Storie da Hospice raccontano la vita

Storie da Hospice raccontano la vita

C’è chi ti parla al cuore e chi alla testa. Fabio Cavallari, giornalista e scrittore, sceglie una terza via: i suoi libri ti prendono allo stomaco, per poi infiammarti il cuore ed illuminarti il pensiero. Cavallari nei suoi scritti usa la penna per dar voce a uomini e donne che hanno già fatto della loro vita un romanzo: lui racconta “solo”. Storie di vita segnate dal dolore, dalla prova, dalle lacrime (pensiamo a Vivi – storie di uomini e donne più forti della malattia; Enrico Zanotti – la politica che lascia il segno; Volti e stupore – uomini feriti dalla bellezza). Ma sotto questo strato di sofferenza palpita la bellezza di vivere, anzi è proprio il dolore il prisma attraverso cui il gusto di vivere risplende.

L’ultima sua fatica letteraria non sfugge a questa regola. Il grande campo della vita – storie da hospice raccoglie le testimonianze di chi sul campo – il campo della vita appunto – è accanto a quei pazienti terminali che stanno per varcare l’estrema soglia, soglia che li condurrà, come scrisse Giovanni Paolo II, da vita a Vita. Se la nostra esistenza possiamo immaginarla come un grande terreno da coltivare – così ci suggerisce il titolo – allora non ci sarà bravo contadino al mondo che lascerà non dissodato e non seminato anche il limitare estremo del suo podere. La vita può portare frutto sempre e forse, a leggere Cavallari, se non abbandonata a se stessa porta ancor più frutto negli ultimi suoi istanti.

Cavallari, l’anno scorso con Vivi – storie di uomini e donne più forti della malattia
(Lindau) ha voluto raccontare le vicende umane di persone e famiglie che combattono ogni giorno per la vita nonostante patologie estremamente invalidanti. In questi giorni esce nelle librerie un altro suo libro dove ha voluto raccontare i primi dieci anni di attività dell’Hospice Colombus dell’ospedale Sacco di Milano. Si tratta di un passo oltre, del tentativo di voler oltrepassare il confine?

Voglio rispondere con parole non mie. Le volontarie dell’Hospice, che sono figure centrali dell’équipe medica, ripetono spesso una frase: “Non accompagniamo nessuno alla morte. Sino a quando si vive, si accompagna alla vita”. Questa non è una sottolineatura che hanno imparato in qualche corso di formazione, od una litania laica ispirata ad una profonda convinzione religiosa. No, le loro parole sono l’esperienza di un vissuto che travolge, lascia attoniti, diventa maestro e allievo. Dentro le pagine di questo libro ho voluto raccontare un’esperienza.  Mi preme far presente che non è la morte ad essere messa sotto osservazione e neppure un’astratta idea di autodeterminazione. Tra le pieghe di queste storie, è la vita che nelle sue manifestazioni più infinite vuole essere narrata. Rabbia, ironia, liberazione. Vissuti e incontri, passioni e attese, al centro sempre l’uomo, la persona in tutta la sua ampiezza.

In Hospice si giunge quando ogni terapia attiva non è più possibile. Quindi di che cure stiamo parlando?

Oltre alla terapia del dolore, gli operatori si dedicano con particolare impegno al sostegno psicologico, religioso e sociale. Si tratta di un approccio medico fondato sulla persona e sulla relazione umana, prima ancora che sulla patologia, che permetta ai malati di far emergere la propria personalità e il proprio vissuto. Accompagnare è il verbo principe.  Accogliere, disporsi a ricevere a piene mani. Sono queste le “disposizioni” del volontario. Sedere accanto cioè assistere, ad-sistere, rispettando senza condizioni i modi e i tempi.


Lei insiste sulla volontà di raccontare, di porgere una narrazione, ma così facendo, soprattutto per una tematica così delicata, non si rischia di cadere nella retorica emotiva del dolore?

Si possono raccontare storie, vicende umane, cammini difficili e aneddoti in grado di turbare l’emotività del lettore. E’ possibile rifugiarsi in verità pressoché inconfutabili, affidarsi a dotte sottolineature scientifiche, lasciarsi guidare da precise puntualizzazioni mediche. Tutto potrebbe risultare perfetto, intellettualmente ineccepibile, privo di ombre o macchie oscure. In realtà, nella migliore delle ipotesi, saremmo solo al cospetto di una buona narrazione astratta. Ciò che non è possibile produrre per ipotesi è la proiezione di sé fuori dalla condizione data. Quanto non è pensabile immaginare è il “passo” del malato, di colui che davanti a sé ha il destino terreno, segnato dalla parola “fine”. E’ la realtà che sfugge a tutte le sue determinazioni razionali. E’ l’umano inafferrabile. Noi che porgiamo il racconto, che vantiamo la pretesa di offrire uno sguardo su quella parte di cielo adombrata dalle quotidiane mondanità, possiamo solo metterci a lato, lasciare che la realtà s’imponga, senza lasciarci fagocitare dall’immagine che di essa ci siamo costruiti. Nel “Grande campo della vita” ho voluto raccontare il vivere, la fatica e la gioia di uomini e donne che ogni giorno e senza proclami, compongono un inno all’esistenza.

Cosa ha voluto dire per lei, da un punto di vista personale ed umano,  entrare in un Hospice?

Varcare la soglia di un Hospice significa spogliarsi di ogni incrostazione, accogliere la limitatezza della propria ragione, sospendere ogni anelito consolatorio, o il tentativo di emettere giudizi.

di Tommaso Scandroglio da La Bussola Quotidiana

Claudia Koll: “La Vergine Maria mi aiuta ad essere pienamente donna”

La testimonianza dell’attrice all’Umbria International Film Fest

di Luca Marcolivio

TERNI, martedì, 22 novembre 2011 (ZENIT.org) – La seconda giornata dell’Umbria International Film Fest si è chiusa ieri sera sul tema della devozione mariana. Presso il Cityplex Politeama è stato infatti proiettato il film Lourdes di Jessica Hausner, preceduto dalla testimonianza di Claudia Koll. L’attrice ha spiegato che, alla base della sua conversione, avvenuta una decina di anni fa, c’è proprio la Vergine Maria. Lourdes e Fatima, in particolare, hanno giocato un ruolo decisivo nella vita spirituale della Koll che è cresciuta in una famiglia particolarmente devota alla Madonna. L’infanzia di Claudia Koll non è stata una delle più facili: l’attrice ha raccontato di essere stata cresciuta da una nonna non vedente ma fervente cattolica che, per non perdere mai il contatto con la nipotina, era solita legarla al polso da un filo di lana. “Mia nonna è stata il più grande esempio di fede nella mia famiglia – ha raccontato la Koll al pubblico dell’Umbria Film Fest -. La vedevo recitare quotidianamente il Rosario e parlare direttamente con Dio. La sua testimonianza mi ha segnata in modo indelebile”.

La madre di Claudia, nei primi anni di vita della bambina, trascorse molto poco tempo con lei, per motivi di salute. “Dopo che mi ebbe partorito ricevette una trasfusione di sangue infetto e rimase per sei mesi tra la vita e la morte”, ha proseguito la Koll. “Quando poi mamma fu finalmente guarita – ha aggiunto l’attrice – andammo con tutta la famiglia a rendere grazie alla Madonna di Pompei. Sempre come ringraziamento alla Madonna sono stata battezzata con il nome completo di Claudia Maria Rosaria”.

“Recentemente ho riaperto i bauli con le foto della mia vita – ha proseguito la Koll -. In mezzo agli scatti del mio periodo adolescenziale ho trovato un’immagine del Gesù della Divina Misericordia: mi ha fatto pensare che, già allora, il Signore mi stava parlando ma io non lo ascoltavo, anzi, iniziai ad andare in tutt’altra direzione”.

L’attrice ha poi raccontato di aver vissuto le proprie aspirazioni artistiche – inizialmente ostacolate dalla famiglia – come un mezzo per appagare il proprio bisogno di libertà e di autenticità, salvo accorgersi, specie dopo essere diventata famosa, che quel tipo di libertà era assai poco autentica.

Dopo il successo del film erotico Così fan tutte (1992) di Tinto Brass, la Koll rimase per qualche tempo intrappolata nel cliché dei ruoli sexy, tuttavia, ha raccontato, “non era quello che veramente volevo. Questo mi procurò una crisi di identità che, se già avessi avuto la fede, avrei saputo affrontare meglio”.

Verso la metà degli anni ’90, la carriera cinematografica della Koll incontrò una fase di stallo, durante la quale, l’attrice meditò di abbandonare le scene e riprendere gli studi.

Nella seconda metà dello stesso decennio tuttavia la sua carriera prese definitivamente quota con la conduzione del Festival di Sanremo del 1995, della trasmissione L’angelo su Canale 5, dedicata all’arte, e della celebre fiction Linda e il brigadiere, con Nino Manfredi.

Claudia Koll si rivelò artista duttile, talentuosa e raffinata ma, nella vita privata, si scoprì profondamente inquieta ed infelice. “In particolare la mia vita sentimentale era assai problematica: molte storie brevi, nessuna veramente ‘importante’, molti tradimenti, poche certezze”.

Questa inquietudine ebbe ripercussioni negative anche sulla vita artistica della Koll. “Un giorno stavo interpretando la parte di una donna che doveva piangere: a differenza del solito le lacrime proprio non mi uscivano; qualcosa mi bloccava, non entravo proprio nella parte”, ha raccontato.

“Fu allora – ha proseguito – che Geraldine, la mia assistente di scena, mi rivolse parole molto schiette ed esplicite: Claudia, come puoi pretendere di essere credibile in scena, se nella tua vita privata c’è così poca autenticità?”.

Da quel momento inizia il graduale cambiamento interiore e spirituale di Claudia Koll. “Sono una figlia del Grande Giubileo – ha detto -. Nel 2000 un’amica americana mi chiese di accompagnarla a varcare la Porta Santa a San Pietro ed io lo feci come cortesia personale. Dopo quell’esperienza, però, non fui più la stessa”.

“Il Signore stava sgretolando tutti i miei piani e le mie ambizioni personali – ha raccontato la Koll -. Avevo davvero toccato il fondo”.

Nei successivi dieci anni, l’attrice ha vissuto la propria crescita spirituale, attraverso l’esperienza concreta dell’amore come mezzo di perseveranza, in particolare nella vicinanza ai poveri e ai malati. E ha spiegato che “qualsiasi esperienza pratica d’amore che mi abbia particolarmente segnata, l’ho sempre poi riscontrata nelle Sacre Scritture”.

A conclusione della propria testimonianza, la Koll è tornata sull’importanza della devozione mariana nella propria vita, accennando alle emozioni provate dopo i pellegrinaggi a Medjugorie e a Lourdes. “Da bambina rimasi colpita dalla storia della Madonna di Fatima e di come la Vergine avesse potuto affidare a tre bambini così piccoli, dei compiti così enormi”.

“Pensando in particolare a Giacinta e Francesco, da piccola pregai la Madonna di portarmi in cielo con Lei. Ciò non è successo, però, Maria mi ha insegnato a scoprire il bello dell’essere donna, di esprimere al meglio tutte le mie qualità femminili: la dolcezza, lo spirito materno. Grazie a Lei sono diventata anche meno aggressiva”.

“Ho inoltre capito quanto sia bella la diversità e la complementarità tra uomo e donna – ha aggiunto -. In un certo senso il Signore mi ha ‘corretta’ nel mio femminismo”.

“Ho scoperto che Dio è fedele e mantiene le promesse: la più grande di queste promesse è quella di amarci”, ha poi concluso la Koll.

Terminata la testimonianza è stato proiettato ed illustrato un filmato delle attività della onlus Le Opere del Padre, fondata dalla stessa Claudia Koll, da alcuni anni impegnata in opere di misericordia e di formazione cristiana.

Impariamo dai Down cos’è una vita empatica

La capacità di “sentire gli altri”
di Francesco Pugliarello
Tratto da L’Occidentale

Sappiamo che le persone con sindrome di down, notoriamente definite eterni adolescenti, sono guidate più dal cuore che dalla testa. Se prendiamo a riferimento le loro prestazioni scolastiche, che sono improntate sulle capacità logico-matematiche, ci convinciamo di avere a che fare con dei mediocri; alla stessa stregua se li sottoponiamo ai test di valutazione del Q. I. li troviamo a un livello molto basso rispetto alla media. Ma i test psicologici non indagano le competenze più recondite legate all’intelligenza creativa, all’abilità di cogliere nell’intimo delle persone: in altre parole alla capacità di provare forti emozioni. Questi ragazzi, a compensazione della scarsa capacità logica, possiedono una sensibilità empatica originalissima che non è ascrivibile ad una misurazione razionale.

Ossia sono portatori di una tendenza alla condivisione degli affetti, che poi è alla base delle relazioni significative degli esseri umani caratterizzate dai legami interpersonali. In altre parole essi hanno un qualcosa di incommensurabile che noi, figli dell’“Homo Oeconomicus” stiamo smarrendo: la capacità di “sentire dentro” ciò che l’interlocutore sta provando. Forse è venuto il momento di imparare da questi ragazzi il saper vivere in armonia con gli altri e prendersi cura dei loro bisogni. Se un giorno il nostro scetticismo verrà smentito da uno strumento che sarà in grado di misurare il peso empatico dell’essere umano, allora ci accorgeremo di aver sottovalutato e qualche volta disprezzato per presunzione le qualità umane e le potenzialità delle persone con disabilità intellettiva, specialmente quelle con la sindrome di down.

Una moderna corrente di pensiero che fa capo al nobel delle neuroscienze, Eric Kandel (1), confermata dall’antropologo della mente Alessandro Bertirotti in “La mente ama”, riportando indietro l’orologio della conoscenza empirica, sostiene che molte produzioni che hanno lasciato un segno tangibile sono state concepite non tanto da logiche legate al raziocinio, quanto da meccanismi che passano dalle emozioni (2). D’altronde, a supporto della ricerca, qualunque scienziato usa formule cha a loro volta sono precedute dall’intuizione, figlia delle emozioni. Questo è evidente negli artisti in genere, nei romantici, nei pittori che, secondo gli esperti stanno a testimoniare i limiti del raziocinio, e pur tuttavia sono persone che noi apprezziamo molto. Difatti, a supporto della ricerca, qualunque scienziato usa formule che a loro volta sono precedute dall’intuito!

Questi studiosi ci dimostrano che in generale la parte emotiva del cervello è molto più raffinata e completa di quella logico-razionale perché è stata “meravigliosamente rifinita” dall’evoluzione delle ultime centinaia di migliaia di anni: è quella che Gustav Jung chiamava “intelligenza emotiva” della nostra personalità e la collocava nell’emisfero destro del cervello, complementare all’altro emisfero che presiede l’ambito dell’”intelligenza razionale”. Tuttavia, come ogni opinione anche questa ha il suo rovescio. È, secondo Kandel il motivo per cui ci aggrappiamo all’illusione del razionale. Difatti, “quando l’istinto sbaglia, sbaglia di brutto, e questo sbaglio ci fa sentire traditi”. Solo allora invochiamo la ragione. In altre parole, se la parte emozionale è predominante, tanto da prevalere sulla parte logica che è debole, scarsamente volitiva, quest’ultima può facilmente capitolare sotto la pressione di una tempesta emotiva. Se riflettiamo, ci accorgiamo che spesso i nostri adolescenti nelle loro insicurezze, si rivolgono a noi per essere confortati nelle decisioni dettate prevalentemente dall’istinto.

Ma prendendo per buono quanto sostenuto da questo neuroscienziato, possiamo concludere che quando i nostri ragazzi si rivolgono a noi per essere confortati nelle loro azioni “istintive”, non è detto che siano in errore. Alcune volte Fabio mi pone delle richieste apparentemente assurde, ma che per lui hanno un senso che sfugge al mio raziocinio. Poiché, come ho detto, è il sentimento a guidare i nostri adolescenti piuttosto che il pensiero astratto, per evitare che istinto/ragione, nella difficoltà di gestire queste facoltà, vadano in corto circuito, è necessario ed opportuno che le loro suggestioni siano filtrate alla luce della nostra logica, senza pretendere più di quanto possano dare. Per questi motivi penso che ogni genitore che segue con amore il processo evolutivo del proprio figlio, dovrebbe sforzarsi di capire che non sempre è bene frenarlo nelle proprie suggestioni, che potrebbero avere delle motivazioni fondate, ma che a noi magari sfuggono.

Dalla frequentazione del mondo degli adolescenti come formatore, ho imparato che anche per questi ragazzi liberare l’istinto e agevolare la spontaneità sono la via migliore per seguire il proprio talento e perché no, anche la via maestra per raggiungere la felicità. Allora, perché non imitarli? Non assecondarli? Perché forzare la loro natura? Perché pretenderne l’omologazione?

Note
(1). Eric Kandel, http://it.wikipedia.org/wiki/Eric_Richard_Kandel
(2). Alessandro Bertirotti, “La mente ama – per capire ciò che siamo con gli affetti e la propria storia”, Il Pozzo di Micene, Firenze 2011, pp. 76-79. www.bertirotti.com/pubblicazioni/

I martiri del comunismo vengono proclamati santi

La Chiesa Ortodossa Russa ha proclamato santi oltre 1500 martiri

di Antonio Gaspari

MILANO, giovedì, 17 novembre 2011 (ZENIT.org) – “Gli oltre 1500 nuovi martiri e confessori innalzati sugli altari dalla Chiesa russa costituiscono solo una briciola della schiera di santi ortodossi che hanno permesso il trionfo storico spirituale della Chiesa in mezzo a persecuzioni comuniste senza precedenti per crudeltà e sacrilegio”.

Lo ha affermato Georgij Mitrofanov docente di storia all’Accademia teologica ortodossa di Pietroburgo, intervenendo al convegno internazionale realizzato dalla Fondazione Russia Cristiana, dal titolo “Crisi dell’umano e desiderio di felicità. Che cos’ha da dire la Chiesa oggi?”.

Al convegno svoltosi a Milano e Seriate (BG), il 28-30 ottobre 2011 Georgij Mitrofanov, autore del libro “La Russia ed il secolo XX” pubblicato dall’editrice Agat di Pietroburgo  ha raccontato della persecuzione del regime comunista nei confronti della Chiesa ortodossa.

Il docente russo che anche sacerdote ortodosso ha spiegato che dal 1918 al 1921, il regime bolscevico, mirando alla soppressione fisica della Chiesa e delle sue membra attive, di solito non cercava di coinvolgere i preti nelle azioni antireligiose dei suoi organi repressivi o di propaganda.

Le persecuzioni di questo primo periodo non hanno quasi lasciato traccia nelle fonti scritte, perché in quegli anni praticamente non si faceva alcuna inchiesta, e le uniche testimonianze scritte delle repressioni sono i mandati d’arresto (quelli che si sono conservati) e soprattutto le condanne alla fucilazione.

Rispetto invece ai periodi successivi e più intensi delle repressioni, dal 1922 al 1923, dal 1928 al 1934 e dal 1937 al 1941, la Commissione sinodale della Chiesa Ortodossa Russa ha a disposizione una grande quantità di fonti scritte, che permettono di precisare nei dettagli le circostanze della morte di migliaia di vittime del terrore sia tra il clero che tra i laici impegnati.

Questo perchè gli organi inquirenti della polizia segreta “GPU” o “NKVD” registravano dettagliatamente lo svolgimento di ogni operazione, dall’intervento operativo fino all’emissione della sentenza.

Secondo il prof. Mitrofanov  “Se paragoniamo le persecuzioni subite dalla Chiesa ortodossa russa nel periodo sovietico con quelle dei cristiani dei primi secoli, le prime risultano non solo più estese, ma anche più crudeli e raffinate nei metodi”.

“Tuttavia, – ha aggiunto – non sarebbe giustificato considerare tutte le vittime di quel periodo, laici ma anche i sacerdoti, come martiri per il solo fatto di essere morte durante le persecuzioni antireligiose”.

Il docente russo ha spiegato che i sacerdoti e laici arrestati negli anni ’20-30 di solito erano accusati di delitti politici, ed era molto raro che durante l’inchiesta si esigesse da loro di rinnegare Cristo o il proprio ministero sacerdotale.

Lo scopo principale degli inquirenti era quello di costringere le proprie vittime, anche con feroci torture fisiche e morali, a riconoscersi colpevoli delle accuse ricevute, coinvolgendo allo stesso tempo quante più persone possibile come complici.

Per il prof. Mitrofanov  “il primo dovere morale davanti a Cristo in questo periodo di persecuzione non era tanto la capacità del cristiano arrestato di professare Cristo a parole durante l’inchiesta, ma la capacità di resistere, sotto tortura, e non riconoscere i falsi delitti addossatigli né la complicità di persone innocenti”.

Ed è proprio sulla base di questo criterio che la Commissione sinodale per le canonizzazioni ha reputato possibile presentare come materiali alcuni documenti che riguardavano sacerdoti e laici morti e perseguitati.

Il conclusione il prof. Mitrofanov ha sottolineato “E se il popolo russo, che ha sofferto incalcolabili perdite umane e storico culturali nel cammino che lo ha portato a superare la pretesa di costruire il paradiso in terra, ha rivelato davanti a tutto il mondo il carattere utopistico e sterile del comunismo, la Chiesa ortodossa russa, che ha opposto ai persecutori del cristianesimo la moltitudine dei suoi nuovi martiri e confessori, ha mostrato al mondo l’invincibilità della Chiesa nella sua lotta spirituale con una delle concezioni più terribili nella storia dell’umanità”.

Il martirio di Rivi riscrive la storia

Il martirio di Rivi riscrive la storia

«Il martirio di Rolando Rivi riscrive la storia. Quella storia nella quale tanta parte di cultura cattolica ha preferito non entrare». Il vescovo di San Marino mons. Luigi Negri spiega il significato dell’ormai imminente beatificazione del seminarista di Castellarano (Reggio Emilia), ucciso il 13 aprile 1945 a soli 14 anni in odium fidei da due partigiani comunisti.

Nel suo ruolo di presidente del Comitato Amici di Rolando Rivi, che da 6 anni promuove la causa di beatificazione del seminarista di San Valentino, Negri parla di Rolando come di un martire, il cui sacrificio è in grado di dare verità storica ad una pagina oscura della nostra storia.

Un martirio che arriva agli onori degli altari dopo decenni di oblio, con un ricordo coltivato negli anni bui del dopoguerra soltanto in ambito familiare, ma che col tempo si è trasformato in una vera e propria devozione e che farà di Rolando Rivi il primo seminarista di un seminario minore diocesano dichiarato beato. Ma soprattutto il primo martire ucciso dalla violenza partigiana comunista che la Chiesa riconosce beato.

Il giovane Rolando, da poco entrato in seminario venne prelevato da una formazione
partigiana e sequestrato in montagna. Lì, dopo due giorni di torture e sevizie, viene giustiziato perché si rifiutò di togliersi la veste talare che indossava. Morì gridando: “Io sono di Gesù”. (cfr. Emilio Bonicelli “Rolando Rivi, seminarista martire”. Ed. Shalom)

La causa, che ha già superato a tempo di record la fase della positio, ribadisce che in quegli anni si moriva in odio alla fede e, da parte della Chiesa, certifica che nel corso della guerra civile post bellica era in atto una sistematica caccia ai cristiani, sorattutto sacerdoti, considerati di ostacolo all’ormai imminente rivoluzione comunista.

Ecco perché con la sua beatificazione, è come se la Chiesa riconoscesse
il martirio dei tanti sacerdoti uccisi dalla violenza della guerra civile, soprattutto nel Triangolo della morte. Una beatificazione nella quale non mancano testimonianze di devozione che travalicano spesso i confini nazionali.

Intervistiamo mons. Negri pochi giorni dopo la notizia, data dal comitato, che la causa di beatificazione presso la Congregazione per le cause dei Santi, è uscita dal limbo dell’indeterminatezza per entrare in quella delle date certe.

Eccellenza, il 5 giugno prossimo la commissione teologica si pronuncerà sul martirio. Da lì la causa procederà in discesa, con la firma dei cardinali e quella del Papa. Siamo in un momento decisivo.  Evidentemente in questo momento la Chiesa ha deciso di dare una considerazione precisa a questo cammino che sarà molto veloce. Quanto veloce?
Per quello che risulta a me, non ci sono da leggere testi o da analizzare documenti, che nelle altre cause dilungano i tempi. Rivi è una figura ancora sconosciuta alle masse… E’ una figura di straordinaria fedeltà alla Chiesa e ala presenza di Cristo nella storia. Ha preferito in modo eroico la fedeltà a Dio rispetto a tutto il resto.

Com’è possibile a soli 14 anni accettare un martirio?
Spesso mi immedesimo in lui. Credo che non sia stato semplice per lui, come non è semplice per nessun uomo e non lo è stato per Cristo, vedere la violenza che si accanisce contro l’uomo. Avrà avuto sicuramente paura, come Gesù, e che abbia pianto, ma è proprio questa normalità, questa familiarità con la quale ha affrontato il martirio che si iscrive nella storia di oggi come una pagina insuperabile per l’attualità della Chiesa, soprattutto nell’impatto con i giovani.

Che cosa dice oggi Rolando all’uomo moderno?

Rolando è il capofila di quei giovani che incontrando la Chiesa, hanno trovato se stessi. Leggevo qualche giorno fa sul Foglio del martirio di un giovane copto, che si era rifiutato di togliersi il crocifisso al collo su istigazione dell’insegnante: è stato massacrato. Ecco, la storia di Rolando si ripete anche oggi.

Ai giovani, specchio di una società ormai scristianizzata?
Siamo abituati, perché ci fa comodo, a giudicarla una generazione disincagliata dalla realtà e perduta dietro i deliri consumistici, ma non ci rendiamo conto che se sono così molti giovani, una grave responsabilità è anche da parte della realtà adulta, che non ha saputo proporre una ragione adeguata di vivere. Invece le risorse di tanti giovani sono un grande aiuto del Signore in questo momento di passaggio nella società e nella vita della Chiesa.

Come viene recepita la figura di Rivi in un contesto di lettura della storia della Resistenza?          Spesso la sensazione è che ci siano morti di serie A e morti di serie B. Nel caso di Rivi, derubricato dalla vulgata a semplice omicidio “non politico”. addirittura di serie C…  Ha un indubbio vantaggio culturale. Con questa causa di beatificazione abbiamo ulteriormente sollevato il velo dell’omertà, del silenzio e della viltà con cui tanta cultura, forse anche quella cattolica, preferiva non riaprire queste questioni.

Vale anche oggi? A quasi 70 anni di distanza?

Ancor di più. Una volta un ecclesiastico molto in vista, quando ero ancora a Milano, mi mostrò il suo stupore: “Ma come? Ormai con i comunisti stiamo così bene, che bisogno c’è di aprire questa vecchia storia?”

Invece c’è ancora bisogno?
Certo. Lo dimostra il fatto che gli amici di Rolando Rivi hanno favorito in tutt’Italia una ripresa della verità storica contro la viltà dell’omertà e dell’omologazione.

E la chiesa come ha recepito questo ripresa di verità?
Con la più grande disponibilità. Dall’arcivescovo di Modena Benito Cocchi al suo attuale successore, passando per il vescovo di Reggio Caprioli, la Chiesa come istituzione ha ha manifestato la medesima sensibilità, si è fidata di me senza un minimo di perplessità. Un atteggiamento comprensivo da parte della Chiesa, che ha percepito questa grande possibilità educativa che si apre davanti a lei.

di Andrea Zambrano da La Bussola Quotidiana

In coma da trent’anni ora è cittadina onoraria

​ Può una donna in stato vegetativo da 30 anni, forte solo della sua esistenza sofferta, diventare vanto e onore di una città tanto da meritare la cittadinanza onoraria? Sì, se in quella sofferenza c’è anche speranza. Una speranza che nasce dall’attaccamento alla vita, quotidianamente sorretta dall’amore di un padre che da tre decenni spende tutto se stesso per la sua «bambina». Sì, c’è vanto e onore nella storia di una donna che diventa esempio per tante altre condizioni di gravissime disabilità.

Sta in questa chiave la decisione del consiglio comunale di Bologna che ha deciso di conferire la massima onorificenza cittadina a Cristina Magrini, 45 anni. Una vita stravolta da quando, un maledetto giorno del 1981, diretta a casa di ritorno da scuola, Cristina viene investita da un’auto.

Il riconoscimento segue quello che il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il 10 novembre scorso, ha indirizzato al papà di Cristina, Romano, nominato cavaliere della Repubblica. Insieme, papà e figlia vivono oggi a Sarzana (La Spezia), dove li ha raggiunti la notizia proveniente dall’Emilia. Lunedì scorso il consiglio comunale felsineo ha approvato all’unanimità la richiesta di cittadinanza onoraria a Cristina, promossa da un gruppo di famiglie. La vicenda, (raccontata anche dal sito cristinamagrini.it), ha riunito intorno ai Magrini migliaia di altre famiglie.

La richiesta di cittadinanza onoraria è stata accettata dopo un percorso altalenante: la maggioranza Pd non faceva sperare nel favorevole accoglimento, caldeggiato invece, dal Pdl. Ma con un colpo di coda la proposta è giunta a buon fine, grazie anche alla posizione del sindaco Virginio Merola che ha partecipato alla votazione esprimendo il «sì».

«L’approvazione all’unanimità – commenta Gianluigi Poggi, rappresentante del gruppo promotore che si è affiancato ai volontari che hanno aiutato Cristina – ha prevalso sulle alchimie politiche. Prova ne è che, oltre all’ordine del giorno del Pdl, ne è comparso uno del Pd che apre a gesti concreti, riconoscendo a ogni persona il diritto di cura e assistenza, e che impegna il consiglio comunale a dedicare una seduta, il 3 dicembre, al tema della cura delle persone in stato di fragilità estrema».

Del resto, aggiunge Poggi, «Cristina ci mette davanti a un’esigenza: riconoscere il diritto di ogni persona alla cura e all’assistenza, anche domiciliare, e a vivere nelle migliori condizioni possibili. La sua storia dimostra che, grazie alla famiglia, è possibile vivere anche se minati da gravissime disabilità. Ma lo Stato deve fare la sua parte. Ci impegneremo da una parte ad abbattere la barriera culturale che ha confinato le persone come Cristina nelle pareti domestiche, dimenticando che vanno curate come quelle ospedalizzate; dall’altra, a dare il via a centri di “dopo di noi”, che possano rassicurare i familiari sul futuro dei loro cari con patologie severe».

Francesca Golfarelli da Avvenire