Orissa, suora violentata nei pogrom perdona gli stupratori e racconta le sue sofferenze

di Meena Barwa
A tre anni dalle violenze contro i cristiani del Kandhamal, suor Meena Barwa si definisce una creatura nuova. Le sofferenze e i dolori di questi anni sono state un cammino verso Cristo. Il processo contro gli stupratori e la loro condanna è fondamentale per dare giustizia a tutte le vittime dei pogrom.

Bhubaneswar (AsiaNews) – “Ho incontrato molte persone per la strada che hanno camminato insieme a me, offrendomi costante sostegno, amore e incoraggiamento. La loro presenza e le loro cure mi hanno dato la forza per perdonare i miei stupratori e riconciliarmi con ciò che mi è accaduto”. È quanto racconta suor Meena Barwa, dell’ordine religioso delle Servitrici, stuprata e umiliata dagli estremisti indù durante i pogrom dell’Orissa nell’agosto 2008. A tre anni dalle violenze la giovane suora ha scelto di condividere i suoi dolori e le sue preoccupazioni, grazie ai quali ha fortificato la sua fede e la sua vicinanza a Cristo. “Nella mia vita – afferma – sono stata costretta a subire incredibili dolori… considero questo tormento come una benedizione per me. E ora riesco a capire le sofferenze degli altri a un livello più profondo secondo lo spirito cristiano”.

Suor Meena, oggi 29enne, è nata nel distretto di Sambalpur e lavora al Centro pastorale Divyajyoti a K Nuagaon, nel distretto di Kandhamal. Il suo stupro è avvenuto il 25 agosto del 2008, quando insieme a un sacerdote, p. Thomas Chellan è stata presa, picchiata, denudata e fatta girare per il villaggio. Ad un certo punto i fondamentalisti volevano perfino bruciarla viva assieme al prete. Solo alla fine, in tarda serata, mentre continuavano ad essere ingiuriati e malmenati, sono stati liberati dalla polizia (Cfr.: AsiaNews.it, 25/10/2008 Io, Sr Meena, violentata dagli indù, mentre la polizia stava a guardare).

A tutt’oggi la polizia dell’Orissa ha arrestato 22 persone legate allo stupro. Di questi, 17 sono riusciti ad uscire su cauzione.

Ecco il testo completo della testimonianza di suor Meena ad AsiaNews.

La mia vita è cambiata dopo il mio sfortunato incidente (stupro). Posso dire che questo è stato un momento di prova e testimonianza per me. Anche se ho accettato tutti quegli eventi indicibili alla luce della fede, per me è stato un cammino con Gesù. All’indomani dello stupro e dell’angoscia, sono ancora sofferente. Nella mia vita sono stata costretta a subire incredibili dolori. Ho incontrato molte persone per la strada che hanno camminato insieme a me, offrendomi costante sostegno, amore e incoraggiamento. La loro presenza e le loro cure mi hanno dato la forza per perdonare i miei stupratori e riconciliarmi con quanto accaduto.

A volte, non era possibile condividere con loro le profonde lotte che sperimentavo nel mio cuore. C’erano momenti nei quali scappavo dalle persone che mi conoscevano, ma ho fatto amicizia con gli sconosciuti a causa della mia situazione. Molte volte, mi sono ritrovata sola. Ho avuto tempo per pregare, riflettere e continuare a scoprire Dio. Tuttavia, ho sperimentato momenti di depressione e tristezza. Durante questi attimi aprivo la Bibbia, leggevo la Parola di Dio ed ero ispirata e fortificata. Tempo fa, ero del tutto sola e molto addolorata. Ho chiesto al Signore perché mi faceva patire tutte queste sofferenze. Così ho aperto la Bibbia e ho trovato i passaggi di Giovanni 15:18-19 che affermano: “Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia”. Pensierosa, ho letto e riflettuto a lungo. È stato un momento molto significativo, che ha ispirato e rasserenato il mio spirito. Sentivo che era Gesù che mi parlava personalmente. Grazie alle sue parole potenti, ho guardato al di là dei miei sentimenti e pensieri negativi, e ciò è stato infuso dalla sua divina presenza.

Da quando sono iniziate le mie sofferenze e le mie angosce, mi sento più vicina a Dio. Sono diventata una creatura nuova. La mia fede è divenuta più coscente, vigorosa, dinamica e paradigmatica, rispetto al passato. Sono felice, eppure sento che c’è ancora qualcosa che manca.
Considero questo tormento come una benedizione per me. E ora riesco a capire le sofferenze degli altri a un livello più profondo, secondo lo spirito cristiano.

Ciò che mi è successo non dovrebbe accadere a nessuno. Soffro ancora. Tutto ha avuto luogo poco dopo i miei ultimi voti (1 giugno 2008), lo stupro e l’umiliazione sono avvenute il 25 agosto 2008. Anche se è stato doloroso, l’ho accettato come se fosse una professione finale fatta con Dio.

I miei genitori e parenti hanno sofferto molto più di me. Loro hanno riposto tanta fiducia in Dio. Hanno iniziato ad amarmi più di prima. Mi hanno dato un grande incoraggiamento invitandomi ad andare avanti. Inoltre mi hanno invitato di trarre forza dalla Beata Vergine Maria, che ha sofferto nella vita, ma è sempre rimasta fedele a Dio. Essi mi hanno anche detto, “Sii felice. È per volontà di Dio che tu hai dovuto soffrire. Tu sei ora piena del Suo potere e della Sua grazia per aver sperimentato e subito il dolore e l’agonia. Lui si prenderà cura di te”. Queste parole dai miei parenti mi hanno davvero confortato oltre la mia comprensione. Mi sento amata dalla mia famiglia e dalla sorelle della Congregazione della mano di Maria.
Ora credo fermamente che la sofferenza è qualcosa che accade. Non rinnego quanto è successo. Accetto la sofferenza che è nel disegno di Dio.
Personalmente, vorrei che il caso preso in esame dal tribunale giunga presto a una conclusione, visto che si sta prolungando con tempi indefiniti. Tuttavia, quando guardo la questione da un punto di vista più ampio, se non si combatte, sento che sto commettendo un peccato se non lotto per la giustizia, nonostante ciò che mi è successo. Ci sentiremmo tutti colpevoli per non aver lottato abbastanza, combattendo fino alla fine. La nostra lotta deve andare avanti per non permettere che i criminali possano commettere di nuovo, le atrocità contro gli altri, i nostri poveri e innocenti cristiani, emarginati, indifesi, perduti e oppressi.

La nostra battaglia legale dovrebbe rafforzare la causa dei cristiani del Kandhamal. Noi siamo consci che i nostri casi non riguardano solo noi, ma tutto il nostro popolo. Molti uomini e donne hanno sofferto durante i pogrom. Le loro lacrime di tristezza e il loro pianto non devono andare sprecate. Essi meritano giustizia e misericordia. I nostri casi dovrebbero infondere un senso di giustizia fra la gente della nostra terra. Quanto espresso dalla corte deve dare il segnale che i criminali non possono e non devono restare impuniti per i crimini efferati commessi contro il popolo del distretto di Kandhamal. Per questa ragione il mio caso dovrebbe giungere a conclusione.

La giustizia non è solo per me. E’ anche per loro. Dico questo nel nome della sofferenza che ho vissuto e sopportato. La popolazione deve ottenere giustizia e senza dubbio il governo dovrebbe impegnarsi in questo. La nostra gente deve avere coraggio, che non vuol dire non essere spaventati. Significa agire secondo ciò che è giusto anche quando si ha paura.

Quando penso ai pogrom del Kandhamal, il mio primo pensiero va a quelle persone che hanno perso la loro preziosa vita nel genocidio. Tutti loro sono martiri come i primi cristiani. Sono morti per Cristo, per la loro fede. Io prego per loro. Sono orgogliosa di loro.

Coloro che sono stati testimoni degli scontri non sono da meno. Sono orgogliosa anche di loro e ammiro la loro fede e la loro determinazione ad andare avanti nella vita.

Dalle ceneri del Kandhamal, la Chiesa risorgerà. La gente continuerà ad essere all’altezza della situazione: hanno già rimesso insieme pezzi dei loro ruderi per ricominciare a vivere. Ringrazio Dio per aver concesso loro la grazia e la volontà. Soprattutto, ho vissuto e lavorato con e per questa persone. Io appartengo a loro. Essi sono diventati parte della mia vita.

Mi rendo conto che i cristiani del Kandhamal sono veri discepoli di Cristo. Essi hanno dato tutto per l’armonia, la pace e la giustizia. Tutti dovrebbero comprendere e beneficiare da questo esempio, sanando le divisioni e gli attriti, portando a ognuno un raggio divino di luce e di speranza, anche a coloro che si oppongono al Vangelo e ai suoi seguaci.

Era un agente di polizia penitenziaria

di Vincenzo Andraous

Rientravo in carcere come accade ogni sera da qualche decennio, e non perché io sia un funzionario della Casa Circondariale, ma perché la mia condizione è quella di cittadino detenuto per metà libero, infatti di giorno svolgo la mia attività lavorativa, mantengo le relazioni famigliari, affettive e sociali, mentre la sera ritorno nella mia cella a fare i conti non più solo con i pesi del passato, ma con il futuro che è già oggi.

Ho saputo che un altro uomo se ne è andato dal carcere, ma non è fuggito, nè ha agito disperatamente, non è morto dentro un’azione personale muta e sorda, è scomparso per un accidente, un arresto cardiaco, non era un detenuto, ma un Agente di Polizia Penitenziaria.

Un episodio come tanti altri, che può accadere tutti i giorni e a chiunque, se non fosse che quest’uomo io lo conoscevo, risultando una persona profondamente umana e rispettosa del proprio ruolo, e della condizione di tanti altri uomini privati della libertà.

Umanità e giustizia hanno parentela stretta, storie che non sono di ieri, ma di tempi trapassati, che però hanno temprato gli individui, le generazioni, le società, imparando anche dentro una galera a crescere insieme, rispettando se stessi e gli altri. E questo nonostante il carcere sia ridotto a una arena di residualità di poco interesse.

Un Agente che sapeva distinguersi, ascoltare, consegnare una parola non soltanto di conforto, ma precisa nell’informare chi era in difficoltà, un agente che non ha mai lesinato accenti autorevoli per rendere corretta e quindi applicabile la norma.

Un uomo consapevole della propria professionalità, dell’importanza del proprio mandato, uno di quegli uomini che consentono di accorciare le distanze, di sostituire alla parola ideologia la parola risocializzazione, opponendo una volontà valoriale dedicata a contrastare quella desensibilizzazione altamente cancerogena che attraversa il carcere e buona parte del consorzio sociale.

Anche in una cella può accadere che l’uomo faccia un passo indietro e possa avverarsi un dialogo costruttivo, leale, onesto, nella consapevolezza di un nuovo percorso formativo e esistenziale, uno spazio dove c’è una pena che, sì, sottoscrive la privazione della libertà, ma allo stesso tempo obbliga al rispetto della dignità di chi è detenuto, con la possibilità di svolgere una prevenzione di forma e di contenuti appropriati a una espiazione funzionale alla salvaguardia della collettività.

Nonostante i problemi endemici all’Amministrazione Penitenziaria, da restringere drammaticamente la vivibilità del recluso, c’è comunque speranza di avviarci verso un modo nuovo di intendere la pena, il rispetto delle persone prigioniere o libere, degli operatori penitenziari e degli uomini in cammino verso la propria liberazione, reclamando con un comportamento dignitoso e equilibrato quelle riforme necessarie e non più rinviabili.

Era un Agente di Polizia Penitenziaria, dalle buone maniere, deputato a fare rispettare le regole e le norme, ma anche una persona che non ci stava ad abdicare al suo dovere di educatore e di operatore di giustizia, un riferimento che con la sua presenza pacata e attenta, sapeva mettere pancia a terra molte delle contraddizioni di cui si nutre il carcere, ma soprattutto con il suo comportamento equilibrato, non contribuiva mai a rafforzare una “collettività di distratti e noncuranti”, causa nefasta di quell’indifferenza dell’uomo verso l’uomo.

Gesù: Il segreto di Bertilla

Singolare iniziativa natalizia per diffondere la conoscenza di una giovane morta in concetto di santità

di Renzo Allegri

ROMA, lunedì, 5 dicembre 2011 (ZENIT.org).- Si chiamava Bertilla Antoniazzi, ed è morta nel 1964, quando aveva solo 20 anni. Da allora sono trascorsi 47 anni, ma Bertilla è viva più che mai nel ricordo di tantissime persone.

Tutti coloro che l’hanno conosciuta, continuano a parlarne con entusiasmo e amore. Raccontano che il suo funerale sembrava una festa. C’era una folla di persone commosse e insieme sorridenti. Piangevano la perdita di una ragazza ventenne, amica cara, ma non erano tristi, perché sapevano che era andata in paradiso. In tutti c’era questa convinzione perché in tutti Bertilla aveva lasciato un ricordo straordinario. Non legato alla sua bellezza, che era notevole, e neppure alla sua giovinezza vissuta con entusiasmo, ma alla sua bontà angelica. <<E’ morta una santa>>, dicevano.

Dei suoi 20 anni, 12 erano stati funestati da grandi e continue sofferenze. Una malattia al cuore le toglieva il respiro e le forze, la costringeva per lunghi periodi a letto e all’ospedale, ma la malattia non è mai riuscita a spegnere la sua gioia di vivere, a vincere il suo ottimismo, a toglierle il sorriso.

Bertilla aveva un segreto: Gesù. Lo aveva incontrato proprio nella sofferenza e se ne era innamorata. Tra loro due era nata una di quelle misteriose intese che non hanno spiegazioni razionali ma che trasformano le persone. Da Gesù, Bertilla riceva forza e speranza. Lui era diventato la sua guida, il suo “amico segreto”. Da ragazzina fragile e timida, Lui l’aveva trasformata in una dolce ed eroica testimone della sofferenza “vissuta” con amore. E dopo la sua morte, Lui ha continuato a tenerne vivo il ricordo concedendo, per sua intercessione, grazie straordinarie.

Per ricordare Bertilla Antoniazzi, quest’anno, un gruppo di suoi amici ha voluto realizzare una speciale iniziativa natalizia: un DVD che racconta la storia di questa ragazza e lo stanno diffondendo con un singolare slogan: “Per Natale, regalate Bertilla”.

<<E’ una iniziativa rivolta soprattutto ai giovani>>, dice suor Pia Luigia Antoniazzi, sorella di Bertilla, religiosa Elisabettina che svolge il suo apostolato nella parrocchia di San Domenico a Crotone. <<Il DVD è un mezzo moderno, utilizzato soprattutto dalle nuove generazioni. E Bertilla è giovane, parla ai giovani, ha un grande fascino sui giovani e i giovani oggi hanno bisogno di esempi luminosi, punti di riferimento candidi come la neve. Per questo, abbiamo pensato di raccontare la sua storia con un DVD, in modo da raggiungere più facilmente il mondo giovanile>>.

La caratteristica spirituale di Bertilla Antoniazzi è costituita dalla sofferenza “vissuta” nell’ottica della Fede cristiana. Cioè, nella consapevolezza che ogni sofferenza, accettata per amore di Cristo, diventa un bene prezioso per i fratelli.

San Paolo, spiegando ai Corinti il “valore salvifico della sofferenza”, scrisse:<<Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo in favore del suo corpo che è la Chiesa…Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi>>.

Giovanni Paolo II ha dedicato una sua magnifica “Lettera apostolica”, “Salvifici Doloris”, a queste parole di San Paolo. <<La sofferenza di Cristo>>, ha spiegato Papa Wojtyla <<ha creato il bene della redenzione del mondo. Questo bene in se stesso è inesauribile ed infinito. Nessun uomo può aggiungervi qualcosa. La redenzione, però, anche se compiuta in tutta la sua pienezza con la sofferenza di Cristo, vive e si sviluppa come Corpo di Cristo, che è la Chiesa, ed in questa dimensione ogni umana sofferenza, in forza dell’unione nell’amore con Cristo, completa la sofferenza di Cristo. La completa così come la Chiesa completa l’opera redentrice di Cristo>>. E ancora: <<Coloro che partecipano alle sofferenze di Cristo conservano nelle proprie sofferenze una specialissima particella dell’infinito tesorodella redenzione del mondo, e possono condividere questo tesoro con gli altri>>.

Verità sublimi, per il cristiano. Verità che indicano come la sofferenza, fisica e morale, che è pane quotidiano di ogni esistenza umana, se “vissuta” per amore di Cristo può dare alla persona una dimensione spirituale altissima.

Bertilla era entrata in questa ottica. Ammalata cronica, destinata alla morte precoce, aveva imparato non “ a subire” quella condizione, non “a sopportarla”, ma ad “abbracciarla”, ad “utilizzarla”. A quindici anni, si era iscritta alla associazione “Centri Volontari della Sofferenza” fondata a monsignor Luigi Novarese nel 1947, e negli ideali di quella associazione aveva trovato il senso e il valore pieno della propria esistenza torturata dalla malattia. Un’esistenza che, agli occhi del mondo, poteva sembrare “misera”, “pietosa”, “inutile”; ma che, vissuta in unione con Cristo, diventava “una preghiera incessante”.Bertilla divenne una “missionaria” della sofferenza”. Ogni mattina “indossava” il suo dolore, come si indossa una divisa. Lo indossava con entusiasmo, anche se era pesante come un macigno sotto il quale si sentiva schiacciare. E visse così le giornate degli anni più belli della sua adolescenza e della sua prima giovinezza, inchiodata a quella croce, ma con il sorriso sulle labbra. Da eroina, non da sconfitta.

<<Per noi, in famiglia, Bertilla era solo una ragazza buona e paziente>>, ricorda suor Pia Luigia. << Non si lamentava mai. A volte il male era così forte da farla piangere, ma anche con le lacrime agli occhi, sorrideva. Non l’ho mai sentita pronunciare parole di sconforto. Invece, ripeteva spesso: “Tutto per amore di Dio”.

<<In casa, non davamo molto valore a quella frase. Pensavamo fosse un suo modo di dire per farsi coraggio. Solo dopo la sua morte abbiamo scoperto che, invece, quella frase era un preciso programma di vita per lei. Abbiamo trovato dei piccoli quaderni ai quali Bertilla confidava i propri pensieri, le proprie aspirazioni, e abbiamo così scoperto che ogni attimo della sua vita era vissuto in unione con Gesù. Le sue giornate, e anche le sue notti rese insonni dalla malattia, le offriva a Gesù.

<<Nei suoi quadernetti annotava le intenzioni particolari per cui offriva le sue sofferenze. Il lunedì, per la conversione dei peccatori; il martedì, per le missioni; il mercoledì, per il Papa, e poi per i poveri, per i moribondi, per la Chiesa, per le anime del purgatorio, per tutto il mondo. C’era anche proprio questa intenzione: “oggi soffrirò per tutto il mondo”. Anche se non si muoveva dal suo letto , dalla sua cameretta, aveva interessi spirituali che spaziavano ovunque>>.

Bertilla, aveva un direttore spirituale?

<<Non che io sappia. Penso che il suo direttore spirituale fosse proprio Gesù. Bertilla era un’anima aperta, generosa, sensibile. Gesù le avrà proposto un’ideale di santità e lei è stata pronta ad abbracciarlo.

<<Certo, un buon esempio di vita cristiana veniva dai nostri genitori. La mamma era una donna di grande fede. Affrontava le difficoltà, i disagi, i dolori confidando nella Divina Provvidenza. Erano gli anni difficili del dopoguerra. La nostra era una famiglia numerosa, nove fratelli, e due ammalati. Oltre a Bertilla, avevamo anche un fratellino reso sordo e muto da una cura medica errata. La mamma, e anche nostro padre, hanno affrontato tutto con speranza, confidando costantemente nell’aiuto del Signore. Questo esempio ha certamente influito sulla formazione spirituale di Bertilla. Avevamo anche una zia, sorella di mia madre, suora Elisabettina come me, che morì in concetto di santità. Bertilla aveva per lei una profonda ammirazione.

<<Ad un certo momento, forse verso i sedici anni, durante un lungo soggiorno in ospedale a Vicenza, mia sorella lesse la vita di Bertilla Boscardin, una suora nativa di un paese vicino a Vicenza, morta nel 1922, a 34 anni, e che era stata proclamata beata da Pio XII nel 1954. Bertilla entrò subito in sintonia con quella giovane religiosa santa. Forse anche perché ne portava il nome e perché era vicentina come lei. La beata Bertilla divenne il suo esempio, la sua più cara intima amica. E quando, nel 1961, venne proclamata santa, mia sorella piangeva di gioia. Si può dire che Santa Bertilla fu la sua “guida spirituale” negli ultimi anni di vita. E, caso curioso ma significativo, mia sorella morì lo stesso giorno dello stesso mese e alla stessa ora di quando, nel 1922, era morta Santa Bertilla. Sembrava proprio che la sua amica fosse venuta a prenderla>>.

Perché non è ancora stato aperto il processo di beatificazione per una ragazza che visse in modo così esemplare?

<<Tutti quelli che hanno conosciuta Bertilla sono convinti che visse da autentica santa. Subito dopo la sua morte, vennero raccolte molte testimonianze. Il vescovo di allora, interpellato se fosse il caso di aprire un processo di beatificazione per Bertilla, rispose: “Preghiamo e lasciamo fare al Signore”.

<<Così abbiamo fatto. E il Signore non ha permesso che Bertilla venisse dimenticata. Anzi, concedendo per sua intercessione tante grazie, ha contribuito ad allargare sempre più la sua conoscenza>>.

Che genere di grazie?

<<Conversioni, cambiamenti di vita, e anche guarigioni. Subito dopo la sua morte, alla parrocchia di Sant’Agostino a Vicenza, la parrocchia di Bertilla, sono cominciata ad arrivare lettere. E con il passare del tempo le lettere, invece di diminuire, sono aumentate. Hanno cominciato ad arrivare anche da città lontane da Vicenza, e non sapevamo come mai Bertilla fosse conosciuta anche da quelle parti. Furono scritti anche dei libretti che raccontavano la vita di Bertilla e raccoglievano le testimonianza di coloro che l’avevano conosciuta. Ma il “mezzo” con cui si è diffusa la conoscenza di Bertilla è stato il “passaparola”, soprattutto da parte di chi, per sua intercessione, aveva ottenuto qualche grazia>>.

Tra le grazie attribuite all’intercessione di Bertilla, ce n’è qualcuna di molto importante?

<<Certamente. Un caso strepitoso si è verificato nella parrocchia di San Domenico dove io lavoro. E’ molto importante perché è avvenuto nell’ospedale di Crotone, quindi sotto il controllo dei medici. Riguarda una bambina di nome Lorena. Era nata il 24 agosto del 2000, prematura, dopo soli 5 mesi di gravidanza e pesava 800 grammi. Aveva un sacco di problemi. Venne messa in incubatrice, ma i medici non davano alcuna speranza. Conoscevo i genitori della bambina e ho parlato loro di mia sorella, invitandoli a pregare. Bertilla, in vita, aveva un grande amore per i bambini e pensavo che avrebbe aiutato Lorena, come aveva già fatto in altre occasioni. Ma questa volta sembrava che le preghiere non ottenessero niente e la situazione andava peggiorando. Un giorno i medici dissero che non c’erano più speranze. Lorena venne battezzata e si attendeva la fine. Durante la notte, la mamma di Lorena sognò di essere andata a trovare la piccola all’ospedale. Ma, entrando nella stanza, fu accecata da una luce intensissima. Riuscì a vedere l’incubatrice in un angolo, che era però vuota. Spaventata, scoppiò in singhiozzi, ma sentì una voce che diceva: “Non piangere, perché Lorena da oggi non avrà più bisogno di nessuna cura”.

<<Si svegliò di soprassalto e al mattino presto con il marito andò all’ospedale. Con la morte nel cuore entrò nella stanza dove si trovava la bambina e vide che la piccola non aveva la solita maschera dell’ossigeno attaccata al volto. Chiese spiegazioni. I medici le dissero che si era verificato un miglioramento improvviso, straordinario e inspiegabile. La bambina ora respirava regolarmente ed erano scomparse le cause che richiedevano l’uso dell’ossigeno. Nei giorni successivi il miglioramento continuò sempre più vistoso. Dopo una settimana, Lorena potè tornare a casa e non ebbe più alcun disturbo. Ora ha undici anni, è una bambina sana, vivace, piena di vita e milita nel movimento degli Scout della parrocchia.

<<Questo>>, prosegue Suor Pia Luigia <<non è l’unico caso veramente straordinario la cui felice soluzione viene attribuita all’intercessione di Bertilla. Ce ne sono altri. Oggi, Bertilla non è più conosciuta solamente a Vicenza e nella provincia di Vicenza, la terra dove è nata e vissuta. Ma ha molti amici diffusi per tutta Italia e anche all’estero. La grazie ottenute per sua intercessione sono dei “segni” che fanno pensare che sia maturato il tempo per iniziare il processo di beatificazione>>.

Per questo avete realizzato il DVD sulla vita di Bertilla?

<<Come ho detto, mia sorella è morta giovane ed è rimasta giovane. Parla ai giovani. E siamo ricorsi a questo mezzo che è diffuso tra i giovani. Il DVD si intitola “Un cuore che parla”. E’ una cosa semplice, come sarebbe piaciuto a Bertilla. Costa 6 euro. Attraverso fotografie e immagini dei luoghi dove Bertilla visse, ricostruisce le tappe fondamentali della sua esistenza, citando soprattutto ciò che scriveva alle amiche, e ciò confidava al suo diario. Parole semplici, ma piene di amore e di fede che fanno breccia nel cuore di chi le ascolta>>.

Dove è possibile trovare questo DVD?

<<Purtroppo, noi non abbiamo alcuna organizzazione adatta a diffonderlo. Confidiamo nell’aiuto di Bertilla e della Provvidenza. Il “passaparola” è l’unica nostra risorsa. Chi fosse interessato, può trovarlo presso la Curia della Diocesi di Vicenza, oppure presso l’Unitalsi di Vicenza, e anche presso la Libreria L.I.E.F, in Borgo. Santa Lucia, sempre a Vicenza. Per segnalare grazie ricevute, invece, è bene rivolgersi a Don Aldo De Toni, tel. 328.2194088>>.

Suor Valsa, una donna senza paura

L’arcivescovo di Bombay rende omaggio alla religiosa uccisa lo scorso 15 novembre

ROMA, martedì, 29 novembre 2011 (ZENIT.org) – Suor Valsa John, la missionaria uccisa in India due settimane fa (leggi articolo correlato: http://www.zenit.org/article-28686?l=italian) è stata omaggiata dall’arcivescovo di Bombay.

Il Cardinale Oswald Gracias, che è anche presidente della Conferenza Episcopale Indiana, ha descritto suor Valsa come una persona “senza paura”, dotata di “coraggio e fede, che ha donato la propria vita al servizio del Vangelo”.

La cinquantaduenne Valsa John, appartenente all’ordine delle suore della Carità di Gesù e Maria, è stata assassinata lo scorso 15 novembre, quando circa 50 persone hanno fatto irruzione nella sua abitazione nel villaggio di Pachruwara, nello stato di Jharkhand, tirandola letteralmente giù dal letto ed aggredendola con una falce e altri strumenti acuminati.

Suor Valsa difendeva i diritti delle popolazioni tribali residenti nel distretto di Pakur, facendo campagna contro la requisizione delle loro terre e la loro cessione alle compagnie del carbone operative nella zona.

In un’intervista all’agenzia di stampa dell’associazione Aiuto alla Chiesa che Soffre il cardinale Gracias ha affermato: “Siamo molto fieri di suor Valsa”.

Parlando dopo la sua visita nello stato di Kerala, nel sud-ovest dell’India, dove ha incontrato gli amici e la famiglia di suor Valsa, il porporato ha detto che la religiosa appariva “del tutto prova di paura” e che “aveva detto alla famiglia delle minacce contro di lei ma non per questo lei si era scoraggiata”.

Parlando del suo forte impegno nella chiesa cattolica siro-malabrese, il cardinale ha aggiunto: “Suor Valsa aveva fede in Nostro Signore e nella gente”.

Pochi giorni dopo l’assassinio della religiosa, la polizia ha arrestato sette persone, presumibilmente legate a gruppi di estremisti maoisti attivi nella regione.

Tuttavia, alcuni ambienti cattolici dello Jharkhand nutrono il sospetto che i leader del business del carbone siano implicati nell’omicidio, nonostante a presenza dei suddetti maoisti nella scena del delitto.

Alcuni notabili dell’industria del carbone si erano scontrati con suor Valsa che aveva vigorosamente difeso le popolazioni locali.

A tal proposito il cardinale Gracias ha detto ad ACS: “Pare che i maoisti siano stati accusati ma ci sono altri indizi che suggeriscono che l’industria di carbone locale sia coinvolta”.

Ciononostante “non dobbiamo fare considerazioni affrettate – ha proseguito il cardinale -. Dobbiamo dare alla polizia il tempo e lo spazio necessari per portare avanti le indagini. Speriamo che la situazione sia chiarita nel giro di pochi giorni”.

L’arcivescovo di Bombay ha affermato che ci sono “punti interrogativi” sulla gestione del caso da parte delle forze dell’ordine, aggiungendo però, che “in nessun modo condanniamo l’operato della polizia: è troppo importante che si arrivi con rapidità alla risoluzione del caso e si faccia giustizia”.

Suor Valsa che viveva a Pachuwara per 15 anni, era impegnata in modo particolare nella causa delle tribù Santhali che erano state allontanate dalla zona dalle imprese del settore del carbone.

Nel 2007 la religiosa era stata arrestata con l’accusa di aver bloccato la circolazione stradale durante la protesta contro le imprese minerarie intenzionate ad acquisire le terre tribali.

L’alto clero della regione ha raccontato di come suor Valsa era riuscita ad ottenere sussidi, lavoro, istruzione e assistenza medica per le famiglie allontanate dalla zona.

La bimba che non volevo nascerà

La bimba che non volevo nascerà

Pubblichiamo la testimonianza di Isabella, 19 anni, studentessa di Infermieristica, rimasta incinta dopo una relazione con un coetaneo che l’ha lasciata, dicendole che non vuole essere padre. Isabella coraggiosamente ha deciso di raccontare la sua storia, non una favoletta dal lieto fine scontato, ma la toccante esperienza di una ragazza come tante che d’improvviso viene scaraventata fuori dalla sua comoda normalità, una vicenda non priva di dubbi, incertezze, paure e proprio per questo straordinariamente autentica.

Mi sembra ieri. Il giorno in cui ho scoperto di essere incinta. Il primo test, l’ansia crescente, il secondo test, positivo. Lo fissavo: positivo positivo. La sensazione di smarrimento totale mi pervade in un istante, il terrore si impadronisce di me e io impietrita, incapace di reagire. Descrivere una sensazione del genere è difficile, quasi impossibile, è come una vibrazione che nasce dalle viscere e si propaga in tutto il corpo, un veleno letale dall’interno che ti mangia le energie e spegne ogni luce. L’unica cosa che ero in grado di vedere era la mia vita letteralmente distrutta, smembrata, i miei progetti frantumati, il futuro che stavo costruendo diventare un’utopia irraggiungibile. La persona che volevo essere non c’era più, era un ricordo lontano. I miei sogni erano svaniti, insieme ai miei 19 anni, me li ero giocati per sempre.

Solo il pensiero di dover comunicare la gravidanza ai miei genitori mi provocava un male indescrivibile, l’idea di vedere la delusione stampata sui loro volti e perdere la loro stima mi faceva impazzire, come uscire da questo disastro?

Eppure l’idea di abortire mi spaventava molto molto di più, il pensare dei gelidi strumenti infilarsi dentro di me e fare a pezzi un corpicino, no, non avrei potuto reggerlo. Avevo visto su internet alcune foto terrificanti di feti abortiti nelle primissime settimane… piccole miniature di una persona fatta a pezzi, non potevo. Dentro di me c’era una vita concepita per sbaglio, certamente non voluta, ma non avrei risolto il problema in quel modo, non avrei rimediato all’errore con un altro più grande e irreparabile. Eppure quel bambino proprio non lo volevo.

Contrariamente alle mie aspettative più tragiche, quando piangendo e piena di vergogna confessai ai miei genitori di aspettare un bambino, non ci furono né urla né porte sbattute. Solo silenzio, tanta preoccupazione sui loro volti, lacrime trattenute a stento dagli occhi di mia madre e poi tanto, tanto conforto e amore. Non che il percorso sia stato facile, anzi, ma non ho mai sentito venir meno questo amore, quello dei miei genitori, che nello smarrimento mi hanno capita e quello di mia sorella maggiore che non mi ha lasciato sola neanche un momento.

I primi tre mesi sono stati i più difficili. Molto prima del concepimento, il papà del bambino, giovanissimo come me, si era dimostrato instabile e, quel che è più grave, bugiardo e violento. Io ero debole e innamorata, e non riuscivo a staccarmi del tutto da lui perché di volta in volta credevo alle sue promesse alle sue parole, nonostante verso di me spesso mostrasse disprezzo: “Senza di me resterai sola per tutta la vita”, diceva. Quando gli ho detto che aspettavo un bambino le reazioni sono stati altalenanti. Prima gli scatti d’ira, poi pressioni le psicologiche: “l’aborto alla tua età è l’unica cosa intelligente da fare”, poi pesanti insinuazioni:“sicuro che il padre sia io?”, poi spariva, per tornare dolce come l’uomo più docile del mondo, e io lo accoglievo, ogni volta nel dolore. Al terzo mese è sparito del tutto, si era trovato un’altra ragazza. Senza fardello.

Sono stati momenti di profonda tristezza, provavo disprezzo per la persona con cui ero stata, mi appariva con tutta evidenza quanto fosse irrimediabilmente vuoto, superficiale, gelido. Mi odiavo, mi sono odiata per mesi interi, forse ancora adesso mi odio per non essermi allontanata prima, perché senza di lui adesso avrei ancora la mia vita da ventenne: gli amici, l’università, lo svago.

Nello sconforto più totale ho accettato, non senza difficoltà, di parlare con un sacerdote, la mia anima era dilaniata. Io non volevo quel figlio ma sapevo che non avrei mai vissuto serenamente compiendo la scelta più “facile” e più “ovvia”. Pur nelle paure e stretta dai dubbi avevo una cosa chiara: non volevo dannarmi l’anima compiendo un atto così terrificante. Don Fabio mi ha rassicurata, mi sentivo una madre degenere – perché non volevo uccidere io quella vita, eppure desideravo, speravo e addirittura a volte pregavo che mi capitasse un aborto spontaneo – mentre lui mi ha fatto sentire assolutamente normale: “Questa nascita sarà una grazia”, diceva. Io non ci credevo, a dire il vero, ma mi sentivo sollevata.

Avevo deciso di affidarmi al progetto di Dio, un progetto che non accettavo prima e faccio fatica a comprendere oggi. Era surreale, ma qualche tempo prima di scoprire di essere incinta, mi trovavo a riflettere proprio sul progetto di Dio sulle nostre vite. Ero in ospedale a fare il normale tirocinio previsto dalla mia facoltà e ogni giorno avevo a che fare con persone che combattevano malattie devastanti con una forza straordinaria. Mi sentivo in colpa, io, perché stavo bene, perché la mia vita era normalissima, non avevo particolari difficoltà, perché dentro quell’ospedale ci stavo solo per apprendere e studiare e non come quei malati, stesa su un letto per combattere il dolore e strappare un giorno alla morte. Mi ricordo bene che una sera, mi rivolsi a Dio, con una gratitudine immensa nel cuore, ringraziandolo per questa vita così perfetta in confronto a quelle vite di sofferenza. E quella stessa sera, mentre ero a letto, gli domandai quale fosse il Suo progetto per me, per la mia vita.

Non potevo immaginare che neanche un mese dopo, la mia normalissima vita sarebbe stata stravolta. A pensarci mi vien da ridere.

La mia bambina nascerà tra poco meno di un mese e lo ammetto, non provo amore e neanche affetto, mi dicono che è normale, che appena nascerà sarà diverso, ma lo stesso io non so che fare, non so ancora se tenerla, oppure darla in adozione. Non so cosa sia meglio per me, non so cosa sia peggio per lei.

Non mi resta che affidare a Dio questa decisione, l’ennesima, sperando che mi illumini. Tanto lo so che entrambe le scelte saranno difficili e dolorose, entrambe saranno un’enorme rinuncia. Di certo non mi pento di non avere abortito, sarebbe stato innaturale, perché ho capito da subito che c’era una vita dentro di me. Non “una vita” in astratto, la vita di un’altra persona dentro di me! Ricordo come fosse ieri la prima ecografia, quando ero ancora in tempo per abortire, per la prima volta ho sentito il cuoricino battere, ho pianto disperata. Oggi invece ironicamente rido pensando a chi dice: “è solo un grumo di cellule”. Se è così, prova a lasciarlo dove è, e vedi che succede. Che vuoi che sia un ammasso di cellule? Dici che non è un bambino, allora a cosa serve farlo a pezzi? Lascialo nel tuo corpo tranquillamente, tanto non è vivo, no? Coraggio, è ridicolo… Eppure ogni giorno si perdono nel nulla i pianti silenziosi di bambini che non avranno mai una vita, perché l’egoismo della loro mamma ha avuto la meglio.

Sono al nono mese, ho ancora molti dubbi, molte incertezze ma di una cosa sono certa: c’è sempre un’alternativa all’aborto. E chi sostiene che lasciare il proprio figlio in adozione sia un atto peggiore dell’abortire stesso, dovrebbe mettersi una mano sulla coscienza. Perché è un atto d’amore, dolore e sacrificio. Potrai convivere con te stessa, sapendo che quel figlio vive perché tu hai scelto di non ucciderlo. Sapendo che una famiglia si prenderà cura di lui con amore, e anche lui avrà la sua possibilità su questa terra. Perché una possibilità di vivere tu l’hai avuta, ed è giusto che ce l’abbia anche lui. Perché una possibilità ce la meritiamo tutti.

di Isabella, 19 anni, Perugia
Tratto da La Bussola Quotidiana

In Russia la fede rinasce … sui battelli

Un documentario racconta l’esperienza di padre Ghennadij e della sua chiesa galleggiante

di Luca Marcolivio

TERNI, giovedì, 24 novembre 2011 (ZENIT.org) – L’immagine della barca ha un fortissimo potere evocativo nella storia del cristianesimo. In particolare con riferimento all’attività di pescatore nel Mare di Galilea di San Pietro, il principe degli Apostoli.

Non è da escludere che abbia pensato proprio alle origini della Chiesa, padre Piotr Ghennadij quando, ormai più di dieci anni fa, ha costruito un vero e proprio edificio sacro a bordo di un battello, girando poi in lungo e in largo sulle acque del Volga e del Don e portando ogni anno la fede cristiana in centinaia di villaggi sulle sponde dei due imponenti fiumi russi.

La peculiarissima esperienza di padre Ghennaddij è stata illustrata in un documentario della durata poco meno di un’ora, trasmesso per la prima volta in Italia, ieri pomeriggio all’Umbria International Film Festival. Il film, intitolato La chiesa galleggiante è diretto da Nello Correale ed è già stato trasmesso dall’emittente tedesca MDR.

Il mediometraggio racconta di come, a metà degli anni ’90, Piotr Ghennadij, sposato e padre di due gemelli di 5 anni, di professione operaio navale, si ritrova improvvisamente senza lavoro, a seguito degli sconvolgimenti socio-economici della Russia post-comunista.

“L’idea di una chiesa galleggiante – racconta il sacerdote ortodosso durante il documentario – mi venne in mente nel 1996 un giorno che attraversavo l’Oceano atlantico, da Volgograd a Toronto, con mio figlio”.

“Quel giorno fummo vittime di una tempesta – prosegue padre Ghennadij – e rischiammo di annegare. Allora dissi a mio figlio: siamo nelle mani di Dio. Se sopravviviamo giuro che costruirò una chiesa per ringraziare il Cielo”.

Gli sconvolgimenti vissuti in quegli anni, porteranno Ghennadij non solo a riscoprire pienamente la fede cristiana ma ad abbracciare la scelta del sacerdozio nella chiesa ortodossa russa (che permette il presbiterato anche agli uomini sposati).

Messa a servizio della fede la propria perizia di operaio saldatore, padre Piotr si mette così a costruire con le proprie mani, pezzo per pezzo, una vera e propria chiesa galleggiante – con tanto di cupolette a forma di cipolla nella tradizione ortodossa – sullo scafo di un vecchio rimorchiatore militare.

L’opera apostolica di padre Ghennadij coinvolge numerosi villaggi fluviali sul Lungovolga nella diocesi di Volgograd (ex Stalingrado) solcando le steppe della zona di Astrakan e Saratov fino ad toccare la Calmucchia, unica regione russa con una significativa presenza di buddisti.

La parrocchia-battello percorre le più lunghe distanze in particolare nei mesi estivi, tuttavia nemmeno durante i gelidi inverni steppici, l’attività evangelizzatrice di padre Ghennadij si ferma del tutto.

Il documentario inizia con la suggestiva immagine delle lastre di ghiaccio  fluviali che si spezzano e si sciolgono ai primi tepori primaverili: è il richiamo simbolico alla primavera della fede che sta rianimando la Russia, dopo gli anni del gelo comunista.

Il mediometraggio raccoglie poi numerose testimonianze di gente comune, per lo più contadini del bassopiano del Volga, che ha raccontato il proprio riavvicinamento alla Chiesa ortodossa, dopo aver sentito in lontananza gli scampanii di padre Ghennadij in mezzo al fiume. Molti di loro, educati al più severo ateismo comunista, non avevano mai visto una chiesa prima di allora.

Altre persone intervistate – più avanti negli anni – rievocano quando, durante il regime staliniano si rischiava la vita a fare professione pubblica della propria fede, delle novene clandestine e di tutti i sotterfugi a cui i ministri del culto dovevano andare incontro per salvarsi la pelle, sottolineando la gioia di aver potuto riprendere la vita sacramentale grazie a padre Piotr e al suo originale mezzo.

“Venni a sapere per la prima volta della chiesa galleggiante di padre Ghennadij, un giorno che mi trovavo in Asia centrale per un altro documentario – racconta a Zenit, il regista Nello Correale -. Quando poi ho conosciuto personalmente il suo ideatore, mi sono trovato di fronte ad una vera e propria icona”.

“Nel mio documentario – ha proseguito il regista – ho colto personaggi che vanno molto al di là della loro geografia. Oltretutto è significativo che questa chiesa galleggiante operi in una terra che è un vero e proprio crocevia di religioni: la chiesa ortodossa, l’Islam e, più a Sud, anche il buddismo”.

La chiesa galleggiante, prodotto dalla Paneikon e coprodotto da MDR Germania, Paramonti productions e dal Ministero dei Beni e le Attività Culturali, è in procinto di essere distribuito negli USA, mentre il debutto sulla TV italiana dovrebbe avvenire il prossimo anno.