da Baltazzar | Nov 14, 2011 | Chiesa, Testimonianze
a cura di Rino Cammilleri
Tratto da La Bussola Quotidiana
Nei primi mesi della Grande Guerra, un fante di marina inglese, John Traynor, si prese una pallottola in testa davanti ad Anversa. Caduto in coma, fu operato. Si risvegliò dopo un mese e mezzo. Lo rimandarono in guerra e, in trincea sui Dardanelli, si beccò tre colpi, due al petto e uno alla spalla destra. Operato tre volte, una ad Alessandria, una sulla nave di ritorno in patria e una a Portsmouth. Ma il braccio destro era perduto. Volevano amputarglielo. Rifiutò. Il braccio inerte e i frequenti attacchi epilettici, dovuti al colpo alla testa, lo resero completamente inabile, tanto che fu pensionato come grande invalido.
Ma gli attacchi si moltiplicavano e si aggiunsero fenomeni di paralisi. John Traynor si ritrovò a entrare e uscire dagli ospedali. In un ultimo tentativo, gli fu trapanato il cranio ma non servì a nulla. Traynor, un omone di quasi due metri, si ritrovò con una calotta d’argento come tappo del buco in testa. Nel 1923 l’uomo, cattolico, venne portato a Lourdes in barella. Mezzo paralizzato, del tutto incontinente, squassato dall’epilessia e con il cervello a vista sotto la calotta, durante la processione del SS. Sacramento si riebbe miracolosamente. I medici del Bureau Médicale dovettero constatare la sua guarigione, repentina e duratura. Perfino il buco in testa si era richiuso.
John Traynor poté tornare al suo lavoro di scaricatore nel porto di Liverpool. Ogni anno, però, offriva il suo servizio come barelliere a Lourdes. Lo fece fino al 1943, anno in cui morì di polmonite.
da Baltazzar | Nov 11, 2011 | Famiglia, Testimonianze
C’è un blog negli Stati Uniti di una madre che insegna ad altre madri cosa significhi amare i figli. «Qualche volta mi lamento perché non ho il parquet di legno che vorrei. La mia Nella è il mio promemoria costante: la vita non è questione di parquet. No, la vita è una questione d’amore e di conoscere e sperimentare la bellezza vera. Quella per cui siamo stati creati»
di Benedetta Frigerio
Tratto da Tempi del 10 novembre 2011
«Grazie per avermi dato un luogo dove trarre spunto ed esempio»; «ringrazio Dio che tu, Nella, Lainey e il resto della tua famiglia siate entrati nella mia vita, anche solo via internet»; «hai davvero cambiato il modo con cui guardavo all’imperfezione»; «sono felice di aver scoperto questo blog in cui seguirti nel tuo cammino. Tu fai la differenza, per Nella, mia figlia, e altri innumerevoli bambini con la sindrome di Down».
Sono solo alcuni dei centinaia di commenti ad un blog, Enjoying the Small Things, nato quattro anni fa da Kelle Hampton, una giovane mamma residente in Florida. Kelle, sposata con Brett, nel 2007 dà alla luce Lainey: «Con la sua nascita – scrive – iniziai ad apprezzare le piccole cose. A scriverle e fotografarle». Ma è con l’avvento di Nella, la secondogenita, che la Kelle scopre la bellezza anche in luoghi da cui non credeva potesse esistere: «Ho capito che arrivare a trovare i posti più meravigliosi della vita costa sacrificio, ma è stupefacente». Ormai seguito da centinaia di persone il blog racconta delle scoperte quotidiane di una vita ordinaria, per aiutare i lettori «a cogliere la bellezza nascosta nella presenza delle cose» e «la redenzione nell’imperfezione».
Da dove nasca uno sguardo tanto puro lo si intuisce di più leggendo la storia di Kelle: «Questa – scrive nel 2010 – è la cosa più difficile che abbia mai dovuto scrivere nella mia vita. La più difficile, ma la più bella insieme… dopo aver finito il libro A Million Miles in a Thousand Years di Donald Miller… stavo per partorire la mia secondogenita e mi sentivo in grado di lasciare la mia oasi di confort per attraversare le difficoltà, perché è solo così che possiamo cambiare la sceneggiatura della nostra vita e trasformarla da noiosa in una da Oscar. Ma, per essere onesta, fino ad allora la sfida più dura della vita mia era stata quella di avere mio marito Brett lontano da casa per lavoro (…) poi aspettare un secondo figlio. Perderne uno: rimanere ancora incinta. Sembrava così reale eppure appariva un sogno… preparare e avere ogni cosa sistemata… perfettamente: la musica al momento del parto, le coperte fatte a mano piegate e pronte, l’abbigliamento per il rientro a casa, la camicia da notte che avevo comprato apposta per l’occasione (…) stava tutto andando tutto esattamente come immaginavo, anzi meglio. Alle ore 14 le acque si sono rotte, le contrazioni erano all’apice (…) Mi ripetevo: “Stai per conoscere tua figlia” (…) Spingevo spingevo, vedevo il suo piccolo corpo uscire dal mio e capii. Capii dal primo istante che era affetta da sindrome di Down e nessun altro lo aveva compreso. La tenevo in braccio e piangevo… quello fu il momento che ha più segnato e definito la mia vita, l’inizio della mia storia (…) Mi sentivo come fossi in un buco nero… quando penso a quei momenti in cui piangevo mi chiedo: “Nella avrà sentito il mio amore?”. Chi era con me sorride quando lo chiedo, promettendomi di sì… sono fortunata le mie amiche fotografe, Laura e Heidi, erano lì a catturare ogni singolo istante. Non hanno mai smesso di farlo, mi hanno permesso di rivivere la bellezza di quei momenti».
Insieme allo sguardo degli amici a sorreggere Kelle c’è quello della fede paterna: «Chiesi di farlo entrare nella mia stanza. Papà sorrise e mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime disse: “Non c’è problema. Noi la amiamo”: sollevò in alto mia figlia e io gli chiesi di dire una preghiera. E lì, in sala parto, dove in pochi attimi era già entrato un mondo di gente, si strinsero tutti attorno al mio letto… Mio padre pregò e ringraziò Dio per il dono della vita di Nella e per le fantastiche cose che aveva pianificato per noi. Per la nostra famiglia. Per Nella. Amen».
Immediatamente dopo, mai lasciata sola nel guardare la sua bimba malata Kelle racconta di aver percepito un grande sostegno: «Dottor Foley – continua – non c’è nessun altro che avrebbe potuto fare un lavoro migliore nel condividere la sfida di questo cammino… ho sentito amore». Ma prosegue Kelle «continuavo ad immaginarmi un’altra bambina… quella che sentivo essere morta nel momento in cui avevo realizzato che quella che era nata non era come mi aspettavo (…) la stanza era ancora piena di gente, ci sarebbero tante storie da raccontare, di amici e famiglie che sono stati fra quelle mura ad aspettare. Quello che posso dire è che c’era più amore in quel reparto di quello che può contenere, ricordo felicità. Da ciascuno. E mio marito, beh non ha mai lasciato sola mia figlia. Era tranquillo, non saprò mai cosa provò davvero, ma so che ama le mie figlie con tutto il suo cuore».
Ma a Kelle non basta nemmeno tutto questo amore: «I miei sogni, l’idea delle mie figlie che crescevano insieme consigliandosi, facendo shopping e cucinando… no ogni cosa sarebbe stata diversa». Quel che realmente cambia la prospettiva di Kelle è altro: «Non dimenticherò mai il momento in cui la mia primogenita arrivò in ospedale e prese in braccio Nella. Guardavo la scena in agonia… in lacrime… in ammirazione mentre la mia piccola mi insegnava ad amare. Mi ha mostrato a cosa è simile l’amore incondizionato… quello che si prova quando non esistono stereotipi». Ma insieme alla notte per Kelle torna il dolore: «È orribile – racconta – dire che spesi la prima sera con mia figlia in agonia, ma so che quel dolore era necessario per me, per portarmi a dove sono oggi: ora so quanto lei sia un dono fatto apposta per me e io per lei. Ora posso dirlo. È dura, ma è la realtà… ricordo che quella notte piansi, volevo scappare: volevo prendere mia figlia maggiore e il mio mondo perfetto e il suo perfetto amore e i nostri progetti e il nostro legame e fuggire». Infine Kelle si rende conto che l’aiuto più grande viene proprio da quella figlia così diversa dai suoi progetti: «Smisi di desiderare di scappare… qualche volta mi lamento ancora per lo stucco nero delle piastrelle al posto del parquet di legno che vorrei. Ma la mia Nella diventò il mio promemoria costante: la vita non è questione di parquet. No, la vita è una questione d’amore e di conoscere e sperimentare la bellezza vera. Quella per cui siamo stati creati».
E da questa nascita anche il blog di Kelle comincia a cresce in numero di visitatori. Mentre la stampa e i media americani iniziano a parlare della donna che «insegna alle madri a fare le madri», e trovare gioia «anche dove sembra non ci sia». Scrive Kelle il primo novembre scorso: «Sono felice quando sono grata, quando sono cosciente di quanto mi circonda e del significato degli istanti che mi rendono felice. La gratitudine è un modo di vivere più che una lezione (…) e il modo migliore per insegnarla ai figli è viverla noi (…) riconoscere ogni frammento di bellezza che ci circonda. Prima insegnavo a mia figlia la gratitudine forzandola a dire grazie… con Laine mi domandavo sempre se facevo giusto o sbagliato, se farla piangere negandole un gioco… Ora mi scopro sempre meno preoccupata della lista dei doveri, mi accorgo invece sempre più della grazia che è casa mia, dell’istante presente, ho coscienza del bene (…) voglio che i miei figli si accorgano di come mi commuove il mondo, solo così potranno imparare ad apprezzare anche loro le piccole cose. Come il cielo azzurro pennellato di rosa alla mattina, come il profumo calmante che il cotone sprigiona nell’asciugatrice… Mia figlia mi chiede “sai cosa amo di questo istante? Amo quella nuvola a forma di farfalla”. Così ribatto: “Io amo quella piccola forcina che ti tira indietro i capelli e ti fa somigliare a quando eri più piccola”. “Grazie mamma” (…) un giorno le insegnerò a scrivere grazie per quanto riceverà… per ora continuerò semplicemente a lodare il mondo intorno a me. Per iniziare chiedetevi: “Cosa amo di questo istante, comincerete ad accorgervi di molte cose”».
Molte donne con figli malati o altri problemi si sono chieste come Kelle possa vivere con gioia quello che per loro è solo dolore. Alcune ringraziano, altre non capiscono. Ma lei risponde continuamente: «Nasciamo con desideri scritti nel nostro cuore, nelle nostre anime/ Nasciamo ogni mattina con possibilità solo nostre/ La redenzione viene da luoghi strani, da posti piccoli/ Chiedendoci il meglio di noi stessi/ Voglio partecipare della bellezza. (Sara Groves). Il 22 gennaio Nella entrava nelle nostre vite… tutto era dove doveva essere. Non avrei potuto sentire Dio più vicino. La redenzione viene da luoghi strani».
Parole davanti a cui si potrebbe ancora obiettare, come fa una lettrice con una figlia autistica: «Leggevo il tuo blog e mi innervosivo. Non solo perché sei perfetta in costume da bagno, anche dopo una gravidanza. Ma perché volevo la tua vita: io non avevo foto in spiaggia con le mie figlie. Anzi, navigavo nel mare della paura. Ci sono voluti anni per la diagnosi. Ero una madre sola (…) E tu? Tu hai una rete di sostegno solidissima (…) ma poi leggendo e rileggendo il blog ho capito. E mi sono ricordata del sogno che feci sei anni prima di avere mia figlia. Nasceva un bambino che mi conduceva attraverso un sentiero estatico. L’amore che sentivo per quel figlio era pura forza di Dio (…) ora se dovessi scegliere non scambierei mia figlia con null’altro (…) Cominciare ad amare mia figlia ha spalancato il mio cuore. La mia compassione è grande ora. Anche quella per me stessa, pure quando mi sento brutta. O quando sbaglio. O sono meschina. Non mi fermo più lì. La mia anima non lo tollera più. Devo andare più a fondo. Ora ringrazio Kelle per avermi aiutato in questo cammino di crescita (…) È quando dimentichiamo quanto assolutamente unici e pieni di risorse siamo, di fronte a qualsiasi situazione, che soffriamo e diamo la colpa sempre ad altro».
da Baltazzar | Nov 9, 2011 | Cultura e Società, Post-it, Testimonianze
Nomen omen. A volte nel nome è per davvero inciso il nostro destino. Giampietro Steccato, morto il 30 ottobre scorso a 62 anni, era immobilizzato, appunto “steccato” nel suo stesso corpo dalla “sindrome del lucchetto”, conosciuta anche come sindrome “locked in”.
Quattordici anni in cui pian piano il suo fisico diventava di marmo, come una statua. Tanto che negli ultimi anni riusciva a muovere solo una palpebra e un angolo della bocca. Dal 2005 anche la vista lo abbandonò, ma lui invece non abbandonò mai la voglia di vivere e di comunicare. La moglie compitava le singole lettere dell’alfabeto e lui con un cenno della palpebra indicava quale consonante o vocale gli serviva per andare a completare la parola e poi la frase che aveva in animo di trasmettere agli altri. Un lento esercizio di grammatica dove ogni parola era veramente scritta e scelta con il cuore, cesellata con fatica e attenzione. Un dialogo tra sposi intessuto quasi nel silenzio.
E dunque il destino scelse per lui una vita congelata nel suo stesso corpo e gli assegnò il nome di Steccato, ma lui lottò contro questa sua condizione e si battezzò Capitan Uncino. E scelse questo soprannome forse proprio perché nella disabilità di questo personaggio è racchiuso il suo fascino, il suo punto di forza.
Nel marzo del 2009 vola a Roma per incontrare il Papa. L’Unione Atei Agnostici e Razionalisti (UAAR) dissente vibratamente e in una nota fa sapere che “per nulla giustificabile è che il viaggio in Vaticano gliel’abbia regalato l’Aeronautica Militare italiana, che per dar corso all’operazione, rende noto l’ANSA, ha messo a disposizione un C-27J della 46. Brigata Aerea di Pisa”. Già, meglio ha fatto Welby che decidendo di morire ha fatto risparmiare a noi tutti contribuenti i soldi per le sue cure.
Giampiero tramite la moglie consegna al Pontefice una lettera in cui senza mezzi termini afferma che “ho voglia di vivere, sono entusiasta e curioso, amo la natura e il mondo in cui ho la fortuna e il privilegio di esistere”. Il termine “privilegio” alle nostre orecchie di persone cosiddette normodotate appare ancor più deflagrante se teniamo conto che il livello di gravità della sindrome da cui era affetto Giampietro ha colpito ad oggi in Italia solo 5 persone. Un privilegiato alla rovescia ci verrebbe da commentare. Eppure per Capitan Uncino le cose non stanno così e non c’è spazio per autocommiserazioni: “Sono cosciente che la mia fortuna è frutto della volontà del Signore e ringrazio infinite volte per quanto mi viene concesso”. La vera prigione non era il suo corpo, ma il giudizio di chi lo considerava una persona di serie B: “mi sento incastrato nella parola disabile”, una volta ebbe a dire.
Altre sono le disabilità da temere. Sulla rivista “Vita” così scriveva facendo comprendere che il vero handicap non è la malattia ma la solitudine: “Ho avuto una grossa fortuna: la mia famiglia mi è sempre stata vicina, ho guadagnato un bel po’ di amici che danno qualità alle mie giornate, mi sono trovato a sentirmi mentalmente e moralmente uguale a quando stavo bene”.
L’attore Alessandro Bergonzoni lo portava in giro nelle università a dare testimonianza. Di quell’esperienza Giampietro era entusiasta: “Sono certo di poter portare ai ragazzi la mia concretezza, la mia sensazione di stare bene al mondo, la prova che sono veramente contento di essere vivo. Dico questo perché anche per me era difficile immaginare di poter stare così da malato quando ero forte e sano (e anche belloccio). ” Muoveva solo una palpebra ma è stato capace di muovere le emozioni e i sentimenti di molti giovani.
Forse questo dava fastidio all’UAAR: mostrare che un disabile gravissimo può essere felice di vivere manda in frantumi il teorema che di fronte alla malattia fortemente invalidante l’unica scappatoia è l’eutanasia. Meglio occultare storie come quella di Giampietro. Altrimenti sarebbe come provare con i fatti che la vita è sempre degna di essere vissuta e si comprenderebbe in un attimo che la bellezza di un’esistenza non si può spegnere mai del tutto, quella bellezza che risplende nei corpi piagati dalla malattia e dalla sofferenza ancor più intensamente, come un fiore in un cumulo di macerie appare ancora più bello. Ed anche per questo che mai ci fecero vedere Eluana durante la sua malattia, perché ci sarebbe parsa una bella addormentata e non una donna in perenne agonia.
In un video di qualche anno fa Giampietro faceva sapere, tramite speaker, che come disabile grave gli avevano proposto di essere ricoverato in un centro specializzato togliendolo così da casa. A questo proposito in modo provocatorio e ironico si domandava: “Ma gli abili per sollevarsi o svagarsi vanno negli ospedali o nei cimiteri?”. La battuta sui cimiteri era rivolta a coloro i quali pensano che una vita così sia in realtà un’esistenza morta in sé (vi ricordate Beppino Englaro che sosteneva che sua figlia dopo l’incidente era morta?), persone viventi ma così malconce che sono buone solo per la tomba.
“Sento spesso parlare di eutanasia assistita, – così continuava nel video – morte dignitosa. Mi viene spontanea una domanda: come mai si parla di questa nuova legge [disegno di legge in esame attualmente in Parlamento N. d. a] quando non vengono rispettate quelle già esistenti? Come mai dove c’è vita c’è morte ma la morte fa più effetto della vita?
Intendo dire: Welby nella sua rispettosa scelta è stato reso pubblico in tutti i modi per tanto tempo, entrando in quasi tutte le case degli italiani per stimolare lo Stato a pensare e a legiferare verso il rispetto della consapevole volontà di chi non ce la fa più a soffrire e a vivere una non vita. Io per primo mi sono trovato nella condizione di comprendere Pier Giorgio perché so cosa significa avere la malattia come immancabile compagna di viaggio. Tuttavia mi sono sentito in un certo senso obbligato a rendere pubblica la mia volontà alla vita. Non in contraddizione a chi chiede l’eutanasia, ma per far vivere il diritto ad un’esistenza dignitosa e rispettosa di chi pur essendo malato vuole continuare a vivere.
Dopo il furore iniziale la battaglia è finita come tutti tranne me si aspettavano: silenzio e mille bugie da parte delle istituzioni…. E’ stato più facile da parte dello Stato ascoltare chi chiede una morte senza spese che dare una risposta a chi chiede un aiuto che comporta un maggior impegno.
Concludo queste poche righe con un invito a tutti quelli che sono in difficoltà a non cadere nella guerra dei poveri che in troppi fomentano: chi vuole l’eutanasia contro chi non la vuole, chi ha l’assistenza contro chi non ce l’ha. Uniamoci, sani e malati, combattiamo per un’assistenza sanitaria e non che sia qualificata, sufficiente a far vivere con dignità noi e a non far distruggere le nostre famiglie. In modo tale da consentirci la tranquillità e la certezza che non saremo mai lasciati soli o parcheggiati in istituto.
La malattia e la voglia di vivere hanno dei punti in comune. Entrambe ci arrivano senza che noi possiam far nulla. Sono spesso invincibili e soprattutto non fanno distinzioni. Non hanno nazionalità, né sesso, né età, né un colore politico. Finiamo di giocare e perdere tempo. La nostra serenità è urgente”.
Capitan Uncino, lo abbiamo detto, era immobile come una statua di marmo. Ma la sua sete di vita ha scolpito il marmo e ha reso questa statua un capolavoro.
di Tommaso Scandroglio
Tratto da La Bussola Quotidiana
da Baltazzar | Ott 25, 2011 | Cultura e Società, Testimonianze
LA SECONDA edizione del premio ‘Enzo Piccinini’ quest’anno va ad un’italiana, la dottoressa Elvira Parravicini, una neonoatologa lombarda, da anni negli Stati Uniti, che ha creato a New York il primo hospice per neonati.
La consegna del riconoscimento mercoledì, alle ore 17, 45, a Modena, presso il Centro Servizi Didattici della Facoltà di Medicina e Chirugia del Policlinico di Modena, nel corso del convegno ‘Maestri del nostro tempo nel campo della cura, dell’assistenza e dell’educazione’. Proprio nel campo medico ed educativo si era sempre distinto Piccinini, un medico morto nel 1999, a seguito di un incidente stradale sull’A1. In sua memoria, è nata una Fondazione, a Modena (dove Piccinini risiedeva) che dallo scorso anno ha deciso di assegnare questo ambito riconoscimento. Nel 2010 il premio fu consegnato al dottor Mario Melazzini, medico malato di Sla, testimone di speranza nonostante la malattia.
di Massimo Pandolfi
FOSSE per lei, l’espressione «Non c’è più nulla da fare» verrebbe bandita non solo dal campo medico, ma dal dizionario stesso. «C’è sempre qualcosa da fare» spiega e si anima Elvira Parravicini, 55 anni, medico neonatologo italiano, di Seregno (Monza), ‘cervello’ da 15 anni ceduto agli Stati Uniti. «Se anche a un bambino dovessero restare solo pochi giorni, poche ore o pochi minuti di vita — dice — noi abbiamo il dovere di chiederci: come possiamo confortarlo? E allora i punti chiave della cura diventano: mantenere il bimbo caldo, idratarlo o prendersi cura del dolore, se necessario, e soprattutto aiutare i genitori o altri membri della famiglia ad accogliere questo bimbo, anche per un periodo di tempo brevissimo». La dottoressa Parravicini ha un record: alla Colombia University di New York ha inventato un reparto, una ‘squadra speciale’ che è unico al mondo: una specie di hospice per bambini neonati, venuti al mondo troppo prima del tempo oppure affetti da sindromi letali o anomalie congenite talmente gravi da impedire nel 99% dei casi la sopravvivenza, anche a breve termine. GLI HOSPICE sono perlopiù i luoghi dove si va a morire, dove si danno gli ultimi conforti e si prova a togliere il dolore alle persone condannate. «Dare vita ai giorni e non giorni alla vita» è il motto lanciato dalla fondatrice di queste strutture, Cecily Saunders, che la Parravicini da alcuni anni applica quotidianamente con i suoi bambini che spesso non arrivano a pesare neanche un chilo, magari non hanno i reni, che sono destinati alla morte ma che intanto ci sono. Esistono. In America la chiamano ‘comfort care’. Il respiro di un bambino, seppure di un solo minuto, ha un valore infinito. «Lavorando con piccoli pazienti fra la vita e la morte, faccio sempre un’esperienza di bellezza, sia che la rianimazione riesca a salvare la vita, sia che mi debba confrontare con l’estremo limite umano che si chiama morte, perchè c’è un significato pure lì». Sembrano parole dell’altro mondo quelle della dottoressa Parravicini, ma sono più che mai di questo mondo. Non esistono ricette per tutte le stagioni: «Ci sono medici che suggeriscono di non iniziare la rianimazione di questi neonati e altri che insistono sulla rianimazione a tutti i costi. Io scelgo un’altra via». CHE SAREBBE: non c’è una regola. «Ho viste centinaia di bambini, ma ogni volta è diverso, perché ogni bambino è diverso. Ogni volta c’è un nuovo dramma da affrontare; sì, un dramma, che non va eluso o censurato. La società moderna, amche molti miei colleghi, provano invece a fare così: vorrebbero delle regolette da applicare, tenendosi la coscienza a posto. No, dobbiamo giocarci di più: serve prendere una decisione, rispettando e non manipolando il ‘destino del paziente’, che non può essere determinato nè dai genitori, né tantomeno dal medico. Ma anche quando la nostra conoscenza scientifica ci suggerisce che un bimbo è troppo prematuro per farcela, la nostra responsabilità medica non finisce lì. Non lo possiamo guarire questo bimbo, ma possiamo curarlo, cioè prenderci cura di lui. E dei suoi familiari». NELL’hospice del Morgan Stansley Children’s Hospital, Elvira Parravicini lavora con un’infermiera, un’assistente spirituale che cambia a seconda della religione della famiglia di appartenenza del bimbo, un fotografo professionista che, da volontario, fa un clic su questi fanciulli, affinchè alle famiglie resti un ricordo; infine c’è un ‘child life’, che non è uno psicologo e neppure un fattorino, ma una persona che conforta una mamma e un papà in giorni certamente intensi e non facili, aiutandoli anche a sbrigare le necessità quotidiane. «NEGLI ultimi tre anni — spiega la Parravicini — ho seguito la nascita e il percorso di 44 bambini diagnosticati prima della nascita con condizioni probabilmente letali». I bimbi sono quasi sempre morti, ma ci sono state anche le sorprese, almeno tre. Jaden ad esempio. Jaden è una bimba che oggi ha tre anni ma che non doveva neppure nascere. Prima perché sua madre aveve appena sedici anni ed era un po’ sbandata, quando è rimasta incinta; poi perchè al primo esame clinico si era capito che questa bimba non sarebbe mai potuta sopravvivere. L’universo mondo aveva consigliato alla ragazzina prima di abortire poi di lasciar perdere. Non aveva senso, per nessuno, portare a termine la gravidanza: almeno, dicevano così. INVECE questa mamma non ha abortito, non ha lasciato perdere. E ora a New York vive una donna felice di 19 anni, una giovane donna che ha messo la testa a posto e che spesso e volentieri va in ospedale a trovare la dottoressa Parravicini, . Insieme a Jaden, sana come un pesce.
di Massimo Pandolfi
Tratto da Vite spericolate, il blog di Massimo Pandolfi,
da Baltazzar | Set 16, 2011 | Chiesa sofferente, Cultura e Società, Testimonianze
Parla padre Robert Jarjis, parroco nel quartiere di Mansur
ROMA, giovedì, 15 settembre 2011 (ZENIT.org).- “Se vivi a Baghdad non puoi pensare al futuro. Avere aspettative è impossibile”. Padre Robert Jarjis è il parroco di “Santa Maria Assunta in Cielo”, nel quartiere di Mansur a Bagdad. Nel 2003 era in Iraq quando è scoppiata la guerra, poi nel 2004 si è trasferito a Roma per studiare. È tornato nella capitale irachena il primo aprile di quest’anno.
“Nel 2006 e nel 2007 qui c’è stato l’inferno e tutto si è fermato. Solo nel 2008 – ha raccontato ad Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS) il sacerdote cattolico di rito siro-caldeo – alcune Chiese hanno potuto riprendere le attività pastorali”. Ma dopo il 31 ottobre, con la strage nella Chiesa di Nostra Signora della Salvezza, tutto si è fermato di nuovo.
Nei suoi pochi mesi da parroco, padre Jarjis è riuscito a ripristinare un ciclo d’incontri di fraternità per ultra quarantenni, attivo dal giugno scorso. L’intenzione è di poter riprendere il catechismo il prossimo ottobre, ma il sacerdote non nutre troppe speranze al riguardo.
“La zona in cui ci troviamo è molto estesa – ha spiegato – e non possiamo permetterci un pulmino. I ragazzi dovrebbero prendere i mezzi pubblici per raggiungere la nostra Chiesa, ma i genitori non glielo permettono perché è pericoloso”. Prima della caduta del regime i quartieri a maggioranza sunnita come quello di Mansur – che quasi arriva ad Abu Ghraib – erano tra i più sicuri, mentre oggi sono spesso teatro di rappresaglie sciite. “La paura della gente ha fortemente rallentato le nostre attività. Spesso la domenica i fedeli preferiscono rimanere in casa, piuttosto che uscire per venire in Chiesa”.
Padre Robert ha imparato a convivere con la paura. Nonostante in Italia gli avessero sconsigliato di tornare in Iraq. Nonostante il suo “vicino”, il parroco della Chiesa di San Giuseppe, abbia scelto di andar via dopo essere stato sequestrato per diversi giorni. Nonostante le numerosissime minacce ricevute. “In principio ero terrorizzato – ha raccontato – qui non si può uscire, ma io non posso fare altrimenti”.
La canonica della sua parrocchia è stata distrutta da un bombardamento nel 2007 e da allora il sacerdote vive nella residenza vescovile. Ogni qualvolta deve dir messa o partecipare ad attività parrocchiali è costretto a spostarsi, facendo estrema attenzione “perché sei costantemente sotto osservazione e spesso c’è anche chi controlla chi entra ed esce dalla Chiesa”. In un’occasione padre Jarjis è stato quasi raggiunto da alcuni colpi d’arma da fuoco. “Le minacce ci cambiano, ma in ogni caso dobbiamo andare avanti”.
L’estrema incertezza ha spinto il sacerdote ha realizzare un programma annuale per la sua parrocchia. “Se dovesse succedermi qualcosa – ha spiegato ad ACS – non voglio che i miei fedeli debbano ricominciare tutto da zero”. Parlando delle condizioni di vita a Baghdad, il sacerdote ha sottolineato come “la presenza americana non abbia apportato sostanziali cambiamenti”. La corrente è disponibile una o due ore al giorno e la mancanza di aria condizionata è particolarmente gravosa in una città in cui d’estate si sfiorano i 60°C.
Non è però il caldo a svuotare le strade della capitale irachena. “I miei fedeli hanno paura ad uscire e temono che ogni nostra iniziativa possa attirare l’attenzione. Come ad esempio il piccolo falò che la nostra Chiesa accende il 14 settembre, in occasione della celebrazione dell’Esaltazione della Croce”, ha affermato don Jarijs.
Eppure agli incontri organizzati da padre Robert partecipa un discreto numero di persone. Il 15 agosto per l’Assunzione di Maria il parroco ha invitato un gruppo di musicisti musulmani, diretti da un’insegnante cattolica, ad eseguire alcune litanie mariane. Il sacerdote ha poi parlato ad ACS delle sue amicizie tra gli iracheni di fede islamica, ma si tratta di conoscenze di vecchia data. “Instaurare rapporti con i musulmani è più difficile ora. I musicisti hanno accettato volentieri di cantare per Maria, perché anche la loro fede riconosce l’importanza della sua figura. Ma se gli avessimo chiesto di cantare per Gesù la reazione sarebbe stata molto diversa”.
Il massiccio esodo di cristiani non ha ovviamente risparmiato la parrocchia di Santa Maria Assunta in Cielo che fino a sette anni fa comprendeva circa 1600 famiglie. Oggi si contano solo 132 famiglie di fedeli, a cui se ne aggiungono 24 della vicina San Giuseppe. “A Baghdad è rimasto solo chi non ha i mezzi per andarsene. Sono le persone sono più povere, quelle che soffrono di più, ma anche le più forti nella fede”.
La fede “ad Est dell’Eufrate” è stata fortificata da duemila anni di pressoché continue persecuzioni. “Perché lì dove la Chiesa perde sangue, nutre una fede più forte”. La storia della Chiesa Orientale deve servire da monito per evitare di compiere gli stessi errori e per commemorare l’esempio dei martiri. Per questo nel primo numero della rivista della parrocchia, padre Jarjis ha voluto inserire la biografia e gli scritti dell’arcivescovo caldeo di Mosul, mons. Faraj Rahho, rapito e ucciso nel 2008.
La pubblicazione, dal titolo “Regina della Pac” è nata dall’impegno di un gruppo di giovani parrocchiani e si propone come strumento di carattere formativo.”Sono in molti che per paura non partecipano alle funzioni o alle attività – ha spiegato il sacerdote – mentre la nostra rivista entra nelle case dei fedeli come un piccolo catechismo che contiene informazioni storiche sulla grande eredità cristiana di queste zone, ma anche poesie, preghiere e riflessioni sulle Sacre Scritture”.
Importante la presenza di una rubrica redatta da esponenti della comunità musulmana, dal titolo “I figli del Tigri e dell’Eufrate”, e di pagine in cui dare spazio a rappresentanti di altri riti o confessioni. “Qui siamo rimasti in pochi e dobbiamo essere uniti. Per questo invito spesso alle nostre attività i fedeli ortodossi, protestanti o di altre chiese orientali”.
Il primo numero di «Regina della Pace» è uscito il 15 agosto. Il prossimo non sarà pronto prima di novembre, perché la parrocchia non può permettersi di affrontare la spesa di circa 1100 euro necessari a stampare 650 copie. “Abbiamo bisogno di aiuti, non solo per la rivista, ma anche per andare avanti. Per noi il sostegno fornitoci da realtà come ACS è fondamentale”.
Quello economico non è però l’unico supporto che padre Robert desidera. “Chiedo ai fedeli di tutto il mondo di pregare per noi e per tutta la Chiesa perseguitata. Anche un Gloria al Padre è sufficiente affinché la nostra Chiesa possa risorgere”.
Aiuto alla Chiesa che Soffre è una grande sostenitrice della Chiesa irachena. Nel 2010 il contributo dell’Opera è stato di quasi 600 mila euro, di cui 15mila destinati alle famiglie cristiane delle vittime dell’attentato nella Chiesa di Nostra Signora della Salvezza. Da segnalare inoltre le donazioni alla diocesi di Mosul, per la riparazione e il mantenimento della Chiesa di St. Paul e dell’annesso centro catechistico (25mila euro), ed alla diocesi di Zakho, per la distribuzione di pacchi alimentari di emergenza alle famiglie povere della zona per opera delle suore Caldee Figlie di Maria Immacolata (25mila euro).
da Baltazzar | Set 15, 2011 | Chiesa sofferente, Testimonianze
Monsignor Tejado parla dell’inizio del suo ministero in Albania
Tratto dal sito ZENIT, Agenzia di notizie il 13 settembre 2011
La Chiesa in Albania ha sofferto persecuzioni violente e massicce, da parte del dittatore comunista Enver Hoxa. Ma il comunismo – diversamente dal secolarismo – non è riuscito a sradicare Dio dal cuore delle persone, secondo un esponente del Vaticano che ha iniziato il suo ministero sacerdotale in Albania.
Monsignor Segundo Tejado Muñoz, sottosegretario del Pontificio Consiglio Cor Unum ricorda il suo primo incarico da sacerdote in Albania come il periodo più bello della sua vita.
Ha parlato con il programma televisivo “Where God Weeps”, realizzato da Catholic Radio and Television Network (CRTN), in collaborazione con Aiuto alla Chiesa che soffre, su cosa un sacerdote deve imparare quando svolge il suo ministero nei confronti di persone che hanno rischiato la vita per la fede.
Lei è arrivato in Albania appena dopo la morte di Enver Hoxa. Qual era la sua esperienza allora?
Monsignor Tejado: Sono arrivato in Albania per lavorare lì e dare il mio aiuto nei primi passi dell’insediamento della Chiesa, subito dopo il crollo del comunismo. Non sapevo nulla dell’Albania perché la Spagna aveva scarsi rapporti con i Balcani. La mia esperienza è stata meravigliosa – difficile ma bella. Ho capito che il Signore mi aveva chiamato ad andare in Albania: un Paese molto povero, dove ho trovato gente disponibile.
Molte volte nei Paesi comunisti la gente è contraria alla fede, ma questo non era così in Albania. La gente rispettava la mia posizione come sacerdote. Era l’inizio della Chiesa. Il Papa è andato lì nel 1994 e ha consacrato i primi vescovi. È stata un’esperienza molto bella, ma anche difficile perché la Chiesa era perseguitata ed è stato difficile iniziare da capo, iniziare a parlare di Gesù, a parlare del Signore e a organizzare l’intera Chiesa.
Cosa ha visto di bello quando è arrivato in Albania?
Monsignor Tejado: Ho visto una popolazione e una Chiesa che aveva sofferto molto durante il periodo comunista, ma ho visto che la persecuzione non aveva distrutto qualcosa nei loro cuori. Quel qualcosa è il paradiso. Si dice che durante l’era del comunismo il paradiso fosse chiuso.
Il Paese era totalmente ateo. Come è possibile che vi fossero ancora semi di fede?
Monsignor Tejado: Il comunismo non ha potuto distruggere la speranza nelle persone. Nei nostri Paesi, la secolarizzazione ha distrutto questa speranza nei nostri cuori. Invece, in questi Paesi sotto il comunismo, il senso di Dio è rimasto. Con loro è possibile parlare di Dio in un modo in cui non è possibile nelle nostre società secolarizzate, perché da noi la gente non ritiene Dio o la fede così importante o interessante. La gente che ha vissuto nei regimi comunisti è in grado di discutere ed è aperta, con i loro cuori, verso Dio.
La persecuzione è stata feroce contro i cattolici in Albania?
Monsignor Tejado: Sì, la Chiesa in Albania è una Chiesa martire. Sono rimasti in unione con San Pietro, con il Papa, ed è stato molto importante per loro. Enver Hoxa ha chiesto alla Chiesa cattolica in Albania di diventare Chiesa nazionale, come in Cina, ma i vescovi e i sacerdoti si sono rifiutati: “Noi rimarremo in unione con Pietro, con il Papa”. E a causa di questo sono stati perseguitati e hanno vissuto un periodo terribile.
Queste testimonianze hanno inciso sulla sua vocazione sacerdotale?
Monsignor Tejado: Sì! Quando parli ai perseguitati, qualcosa ti rimane dentro. Ti trovi faccia a faccia con una persona che ha rischiato la sua vita per il Signore. Questo è molto importante per un sacerdote – rischiare la vita per il Signore e per la Chiesa.
Che rischi ha corso lei per il Signore?
Monsignor Tejado: Ogni giorno, come sacerdote, sono chiamato a rischiare la mia vita per il Signore, per fare la sua volontà. È un’esperienza spirituale. Se si incontra una persona che ha rischiato la vita non solo per un giorno, ma per una vita intera, per il Signore, ci si domanda perché non posso anche io fare lo stesso e offrire la mia vita completamente al Signore. Questo è molto importante per i sacerdoti; e non solo per i sacerdoti, ma per ogni cristiano.
Ha lasciato il cuore in Albania?
Monsignor Tejado: Metà del mio cuore. Sono stato lì per nove anni. È stato il mio primo incarico come sacerdote ed essendo la mia prima destinazione la ricordo molto intensamente. È stato un periodo molto bello della mia vita – il migliore, credo, e anche per le difficoltà, le croci, che il Signore ha permesso nella mia vita. Mi ha reso umile, e per essere umile…
Madre Teresa era albanese. Quanto è importante per la Chiesa cattolica locale?
Monsignor Tejado: Madre Teresa è una figura molto importante per tutti noi. È nata a Skopje, la parte albanese della Macedonia. Per gli albanesi è una figura molto speciale, perché dopo la caduta del comunismo la gente stava perdendo la speranza. Il messaggio di Madre Teresa “Nulla è impossibile a Dio”, è un messaggio che io prendo da lì ed è un messaggio per tutte le persone. Se abbiamo questo tipo di modelli per la nostra vita, allora nulla è impossibile con il Signore. La visita del Papa e di Madre Teresa è stata, come dicono gli albanesi, come se il cielo si fosse riaperto. L’era comunista aveva chiuso il paradiso alle persone; Madre Teresa e il Papa l’hanno riaperto per loro.
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Questa intervista è stata condotta da Mark Riedemann per “Where God Weeps”, un programma televisivo e radiofonico settimanale, prodotto da Catholic Radio and Television Network in collaborazione con l’organizzazione internazionale Aiuto alla Chiesa che soffre.
Aiuto alla Chiesa che soffre: www.acn-intl.org
Where God Weeps: www.wheregodweeps.org