Attacco contro i cristiani 175 case a fuoco a Lahore

Attacco contro i cristiani 175 case a fuoco a Lahore

da Avvenire.it

 È riesplosa in tutta la sua ferocia la violenza contro la minoranza cristiana in Pakistan dove sabato una folla inferocita ha appiccato il fuoco a 175 case per vendetta dopo un sospetto caso di profanazione del Corano. Il nuovo “pogrom” è avvenuto in un quartiere di Lahore, nella provincia centrale del Punjab, popolato da cristiani che, tra i 180 milioni di pachistani, sono appena l’1,5 per cento.

La vicenda è coincisa con una nuova strage a Peshawar dove una bomba sotto il pulpito di una moschea ha ucciso sei persone, tra cui lo stesso imam. Non sarebbe opera dei talebani che hanno condannato l’attentato con una telefonata all’ANSA.
La rabbia contro i cristiani era già scoppiata venerdì quando un corteo di tremila musulmani aveva dato l’assalto al rione cristiano denominato Joseph Colony dopo che un giovane era stato denunciato per blasfemia. Di fronte alla furia dei radicali musulmani, i residenti erano scappati lasciando le loro case incustodite. Oggi i dimostranti sono tornati, “armati di taniche di kerosene” e dopo essere entrati nelle abitazioni e gettato in strada i mobili, hanno appiccato il fuoco. Non contenti, hanno poi bruciato tutte le masserizie in strada.

A poco o nulla è servito l’intervento della polizia. Il commissario del quartiere di Badami Bagh e un altro agente sono stati feriti negli scontri con la moltitudine di esagitati.

Il feroce attacco è stato scatenato dal sospetto che un giovane residente nella colonia, di nome Savan, avesse ripetutamente insultato il Profeta Maometto. Non è chiara la circostanza che ha fatto scattare la denuncia da parte di un vicino di casa, ma l’uomo è stato arrestato dalla polizia.

Ciò non è bastato a placare gli animi. I dimostranti hanno marciato contro la casa del sospetto profanatore e hanno picchiato selvaggiamente il padre. Poi con bastoni e lancio di pietre hanno seminato il terrore nel quartiere dove abitano circa 130 famiglie.

La violenza ricorda quella del luglio 2009 quando nella città di Gojra, a circa 200 chilometri da Lahore, un gruppo di estremisti islamici bruciò vivi otto cristiani e incendiò circa 60 case di povere famiglie.

La Commissione pachistana per i diritti umani (Hrcp), una delle principali organizzazioni non governative, ha accusato le autorità pachistane “di non essere in grado di proteggere una minoranza che è sotto assedio” e “di non aver imparato nulla da precedenti incidenti come quelli di Gojra e Shantinagar”. In un comunicato esorta ad arrestare i responsabili delle violenze “che sono facilmente identificabili da riprese televisive”.

Sia il governo centrale di Islamabad che quello della provincia del Punjab hanno aperto una inchiesta. È stato anche annunciato un risarcimento per gli atti vandalici.

Attacchi di questo genere sono abbastanza frequenti in Pakistan dove l’accusa di blasfemia, punita con una severa legge che prevede la pena di morte, è spesso utilizzata come strumento di persecuzione contro i cristiani, soprattutto per ottenere le proprietà immobiliari. Il caso più famoso e che è salito alla ribalta mondiale è quello di Asia Bibi, la madre cattolica arrestata nel 2009 e condannata alla pena capitale per aver insultato Maometto. A difesa della donna si erano pronunciati il governatore del Punjab, Salmaan Taseer, e il ministro cristiano delle Minoranze, Shahbaz Bhatti, entrambi uccisi nel 2011 per aver criticato l’antiquata e draconiana legge sulla blasfemia.

La missione del nuovo Papa: vincere il relativismo

La missione del nuovo Papa: vincere il relativismo

di Magdi Cristiano Allam

La missione del nuovo Papa: vincere il relativismo

(da Il Giornale)

Alla morte di Giovanni Paolo II, ospite a Porta a Porta su Rai1, dissi: “Il Papa ha riempito le piazze ma si sono svuotate le chiese. Il nuovo Papa dovrà rimettere al centro i dogmi della fede per riempire le chiese anche a costo dell’impopolarità”. I fatti hanno attestato che Benedetto XVI ha denunciato la “dittatura del relativismo” come il “male profondo della nostra epoca”, toccando l’apice con la condanna dell’islam nel discorso di Ratisbona del 12 settembre 2006.

Questa data segna l’inizio della controffensiva della Segreteria di Stato che ha ridotto il Papa a ostaggio della “ragion di Stato” che governa il Vaticano all’insegna del principio “bisogna andare d’accordo con tutti e mai e poi mai crearsi dei nemici”. Fu così che dopo che Giovanni Paolo II si spinse fino a baciare il Corano il 14 maggio 1999 ricevendo una delegazione di religiosi cristiani e musulmani iracheni, Benedetto XVI pose la mano sul Corano pregando in direzione della Mecca all’interno della Moschea Blu di Istanbul affiancato dal Mufti della Turchia il 30 novembre 2006.

Ebbene, alla vigilia del Conclave che sceglierà il nuovo Papa, è da Ratisbona che bisogna ricominciare nella sfida epocale contro la “dittatura del relativismo” che oggi vede l’Europa capitolare, per un verso, nei confronti della dittatura finanziaria che mercifica la persona e, per l’altro verso, nei confronti della dittatura islamica che imperversa ai nostri confini.

Se tutti noi paghiamo sulla nostra pelle le conseguenze della dittatura finanziaria che uccide l’economia reale, condanna a morte le imprese, impoverisce le famiglie e nega un futuro dignitoso ai giovani, la dittatura islamica rappresenterà il colpo di grazia alla moribonda civiltà europea. Ci siamo dimenticati che l’identità stessa dell’Europa

è stata forgiata dalle guerre di liberazione dalle occupazioni islamiche che si sono succedute nel corso dei secoli, iniziando dalla battaglia di Poitiers del 732 vinta da Carlo Martello. Fu allora che nel Chronicon il monaco lusitano Isidoro Pacensis parlò per la prima volta di “europei”: “Prospiciunt Europenses Arabum tentoria, nescientes cuncta esse pervacua» (Gli europei osservano le tende degli arabi, non sapendo che tutte erano vuote). Poi dalla Reconquista nel 1492 quando i re cattolici Ferdinando e Isabella posero fine a 750 anni di dominazione islamica. Quindi dalla battaglia di Lepanto nel 1571 quando la flotta della Lega Santa, organizzata dal papa Pio V, sconfisse la flotta dell’Impero ottomano. Infine dalla battaglia di Vienna del 1683, quando l’esercito polacco-austro-tedesco sconfisse l’esercito dell’Impero ottomano, grazie al successo di papa Innocenzo XI nel ricreare la Lega Santa delle nazioni cristiane, affidando questa missione al cappuccino Marco d’Aviano, beatificato da Giovanni Paolo II il 27 aprile 2003.

Se è vero che Benedetto XVI è stato sopraffatto dalla “ragion di Stato” che è riuscita a bloccare il riscatto dalla “dittatura del relativismo” dopo Ratisbona, è altrettanto vero che egli resta tra noi anche se come “Papa emerito”. Per la prima volta nella nostra Storia contemporanea avremo due Papi, entrambi depositari di una investitura divina dal momento che il grande elettore del Conclave è lo Spirito Santo. Se già oggi la Chiesa è sconvolta dalle divisioni interne alimentate da scandali di varia natura, il rischio di una frattura crescerebbe se il nuovo Papa dovesse sposare il relativismo anziché combatterlo. Ecco perché oggi più che mai la salvezza della Chiesa dipende dalla scelta di un Papa che l’affranchi dalla dittatura finanziaria ma soprattutto dalla dittatura islamica.

31mila firme per liberare Asia Bibi

31mila firme per liberare Asia Bibi

Il direttore di Avvenire ha consegnato all’ambasciatrice del Pakistan la petizione in favore della donna cattolica accusata di blasfemia

da Avvenire.it

«TrenUna manifestazione per Asia Bibitunomila firme per chiedere la liberazione di Asia Bibi, la donna cattolica pachistana arrestata con l’accusa di avere infranto la legge sulla blasfemia. La petizione, promossa dal quotidiano `Avvenire´, ha vissuto oggi il suo momento più importante con la consegna all’ambasciatrice del Pakistan, da parte del direttore Marco Tarquinio, degli scatoloni contenenti le firme inviate dai lettori. A sottoscrivere l’iniziativa, ha infatti ricordato Tarquinio, è stata «tanta gente comune, cattolici e non credenti, ma anche i vertici istituzionali italiani: il premier Mario Monti e i presidenti di Camera e Senato, Gianfranco Fini e Renato Schifani». A ricevere le firme è stata l’ambasciatrice della repubblica islamica del Pakistan in Italia, signora Tehmina Janjua. Erano presenti anche l’onorevole Luisa Capitanio Santolini, presidente dell’Associazione parlamentare amici del Pakistan, e il direttore di Tg2000 Stefano De Martis: l’emittente cattolica già nel 2010 aveva lanciato una campagna di sensibilizzazione. «Il processo è in corso e non posso interferire – ha detto l’ambasciatrice Tehnina Janjua -, ma posso assicurarvi che queste firme saranno inviate alle autorità del mio Paese e che trasmetteremo le preoccupazioni del popolo italiano per Asia Bibi». L’ambasciatrice ha detto che «esistono molte incomprensioni sul Pakistan», un Paese «molto più multiforme di quanto appaia sui mass media. Qualcuno ci confonde con Paesi nei quali non è nemmeno consentita la costruzione di chiese. Stiamo vivendo un periodo difficile, il terrorismo ha provocato finora 40mila vittime tra i civili e 7mila tra gli uomini della sicurezza». Ma la Costituzione pachistana «afferma che tutti i cittadini sono uguali. Quello di cui c’è bisogno è che le leggi non vengano male interpretate o trasformate in strumento di abuso». All’onorevole Luisa Capitanio Santolini, che ha ricordato come il caso di Asia Bibi abbia suscitato preoccupazione non solo in Italia ma in molti Paesi europei e negli Usa, «danneggiando l’immagine del Pakistan e oscurandone i lati positivi», Tehnina Janjua ha risposto che «la maggior parte delle denunce di blasfemia viene presentata da musulmani contro musulmani: sono pochissimi i casi come quello di Asia Bibi. Alla base del problema non c’è la discriminazione religiosa, ma la povertà: spesso le denunce sono l’esito di dispute su terreni e proprietà».

La “Primavera araba” presenta il conto

La “Primavera araba” presenta il conto

di Gianandrea Gaiani da www.lanuovabq.it

Eni Libia

Come era facile prevedere, le conseguenze della cosiddetta “primavera araba” e del dilagare dei movimenti islamisti nel Nord Africa mettono a serio rischio gli approvvigionamenti energetici dell’Italia e dell’Europa.

Due episodi in poco più di un mese dovrebbero aver dato una brusca sveglia a quanti in Occidente ritengono sia stato un buon affare contribuire a rovesciare i regimi autoritari che reggevano la sponda meridionale del Mediterraneo.

A fine gennaio l’attacco di un nutrito gruppo di miliziani di al-Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi) agli impianti estrattivi di gas algerini gestiti dalla British Petroleum ad al-Amenas ha bloccato per molti giorni il flusso di gas diretto in Europa mentre all’inizio di marzo l’Eni è stata costretta a fermare gli impianti libici Mellitah in seguito agli scontri tra milizie rivali, quelle di Zintan e di Zuara, che si contendevano il contratto per garantire “la sicurezza” agli impianti gestiti dalla società italiana e da quella libica Noc attraverso la joint venture Mellitah Oil and Gas.
In Algeria la situazione venne risolta da un attacco militare che provocò la morte di oltre cento persone inclusi decine di terroristi e 37 ostaggi. In Libia la disputa è stata mediata, per ora, da Tripoli che ha indotto le milizie rivali ad abbandonare gli impianti.

Le conseguenze sulla distribuzione del gas non sono state troppo gravi, ma l’esportazione di gas è stata bloccata per giorni. Le autorità libiche hanno ripetuto anche ieri che le esportazioni che dall’impianto di Mellitah giungono a Gela attraverso il gasdotto Greenstream “riprenderanno tra giorni”, ma il presidente della Mellitah Oil and Gas ha ammesso che lo stop al sito ha imposto la riduzione del 25 per cento della produzione nei maxi giacimenti di Wafa e Sabratha.

I due episodi la dicono lunga sulla vulnerabilità della rete che alimenta l’Italia e l’Europa, messa in difficoltà da un attacco terroristico e da scontri tra milizie rivali, ma soprattutto dovrebbe indurre a riflettere sulla nostra dipendenza da Paesi sconvolti da violenze su vasta scala, già sprofondati nell’anarchia o in mano a gruppi e movimenti estremisti islamici.
Non occorre ipotizzare scenari fantasiosi per immaginare cosa accadrebbe se in tutta la Libia gli impianti che forniscono gas e petrolio diventassero campo di battaglia tra le milizie tribali, vere e proprie entità feudali che si contendono gli affari con le compagnie occidentali e potrebbero esercitare forti ricatti per consentire la ripresa delle forniture, o se attacchi su vasta scala dei terroristi dell’Aqmi colpissero contemporaneamente numerosi impianti algerini.

Per l’Italia la situazione in Nord Africa pone in evidenza serie preoccupazioni considerato che la Libia è il nostro primo fornitore di petrolio (28 per cento del fabbisogno) e il terzo di gas (10 per cento) mentre l’Algeria è al secondo posto, dietro la Russia, per le forniture di gas.
Il tema, che riguarda uno degli aspetti di maggior rilievo strategico per il Paese, non sembra al centro dell’attenzione della politica come invece dovrebbe, soprattutto se si considera che il disastro in atto in Libia e la maggiore instabilità dell’Algeria sono il frutto dell’avventura militare della Nato (e dell’Italia) contro il regime di Muammar Gheddafi.

Gli sforzi attivati per stabilizzare la Libia sostenendo il nuovo governo anche con la prossima probabile fornitura di armi (appena l’Onu abrogherà l’embargo ancora in vigore) si stanno rivelando inefficaci e rischiano di rappresentare degli autogol.
Scontri sanguinosi sono scoppiati nei giorni scorsi anche a Mizdah, sud di Tripoli, tra i miliziani di Zintan e quelli della tribù Mashashia mentre nella capitale sono in aumento aggressioni, rapimenti e narcotraffico con gli omicidi quintuplicati dal 2010. La regione desertica meridionale del Fezzan è da tempo fuori controllo così come la Cirenaica, in mano a salafiti e quaedisti che stanno arrestando decine di cristiani con l’accusa di proselitismo e dove società e consolati stranieri stanno abbandonando Bengasi. Il governo ha messo insieme un corpo di polizia e un esercito raffazzonati, composti in realtà da miliziani che sono più fedeli ai loro capi tribù che a uno Stato evanescente.

Istruttori militari italiani stanno addestrando il nuovo esercito libico e una Oil Police che dovrebbe proteggere gli impianti di gas e petrolio, ma non è detto che questi uomini restino a lungo fedeli al governo. I precedenti del resto non inducono all’ottimismo. Basti pensare che dei quattro reparti militari del Malì addestrati negli anni scorsi dagli statunitensi per combattere al-Qaeda tre sono passati con armi e veicoli dalla parte dei jihadisti e il quarto, guidato dal capitano Sanogo, ha effettuato un golpe a Bamako.

Tutta da ridere poi la credibilità delle istituzioni libiche con le quali l’Occidente si interfaccia. Lunedì scorso il premier Ali Zeidan ha accusato pubblicamente “le milizie che si rifiutano di consegnare le armi e le usano per i propri interessi personali” nel corso di una conferenza stampa tenutasi in una sala improvvisata perché il suo palazzo era occupato da un gruppo di madri di “rivoluzionari” uccisi nella guerra civile del 2011.

Mercoledì il Parlamento di Tripoli era assediato da oltre 700 giovani in gran parte armati di fucili ed esplosivi che pretendevano l’approvazione di una legge che impedisca la partecipazione alla vita politica degli ex esponenti del regime di Muammar Gheddafi. Il giorno prima il presidente del Parlamento libico, Mohamed Magarief, è rimasto miracolosamente illeso quando la sua auto è stata colpita da numerosi colpi d’arma da fuoco in pieno centro a Tripoli.
Non c’è da stupirsi se in questo contesto British Petroleum sta valutando il rinvio delle trivellazioni petrolifere previste quest’anno in Libia.

La “Primavera araba” presenta il conto

“Bruceremo case e chiese”, la promessa degli islamisti

di Anna Bono da www.lanuovabq.it

Terrorismo islamico

“Bruceremo case e chiese. Per Pasqua preparatevi al disastro”: a essere minacciati in questi termini non sono i cristiani in Nigeria, Pakistan o Iraq, ma in Tanzania, il paese dell’Africa orientale affacciato sull’oceano Indiano noto in tutto il mondo per i suoi parchi naturali ricchi di fauna selvatica, le nevi del Kilimajaro e le splendide spiagge di Zanzibar, l’arcipelago al largo della costa. Da alcuni giorni un movimento integralista islamico, Uamsho (Risveglio), invia ai sacerdoti tanzaniani SMS con questo contenuto e in cui inoltre viene rivendicata la paternità dell’omicidio di un sacerdote cattolico, ucciso il 17 febbraio, e si minacciano stragi: “ringraziamo i nostri giovani, addestrati in Somalia, che hanno ucciso un infedele. Molti altri moriranno”.

Padre Evarist Mushi – l’infedele giustiziato – è stato ucciso a Zanzibar. Erano le 7 del mattino e stava parcheggiando l’auto all’ingresso della sua parrocchia, San Giuseppe, dove avrebbe celebrato poco dopo la messa domenicale, quando degli uomini appostati nelle vicinanze gli hanno sparato colpendolo alla testa e fuggendo poi a bordo di una motocicletta. Due giorni dopo, sempre a Zanzibar, una chiesa evangelica in costruzione è stata incendiata durante la notte.

Non si tratta di episodi isolati né tanto meno, come invece sostengono le autorità tanzaniane preoccupate che la notizia di attentati terroristici possa nuoce al settore turistico, di crimini occasionali, commessi da delinquenti comuni e che nulla hanno a che vedere con la religione.
A Natale, sempre a Zanzibar, un commando in motocicletta ha sparato a un altro prete cattolico, padre Ambrose Mkenda, mentre rientrava a casa, ferendolo gravemente. Due mesi prima, a ottobre, diverse chiese in tutto il paese sono state bruciate e distrutte da folle di islamici inferociti. A scatenarne la collera era stata la notizia che un ragazzino cristiano avesse profanato il Corano, imbrattandolo di urina, durante una discussione tra bambini riguardante i poteri soprannaturali del testo sacro: un bambino islamico sosteneva che chi gioca con un Corano viene trasformato in serpente o diventa matto.

In poche ore tre chiese erano state bruciate e una distrutta nella sola capitale Dar es Salaam e a Zanzibar gli islamici insorti avevano demolito un edificio di proprietà della chiesa evangelica Assemblee di Dio. In molte moschee del paese era risuonato allora il monito: “continueremo ad attaccare le chiese cristiane finché non ne resterà neanche una in tutto il Tanzania”. Già a maggio tre chiese erano state distrutte a Zanzibar da centinaia di islamici, al grido “Allah è grande”.

Il vescovo di Zanzibar, Monsignor Agostino Shao non ha dubbi: “siamo nel mirino dei fondamentalisti islamici” ha dichiarato di recente ad Aiuto alla Chiesa che soffre, confidando la sua preoccupazione per il futuro dei cristiani tanzaniani. La situazione è particolarmente grave nell’arcipelago di Zanzibar dove il 99% degli abitanti sono musulmani, mentre nel paese complessivamente cristiani e musulmani costituiscono entrambi circa il 30% della popolazione. A Zanzibar sorgevano buona parte delle chiese e degli istituti religiosi, in tutto 25, distrutti negli ultimi anni in Tanzania ed è nell’arcipelago che prolifera Uamsho, il movimento integralista e indipendentista ritenuto responsabile di molte delle azioni terroristiche commesse a partire dal 2001, anno in cui è stato fondato.

A rendere più aggressivi gli estremisti islamici avrebbe contribuito lo stesso presidente Jakaya Kikwete rimangiandosi la promessa fatta ai musulmani durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2010 di modificare la costituzione per consentire l’introduzione di norme conformi alla shari’a, la legge coranica. Un indicatore del deteriorarsi della situazione, specialmente a Zanzibar, è dato dal fatto che mentre in passato solo nei villaggi succedeva che venissero attaccate delle chiese, da qualche tempo anche nella capitale dell’arcipelago i cristiani subiscono minacce e intimidazioni. Per questo molte famiglie cristiane ormai decidono di spostarsi sulla terra ferma sperando di essere più al sicuro.

Ma il moltiplicarsi degli attentati islamici contro i cristiani, come è noto, è un fenomeno che riguarda anche altri paesi africani. Coincide non a caso con il “sorpasso” del Cristianesimo, divenuto prima religione del continente: stando ai dati presentati lo scorso settembre al congresso organizzato dal Cesnur (Centro studi sulle nuove religioni)  in Marocco, i cristiani sono infatti il 46,5% della popolazione africana, i musulmani il 40,5%. È dal 2006 che lo sceicco libico Ahmed al Qataani denuncia l’avanzata del Cristianesimo a scapito dell’Islam: in Africa – sostiene – ogni ora 667 musulmani si convertono al Cristianesimo, 16.000 al giorno, sei milioni ogni anno. Basta a spiegare le crescenti azioni terroristiche contro i cristiani: “gli ultra-fondamentalisti – secondo il direttore del Cesnur, professor Massimo Introvigne – pensano che la battaglia decisiva per sapere se il mondo sarà musulmano o cristiano si combatta in Africa e che l’Islam la stia perdendo. Per questo reagiscono con le bombe”.

31mila firme per liberare Asia Bibi

«Noi, presi di mira dai fondamentalisti islamici. Siamo terrorizzati»: il grido dei cristiani di Zanzibar

La situazione della Chiesa a Zanzibar, dove il 17 febbraio scorso è stato assassinato p. Evariste Mushi di fronte alla cattedrale di San Giuseppe della capitale. 

(tratto da ACS Italia) – «È chiaro che siamo mira dei fondamentalisti». È la denuncia del vescovo di Zanzibar, monsignor Augustine Shao, ad Aiuto alla Chiesa che Soffre in seguito all’assassinio di padre Evariste Mushi, 55 anni, ucciso lo scorso 17 febbraio da tre colpi di arma da fuoco di fronte alla cattedrale di San Giuseppe della capitale. Negli ultimi mesi, riferisce il vescovo, vi è stato un notevole aumento delle tensioni nell’arcipelago semiautonomo, in cui il 95% della popolazione è di fede islamica. L’assassinio di padre Evariste non rappresenta un fatto isolato, ma l’espressione preoccupante di un’ideologia estremista. «Alcuni fondamentalisti rifiutano l’esistenza di altre religioni che non siano l’Islam. I fedeli sono terrorizzati, perché sanno di essere diventati un obiettivo». Prima ancora dell’attentato molti esponenti del clero hanno ricevuto minacce e diverse Chiese sono state incendiate. «Il giorno di Natale un altro dei miei sacerdoti, padre Ambrose Mkenda, è stato ferito e a novembre uno sceicco moderato che invocava il dialogo interreligioso è stato sfregiato con dell’acido».

In ogni diocesi della Tanzania sono state celebrate funzioni in memoria di padre Mushi. Solidarietà è stata espressa anche dal presidente tanzaniano, Jakaya Kikwete, che ha promesso indagini rapide e accurate. Monsignor Shao tuttavia non si fida delle promesse presidenziali e accusa le autorità d’essere «rimaste in silenzio». Il vescovo esorta invece la comunità internazionale a fare pressione su Dodoma e Zanzibar «affinché venga posto un freno alla violenza». «Il governo deve garantire la sicurezza di tutti cittadini e specialmente delle minoranze. Per troppo tempo è stata consentita la promozione dell’odio interreligioso».

Anche padre Andrzej Halemba, responsabile internazionale di Aiuto alla Chiesa che Soffre per i progetti in Tanzania e Zanzibar, denuncia l’aumento delle tensioni avvenuto in seguito all’arresto di alcuni attivisti islamici, tra cui il segretario del locale Consiglio degli Imam, lo sceicco Ponda Isha Ponda. A chiedere la liberazione degli estremisti è soprattutto l’associazione per la mobilitazione e la propaganda islamica Uamsho (“Risveglio” in swahili), un’alleanza che riunisce i maggiori movimenti musulmani e che mira alla secessione dalla Tanzania e all’introduzione della sharia come fonte principale di diritto. «Gli ultimi avvenimenti hanno causato grande preoccupazione in seno alla comunità cristiana  – dichiara padre Halemba – Per questo ACS, insieme al vescovo Shao, si sta impegnando ancor di più nella promozione del dialogo interreligioso e della coesistenza pacifica». Nel 2011 Aiuto alla Chiesa che Soffre ha donato alla Chiesa in Tanzania e Zanzibar oltre 950mila euro.