

Appena sarà approvata la legge sull’omofobia, la arresteranno.
«Perché il ministro per le Pari opportunità non promuove invece uno studio serio, scientifico, per inquadrare un fenomeno che desertifica l’anima? Forse perché ritiene l’omosessualità una condizione innata e immutabile? Eppure il gene dell’omosessualità non esiste, né mai potrà essere individuato. Altrimenti non si spiegherebbe come mai nei gemelli omozigoti, che condividono il 100 per cento dei geni, solo nel 52 per cento dei casi entrambi i fratelli siano omosessuali. Le Pari opportunità non contemplano la libertà di scelta?».

Presumo di sì.
«Ebbene nella classificazione delle malattie l’Organizzazione mondiale della sanità include il disturbo F66. 1 e stabilisce che, qualora la preferenza sessuale eterosessuale, omosessuale o bisessuale sia causa di disordini psicologici, “l’individuo può cercare un trattamento per cambiarla”».

Come mai si parla tanto di omofobia? È una parola che sulla Treccani neppure compare. L’Ansa la usò per la prima volta, e una sola volta, nel 1984. L’anno scorso l’ha adoperata 816 volte.
«Si tratta di una precisa strategia dell’attivismo gay per arrivare a sanzionare la libertà di pensiero e di espressione. Un attacco alla Costituzione. Non vogliono che si parli di loro, se non per parlarne bene. Una tattica intimidatoria: se vuoi essere considerato una persona ragionevole, e non un soggetto fobico, cioè un malato, devi condividere l’ideologia omosessualista».

Perché i mass media darebbero un’immagine idilliaca dell’omosessualità?
«Perché i gay sono stati bravi ad arruffianarsi la comunicazione. Dopo secoli di persecuzioni, hanno capovolto a loro vantaggio gli stereotipi negativi. Certo, per invitare Lady Gaga al Gay pride di Roma quattro sfigati non devono essere. E poi conta molto il connubio col mondo della moda, che assicura alla comunità omosessuale una visibilità e un potere assai superiori alla sua consistenza numerica, stimata da Nicolosi non nel 10 per cento della popolazione mondiale, come vorrebbe uno dei miti più resistenti della cultura gay, ma nell’1-2 per cento al massimo».

Che cosa pensa delle affermazioni del professor Umberto Veronesi, secondo cui l’amore omosessuale «è più puro» di quello eterosessuale, «perché non ha secondi fini, è fine a se stesso, quindi è più autentico, più vero»?
«Penso che non sappia neppure di che cosa parla. Io li ho vissuti, i rapporti gay. Ora Veronesi mi dovrebbe spiegare che cosa c’è di puro nel Leather club Milano, sponsorizzato dall’Arcigay, dove si pratica sesso sadomasochistico, o nelle dark room dove s’intrattengono rapporti carnali col primo che capita, con l’aiuto di film porno, lubrificanti e falli di gomma. Il tutto registrato come attività culturale e con la tessera dell’Arcigay, che vale quale lasciapassare obbligatorio. O vogliamo parlare della discoteca Il diavolo dentro, che si definisce “il più grande sex club di Roma”? Anche lì entrano solo i tesserati Arcigay. Il secondo e terzo venerdì del mese vi si celebra l’orgia party. Non manca il glory hole, che è un buco praticato nel muro nel quale si inserisce il pene, consentendo allo sconosciuto che sta dall’altra parte di praticare una masturbazione o il sesso orale senza che i due partner entrino in contatto. È questo l’amore “più puro”? Le assicuro che non esiste un solo locale per gay dove non si favoriscano incontri al buio o non si faciliti la prostituzione. Veronesi dovrebbe chiedersi semmai perché lo Stato tolleri tutto ciò. Parlo per esperienza diretta: se le forze dell’ordine facessero irruzione in questi locali con le lampade di Wood, troverebbero ovunque tracce di sperma. Un mercato della carne mascherato dietro sedicenti associazioni culturali non profit e organizzazioni onlus. Che cosa trattiene le istituzioni dall’intervenire? La paura d’essere considerate omofobe? Il titolo IX del codice penale, quello dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, non vale per i circoli gay?».

Veronesi sostiene che «la specie umana si va evolvendo verso un “modello unico”» e «che, tra fecondazione artificiale e donazione, l’accoppiamento sessuale non è più l’unica via per procreare, finirà col privare del tutto l’atto sessuale del suo fine riproduttivo».
«Quando la scienza non si accompagna alla coscienza, si arriva al delirio di onnipotenza. Il professor Veronesi sta offendendo la natura, oltreché milioni di eterosessuali e di genitori. Si limiti a fare l’oncologo, va’, che è meglio per tutti».

Anche all’Onu, nell’Unione europea e in vari Parlamenti nazionali sta passando l’ideologia del gender.
«Vogliono equiparare il modo di vita omosessuale, bisessuale e transessuale a quello fra uomo e donna. In Spagna, da quando il premier José Luis Zapatero ha legalizzato le nozze fra persone dello stesso sesso, nei certificati di nascita si legge “progenitore A” e “progenitore B”. Nel Massachusetts sui certificati di matrimonio, anziché “marito” e “moglie”, scrivono “parte A” e “parte B”. Siamo al social engeenering, alla creazione per legge di un individuo nuovo, sessualmente variabile. Al Gruppo Lot arrivano genitori di ragazze diciottenni che vogliono farsi asportare i seni a spese del Servizio sanitario nazionale; glieli tagliano in due minuti, altro che Hitler, e mamma e papà non possono farci nulla perché le figlie sono maggiorenni. Ma i geni non si cancellano. Ho conosciuto transessuali dissociati, come Perry, perché conservano la memoria genetica del pene asportato. Non sanno più chi sono».

Ma se l’omosessualità si rintraccia persino fra gli insetti, gli uccelli e i mammiferi, come si può spiegarla con fattori ambientali o comportamentali?
«Non esiste alcuna prova scientifica che un individuo nasca omosessuale. Inoltre penso che le persone possano considerarsi un gradino più su delle pecore, o no? Gli animali seguono l’istinto, gli uomini la ragione. Le femmine dei criceti al primo parto spesso divorano i propri piccoli. Dovremmo tollerarlo anche nelle puerpere? Qualora l’omosessualità non fosse altro che un prodotto della natura, basterebbe a renderla desiderabile? La terapia affermativa gay propugna che la fonte del disagio risieda nella società che odia gli omosessuali. Così non è e io posso testimoniarlo. Il disagio lacerante era dentro di me, non fuori di me. Ero un gay convintissimo, effeminato, e oggi sono un’altra persona».

Resta il fatto che l’omosessualità è presente in natura anche fra esseri viventi che non manifestano alcun disagio, come gli orangutan e i delfini.
«La natura dà luogo a innumerevoli condizioni indotte biologicamente, dai disturbi ossessivo-compulsivi al diabete, ma nessuno li considera normali solo per il fatto che si producono in modo naturale. Se due omosessuali desiderano stare insieme, lo facciano. Ma perché una ristretta minoranza pretende di stravolgere i valori maschili e femminili e di snaturare la famiglia, che è l’architrave di qualsiasi consorzio umano?».

Che cosa pensa dei registri comunali per le coppie di fatto?
«Che ci sono i registri però mancano le coppie. A Padova, prima città d’Italia nel 2006 a riconoscerle su proposta dell’allora consigliere ds Alessandro Zan, presidente dell’Arcigay veneto, fino a oggi vi sono state 50 iscrizioni, ma solo una decina di coppie gay. Due all’anno».

Di quanti degli omosessuali che ha conosciuto direbbe che erano felici?
(Ci pensa). «Felici… Forse uno solo. Ma se il piacere fisico è la felicità, tanti. Per me la felicità è la gioia piena, non l’orgasmo».

Ha mai la paura o il sospetto di tornare a essere o di essere ancora gay?
«Sempre. È la spina nella carne. Però qui in spiaggia a Pescara mi guardo attorno e sento il Signore che mi dice: “Vai, vai, che sei guarito”».

Le gemelline siamesi e l’esempio dei loro genitori

di Massimo Pandolfi
Tratto da Vite spericolate, il blog di Massimo Pandolfi, il 24 luglio 2011

Come porsi di fronte ai volti di Rebecca e Lucia, le due gemelline siamesi nate a Bologna a fine giugno, con un cuore comune, un fegato fuso e l’intestino in parte comune?

In questi giorni si sono succeduti interventi, tutti importanti, tutti sicuramente sofferti; sono scesi in campo scienziati, comitati bioetici, Famiglie Cristiane varie, vescovi e cardinali, preti e mangiapreti, medici e ciarlatani. Che fare? Lasciare che il dilemma sia risolto dalla natura o Dio, a seconda di come uno la pensi? Salvare almeno una delle due gemelline? Provare a salvarle entrambe col rischio di perderle entrambe? ‘Staccarle’ (scusate la brutalità) oppure lasciarle attaccate? Ma se si staccano, una delle due muore per forza, oppure no? E’ giusto sacrificare la più debole? Sono domande angoscianti, forse troppo angoscianti per ognuno di noi. Io non ho una risposta scientifica, anzi non ho la presunzione di avere alcun tipo di risposta. Mi inchino solo al coraggio, al dolore e alla serenità dei genitori di Rebecca e Lucia, moglie e marito di 30 anni, ravennati, e alle parole che la mamma delle due bambine ha pronunciato al nostro giornalista Gilberto Dondi, brillantemente riprese dal commento del vicedirettore del Carlino Massimo Gagliardi. Ha detto questa donna di 30 anni: ‘Le bambine sono bellissime, vederle ci dà molto coraggio, E ci infonde tanta pace’. Ecco, questa non è una risposta che potrà togliere il magone e nemmeno risolvere come con una bacchetta magica il dilemma (cosa fare?) che magari fra un’ora, un giorno, un mese o un anno, i medici porranno loro di fronte, implacabile. E non esisterà, in quel momento, una risposta a tavolino. Ma questi due genitori hanno trovato il modo di fare l’unica cosa che si può fare nella vita: starci in questa realtà che il mistero ha messo loro di fronte, viverla in fondo, soffrirla, magari benedirla, senza censurare nulla. Il loro cammino, in questo modo, non è certo più facile, ma sicuramente più vero. ‘Le bambine sono bellissime’. E’ lo sguardo del cuore e il nostro cuore, quando non lo teniamo atrofizzato, è infallibile. Grazie davvero, anonimi marito e moglie di Ravenna, genitori delle bellissime Rebecca e Lucia; abbiamo bisogno di esempi come i vostri.

In missione nel profondissimo est

Il grande sonno di Chemnitz, il sogno delle famiglie neocatecumenali

Fuori il sole è ancora alto, ma le strade alle otto sono già semideserte. Theater Strasse 29, un vecchio palazzo appena ristrutturato che sa ancora di calce fresca. Delle famiglie neocatecumenali a Chemnitz ciò che più ti colpisce, quando le vedi insieme come questa sera, sono i figli: sei coppie, ciascuna con nove o dodici o anche quattordici ragazzi. In tutto sono una settantina, adolescenti o da poco sposati. E guardi le loro facce, i loro occhi lucenti, e pensi: che meraviglia, e che ricchezza abbiamo perso noi, europei del figlio unico (mentre da una stanza accanto arriva perentorio lo strillo di uno dei primi nipoti).

Commuove, la piccola folla di ragazzi cristiani stasera a Chemnitz, ex Karl-Marx-Stadt. Perché in quest’angolo di ex Ddr la civiltà nacque, nell’anno 1136, da un pugno di monaci benedettini, che fondarono un’abbazia; e si erano portati dietro delle famiglie cristiane che vivevano attorno al convento e disboscavano le foreste, per farne terra da coltivare; e anche quelle famiglie avevano dieci figli ciascuna. Che la storia possa ricominciare, quando sembra finita? Te lo domandi in questa città silenziosa e spenta, dove un abitante su quattro è vecchio, e spesso solo, e soli sono i figli unici di famiglie disfatte. La gente di qui si volta, se una famiglia neocatecumenale esce con anche solo una metà dei suoi figli. E se un compagno di scuola capita a casa a pranzo, incredulo fotografa con il cellulare la lunga tavolata.

La missio ad gentes di Chemnitz, composta di due comunità, ciascuna accompagnata da un sacerdote, è formata da due famiglie italiane, due spagnole, una tedesca e una austriaca. I padri, in patria, avevano un lavoro sicuro. Negli anni ’80 partirono per la prima missione. Li mandò il fondatore del Cammino neocatecumenale Kiko Arguello, accogliendo un desiderio di Giovanni Paolo II: cristiani che riportassero il Vangelo nelle periferie delle metropoli occidentali. Andrea Rebeggiani, professore di latino e greco, lasciò con la moglie e i primi cinque figli la sua casa a Spinaceto, periferia sud di Roma, e approdò nel marzo 1987 in una Hannover sommersa da una tempesta di neve. Anche Benito Herrero, ricco avvocato catalano, abbandonò tutto e venne qui, a studiare tedesco alle scuole serali assieme ai profughi curdi.

E già era una straordinaria avventura. Ma nel 2004 il Cammino neocatecumenale immaginò un altro passo: famiglie accompagnate da un sacerdote si sarebbero trasferite nelle città più secolarizzate, semplicemente per stare tra la gente ed essere il segno di un’altra vita possibile. Una struttura, in sostanza, benedettina. Il vescovo di Dresda, Reinelt, invitò i neocatecumenali a Chemnitz, della ex Ddr forse la frontiera più dura. E di nuovo queste famiglie partirono.

Non solo i genitori, ma anche i figli, liberamente, uno per uno. «Avevamo solo cinque o sei anni quando abbiamo lasciato il nostro paese – spiega oggi Matteo, figlio di Andrea – ora siamo grandi, questa volta è la nostra missione». Difficile la vita a Chemnitz, in questa provincia povera che sa ancora di Ddr, per dei ragazzi cresciuti all’Ovest. Qualcuno soffre, se ne va. Poi, quasi sempre, ritorna. Dura la vita dei padri, di nuovo in cerca di lavoro a cinquant’anni. Se lo stipendio non basta, si vive degli assegni familiari del welfare tedesco e dell’aiuto delle comunità neocatecumenali di provenienza. In un legame forte: in patria, per queste famiglie le comunità recitano costantemente il rosario; in estate mandano qui i ragazzi, a fare la missione cittadina. (Un’esplosione di allegria per le solitarie vie di Chemnitz, da quei gruppi di adolescenti romani o spagnoli. Discussioni alla porte del cimitero: «Sapete che le ossa dei vostri morti risorgeranno, un giorno?».

I più, della gente di Chemnitz, alzano le spalle e se ne vanno: «Soprattutto i vecchi, sembrano non tollerare di sentire parlare di Dio»). Ma la vera missione, dice l’avvocato Herrero, «è essere qui». Qui nella vita quotidiana, dietro ai banchi o al lavoro, tra gente che ti guarda e non capisce, che domanda e si stupisce; scontrosa, diffidente, impaurita (quante sette che cercano adepti, per queste strade semivuote). Essere qui: come Maria, 27 anni, maestra in un asilo dove tanti genitori sono già divisi, e testimoniare di una famiglia in cui ci si vuole bene per sempre.

Come uno dei ragazzi spagnoli, barista d’estate in una gelateria: ha incuriosito il proprietario, che una sera è venuto a sentire la catechesi, e poi è ritornato. Piccolissimi numeri: ma non c’è smania di proselitismo in questa gente. Già lieti d’essere qui: «La missione prima di tutto educa noi e i nostri figli all’umiltà. Non siamo dei superman, ma uomini come gli altri, fragili e paurosi». Paurosi? A noi sembra che ci voglia un coraggio da leoni per mollare tutto e con una nidiata di bambini partire per un paese sconosciuto.

Da dove viene il coraggio? «Dio – ti rispondono – chiede all’uomo ciò che ha di più caro, proprio come lo chiese ad Abramo, che offrì suo figlio Isacco. Ma se offri tutto a Dio, scopri che lui ti dona molto di più. Ed è fedele, e non ti abbandona». Che storie, fra questi cristiani che invecchiano lietamente in una corte di figli e nipoti. C’è il professore ex sessantottino che a trent’anni si sentiva finito e disilluso, e ora ha 9 figli e 7 nipoti, più 3 in arrivo. C’è l’informatico che da adolescente ha sofferto dell’abbandono del padre, e ha perso la fede; e sa cosa possono avere in testa questi ragazzi di Chemnitz, con i loro affetti divisi. Ragazzi che invidiano i suoi figli: «Che fortuna – dicono spesso – voi tornate da scuola e mangiate tutti assieme. Noi mangiamo soli, o con il gatto», in un lampo di nostalgia di una famiglia vera. ».

Ci sono segni capaci di toccare anche il cuore dei più lontani – dice Fritz Preis, da Vienna – e noi siamo qui per portarli a questa gente». Ma quale motore spinge un così sbalorditivo lasciare ogni certezza? «Io ho fatto tutto questo per gratitudine – risponde l’avvocato catalano – gratitudine per mia moglie, per i figli, per la vita, per tutto quello che Dio mi ha dato». Taci, perché un cristiano “normale”, già in affanno con i suoi pochi figli nel suo paese, resta muto davanti alla fede di queste famiglie; testimoni di un Dio che chiede tutto, ma dà molto più di quanto ha ricevuto. Taci, davanti alla serenità delle quattro sorelle laiche che assistono le famiglie nelle necessità quotidiane: «Io volevo semplicemente mettermi al servizio di Dio», dice Silvia, romana, con un sorriso che trovi raramente nelle nostre città. Le vedranno, queste facce, questa singolare letizia, qui, dove non credono più in niente? Quando i neocatecumenali spiegano che sono venuti da Roma e Barcellona, per annunciare che Cristo è risorto, la gente di Chemnitz si ritrae turbata, come disturbata in sonno pesante. Talvolta rispondono: «Vorremmo crederci, ma non ne siamo capaci».

Due generazioni senza Dio sono tante, per la memoria degli uomini. Ma quando, un giorno, alcuni dei figli del professor Rebeggiani si sono messi a cantare – per la pura gioia di farlo – dal balcone di casa l’antico canto “Non nobis Domine”, i vicini si sono affacciati, e sono rimasti ad ascoltare. E una vedova ha chiesto ai ragazzi di cantare lo stesso canto al cimitero, in memoria del marito morto. Così è stato, e fra i presenti uno è si è avvicinato, alla fine: «Da tanto tempo – ha detto – non sentivo qualcosa che mi desse una speranza». Chissà, ti chiedi, se anche per quel pugno di monaci benedettini e di laici arrivati qui nel 1136 non sia cominciata così: con lo stupore di uomini che intravedevano in loro una bellezza, e ne provavano una misteriosa nostalgia.

Marina Corradi da Avvenire

“L’amore cambia tutte le cose”

Storie di vita e di maternità tra nascite e interruzione della gravidanza

di Antonio Gaspari

ROMA, lunedì, 18 luglio 2011 (ZENIT.org).- Dieci storie vere di mamme che si dibattono se accettare la gravidanza o interromperla, raccontate in un libro.

Si tratta del saggio “L’amore cambia tutte le cose” scritto da Antonella Diegoli, presidente di Federvita dell’Emilia Romagna, e appena pubblicato dalle edizioni Interlinea

Arricchito dalle note di Gianni Mussini ed Eugenia Roccella, il ricavato dei diritti d’autore del libro della Diegoli verrà devoluto al Progetto Gemma (http://www.mpv.org/pls/mpv/consultazione.mostra_pagina?id_pagina=44), un servizio per l’adozione prenatale a distanza di madri in difficoltà.

Attraverso questo servizio e con un contributo minimo mensile, si può adottare per 18 mesi una mamma e aiutare così il suo bambino a nascere.

Finora il progetto Progetto Gemma ha aiutato a nascere circa 14.000 tra bambini e bambine.

Per meglio conoscere il contenuto e le finalità del libro, ZENIT ha intervistato l’autrice Antonella Diegoli.

Di che cosa parla il libro?

Diegoli: Parla di maternità, accolta o negata. Storie di donne che hanno in comune l’esperienza del portare la vita in grembo, storie difficili, non tutte a lieto fine, ma reali.

Perchè ha sentito la necessità di scriverlo?

Diegoli: In questi anni di volontariato per la vita ho conosciuto persone e incontrato storie che davano valore al mio impegno per il solo fatto di esistere: loro erano reali, appartenevano alla vita vera e io ne traevo vantaggio perché mi trovavo a parlarne, magari a convegni o in altri colloqui per situazioni simili. Quando la mia vita ha subito una pausa forzata – a causa di un banale incidente sugli sci – ho avuto il tempo di scrivere di loro, una sorta di tributo a quel mondo fatto di dolore ma anche di mistero e di gioia profonda.

Che cosa pensa di comunicare ai lettori?

Diegoli: Vorrei che questo piccolo libro potesse servire ad avvicinare al tema della maternità con cuore sincero, senza ideologia, senza ipocrisia: potersi porre tutti, uomini e donne, con verità e silenziosa partecipazione, davanti al mistero più grande del quale tutti siamo parte. Dice Simone Weil nel suo libro “L’ombra e la grazia” : La meditazione sul caso che ha fatto incontrare mio padre e mia madre è ancor più salutare di quella sulla morte. C’è forse una sola cosa in me che non abbia la sua origine in quell’incontro? Solo Iddio. E anche la mia idea di Dio ha origine in quell’incontro. E poi vorrei che potesse servire ai giovani e alle ragazze nel loro cammino di vita, che agisse come una sorta di input alla riflessione, caso di necessità.

Quale dei dieci frammenti di storie che racconta considera più significativo e perchè?

Diegoli: Certamente il primo perché c’è racchiusa la storia di un’amica carissima che è arrivata a distruggere se stessa, spinta da un aborto. Glielo dovevo: parlare di lei per aiutare le altre donne a non arrivare a quel dolore. Scritto quello, poi sono arrivata a tutti gli altri.

La Camera dei Deputati ha appena votato la legge contro l’eutanasia. Qual è il suo parere in proposito?

Diegoli: Ho sofferto quando è morta Eluana. Ho assistito mia madre l’ultima settimana della sua vita e so cosa significa vedere una persona soffrire la fame e la sete. Credo che giustizia sia fatta, credo che finalmente i nostri politici abbiano trovato il coraggio di alzarsi in piedi, come Giovanni Paolo II ci chiese di fare ogni volta che la vita è minacciata:

Ci alzeremo in piedi ogni volta che la vita umana viene minacciata…
Ci alzeremo ogni volta che la sacralità della vita viene attaccata prima della nascita.
Ci alzeremo e proclameremo che nessuno ha l’autorità di distruggere la vita non nata…
(…) Ci alzeremo quando i deboli, gli anziani e i morenti vengono abbandonati in solitudine e proclameremo che essi sono degni di amore, di cura e di rispetto.