da Baltazzar | Dic 28, 2011 | Cultura e Società, Testimonianze
Le facce care, il ronzio della lavatrice, il frigo pieno, questa cucina affollata di oggetti. E una via di Milano come tante. Marina Corradi ringrazia per «ciò che ho sempre visto, senza vederlo davvero»
di Marina Corradi
Tratto da Tempi
Come ormai tradizione, Tempi chiude l’anno con un numero monografico di Te Deum. Qui pubblichiamo quello della giornalista Marina Corradi, che appare sul numero 52 della nostra rivista, in edicola dal 29 dicembre.
Stamattina era domenica, e i ragazzi hanno dormito fino a quasi le dieci. Sono andata a svegliare la piccola. Era abbracciata a un gatto, sotto le coperte. Aveva ancora l’odore di quando era bambina: di Nutella, di biscotti. Ho annusato e profondamente inspirato. Le ho sfiorato una guancia, era morbida e calda. Una gratitudine si è allargata nei miei pensieri opachi del mattino: che meraviglia averla qui, da quattordici anni, così viva; ridente o pensierosa, o furibonda in una rissa coi fratelli; bella, e vanitosa davanti allo specchio, mentre verifica compiaciuta l’effetto del primo rimmel sulle sue lunghe ciglia nere.
Noi non ci accorgiamo, di solito, di ciò che abbiamo, di tutto ciò che ci si ripresenta fedele, che ci si schiera davanti agli occhi ogni mattina. Ma da un po’ di tempo mi succede di riconoscere la realtà quotidiana come qualcosa che mi genera una frazione di istante di gratitudine: “vedo”, attorno a me, questa casa, e una famiglia, e degli amici, e un lavoro. Generalmente accade dopo un lutto, o dopo una malattia, di accorgersi con stupefatto rammarico di tutto ciò che si aveva “prima”, e di cui non ci si era accorti. Invece senza che sia accaduto niente di questo, mi succede – non sempre, qualche volta – di riconoscere la realtà data, al mattino, e di esserne stranamente lieta. È, forse, perché invecchio?
Io mi ricordo, in certi vecchi che ho frequentato da bambina, questa attitudine a sapere essere contenti di una mattina di sole, o di un piatto fumante, a tavola, e del suo profumo. Come se ogni mattina gli occhi si aprissero per la prima volta; e ci si meravigliasse delle facce care, delle cose di casa che funzionano, docili, del fido ronzio della lavabiancheria e perfino di un banale frigorifero pieno – che sembra una ovvietà, e invece è anche lui un trascurato dono.
E dunque in quest’anno che corre verso la sua fine il mio Te Deum è per ciò che ho sempre visto, senza vederlo davvero; e per un nuovo sguardo, attento a ciò che fino ad ora mi sembrava dovuto (e casomai, se improvvisamente mancava, ragione di indignazione e protesta, come quando ci viene rubato ciò che ci spetta).
Grazie, dunque, per questa stanza in cui dormo, con gli scuri ancora chiusi nel primo mattino, e per il letto caldo; grazie per quella lama di luce chiara e di freddo tagliente che entrerà aprendo la finestra, insieme al fugace rosa del ciclamino sul balcone, così rosa e vivo, anche dopo la notte d’inverno.
Grazie per i passi dei figli che si vanno pigramente alzando in questa mattina festiva; e perché uno di loro canta svagato una canzone degli alpini, con una bella voce da baritono che piace a suo nonno, alpino sul Don, se dal cielo la sente. (Ma tu la senti, ne sono certa. E quante volte mi pare di sentirmi addosso i tuoi occhi, con quella espressione leggermente apprensiva che avevi quando mi salutavi, e io avevo vent’anni, e tu sembravi chiederti che cosa mi portavo nei pensieri. Ma non me lo domandavi, come non lo chiedo ora ai miei figli, in quel segreto tabù che sbarra il confine fra figli e genitori).
Grazie del figlio grande, del test all’università superato, e di come studia, nel fare ciò che gli piace davvero. Grazie di mio marito, a dire il vero un efferato metodico molestatore dei miei già fragili nervi; però chi altro si poteva accompagnare a una come me? Grazie perché c’è, perché resta, fedele.
Grazie di questa casa grande, ombrosa, caotica come in fondo a me piace – non sopportando la nudità cruda dell’ordine perfetto, o di certe cucine che vedo fotografate sui giornali, lindi acciai freddi come sale operatorie. Quanto amo invece questa nostra cucina larga, affollata di oggetti che non sappiamo più dove infilare, col grande crocefisso di legno che ci allarga sopra le sue braccia, generoso e direi, a volte, benignamente rassegnato. Grazie dei vicini e dei negozianti che saluto ogni mattina, nell’enclave cara e consueta che è una via di Milano come tante; e grazie di quel signore strano, vecchio, dimesso, che gira sempre con due grandi sporte pesanti per mano, e una volta gettando l’occhio ho scoperto che sono colme di vecchi giornali che lui, senza un motivo, trasporta avanti e indietro. Lo sconosciuto con le sporte colme di parole ingiallite sorride, quando lo saluto; e la sua disarmata follia mi intenerisce, e mi riecheggia qualcosa, quel suo girare sotto al peso di tante parole consumate. (Forse, questo mio lavoro?)
Grazie di avere un lavoro. Grazie del “bip” che fa il cartellino di riconoscimento, all’ingresso, ogni mattina, e dell’odore di carta stampata che il mio naso puntualmente registra entrando in redazione (mentre fra me cupamente borbotto: tutta la vita a scrivere parole). Grazie delle facce dei colleghi con cui ci intendiamo con pochi cenni, come operai che non abbiano bisogno di parlare, tanto usi sono ad avvitare, stringere, far marciare la macchina complessa che è un giornale. Grazie degli amici – soprattutto di quelli a cui puoi raccontare qualsiasi cosa.
Grazie anche del mio cane, mezzo sciacallo e mezzo volpe, bastardo da incalcolabili generazioni, a cui mi sono infantilmente, patologicamente legata; come avessi trovato in lui, cucciolo randagio in una piazza del Sud, una parte bambina di me, che non sapevo più di avere. Grazie dei nostri gatti, belli, fieri come enigmatiche sfingi e pasticcioni come bambini. (Malacoda, che perfidamente con la zampa in questo istante dondola l’arcangelo sospeso con un filo sul presepe; mentre sulla farina davanti alla grotta al mattino trovo sempre impronte feline, come di notturni silenziosi pellegrini). E grazie della attesa muta che aleggia su questo presepe casalingo, imperfetto, goffo, e ogni anno uguale. Senza questa attesa e dunque questa speranza, tutto – i figli, la famiglia, il lavoro – si rivelerebbe alla fine nient’altro che un po’ di cenere.
Ho ricevuto oggi da un amico un biglietto d’auguri: «L’incarnazione di Cristo – c’era scritto – è l’unica nostra speranza». So bene che molti alzerebbero le spalle: che integralismo, che esagerazione. Direbbero che il mondo è pieno di speranze, di solidarietà e di buona volontà. Già. Ma cosa te ne fai di tutto questo, se la morte può toglierci un figlio per sempre, se quelli che abbiamo amato ora sono nel nulla, e ce ne resta solo un ricordo che sbiadisce? A cosa serve tutto il nostro fare di fronte alla massa di sofferenza e miseria che si allarga sulla terra – che non reggeremmo, se la conoscessimo intera – se nessuno davvero è venuto a caricarsi e ad abbracciare e a riscattare tutto questo dolore?
Sì, forse è perché invecchio. È per questo che vado sfrondando le speranze, e me ne resta, davvero, solo una. Invecchiare, fra noi gente d’Occidente, è perdita, decadenza, nebbia che offusca i pensieri. E se fosse invece questo solo il destino del corpo, e l’uomo interiore con gli anni vedesse meglio, più lontano, oltre l’apparenza opaca delle cose? Se il tempo che passa fosse Dio che viene? Grazie, in questo anno che finisce, di un’altra in me che appena intravvedo, più attenta, e grata piuttosto che indignata; grazie anche del tempo che scorre, di quello scandire inflessibile delle ore, che da giovane mi sembrava una condanna. Ma, forse, non capivo. Forse, ora vedo meglio. Grazie, perché nello scoccare di questo nuovo anno non ho più, del tempo, come da ragazza, tanta inerme paura.
da Baltazzar | Dic 21, 2011 | Chiesa, Segni dei tempi, Testimonianze
Pontedera: in discoteca prendeva e vendeva droga La conversione a Medjugorie
Pontedera, 20 dicembre 2011 – HA ANCORA tatuato il simbolo dell’Insomnia sulla spalla sinistra. Sì perché lui è stato uno tra i più assidui frequentatori di quella che fu ribattezzata la “discoacropoli d’Italia”, la nota discoteca delle Melorie, a Ponsacco, in provincia di Pisa, super in voga dalla fine degli anni ’80 fino a tutti gli anni ’90. E purtroppo protagonista sulle cronache per drammatici episodi legati al consumo di droghe anche pesanti. Ecco, tra i più fedeli appassionati del “viaggio psichedelico”, consumatore e venditore dello sballo, c’era anche lui, Roberto Dichiera, di Tavolaia, Santa Maria a Monte, classe ’74, ex parrucchiere per donna. Oggi sacerdote a Roma. Ma andiamo per gradi.
Don Roberto, davvero è stato anche uno spacciatore?
«Sì, ma dammi del tu. Prima di diventare spacciatore ho provato tutte le droghe che c’erano in giro, ma proprio tutte, esclusa l’eroina. La droga la vendevo sia in discoteca che fuori. Nei week-end prendevo il treno e facevo i miei giri nel nord Italia, a Torino, Bologna, Verona, Genova, Riccione».
Perché ti drogavi?
«Per divertirmi, per evadere, il trip, ad esempio, era la droga di cui facevo più uso in assoluto perché mi piaceva viaggiare con la mente. Ricordo che una volta ne ho venduto uno a una ragazza di Pontedera, eravamo proprio all’Insomnia. Si sentì male fino al punto che rischiò la vita. La portammo all’ospedale dove rimase ricoverata tre giorni. Nonostante questo episodio continuai a fare la mia vita di sempre».
Poi cosa è successo?
«Un giorno ero sul treno, Firenze-Bologna, tornavo in caserma perché in quel periodo ero militare. Nelllo scompatrimento incontrai una ragazza, parlammo, ci scambiammo i numeri di telefono e da lì ci iniziammo a vedere. Poi c’innamorammo. Siamo stati insieme due anni».
L’incontro con questa ragazza ti ha cambiato la vita?
«Sì, indubbiamente. Lei era credente e frequentava la chiesa, così capitava anche a me, sporadicamente, di andare alla messa. Dopo ben nove anni mi sono di nuovo confessato e ho fatto la comunione».
Nel frattempo facevi ancora uso di sostanze?
«Sì, anche se è stato in quel contesto che inziai a maturare il proposito di smettere. Per amore della mia fidanzata. Ma non era facile, per niente. Poi un giorno trovai in casa il Vangelo e… ecco, quello è stato il vero viaggio che ha cambiato radicalmente la mia vita».
C’è una frase che ti colpì in modo particolare?
«Sì, quando Gesù si rivolge ai discepoli e dice: “Seguitemi, vi farò pescatori di uomini”».
E’ quello che sei oggi…
«Io amo definirmi “sacerdote di strada”, sono tanti i giovani intrappolati nel falso mito del divertimento sintetico, che però hanno bisogno di essere capiti, ascoltati, amati. Non giudicati. Ecco, li vedo quando mi avvicino a loro e racconto la mia storia, loro si aprono, mi ascoltano. Qualcuno cambia vita, per altri è più dura, si sa. Sabato siamo andati in un centro sociale qui a Roma e siamo rimasti lì fino alle cinque del mattino. Vedere questi ragazzi che si buttano via così è per me un grande dolore. Ma il compito mio, adesso, è quello di portare un raggio di speranza. Quello stesso raggio che anni fa, durante il mio primo viaggio a Medjugorje, ha illuminato il mio cuore, la mia vita. Lì, sul monte delle apparizioni, ho sentito, inequivocabile, la chiamata. Da allora, lasciai la mia fidanzata per un amore più grande, l’amore di Dio e quindi l’amore per tutte le persone più bisognose».
Patrizia Redi da La Nazione
da Baltazzar | Dic 21, 2011 | Chiesa sofferente, Islam, Testimonianze
Il Natale in carcere di Asia Bibi, condannata a morte per blasfemia
di Jibran Khan
Tratto dal sito dell’Associazione Luci sull’Est
La donna appare fragile, in precarie condizioni di salute. Ringrazia per le preghiere e chiede aiuto e sostegno, perché possa tornare presto a riabbracciare il marito e le figlie. Nonostante le sofferenze, Asia ha perdonato le sue aguzzine e si chiede quante vittime cristiane mieterà ancora in futuro la “legge nera”.
Islamabad (AsiaNews 20-12-2011) – L’unica aspettativa per il futuro è di tornare con la famiglia, abbracciare le figlie; per questo chiede preghiere e lancia un appello perché altri “fratelli e sorelle” non debbano finire in prigione con false accuse di blasfemia. Sarà un altro Natale in carcere, lontana dagli affetti più cari, quello che si appresta a vivere la cristiana Asia Bibi, madre di cinque figli, rinchiusa nella sezione femminile del carcere di Sheikpura (nel Punjab), condannata a morte in base alla “legge nera” e in attesa di appello, tuttora pendente presso l’Alta corte di Lahore.
Ieri una delegazione internazionale della Masihi Foundation, ong che si occupa della tutela legale della donna, l’ha incontrata per uno scambio di auguri alla vigilia delle festività. E per la prima volta dall’assassinio del governatore del Punjab Salman Taseer, ucciso dalla sua guardia del corpo nel gennaio scorso, Asia si è trovata davanti a sé un gruppo nutrito di persone; finora, infatti, aveva potuto parlare solo con il marito e l’avvocato durante il colloquio settimanale con i parenti.
Nella sua cella di isolamento appare stanca, invecchiata a dispetto dei 46 anni, è fragile e molto debole, riesce a stento a reggersi in piedi. Entra nella stanza della prigione riservata agli incontri scortata da due guardie, appare confusa e il suo sguardo corre da destra a sinistra; per tutta la durata dell’incontro, di circa 2 ore e 20 minuti, alterna emozioni che vanno dal pianto, alla risata, fino a lunghi periodi di silenzio. Il suo tono di voce è debole, per i primi 10 minuti non riesce a capire se i componenti della delegazione sono “amici o nemici”. Smette di parlare quando entra nella sala una guardia carceraria e quando le chiedono come è trattata dalle autorità carcerarie distoglie lo sguardo, sembra sfuggire alla domanda e si chiude in un ostinato silenzio.
Il corrispondente di AsiaNews ha partecipato all’incontro con Asia Bibi e ha ottenuto un’intervista. Ecco, di seguito, le risposte di una donna che – pur in una situazione di estrema difficoltà – non ha perso la speranza e il desiderio di lottare per la propria libertà e per la sua famiglia.
Asia Bibi, alla vigilia del Natale quali sono i tuoi desideri, le aspettative?
Rispondo con sincerità, non lo so proprio. Cosa pensi che potrà succedermi? Continuo a pregare e digiunare per la mia famiglia. Voglio con tutta me stessa stare con la mia famiglia. Voglio abbracciare le mie figlie. E continuo a nutrire la speranza che un giorno verrò liberata.
Che messaggio vuol lanciare ai cristiani pakistani e in tutto il mondo che pregano per te?
Vi chiedo di continuare a pregare, perché possa ritornare con la mia famiglia. E vi sono immensamente grata per queste preghiere.
Hai un giorno speciale, che interrompe la monotonia quotidiana della prigione?
Ho perso il senso di tutte le celebrazioni, il solo giorno che conosco, detesto e – sfortunatamente – ricordo con chiarezza è il 9 giugno, il giorno più buio e doloroso della mia vita, quando sono stata arrestata. Nemmeno al mio peggior nemico potrei augurare di subire quello che io stessa ho dovuto subire, quello che sia io che la mia famiglia abbiamo passato in quel maledetto 9 giugno. Per noi è stato un incubo e da lì in poi ho perso la cognizione del tempo. In carcere si perde la cognizione del tempo, dell’ora, del giorno, del mese. Sono un’analfabeta e non godo di particolari concessioni in carcere, la sola cosa che posso fare è partecipare alle lezioni scolastiche domenicali.
Hai perdonato le persone che hanno causato il tuo arresto?
In un primo tempo no, non sono riuscita. E come sarebbe possibile? [Quando pronuncia questa frase si fa dura, quasi aggressiva, affonda in un respiro greve] Per quanto analfabeta, resto comunque cristiana nel profondo e la mia religione mi ha insegnato il valore del perdono. [Sorride…] In un primo momento, quando mi hanno sbattuta in prigione, ero arrabbiata e meditavo vendetta, perché mi avevano strappato dalla mia famiglia. Poi ho iniziato a pregare e digiunare e, può sembrare strano, mi sono accorta di aver perdonato quelle persone che mi hanno incriminato per blasfemia. Questo è un capitolo della mia vita che vorrei tanto chiudermi alle spalle e dimenticare.
Cosa pensi della situazione dei cristiani in Pakistan?
[Il suo volto si fa scuro, poi d’un tratto inizia a parlare con calma…] Quanti fratelli e sorelle saranno ancora accusati ingiustamente… Saranno maltrattati, vittime di abusi, imputati in processi farsa come è accaduto a me.
Asia Bibi capisce che l’incontro sta per finire e sembra terrorizzata all’idea che volti amici se ne vadano. “Quando tornerete ancora a trovarmi?” domanda ai presenti e aggiunge: “cosa farete adesso?”. La sua voce si alza di tono, sembra un grido di aiuto… “Quando verrò rilasciata…”
da Baltazzar | Dic 15, 2011 | Cultura e Società, Post-it, Testimonianze
Francesca Siena spiega la nascita del Centro di Aiuto alla Vita all’Ardeatino
di Antonio Gaspari
ROMA, mercoledì, 14 dicembre 2011 (ZENIT.org).- Domenica 11 dicembre presso la parrocchia Santa Giovanna Antida Thouret si è svolta l’inaugurazione del Centro di Aiuto alla Vita (CAV) Ardeatino. Per conoscere le ragioni e le finalità di tanti volontari che si prodigano con carità e accoglienza per far nascere bambini e bambine, ZENIT ha intervistato Francesca Siena, promotrice e presidente del neonato CAV Ardeatino.
“Il punto culminante dell’inaugurazione – ha raccontato Francesca – è stata la testimonianza di Mara, una ragazza aiutata da una nostra volontaria, che subito dopo la comunione con poche parole e molta commozione ha raccontato la sua storia, simile a quella di tante ragazze da noi conosciute: la notizia di una gravidanza inaspettata, la paura per la giovane età, il mondo che ti crolla addosso (il “fidanzato” che è scappato, la famiglia che l’ha messa alla porta)……e poi l’incontro con Mirella, la nostra volontaria… il coraggio di tenere questo bambino…….e la gioia e l’orgoglio oggi di poterlo mostrare a tutti: Gabriele, un anno appena compiuto, che dice essere il senso della sua vita! Ma una frase su tutte che ha pronunciato Mara ha “spaccato” i nostri cuori, perché estremamente vera: “Quando pensavo che tutto fosse finito … è proprio lì che tutto è iniziato”. Con questo fulgido inizio, e in questo tempo prenatalizio di attesa della Luce, il nostro Cav credo sia nato sotto una buona stella”.
Come è accaduto di diventare una volontaria a favore della vita?
Francesca: Mi sono imbattuta nel Movimento per la Vita 5 anni e mezzo fa. Avevo appena partorito la mia secondogenita, Benedetta, ed ero molto provata…….anche perché a casa mi aspettava un altro piccoletto di appena 6 mesi: Matteo, il mio primo figlio.
Durante tutta la gravidanza avevo avuto un solo pensiero: come farò? Eppure potevo avere un aiuto esterno, una babysitter, perché io e mio marito abbiamo una situazione economica agiata, ed anche contare su una nonna e qualche zia…..ma nella realtà era il mio animo che non si rassegnava all’idea di perdere un’”altra” volta la vita: e sì, perché avere un figlio – e qualsiasi mamma lo sa – è sicuramente il bene più grande, l’esperienza più esaltante per una donna…..ma nello stesso tempo è quella più traumatica, soprattutto per chi come me era abituata ad avere tutto per sé. Improvvisamente non sei più l’artefice del tuo tempo, del tuo spazio, della tua libertà! C’è un ‘esserino’, che nei primi mesi di vita in pratica ti comanda…..e tu devi essere al suo servizio!!!
Sacrilegio!!! Per una ragazza un po’ viziata come me, tutto questo sembrava un’enormità. Con questa tempesta nel cuore, subito dopo il parto, mi sono imbattuta nel MPV in un libro scritto da Carlo Casini e da Antonio Socci “Il genocidio censurato”.
E sono rimasta sconvolta!!!! Non era possibile…….una realtà così drammatica come l’aborto, così estesa – si parlava di 5.000.000 di vite umane soppresse – e così sottaciuta………mi sono indignata……..e assieme all’indignazione mi è venuto un grande amore per la Vita, ed avevo la possibilità di viverlo concretamente con quei figli che il Signore ci aveva donato……e che quindi non erano più un peso per me, ma una chiamata: SPENDERMI PER LA VITA!
Da lì è iniziato il mio impegno, Prima in un Centro di Aiuto alla Vita vicino a casa mia, poi nella mia stessa parrocchia, e infine oggi con questa apertura di un nuovo Centro di Aiuto alla Vita, di cui sono Presidente.
In questi anni ho avuto l’opportunità di conoscere tante donne, con tante realtà diverse, e sono convinta che sono state più loro ad aiutare me che il contrario: vedere una ragazza che con mille problemi ha comunque il coraggio di credere a quello che tu le dici, e quindi decide di accogliere il suo bambino e di non interrompere la gravidanza, è per me ogni volta un grande segno della Potenza dello Spirito Santo , che mi aiuta nelle mie piccole difficoltà quotidiane a non scoraggiarmi MAI!
E ci credo così tanto in quello che “predico” che in questi anni è nato anche il mio terzogenito, Giovanni, ed oggi in questa lieta occasione sono di nuovo incinta. Il Signore mi sta mostrando la strada e ci sta colmando di doni!
Quali le ragioni che l’hanno spinta a far nascere un CAV?
Francesca: Nella mia parrocchia ho trovato un ambiente molto sensibile a questo tema: a cominciare dal parroco, don Massimiliano Nazio, e poi una schiera di volontarie veramente desiderose di accogliere ed aiutare altre donne in un momento così particolare per la loro vita, come è quello di una gravidanza.
Con queste “volenterose” volontarie ci siamo convinte che sarebbe stato bello aprire un CAV tutto nostro……anche perché avevamo già sperimentato un clima di estrema collaborazione ed assistenza tra di noi, nonostante le inevitabili differenze “umane”, che ci avrebbe sicuramente aiutato nelle molteplici attività che si svolgono all’interno di un centro di aiuto alla vita. Sono convinta, infatti, che se prima non ci si accoglie tra noi volontarie, poi è estremamente difficile essere credibili e pronte ad accogliere le donne che a noi si rivolgono! Perché purtroppo anche in questa nobile attività, come in tutte le cose belle e sante, ci può essere un’insidia nascosta: sentirsi il Dio della vita delle altre persone! Questo è un tranello molto pericoloso, che ha come unico antidoto la preghiera costante al Padre e la partecipazione ai sacramenti.
Difatti, questo è talmente vero, che nel nostro caso c’è ancora una ragione in più per aprire un Cav nella nostra parrocchia: c’è la possibilità dell’Adorazione perpetua, che Don Massimiliano ha inaugurato da meno di anno, in “gemellaggio” con la Chiesa di Sant’Anastasia (dove si trova un altro CAV, il CAV PALATINO, per noi fondamentale punto di riferimento). Ed è per questo che tra le prime cose decise noi volontarie ci abbiamo messo l’ora di adorazione settimanale come gruppo CAV, perché siamo profondamente convinte che lì c’è la fonte di tutto: sia dei bambini strappati all’aborto, che del nostro operato, che delle nostre stesse vite! Se non ci fosse questa possibilità di accedere continuamente alla Grazia e al Perdono, sono convinta che ognuna di noi non reggerebbe invece in quei casi che purtroppo vanno male, e cioè quando la donna da noi accolta decide comunque di abortire!
Cosa fa un Centro di Aiuto alla Vita?
Francesca: Anziutto noi non ci prefiggiamo di fare tutto! E questa per me è la prima regola, altrimenti si rischia di “morire” di volontariato. Dico questo perché essendo quasi tutte donne la tentazione di fare 3.000 cose – come noi spesso vogliamo fare!- è dietro l’angolo!
Prima di tutto c’è l’accoglienza e l’ascolto di quelle mamme che in maniera quasi fortunosa si rivolgono a noi, tramite amici, parenti ecc. e più raramente tramite consultori e ospedali. Ascolto significa cercare di capire il vero problema di quella donna: dietro una richiesta di aborto spesso il problema che viene “sparato” per giustificare l’interruzione, non è quello reale della donna. Questo servizio è molto importante, e per questo cerchiamo di essere sempre disponibili, di essere almeno in due, di pregare assolutamente prima!
Poi se tutto va a buon fine e quindi la mamma decide di tenere il suo bambino, c’è l’assistenza : anzitutto ‘morale’, nel senso che si crea un rapporto quasi intimo con la donna e cerchiamo di “circondarla” d’affetto! E poi sicuramente materiale, con la preparazione di tutto ciò che serve alla nascita (corredino, passeggino, pannolini ecc.) e a volte anche pacchi alimentari o, nei casi di estrema indigenza, e vestiario per la mamma.
Infine siamo un punto di raccordo con gli specialisti che ci aiutano, donando anche loro tempo e soprattutto competenza: ginecologi, che seguono gratuitamente le nostre mamme, anche durante il parto; esperti di allattamento al seno, nei primi di mesi di vita del bambino; docenti di metodi naturali di regolazione della fertilità (punto molto delicato e importante, da affrontare ovviamente una volta nato il bambino e creato un rapporto “intimo” con la mamma); a volte anche avvocati, in situazioni particolarmente intricate, e psicologi.
Insomma cerchiamo, con i nostri limiti, di circondare la mamma di tutte quelle attenzioni che hanno un solo unico scopo: NON FARLA SENTIRE SOLA! Anche perché spesso effettivamente lo è, essendo stata abbandonata da tutti, a cominciare dal padre del bambino.
Crediamo infatti che la gravidanza e la nascita di un bambino non possono né devono essere considerati più fatti privati e individuali: ma riguardano tutti noi!
Come è andata l’inaugurazione?
Francesca: Per noi volontarie è stato molto bello, anche se faticoso! Gli ospiti mi dicono che sono stati bene, e soprattutto abbiamo ricevuto una solenne benedizione!
Per mettersi in contatto con il Cav Ardeatimo i riferimenti sono:
CAV ROMA ARDEATINO- via R. Ferruzzi n.110, 00143 ROMA
Tel. attivi 24 ore su 24: 3409378319 /3298260716 / 3395386633
Il mio riferimento personale è :
francesca.siena@irene2005.it
da Baltazzar | Dic 13, 2011 | Chiesa, Cultura e Società, Testimonianze
Un Centro di Aiuto alla Vita di Milano racconta la sua storia
di padre Piero Gheddo
ROMA, lunedì, 12 dicembre 2011 (ZENIT.org).- Non si è mai finito di conoscere e ammirare i personaggi e le innumerevoli iniziative che nascono dalla fede in Cristo e nella Chiesa. Sabato scorso 3 dicembre, al “Circolo della Stampa”, ritrovo abituale dei giornalisti di corso Venezia 48 a Milano, ho conosciuto la signora Paola Marozzi Bonzi, fondatrice e direttrice del Centro di Aiuto alla Vita (CAV) della clinica Mangiagalli di Milano, che in 27 anni ha salvato 13mila bambini dall’aborto.
L’incontro al Circolo della Stampa ha celebrato il primo anniversario del giornale on line “La bussola quotidiana”, il cui direttore Riccardo Cascioli ha lanciato la battaglia culturale contro l’aborto che, dopo i puntuali interventi di Massimo Introvigne e di Luigi Amicone (direttore del settimanale Tempi), ha toccato il suo vertice con la commovente e coinvolgente testimonianza di Paola Bonzi, consulente familiare e mamma di tre figlie, fondatrice e direttrice del Centro di Aiuto alla Vita.
Ho conosciuto brevemente la signora Paola che si è presentata dopo che avevo per un’ora risposto alle domande di Gerolamo Fazzini sul perché la missione alle genti oggi e cosa le giovani Chiesa nel Sud del mondo insegnano alla nostra Chiesa italiana. Paola mi ha detto: “Lei padre ha parlato dei missionari che fanno nascere la Chiesa dove ancora non esiste; io parlo dei volontari e volontarie del CAV che convincono e aiutano a generare il figlio mamme che sono in difficoltà e spesso tentate di abortire”.
L’entusiasmo di questa mamma carismatica per la missione di salvare bambini e le rispettive mamme mi ha colpito. Anche questa è una “missione” voluta e benedetta da Dio. Ho poi letto il suo libro “Oggi è nata una mamma – Storie e sfide del Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli”, con la prefazione di Giuliano Ferrara (San Paolo 2009). Il CAV a Milano ha una solida fama e vive per l’aiuto di molti volontari e volontarie e benefattori.
E’ nato nel 1984 per a aiutare ogni donna a scegliere la vita ed ogni bambino ad essere accolto con gioia. Una maternità imprevista, il disagio economico, l’assenza o la lontananza di amici e parenti, l’eventuale mancanza di un partner, possono far sì che l’attesa di un figlio venga vissuta con paura, ansia, preoccupazione ed un profondo senso di solitudine. Obiettivo dell’associazione è di accompagnare le donne alla nuova condizione di madre, sostenerle psicologicamente e materialmente fino all’anno di vita del bambino, aiutandole così a superare le difficoltà contingenti e ad impostare la relazione col proprio figlio.
Il progetto di aiuto proposto, personalizzato sulla base delle necessità di ogni donna, può comprendere vari interventi: il sostegno psicologico, la consulenza dell’educatrice e dell’ostetrica per aiutare la mamma e il bimbo a crescere bene insieme, la fornitura di tutto ciò che occorre al neonato (pannolini, corredini, attrezzature) e di ciò che deve garantire il benessere della famiglia (“borsa della spesa”, un sussidio di 200 Euro al mese erogato per 18 mesi), l’ospitalità temporanea.
Il CAV opera dal 1984 all’interno della Clinica Mangiagalli a Milano. I risultati raggiunti in 26 anni sono: 15.204 donne incontrate, 13.120 bambini nati, 272 nuclei familiari ospitati fino alla raggiunta autonomia abitativa; 127 bambini iscritti ai nidi famiglia gestiti dall’associazione, aperti nel 2004; 6.600.064,49 Euro destinati a sussidi in denaro. Nel 2010 le nuove utenti sono state 1.688, i bambini nati e seguiti con progetti di aiuto 995.
Paola Bonzi ha commosso parlando in modo appassionato delle “ragazze che hanno avuto una gravidanza non voluta, i sentimenti di insicurezza e di paura che sentono, di incertezza e di incapacità di portare avanti una vita, il bisogno di essere ascoltate e capite”. E aggiungeva: “Noi pensiamo subito di giudicare male casi come questi, che a volte finiscono nell’aborto, perché la società non le aiuta. Io dico: non giudichiamo, perché siamo tutti responsabili”. Ha toccato il cuore di tutti.
Mentre Paola parla penso: guarda quanto è grande il mondo e quanto multiforme la missione della Chiesa. Stamattina ho parlato della missione alle genti che per me è la vita, adesso vengo a conoscere la missione di aiutare le giovani donne a non abortire, a far nascere dei bambini e anche questa è Vangelo vissuto! La “Nuova evangelizzazione” dei popoli già cristiani da lunghi secoli sarà discussa nell’ottobre 2012 dal Sinodo episcopale della Chiesa e avrà bisogno di molti laici che prendano iniziative per testimoniare Cristo in tutti i campi della società italiana. Nessun battezzato può più essere un cristiano passivo, tutti debbiamo impegnare tempo, passione, intelligenza e denaro per dare una mano, anche con la preghiera, se vogliamo che l’Italia possa tornare ad essere un paese cristiano.
da Baltazzar | Dic 9, 2011 | Cultura e Società, Post-it, Segni dei tempi, Testimonianze
«Ho passato anni della mia infanzia a fantasticare su di lui. Costruivo castelli sulle poche cose che sapevo: capelli biondi, occhi azzurri, laureato. Giorni frenetici e notti insonni passate a immaginare il suo carattere, le sue passioni. “Forse era un musicista, come me”, mi dicevo, “forse era un’artista squattrinato, per questo l’ha fatto, aveva bisogno di soldi”. Poi ho scoperto che il donatore numero 81 era un professionista affermato, un medico che si definisce credente. Il mio padre biologico».
24 anni, newyorkese, Alana Stewart è quello che in gergo tecnico si chiama a donor-conceived adult, ossia un adulto concepito da donatore. La sua è una delle vicende raccontate nel documentario Anonymous father’s day (giornata del padre anonimo) che per la prima volta dà voce a un popolo che ogni anno nei soli Stati Uniti conta dai 30mila ai 60mila nuovi nati. Tanti sono infatti i bimbi che vengono al mondo grazie alla donazione di sperma da parte di padri rigidamente protetti dal più totale anonimato.
Prodotto da Jennifer Lahl, già direttrice di Eggsploitation (sul tema della donazione di ovuli), e presidente del Center for Bioethics and Culture Network di San Francisco, il documentario, disponibile on line in lingua inglese, offre una panoramica inquietante su un’industria globale senza traccia che sta timidamente venendo allo scoperto grazie ad internet. Mai come in questi anni infatti, proliferano blog, siti e social network attraverso i quali i figli di padre donatore cercano tracce delle proprie origini, si incontrano tra “fratelli”(un donatore può arrivare ad aver generato anche 150 volte), tentano di dare un volto e un nome ad un padre del quale conoscono soltanto il codice identificativo, l’area in cui il seme è stato “distribuito”, il lasso di tempo in cui l’attività di donazione è proseguita.
I 60 minuti del film ospitano il contributo di Elizabeth Marquardt, direttore del Center for Marriage and Families at the Institute for American Values, curatrice del rapporto FamilyScholars.org e coautrice, insieme a Norval D. Guenn e Karen Clark, dello studio My Daddy’s Name is Donor, ovvero “Mio papà si chiama donatore”, condotto su un campione di 485 adulti di età compresa tra 18 e 45 anni con lo scopo di effettuare un primo monitoraggio su una generazione di persone concepite in risposta ad un irrefrenabile desiderio di maternità e poi abbandonate al loro destino.
«Il 67% degli intervistati ha affermato di sentirsi perso dal momento in cui ha appreso di essere figlio di donatore – afferma la Marquardt – e di voler conoscere il proprio padre biologico. Il 70% ha ammesso di trascorrere molto tempo fantasticando sulla vita e le abitudini del donatore e di non riuscire a darsi pace. Tra i dati registriamo poi una stretta correlazione tra il ricorso al padre donatore e il fallimento delle unioni matrimoniali».
«Quello a cui siamo abituati a pensare quando si parla di donazione di sperma, o anche di ovuli, è come aiutare le persone ad avere un bambino, – spiega Jennifer Lahl, che da anni studia gli effetti delle tecniche di procreazione assistita – mai riflettiamo sulle prospettive di determinate scelte, dei diritti, dei desideri delle aspettative del nascituro. Cosa succede ad un ragazzo quando scopre che il papà che l’ha cresciuto non è il suo padre biologico? Cosa succede ad una donna quando l’anziana madre scoperchia il baule del passato e scombina le carte che sono sempre state in tavola? Come si rapporta ad un bambino un “padre acquisito”? Quale è “l’impatto etico” dei donatori di sperma sui loro figli? ».
Per rispondere a domande come queste il documentario ha scelto di raccontare la storia di Alana Stewart, che gestisce il sito anonymousus.org attraverso il quale raccoglie e riporta le storie di chi, come lei, ad un certo punto, ha scoperto di non avere più radici.
«Avevo 5 anni, era un giorno come un altro, mi stavo preparando per andare a scuola, quando mia mamma mi ha detto che ero figlia di un donatore. Così, semplicemente. Ero confusa, ma sicuramente ho subito dato un nome a quello strano senso di estraneità che da sempre percepivo nei confronti di papà. Ho una sorella di 2 anni più grande e mia madre quel giorno mi ha spiegato che lei invece era stata adottata. Qualche anno dopo i miei genitori si sono separati e mia madre ha concepito naturalmente il suo terzo figlio con un nuovo compagno. Ho visto mia madre crescere tre “tipologie biologiche di figli” e le differenze, certamente involontarie, nel suo rapporto con noi. Ho visto l’unico padre che conoscevo chiedere, dopo il divorzio, la paternità della mia sorella maggiore e non la mia. Sentiva più sua la figlia adottata, rispetto a me».
Nonostante gli occhi, a tratti velati di lacrime, Alana racconta la sua storia con distacco, come se quello che dice le appartenesse fino ad un certo punto, come se per mettersi al riparo da uno smarrimento ancora maggiore si fosse rifugiata nelle sue poche certezze. Il senso di estraneità e smarrimento accomuna la sua vicenda a quella di tanti altri, tra i quali Barry Stevens che nel documentario racconta di aver saputo soltanto alla morte del padre, la verità “biologica” sul suo concepimento. «Suona strano ma è come se io avessi sempre sentito una forma di distacco nei suoi confronti e mia sorella provava la stessa identica cosa. Come se in famiglia ci fosse sempre stato un segreto e noi due ne fossimo tenuti all’oscuro. Era alienante, mi sentivo perennemente incerto».
La crisi di identità e il senso di confusione percepiti dai figli di donatori rientra in quello che viene chiamato genealogical bewilderment, ovvero “smarrimento geneologico”. Spiega la regista: «Il bambino sente insieme curiosità e confusione rispetto a chi appartiene, alla sua identità, alle sue radici, al suo posto nella famiglia. Lo si vede nei bambini adottati, che chiedono di sapere dei loro genitori biologici, e ancor più succede nei bimbi nati da donatore, per i quali la ricerca del padre è resa ancor più difficile dalla protezione della privacy di chi dona, da parte delle cliniche».
«Mi sembra assurdo che gli ospedali trattengano così tante informazioni sui donatori e non si preoccupino dei diritti di chi nasce – osserva Barry Stevens. – Ci vogliono convincere che un padre donatore non sia altro che una persona disposta ad aiutare chi non riesce ad avere figli, una prassi ordinaria. Non considerano che abbiamo tutti una grande domanda di senso nel cuore che ci porta a domandare: chi sono? Da dove vengo? Ci ripetono è una cosa normale, che non c’è nulla di male. Eppure qualcosa non torna…».
di Raffaella Frullone da La Bussola Quotidiana