da Baltazzar | Ago 27, 2013 | Cultura e Società, Post-it, Testimonianze
Eliseo Del Deserto da www.tempi.it
Lettera di un omosessuale al presidente dell’ordine degli psicologi dopo le polemiche sulle teorie riparative. «È una grave carenza di amore vissuta durante l’infanzia»
Eliseo del Deserto ha scritto sul suo blog una lettera aperta a Giuseppe Luigi Palma, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi, che – in seguito a un talk show sulla proposta di legge sull’omofobia – aveva diramato questo comunicato.
Lettera a Giuseppe Luigi Palma
Sig. presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi Giuseppe Luigi Palma,
mi chiamo Eliseo Del Deserto, sono un ragazzo omosessuale e vorrei darle il mio parere in merito alle sue dichiarazioni odierne. Anch’io penso che l’omosessualità non sia una malattia. Dare all’omosessualità tutta questa importanza?! Non credo sia realistico… L’omosessualità è molto meno. Ecco perché tanti uomini in passato omosessuali, oggi sono felicemente etero. La sessualità è un orientamento, lo saprà bene no? Penso alle bussole o alle navi, com’è facile cambiarne la rotta!
L’omosessualità maschile è secondo me una grave carenza di amore vissuta durante l’infanzia, un immaturità affettiva, un rifiuto netto di crescere. Mi ricordo quando davanti allo specchio, da piccolo, dopo aver sentito litigare per l’ennesima volta, mia madre e mio padre, giurai di non crescere mai! Mi ricordo la veemenza con cui lo feci, in quelle parole volevo solamente dire: “Non voglio assolutamente diventare come mio padre!”.
Trovare un modello di mascolinità positiva e affettuosa mi è stato davvero difficile nella vita, anche quando ho incominciato ad avere esperienze omosessuali. Sì anche molti uomini come me non sono bravi ad amare. Siamo bambini egocentrici e capricciosi. Si scordi l’immaginario romantico del mondo gay descritto da alcuni registi come Ozpetek (che ammiro molto tra l’altro). Comunque essendo psicologo ne avrà sentite più di me!
Non voglio convincerla di niente, se non dirle che vorrei essere libero di decidere da me stesso come cambiare, tanto quanto un uomo che decide di diventare donna.
Mettiamola così: non mi interessa “guarire” dall’omosessualità! Non è l’omosessualità che mi rende infelice. Non mi dica quindi che ho interiorizzato una sorta di omofobia perché trovo invece per alcuni versi che quel tratto della mia personalità mi renda in qualche modo migliore, ed inoltre ho carissimi amici che stimo profondamente, omosessuali come me. Quindi nessun istinto nazista interiorizzato! Voglio però smettere di masturbarmi davanti a siti pornografici gay, voglio smettere di passare giornate intere a cercare un rapporto sessuale occasionale su internet, voglio essere libero di non guardare un ragazzo muscoloso che entra in metro ed immaginare parti anatomiche del suo corpo, voglio essere padrone della mia vita e sentirmi realizzato come maschio e se questo significa “guarire”, beh, allora sì… Voglio guarire da questa cosa qui, se proprio non vogliamo dargli un nome.
Per brevi periodi, mi sono reso conto di riuscire ad instaurare intense e profonde amicizie disinteressate con maschi eterosessuali anche belli come Brad Pitt ed a desiderare un pacificante rapporto di tenerezza con delle ragazze. Questo mi fa stare bene, al contrario di quando provo a lasciarmi andare alle mie pulsioni omosessuali. Ora non le chiedo il quadro psicologico che emerge dalle mie parole, ma la possibilità di essere felice.
Conosce bene il significato della parola “empatia” (ho frequentato la vostra categoria per un bel po’ di anni) e so che ora che l’ho citata almeno proverà a pensare a quello che le ho chiesto.
Tanti saluti!
Eliseo Del Deserto
da Baltazzar | Ago 27, 2013 | Post-it, Scienza
In difesa della vita.
Il difetto genetico responsabile della Sindrome di Down può essere corretto. Queste le conclusioni di uno studio rivoluzionario pubblicato su Nature da un gruppo di ricercatori di tre diverse università nordamericane che definiscono il risultato «il primo passo importante verso lo sviluppo di una “terapia cromosomica”». Un progresso determinante in questo tipo di ricerche, perché dimostra che, per ora in una coltura cellulare in vitro, è possibile intervenire direttamente per silenziare il cromosoma “in più” responsabile della sindrome di Down. Nell’uomo, infatti, vi sono 23 coppie di cromosomi, tra cui due cromosomi sessuali, per un totale di 46 cromosomi. Le persone con la sindrome di Down, hanno invece 47 cromosomi: anziché due copie del cromosoma 21 ne hanno tre e questa “trisomia 21” causa disabilità cognitive, problemi cardiaci e del sistema immunitario. Questo cromosoma sovrannumerario è causa dell’elevata complessità genetica e variabilità genotipica associata alla sindrome di Down, rispetto alle malattie genetiche causate dal difetto di un singolo gene. Questo ha reso difficile la ricerca legata a questa specifica patologia e la correzione genetica sembrava impresa impossibile. I ricercatori hanno però trovato una via di ingresso sfruttando la funzione naturale di un gene chiamato Xist (da X-inactivation gene), che normalmente “spegne” uno dei due cromosomi X che definiscono il sesso femminile. Osservando i meccanismi con cui il gene agisce, gli studiosi hanno quindi pensato di servirsi di questa sua abilità, trasferendolo, tramite un enzima, in cellule staminali pluripotenti in coltura derivate da pazienti affetti da sindrome di Down. E il gene Xist ha svolto il lavoro che ci si aspettava da lui: ha rivestito la terza copia del cromosoma 21 silenziandolo, ossia modificando la sua struttura in modo tale che non possa più esprimere geni. Confrontando cellule con e senza il cromosoma supplementare silenziato, si è osservato che il gene Xist aiuta a correggere gli schemi insoliti di crescita e di differenziazione cellulare osservati nelle cellule derivate da persone con la sindrome di Down.
La notizia ha rapidamente fatto il giro della comunità scientifica e non solo, poiché, sulla lunga distanza, apre scenari inediti per una terapia in grado di intervenire su una patologia che, solo in Italia, si stima colpisca circa 38mila persone, di cui il 61% ha più di 25 anni.
Plaude l’Associazione Scienza & Vita, che ricorda come «la medicina ha il compito di curare e non di bypassare il problema attraverso la soppressione del concepito con difetti genetici. Per questo la scoperta pubblicata su Nature è un altro passo avanti verso il curare e non l’eliminare il malato». Paola Ricci Sindoni e Domenico Coviello, presidente e copresidente nazionali, hanno sottolineato l’importanza della ricerca che «una volta superata la fase di sperimentazione, pone le basi per trovare i bersagli terapeutici e mettere a punto cure “ad hoc”. Si dimostra ancora una volta che esiste una scienza che lavora per l’uomo e non contro l’uomo».
Emanuela Vinai da www.avvenire.it
da Baltazzar | Ago 27, 2013 | Cultura e Società, Post-it, Segni dei tempi
di Gianfranco Amato da www.lanuovabq.it

Per capire meglio quali possono essere le surreali conseguenze di una legislazione antiomofobia, basta dare un’occhiata a quello che sta accadendo proprio in questi giorni negli Stati Uniti. Due casi simbolo possono rendere l’idea.
Il primo è accaduto nell’Oregon, dove i coniugi Aaron e Melissa Klein, una coppia cristiana che gestisce una pasticceria specializzata in torte nuziali – il locale si chiama “Sweet Cakes” – è finita davanti alla Sezione Diritti Civili dell’Oregon’s Bureau of Labor and Industries , e si trova oggi sotto inchiesta per la violazione dell’Oregon Equality Act 2007, la legge contro le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale. I due si trovano nei guai a seguito di un anti-discrimination complaint, un formale ricorso proposto da Rachel and Laurel Bowman-Cryer, lesbiche che hanno deciso di contrarre regolare matrimonio. I motivi della denuncia risiedono nel fatto che di fronte alla richiesta delle due omosessuali di preparare la torta nuziale, i coniugi Klein hanno opposto il proprio rifiuto, invocando l’obiezione di coscienza per motivi religiosi.
Aaron Klein ha avuto l’impudenza di rilasciare la seguente dichiarazione: «Io credo che il matrimonio sia un’istituzione religiosa creata da Dio, come si legge in quel passo della Genesi in cui si dice che un uomo lascerà i propri genitori per unirsi a sua moglie; questo per me è il fondamento e la base del matrimonio». Questa frase non gli è costata solo la denuncia, ma anche una gragnola di insulti, improperi e persino minacce di morte, oltre al boicottaggio e picchettaggio del locale, con conseguente perdita economica di quasi il cinquanta per cento dei ricavi. Oltre una furiosa reazione da parte dei gruppi gay. Con buona pace dello spirito di tolleranza degli asseriti “discriminati” per motivi sessuali. Klein ha comunque dimostrato di essere un cristiano tutto d’un pezzo: «Siamo in difficoltà, ma in fondo la mia fede è per me più importante dei soldi; io continuerò a difendere ciò in cui credo, e non penso che qualcuno possa costringermi a compiere atti contro la mia religione». Quello della torta nuziale per matrimoni gay è diventato un problema che comincia a diffondersi negli USA, visto che anche nel Colorado un collega dei Klein, titolare di una pasticceria, è finito per i medesimi motivi dinanzi la Colorado’s Civil Rights Commission (l’udienza è fissata per il prossimo mese), e secondo la legislazione di quello Stato, il malcapitato pasticciere rischia persino la galera.
Il secondo caso che merita di essere citato, come esempio, è quello di un’altra coppia di coniugi cristiani dell’Iowa. Si tratta di Dick e Betty Odgaard proprietari della Gorts Haus Gallery, un locale destinato allo svolgimento di celebrazioni nuziali. Anche in questo caso , il rifiuto di consentire al signor Lee Stafford ed al suo partner di utilizzare il proprio locale per il matrimonio, ha fatto finire gli Odgaard davanti alla Iowa Human Rights Commission. Anche ai due non è stata risparmiata l’onta del pubblico ludibrio e del linciaggio, attraverso uno stillicidio di messaggi che hanno raggiunto il livello di una sessantina di email e una trentina di telefonate al giorno. I più educati di quei messaggi erano di questo tenore: «Come vi sentite sapendo che l’America e il mondo intero sarebbe un posto migliore senza di voi?». Inevitabile, poi, il boicottaggio economico con le conseguenti perdite d’incassi. Anche in questo caso a nulla è servita l’invocazione del diritto alla libertà di credo religioso. La signora Odgaard aveva, infatti, tentato di spiegare che il rifiuto di concedere il locale era esclusivamente fondato «su motivi di carattere religioso» e non altro: «Noi vogliamo che la gente sappia che abbiamo agito così per la nostra fede, per le nostre convinzioni». Per il futuro sposo Lee Stafford le motivazioni di carattere religioso degli Odgaard non hanno alcun rilievo: «Il fatto è che noi siamo stati discriminati per il nostro orientamento sessuale; il codice dello Iowa sancisce che chi gestisce locali aperti al pubblico non può porre in essere simili discriminazioni».
In effetti questo prescrive la legge, e molto probabilmente Dick e Betty Odgaard verranno condannati. A meno che non si trovi nello Stato di Iowa un giudice disposto a riconoscere ai cristiani il diritto all’obiezione di coscienza. La qual cosa potrebbe non essere impossibile se si considera un fatto. Il matrimonio omosessuale nell’Iowa è stato reso legale il 27 aprile 2009 a seguito di una sentenza della Corte Suprema di quello Stato nel celebre caso Varnum v. Brien. Il 2 novembre 2010, in occasione delle elezioni per il rinnovo, i tre giudici della Corte che all’unanimità si erano pronunciati a favore delle nozze gay, David Baker, Michael Streit e Marsha Ternus, sono stati puniti dal voto elettorale e non più riconfermati nell’alta carica, grazie anche alla dura campagna promossa dal National Organization for Marriage, un’organizzazione che si batte in difesa del matrimonio naturale tra persone di sesso opposto. In America contro i giudici creativi esiste almeno questo rimedio.
da Baltazzar | Ago 25, 2013 | Chiesa, Liturgia, Post-it
Commento al Vangelo della XXI Domenica del T.O.
di don Antonello Iapicca da www.zenit.org
Una «porta stretta» ci separa dalla felicità: “la porta della fede che introduce alla vita di comunione con Dio e permette l’ingresso nella sua Chiesa è sempre aperta per noi. E’ possibile oltrepassare quella soglia quando la Parola di Dio viene annunciata e il cuore si lascia plasmare dalla grazia che trasforma” (Benedetto XVI). La “porta stretta” è quella della Chiesa. Ad essa hanno bussato generazioni di pagani che volevano vivere come i cristiani.
In questi avevano visto le primizie di una vita diversa. Sapevano che, dietro quella “porta”, vi era un Regno che non aveva eguali sulla terra. La luce che risplendeva in questo Popolonuovo offriva a tutti una nuova speranza di “salvezza”, diversa dalle religioni, dalle filosofie, dalla politica e dai divertimenti: “quando irruppe il cristianesimo, la sua superiore capacità di affrontare i problemi cronici dell’Impero Romano diventò presto evidente e giocò un grande ruolo nel suo definitivo trionfo”(Rodney Stark).
Crollavano certezze e, nella decadenza politico-morale dell’Impero Romano, la giovane Chiesa emergeva come una roccia indistruttibile. La testimonianza che spesso diveniva martirio spalancava il Cielo in una terra che odorava di morte. Se i cristiani potevano offrire gratuitamente la vita per un nemico, allora significava che la vita eterna da loro predicata era l’unica speranza attendibile. E poi lo si vedeva nei loro volti, in quegli sguardi capaci di cantare sereni davanti agli aguzzini e ai leoni che ne ghermivano la vita.
Per questo, nel “tale” che “chiede” a Gesù se “sono pochi quelli che si salvano”, possiamo riconoscere tutti gli uomini di ogni generazione che hanno cercato nei cristiani la risposta al senso della propria vita. E la Chiesa, con Gesù, non cessa di rispondere annunciando una “porta stretta”: gli apostoli predicano da sempre Cristo crocifisso, perché è la Croce la porta attraverso la quale il Signore è entrato nel Cielo, conquistando per tutti la “salvezza”. Al Signore e ai suoi discepoli non interessa la contabilità dei salvati. Egli ha dato la vita per tutti, e con il Padre, vuole che tutti siano salvati. Ma mai violentando la libertà.
Non vi è allora altro cammino che quello, angusto, della Croce, dove la libertà dell’uomo incontra quella di Dio. Su di essa il Padre offre la “salvezza” mentre l’uomo può liberamente accoglierla: “attraversare quella porta comporta immettersi in un cammino che dura tutta la vita. Esso inizia con il Battesimo e si conclude con il passaggio attraverso la morte alla vita eterna, frutto della risurrezione del Signore Gesù” (Benedetto XVI).
Nelle parole di Gesù vi è rappresentato proprio questo cammino: esso è sintetizzato dal suoinizio – quando si bussa per la prima volta alla porta stretta della Chiesa – e dalla sua fine – quando si bussa alla porta altrettanto stretta del Cielo. Il cammino tra queste due porte è riassunto nella “conoscenza”, che significa relazione intima d’amore. Attraverso il catecumenato la Chiesa gestiva nei catecumeni l’uomo rinnovato ad immagine di Cristo. Un cristiano, infatti, “viene da” Cristo, e con Lui “lotta per entrare” nella vita attraverso la porta stretta della Croce. Al termine di ogni giorno come alla sera della vita, sulla soglia del Regno sarà “conosciuto” da Colui del quale ha conservato l’immagine, pur in mezzo a mille battaglie e cadute.
Anticamente, all’interno della porta grande di una città ve ne era una di servizio, più piccola, che veniva chiusa per ultima. Era proprio la Croce, la porta che attendeva Gesù a «Gerusalemme», e ogni suo discepolo nella propria «città». Solo attraverso di essa possiamo entrare ogni giorno nel “Regno di Dio”, che si realizza nella “città” dove siamo chiamati a vivere: al banco di scuola o dietro la scrivania dell’ufficio, a pranzo e a cena con moglie e figli e, di notte, distesi sul talamo nuziale. Ovunque si schiude per noi il pertugio a forma di Croce attraverso il quale giungere al prossimo e “servirlo”.
Viviamo in un tempo di Grazia donatoci per convertirci, sino al giorno in cui la porta sarà «chiusa». Forse lambiamo la serietà della vita, non accettiamo che vi sia un giudizio e che vi siano momenti irripetibili per amare che si aprono e si chiudono: su di essi saremo giudicati. Dio, infatti, apre ogni giorno delle porte strette, con la forma della moglie o del marito; magari non ci piacciono e non le accettiamo, ma se le sfuggiamo perderemo l’intimità con Cristo, “allontanati” da Lui e dalla “salvezza”, la felicità che non si corrompe.
Forse, chiedendoci “quanti” si salvino, cerchiamo spiegazione allo scandalo dell’amore di Dio che fa sorgere il sole su buoni e cattivi e non estirpa il male; mentre questa domanda dovrebbe incendiare il cuore di zelo per la salvezza di tutti: la Chiesa non può restare indifferente anche a uno solo che si perda. Forse ci indigniamo anche noi, ed è un modo per eludere la questione fondamentale: non importa “quanti si salvino”, ma se io sarò tra di loro.
La storia ci dice che non siamo salvi affatto. Quante volte abbiamo «cercato» di «entrare» nella comunione e nella pace con i fratelli ma «non ci siamo riusciti»; la sapienza della carne ci ha abituato a passare per la porta larga della soddisfazione del proprio “io”; così, di fronte all’urgenza di donarci per salvare il matrimonio o per non perdere nostro figlio, non sappiamo da dove cominciare. Il peccato ci ha fatto sperimentare la morte e, come i progenitori «scacciati fuori» dalla casa del «Padrone», «non abbiamo forza» di «lottare» per amare.
Allora ci affrettiamo a «bussare», pregando e chiedendo consigli, ma è solo il tentativo di giustificarci con le nostre «opere». Certo Gesù ha «insegnato» nelle nostre chiese, è stato «presente» quando «abbiamo mangiato e bevuto» nelle liturgie; ma non saremo giudicati in base al numero di messe a cui abbiamo partecipato: dinanzi alla «porta stretta» della Croce, infatti, scopriamo di aver sepolto “iniquamente” nella superbia l’immagine di Gesù, nonostante i riti e gli impegni in parrocchia. Il Padre non può riconoscere chi non ama come il suo Figlio, anche se ha il suo nome sempre tra le labbra…
Ma è ancora giorno, e Gesù “passa” accanto a noi “insegnando” come convertirci, perché il «pianto e lo stridore di denti» che sperimentiamo oggi a causa dell’orgoglio, non ci accompagnino domani e per l’eternità. La salvezza è dischiusa dinanzi a noi oltre la «porta stretta» del sepolcro del Signore. La forza dirompente della sua risurrezione ha rotolato via la pietra che ci impauriva e ci attira verso di Lui.
Lasciamo che il Signore tagli via quanto in noi è troppo grande e ci impedisce di passare per la “porta stretta”; che, attraverso persone ed eventi, ci faccia scendere dai «primi» posti della superbia, all’«ultimo» dell’umiltà che ci salva. Il suo amore può “allontanare” da noi l’uomo vecchio “operatore di iniquità”, per farci entrare nel Regno di Dio e sederci a «mensa» in compagnia dei Patriarchi e dei “profeti”, sperimentando come loro la stessa fedeltà di Dio. Con noi giungeranno moltitudini “da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno”, da ogni estremo confine della terra dove l’annuncio del Vangelo li ha “salvati” come ha “salvato” noi.
da Baltazzar | Ago 23, 2013 | Cultura e Società, Post-it
di Renzo Puccetti da www.lanuovabq.it

06/8262. Cari colleghi medici, appuntatevi questo numero, è il telefono per segnalare le persone scomparse alla trasmissione “Chi l’ha visto?”. Ci servirà quando vedremo le nostre sale d’attesa piene come al solito, ma tra i tanti volti non ci sarà più nemmeno un paziente; uomini, donne, anziani, giovani, poveri e facoltosi, tutti accomunati dal medesimo provvedimento: cancellati per ordini superiori. Avrà provveduto a farlo il prossimo codice di deontologia medica dove si annuncia che la parola “paziente” sarà abolita e sostituita dall’espressione “persona assistita”. Il presidente della Federazione degli Ordini dei Medici, nonché senatore in quota Pd, dice che il provvedimento servirà a rendere evidente il «diritto a ricevere cure e assistenza senza passività» e «ad essere al centro del sistema». C’è il rammarico di avere atteso così a lungo prima che una tale trovata degna del miglior monsieur de la Palice vedesse la luce. Bastava così poco e chilometriche liste di attesa per visite ed esami si sarebbero disciolte come neve al sole se allo sportello, al posto del paziente, si fosse presentata «la persona assistita», finalmente divenuta attivo centro del sistema.
Al di là di certa amara ironia l’abolizione del termine «paziente» ha delle implicazioni non indifferenti. Per comprenderlo ci si deve domandare: chi è il paziente? Non è colui che deve attendere senza lamentarsi l’arrivo del medico o il giungere della sperata guarigione, egli è il sofferente (pàtior in latino, paskho in greco). Eliminare il termine è un obiettivo di lunga data di quel vasto e trasversale fronte consumeristico volto a ridurre la relazione medico-paziente ad una transazione contrattuale uguale a tutte le altre. Ci hanno provato in passato ideando l’espressione “cittadino utente”, un Minotauro lessicale adottato da taluni zelanti funzionari sanitari frutto della crasi tra il furore sanculotto e la rassegnazione da municipalizzata. Il distacco con la nobiltà e la storia del termine “paziente” era troppo evidente.
Ora ci riprovano con “persona assistita”, termine che fa scomparire una dimensione essenziale: la realtà della sofferenza. In tanti ambiti le persone hanno bisogno di assistenza, ci rivolgiamo al legale per l’assistenza giuridica, all’interprete per l’assistenza linguistica, in molti ambiti siamo e rimaniamo persone quando cerchiamo forme diverse di assistenza. Ma è la sofferenza e la malattia che spingono la persona a cercare aiuto in un’altra persona in cui si pone una tale fiducia da essere disposti ad abbattere le naturali barriere di pudore e riservatezza. È questa una cosa che non si è disposti a fare con nessun altro. Sì, abbondano le trasmissioni televisive dedicate alla medicina, gli articoli sulle riviste, c’è Internet, ma quasi sempre il paziente non riesce ad interpretare le informazioni e così accade che si rivolga al medico perché quello che aveva letto su Wikipedia lo aveva fatto morire dallo spavento.
Potrò sbagliare, ma ho la convinzione che la rimozione del paziente sia anche frutto di quella mentalità funzionalistica che vede nella persona malata un essere di minore valore, una mentalità che non crede nel valore ontologico di ciascun essere umano indipendentemente dalla sua condizione. Da qui si procede ad escogitare un florilegio di litoti: non vedente, non udente, diversamente abile e via col liscio. Non che ci preoccupi l’uso del termine persona in sé, ma in un’epoca in cui si vuole affermare che non tutti gli esseri umani sono persone, che la dignità di persone è legato al possesso di certi attributi, che se si è nella condizione di embrione, di feto, di neonato, se si soffre di Alzheimer, sindrome di Down, stato vegetativo non si è persone, allora drizzare le antenne diventa doveroso.
Davanti al paziente, di fronte al sofferente, è difficile sostenere che la risposta debba consistere nella soddisfazione dei desideri, perché se c’è un paziente, allora c’è anche un medico, una persona che avendo la necessaria conoscenza cura, come indica il doppio significato della radice avestica della parola (madh). È perché è anch’egli un essere umano che il medico è pari al paziente in dignità e però svolge un ruolo ben specifico: difendere l’integrità del paziente in scienza e coscienza, disposto a rompere l’alleanza terapeutica, pur di difendere la propria integrità di uomo e di medico. Per simmetria alla scomparsa del paziente dovrà giocoforza corrispondere la scomparsa della specificità delle singole figure professionali, risucchiate nell’indistinto calderone delle “persone assistenti”. Si legge sui giornali che i medici ne hanno discusso per mesi e che la decisione è stata unanime. Sarà così, ma quel che so è che di un dibattito di tale importanza per tutti i medici non vi è traccia nella front page del sito della Federazione degli Ordini dei Medici. Se il confronto è stato così ampio come dice il Corriere rimane per me un mistero che né io, né gli altri quattro medici della mia famiglia, né una serie di colleghi che ho contattato ne sapessero alcunché.
Lancio una proposta al presidente Bianco, senatore di un partito che anche nel nome si dice democratico e che ha introdotto la consultazione della base più ampia per scegliere il candidato premier. Perché non dare una prova di democrazia domandando ai medici se vogliono conservare il termine che hanno pronunciato sempre?
da Baltazzar | Ago 23, 2013 | Chiesa sofferente, Post-it, Testimonianze
di Rodolfo Casadei da www.tempi.it
«In Pakistan ci sono forze che puntano all’instabilità. E non è solo colpa degli estremisti islamici. Ma l’esempio di mio fratello ci dà il coraggio di vivere in qualsiasi condizione»
Paul Bhatti, ex ministro dell’Armonia nazionale e degli Affari delle minoranze e medico, è il fratello maggiore di Shahbaz Bhatti, il politico e ministro cattolico pakistano ucciso dagli estremisti islamici nel marzo del 2011 a Islamabad per la sua azione in difesa delle minoranze religiose. Paul, che è stato invitato a rendere la sua testimonianza alla Giornata dei Movimenti il 19 maggio scorso a Roma, è oggi ospite per la seconda volta del Meeting per l’Amicizia fra i popoli. Qui anticipa i temi che tratterà nel corso dell’appuntamento riminese.
Dottor Bhatti, lei ha testimoniato a Roma alla Giornata dei Movimenti. Che giudizio dà di questa sua esperienza?
Per me è stata una vera sorpresa ricevere l’invito mentre mi trovavo in Germania. Era una cosa bella, e come tale l’ho vissuta. Da una parte è stato un onore parlare davanti a tante persone, dall’altra è stato molto utile perché la testimonianza di fede forte di Shahbaz, che ho rievocato, è un esempio da seguire per i giovani di oggi. La vita e la morte di Shahbaz significano che la nostra fede e la Chiesa sono vivi anche oggi, che ci sono persone come mio fratello che credono, vivono e muoiono per questa fede. Spero inoltre di poter collaborare in futuro coi movimenti ecclesiali che ho incontrato, non solo per le nostre comunità cristiane pakistane, ma per tutte le persone che sono emarginate e maltrattate in nome della religione.
Sono passati due anni e mezzo dall’assassinio di suo fratello. Che legame c’è ora fra di voi?
Io ho avuto sempre un rapporto particolare con lui quando era vivo. In famiglia eravamo sei fratelli, e io ero il maggiore. Lui mi prendeva a modello: studiava per essere il primo della classe come me. Accettava i miei consigli, c’era un affetto molto forte fra noi. Quando mi sono trasferito in Italia con una borsa di studio, lui ha sofferto per l’interruzione della nostra relazione. Quando tornavo in Pakistan lui sospendeva tutti i suoi impegni e passava il tempo con me a chiacchierare. Andavamo a passeggiare in campagna e lui mi raccontava tantissime cose, ma soprattutto la sua visione della Chiesa e di Gesù Cristo, quello che lui avrebbe voluto fare. Mi sembrava solo l’esaltazione di un giovane, ma parenti e amici mi dicevano: «Attento, Shahbaz è una persona particolare, ha un grado di intelligenza e di fede molto diverso da quello di un ragazzo comune». Negli ultimi anni la sua fede era sempre più intensa; pregava col Rosario, e quando gli comunicavo qualche piccolo problema in Italia mi diceva: «Pregherò, e vedrai che il problema si risolverà». Adesso tengo molte fotografie di lui, in soggiorno e in ufficio. Ogni tanto, quando mi trovo in difficoltà, ne guardo una e parlo con lui: «E adesso cosa facciamo?». Tantissime volte quando dovevo parlare col primo ministro, o prendere una decisione importante come nel caso di Rimsha Masih, prima parlavo con lui: «Shahbaz, adesso tu cosa faresti?». Soltanto quando penso al fatto che è stato assassinato mi rendo conto che è morto, altrimenti tantissime volte parlo con lui come se fosse una persona viva. E molto allegra, com’è sempre stato.
Incontra spesso persone a lei sconosciute che invece hanno frequentato suo fratello? Che cosa le dicono?
La cosa che mi meraviglia di più sono le tante persone importanti con cui Shahbaz aveva familiarità molto tempo prima di diventare ministro. Noi eravamo una famiglia comune e lui apparteneva a una minoranza, non aveva allora cariche politiche. Eppure persone ricche e importanti lo conoscevano. Quando aveva solo 24-25 anni i suoi ospiti erano già le persone più elevate della società: politici, governatori, ministri, parlamentari. E anche oggi la sua figura affascina: nei giorni scorsi a Islamabad trecento giovani cristiani appartenenti anche a classi elevate si sono riuniti e mi hanno chiamato dicendo che volevano seguire il suo cammino. La settimana prossima celebreranno una Messa durante la quale giureranno di mettersi alla sequela della missione di mio fratello Shahbaz. Sono trecento studenti.
Lei è stato ministro dell’Armonia nazionale e degli Affari delle minoranze per due anni. Che bilancio fa della sua esperienza?
Direi positivo. E ho intenzione di continuare l’opera iniziata anche senza essere più ministro. Durante il mio mandato ho avuto un buon dialogo con tantissimi leader religiosi, coi vertici dello Stato e coi diplomatici stranieri. Oggi la comunità internazionale è più decisa nel fornirci appoggio: la settimana prossima sono inviato al parlamento britannico a Londra a parlare di libertà religiosa e di minoranze. Anche se non sono più ministro sarò ricevuto con lo stesso protocollo, e questo significa in qualche modo che loro hanno apprezzato quello che abbiamo fatto. Il mio più grande successo è stato la soluzione del caso di Rimsha Masih.
Perché invece Asia Bibi è ancora in prigione?
Il caso di Rimsha Masih l’ho seguito sin dall’inizio personalmente. Il caso di Asia Bibi, dopo l’assassinio del governatore del Punjab e di mio fratello, ha preso una piega particolare. Io credo che questo caso possa essere ancora risolto, ma purtroppo è stato strumentalizzato da tantissime Ong per farsi pubblicità e raccogliere fondi. Io finora non ho ricevuto nessuna richiesta di seguire il suo caso. Comunque proporrei una strategia diversa da quella che si sta seguendo attualmente.
Una strategia diversa?
Sì, completamente diversa.
Recentemente in Pakistan un attentato contro un bus di studentesse ha provocato una strage a Quetta. Perché succedono queste cose?
Le ragazze sono state attaccate in quanto sciite, ma non è una questione di persecuzione religiosa. In Pakistan ci sono forze molto attive che puntano all’instabilità. Non sempre si tratta di fanatismo religioso o di estremismo: spesso ci sono dietro grandi organizzazioni o Stati stranieri che vogliono creare instabilità in Pakistan.
È possibile far cambiare idea agli estremisti? Cosa si dovrebbe fare?
Non è questo il punto. Gli estremisti sono organizzati in gruppi che sono il risultato di un lungo lavoro di formazione e di preparazione da parte di sostenitori di certe ideologie. Io non punto il dito contro il ragazzo o il fanatico in genere che si fa esplodere o che uccide: questi soggetti sono stati cresciuti sin da piccoli in base a una determinata ideologia, è stato fatto loro il lavaggio del cervello in scuole che accoglievano i più poveri. È gente che non conosce nulla del mondo e non ha gli strumenti né la capacità per valutare. Si tratta di andare alle radici, di prosciugare le sorgenti che riescono a creare questo tipo di scuole dove si insegna l’odio ai bambini.
Lo Stato potrebbe fare di più per proteggere i cristiani, gli sciiti o le studentesse da questa violenza?
Io credo di sì, ma per fare di più lo Stato deve avere una sua integrità e stabilità. Sfortunatamente questi gruppi estremisti agiscono in modo che nessun governo diventi stabile e forte. I politici dedicano tutti i loro sforzi a sopravvivere al terrorismo, e non fanno altro.
Oggi i cristiani sono più accettati o meno accettati nella società pakistana di quando era vivo Shahbaz?
Dipende dal gruppo sociale al quale appartengono. Molti cristiani sono anche persone economicamente emarginate, discriminate perché fanno i lavori più umili, e vivono in contesti degradati e pericolosi. Finché questi cristiani non vengono aiutati, quel tipo di discriminazione e di violenze continuerà a esistere. Al livello di noi professionisti, invece, i cristiani sono accettati come gli altri.
Come vivono i cristiani la loro condizione di evidente persecuzione?
Alcuni sono ottimisti, perché hanno una fede forte. Però bisogna dire che l’attuale condizione dei cristiani non è soltanto colpa del governo e colpa di estremisti: anche noi cristiani siamo colpevoli della situazione. Le migliori scuole del Pakistan sono cristiane, appartengono alla Chiesa, ma non le abbiamo usate per educare i nostri emarginati; Asif Ali Zardari e Yousaf Gilani, rispettivamente primo ministro e presidente, hanno studiato nelle scuole cristiane, come me e Shahbaz. Ma pochi o nessuno dei nostri cristiani poveri ha studiato a quel livello.
Come vede il futuro del cristianesimo in Asia? Come dovrebbe essere condotta l’evangelizzazione in questo continente?
È importante potenziare il dialogo fra le grandi religioni. Mettere in evidenza i valori comuni dell’amore per gli esseri umani e allentare le loro paure nei nostri confronti: credono che vogliamo distruggere le loro religioni per convertirli alla nostra. Dobbiamo trasmettere il messaggio che il cristiano non ha per obiettivo convertire l’altro, ma portare l’amore di Cristo a tutti e l’amore per il prossimo.
Lei è stato invitato anche quest’anno al Meeting di Rimini. Di cosa parlerà ai giovani che saranno presenti?
Della fede. E di Shahbaz, di come, pur avendo risorse limitate, si è impegnato e non ha avuto mai paura di niente. La fede ci dà il coraggio di vivere anche in condizioni molto difficili, ci toglie la paura. La società materialista di oggi ci insegna a vivere solo per noi stessi, ma quelli come mio fratello testimoniano che il modo giusto di vivere è un altro. È quello di vivere per un Altro e per gli altri.