Cinismo anticlericale

Cinismo anticlericale

È davvero irritante il cinismo con cui, sull’onda emotiva dei sacrifici imposti dall’attuale situazione economica nazionale, vengono brandite contro la Chiesa Cattolica le armi spuntate del radicalismo anticlericale, agitando la (inesistente) questione dell’ICI e dell’8 per mille.

Operazione di sciacallaggio mediatico quella che vuole strumentalizzare l’oggettiva difficoltà in cui si trovano gli italiani, per lanciare una campagna tanto demagogica quanto calunniosa.

E disonesti intellettualmente appaiono tutti coloro che a tale campagna si aggregano o che ad essa plaudono con la stessa cecità ideologica delle tricoteuses giacobine sotto i patiboli. Per quanto riguarda il primo tema, quello relativo alla richiesta di abolizione dell’asserita esenzione I. C. I., Avvenire ha documentalmente dimostrato per tabulas, attraverso la sua meritoria campagna, che trattasi di pura menzogna. Per cui la questione si può anche chiudere qui.

Per ciò che concerne, invece, il secondo tema, ovvero il trasferimento dei fondi dallo Stato italiano alla Chiesa cattolica attraverso il meccanismo dell’8 per mille del gettito fiscale, il discorso merita una considerazione. Approfittando, in perfetta mala fede, del rigore generale imposto dalla nuova politica di austerity, i soliti anticlericali hanno trovato spazio per amplificare il logoro refrain sull’«odiato privilegio» concesso alla Chiesa, che vanno ormai ripetendo, come un disco rotto, dal 1985.

Sapendo di non poter vincere la guerra dell’abolizione, ora tentano almeno di vincere la battaglia della riduzione. «Se il popolo deve fare sacrifici, li facciano anche i ricchi cardinali», sentivo giorni fa alla radio. Tutto ciò apparirebbe risibile se la drammaticità del momento non lo facesse apparire una farsa macabra.

Di fronte ad una simile operazione mistificatoria, bisognerebbe trovare il coraggio di fare una proposta davvero radicale. Un coup de théâtre: accettare l’abolizione totale dell’8 per mille. Ad una sola condizione, però. Che lo Stato italiano restituisca tutto l’immenso patrimonio, costituito da chiese, conventi, monasteri, palazzi, biblioteche, terreni, opere d’arte, suppellettili sacre, ecc., illegittimamente sottratto alla Chiesa Cattolica, in violazione di ogni diritto, ivi compreso il diritto internazionale.

Sì, perché qualcuno ancora si ostina a dimenticare che l’8 per mille, dal punto di vista morale e giuridico, non rappresenta una generosa liberalità, ma l’indennizzo dello Stato a quell’illecito incameramento del patrimonio ecclesiastico, perpetrato a partire dal 1855, quando l’ex ministro Clemente Solaro della Margherita (autentico conservatore), prendendo la parola nel parlamento piemontese, definì le Leggi Siccardi un «sacrilego latrocinio».

Lo Stato italiano, ovviamente, non sarebbe in grado di restituire tutti i beni illecitamente sottratti alla Chiesa dal 1855 al 1875, e la proposta ha evidentemente il sapore di una provocazione. Si tratta però di una provocazione che dovrebbe far riflettere soprattutto i trisnipotini di Siccardi, Rattazzi, Ferraris. Oggi allo Stato italiano, proprio in concomitanza del 150° anniversario dell’unità, non conviene davvero riaprire quella dolorosa ferita, maldestramente coperta dalla mitologia risorgimentale anticattolica. Intelligenti pauca.

di Gianfranco Amato
Tratto dal sito dell’agenzia Corrispondenza Romana

LE DUE ITALIE. Parte 5.

La seconda Guerra Civile e la Questione Meridionale.

Con questo intervento concludo la presentazione del saggio di Massimo Viglione, Le due Italie, Edizioni Ares di Milano. Un libro che consiglio di leggere per la chiarezza, sinteticità e soprattutto per l’ampia documentazione, potrebbe essere un ottimo sussidio da utilizzare soprattutto nelle nostre istituzioni scolastiche, dopo tanti decenni di racconti di favole che hanno costituito, scrive Giovanni Cantoni, fondatore di Alleanza Cattolica,“alimento primo di ogni refezione scolastica e di ogni ragionamento politico”. E purtroppo in questo anno di festeggiamenti del 150°, non si è smesso di raccontare soprattutto a scuola, le solite favole. A pagina 176, Viglione affronta il tema dei plebisciti farsa, dopo aver conquistato tutti gli Stati preunitari, il nuovo Regno d’Italia per essere accolto nel concerto delle Potenze internazionali, “occorreva dimostrare al mondo intero e alla storia che non solo era necessario liberare le popolazioni italiane oppresse da intollerabile barbarie, ma che tali popolazioni fossero contente – anzi, entusiaste – di essere liberate dai fratelli piemontesi”.

 Così man mano che i territori italiani cadevano preda dei piemontesi, venivano svolti i plebisciti di annessione al Regno di Sardegna. Su 22 milioni di persone, votarono 2.990.307 persone. Oltre il 98% dei votanti scelse Vittorio Emanuele. Non mi soffermo sulla “democrazia” di queste elezioni. Certamente però serve affrontare il grosso problema meridionale. Gli italiani del Sud non erano d’accordo a divenire piemontesi. Per questo ben presto presero le armi e furono pronti a morire contro il Regno d’Italia, contro i Savoia, contro Cavour e Garibaldi. Settant’anni dopo nasce la seconda guerra civile italiana, la prima fu quella tra giacobini e insorgenti. Dopo la rapida conquista del Sud ad opera dei mitici Mille di Garibaldi,“mille uomini – scrive Viglione – probabilmente, non conquisterebbero realmente nemmeno la collina di Posillipo, qualora i napoletani decidessero di resistere”. Tra l’altro ormai, è universalmente noto; tranne i manuali di storia che ancora si attardano sulle fantasiose ricostruzioni della vulgata per continuare a indottrinare le giovani menti, tutti riconoscono quelle che furono le reali ragioni per cui Garibaldi poté arrivare a Napoli (in treno) e conquistare un Regno con qualche morto. E qui Viglione elenca le cause che portarono i garibaldini alla cavalcata trionfale, dai tradimenti degli ufficiali borbonici all’appoggio della marina inglese, della mafia e della camorra, al finanziamento dei vari banchieri inglesi e italiani,“i Mille, essendo uomini come tutti gli altri e non titani, non sarebbero sbarcati a Marsala, o, nella più benevola delle ipotesi, una volta sbarcati di sorpresa, sarebbero stati ributtati in mare subito dopo”. Non si comprende come il generale Lanza che disponeva di 20 mila uomini a Palermo, si arrese senza colpo ferire, e firmò l’armistizio a bordo, guarda caso, di una nave britannica. A questo proposito è interessante il commento di Massimo D’Azeglio in una lettera scritta a Michelangelo Castelli, il 17 settembre 1860: “Nessuno più di me stima ed apprezza il carattere e certe qualità di Garibaldi; ma quando s’è vinta un’armata di 60.000 uomini, conquistato un regno di 6 milioni, colla perdita di otto uomini, si dovrebbe pensare che c’è sotto qualche cosa di non ordinario(…)”

 Cavour aveva pensato a tutto a Garibaldi non restava altro che compiere la missione, marciando tranquillamente dalla Sicilia a Napoli, l’unica battaglia che dovette affrontare fu sul Volturno, ma qui ricorda Viglione, la battaglia fu vinta da Cialdini. Tra l’altro per conquistare le tre fortezze di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto, le uniche che opposero eroica e fedelissima resistenza agli invasori, fu sempre l’esercito piemontesi del generale Cialdini, il massacratore dei primi insorgenti meridionali. E qui inizia la grande strage. Una rivolta che riveste proporzioni straordinarie, per Viglione le vittime meridionali furono complessivamente 70 mila, ma altri storici, danno numeri più elevati, come nel libro Terroni di  Pino Aprile. Nella primavera del 1861 al comando del generale Cialdini con un esercito di 120.000 uomini, inizia la campagna militare del nuovo Regno d’Italia per reprimere la guerriglia dei cosiddetti briganti. “Inizia una spietata repressione militare, fatta di eccidi e distruzioni di paesi e centri ribelli, di fucilazioni e incendi, di saccheggi e incitazioni alla delazione, di arresti domiciliari coatti (la prima volta nella storia italiana) e di distruzioni di casolari e masserie, compresa l’eliminazione del bestiame dei contadini per la loro rovina materiale”. O’Clery parla di vero e proprio “terrore piemontese”, che si evince in particolare nei proclami con i quali i vari Cialdini, Pinelli, La Marmora e altri terrorizzavano le popolazioni in nome della libertà rivoluzionaria. “Superfluo ricordare – scrive Viglione – come questi ‘signori’, celebrati in tutti i nostri libri di storia e tramite migliaia di vie e piazze a loro dedicate in tutta Italia, oggi finirebbero senza dubbio alcuno sotto processo al Tribunale dell’Aja per crimini contro l’umanità e altro ancora”. Basta ricordare la distruzione e il massacro delle popolazioni dei due paesi lucani di Casalduni e Pontelandolfo. E poi i prigionieri circa 50 mila borbonici e 12 mila pontifici, definiti “canaglia” da Vittorio Emanuele II e Cavour. Furono deportati al Nord nei forti di Fenestrelle e nel campo di concentramento di S. Maurizio vicino Torino. Civiltà Cattolica la definì significativamente, “la tratta dei napoletani”.

 Le popolazioni meridionali furono definiti briganti, del resto è un termine ripreso dai giacobini francesi che definivano briganti i controrivoluzionari vandeani e chi si oppeneva alla loro rivoluzione. La storiografia ufficiale liberale e filorisorgimentale, spiega il fenomeno come un fatto di delinquenza comune, mentre quella marxista come espressione di rivolta proletaria. Per il professore Viglione, le motivazioni reali (del cosiddetto brigantaggio) – senza voler escludere di principio anche elementi di carattere sociale e ricordando che senz’altro fra i ribelli vi furono efferati delinquenti nel senso letterale del termine – sono però più profonde e sono naturalmente quelle religiose e legittimiste: il popolo odiava liberali e ‘galantuomini’ perché, fin dai tempi napoleonici, avevano oppresso e vilipeso sempre la religione, profanando chiese e reliquie; la presenza di frati e preti è costante nelle raffigurazioni popolari della guerriglia, così come nei vessilli delle bande di guerriglieri esprimono sempre soggetti religiosi”.

 Dopo i massacri e la violenza delle armi, arriva la fame, “le terre della Chiesa e dei demani furono confiscate e vendute ai facoltosi borghesi, i quali sfruttarono milioni di contadini; le industrie del Sud avviate da i Borbone furono distrutte, milioni di persone ridotte al lastrico. Nacque la ‘Questione meridionale’”.Migliaia di meridionale prendono i bastimenti ed emigrano per le Americhe, sono i figli indegni, che non capivano le esigenze di progresso e civiltà dei nuovi italiani, e restavano quindi fuori dalla nuova identità nazionale. Quella degli ‘italiani già fatti’, opposta a quella degli italiani ‘ancora da fare’”.

 Termino ma evidentemente si potrebbe continuare a lungo. Il nodo da sciogliere della storia italiana è l’ideologia risorgimentale, questa specie di “dogma nazionale”. Quello che per essere patrioti, per dimostrare di amare l’Italia, occorre amare il Risorgimento e in particolare la venerazione dei quattro “padri della patria”. “E’ la più grande vittoria della vulgata risorgimentale – scrive Viglione – l’inganno per eccellenza: il far credere che chi narra ciò che è stato occultato (le insorgenze, il settarismo utopista, la guerra alla Chiesa cattolica, i brogli elettorali dei plebisciti, le stragi dei ‘briganti’, il piemontesismo, il fiscalismo, l’emigrazione ecc.) e di contro non celebra Mazzini e Cavour, Vittorio Emanuele II e Garibaldi, Napoleone e Gioberti, sia ‘antitaliano’ o comunque contro l’unità nazionale. O magari studioso poco serio”. Il libro di Viglione racconta a grandi linee,“la drammatica favola risorgimentale, la ‘leggenda nera’ che i settari, i cantastorie prezzolati, i traditori, gli ingannati, i pigri e gli ignoranti vanno ripetendo sulle piazze e fanno ripetere nelle aule scolastiche, per la formazione dell’uomo e del cittadino”. (Giovanni Cantoni, L’Italia tra Rivoluzione e Controrivoluzione; saggio introduttivo a Rivoluzione e Controrivoluzione, P.C. De Oliveira, Cristianità, Piacenza 1977).

DOMENICO BONVEGNA

domenicobonvegna@alice.it

Le due italie: Basta con la vulgata risorgimentista scriviamo la verità sui Regni preunitari (parte 4)

di Domenico Bonvegna

Concludevo la 3 parte della presentazione del volume di Massimo Viglione Le Due Italie edito da Ares indicando velocemente le due vittime designate dalla Rivoluzione Italiana, cioè il Regno delle Due Sicilie e lo Stato Pontificio.

Due Stati per quei tempi abbastanza floridi, ricchi, con tante riforme alle spalle, sia dal punto di vista economico che culturale, al contrario del piccolo Piemonte che mirava a riunificare il Paese ed era il più indebitato tra tutti gli Stati preunitari. Dal 1848 al 1860 (gli anni rivoluzionari di Cavour) il debito arrivava a oltre un miliardo. Per l’esattezza 1. 024. 970. 595 lire. Una cifra astronomica che non risente ancora delle spese per l’unificazione. Scrive Viglione, negli stessi anni il bilancio dello Stato Pontifico raggiunge il pareggio effettivo (1858), mentre quello del regno delle Due Sicilie è in attivo.

Nonostante questa situazione, si fece a gara nel descrivere questi Stati come delle mostruosità intollerabili, specie quello Pontificio e il Regno delle due Sicilie. “Era quindi necessario l’intervento del grande e progredito fratello piemontese, a sua volta aiutato dalla grande e benevola madre britannica, a portare la luce della civiltà a quelle sventurate popolazioni (anche se in realtà esse non avevano mai chiesto nessun aiuto e intervento esterno; anzi, già ai tempi di Napoleone, avevano perfettamente dimostrato, armi alla mano, la propria fedeltà ai governi papale e borbonico).

Celeberrima è l’espressione di Lord Gladstone, ministro del governo Palmerston (il “grande fratello”del Risorgimento italiano), per definire il governo borbonico: “la negazione di Dio”. Frase aberrante che fece il giro del mondo.

Viglione nel testo oppone alle falsità della vulgata ufficiale, ampia documentazione tratta ormai dalla ricca bibliografia che attesta l’effettiva civiltà, il concreto progresso e il reale benessere raggiunto dalle popolazioni italiane degli Stati preunitari. “E’ facile – scrive Viglione – sia perché si tratta di dire la semplicemente la verità, sia perché ormai non pochi fra gli storici risorgimentisti più seri da tempo non hanno più ‘l’animo’ di continuare a far finta di credere ai peana della vulgata e hanno iniziato una seria revisione e ripresentazione generale dell’intera situazione, specie per quel che riguarda proprio il governo borbonico”.

Viglione è ottimista ma ancora in certi storici persiste il vezzo di raccontare “favole”sul risorgimento, come nel programma di Rai 2 condotto da Piero Angela, dove un certo Barbera continua imperterrito a raccontare palle. Ma non scherza neanche il nostro(?) presidente Napolitano.

Il professore Viglione accenna soltanto ad alcune “conquiste”o “barbarie” del Regno borbonico, a cominciare dello sfarzo e della bellezza della Reggia di Caserta, secondo palazzo reale al mondo per grandezza e bellezza ; e poi numerose strade, ponti, porti, la flotta navale, la prima in Italia, seconda in Europa soltanto a quella inglese. Attività industriali, come la scuola per gli arazzi, la produzione di porcellane di Capodimonte, Università, Accademie, gli scavi di Ercolano e Pompei. Viglione si concentra soprattutto sulle riforme sotto Ferdinando II, il sovrano più illuminato degli Stati italiani, sotto il suo regno, il Meridione d’Italia raggiunse il massimo livello di ammodernamento e civiltà. Nel 1762 venne costruito a Napoli il primo cimitero in Italia e poi quello di Palermo. Nel 1768 stabilì una scuola gratuita per ogni Comune del regno e per ambo i sessi, ordinando che nelle case religiose si facesse altrettanto. Nel 1818 salpò da Napoli la prima nave a vapore italiana. “Molto altro vi sarebbe da dire – scrive Viglione – Ferdinando fu la massima e più completa espressione di quel riformismo politico e sociale, inaugurato dal suo bisnonno Carlo, e che caratterizzò sempre la Real Casa di Borbone delle Due Sicilie”.

Dopo i borboni, il professore elenca alcune delle “barbarie” papiste. “Lo Stato Pontifico, dal punti di vista del consenso morale e operativo al Risorgimento, è sicuramente fra gli Stati preunitari quello che ha sempre dato le maggiori delusioni ai nostri patrioti”. In pratica è rimasto sempre fedele al Sommo Pontefice, invano hanno cercato di farlo sollevare contro la teocrazia papista, ma non ci sono riusciti mai. Il 20 settembre 1870, “non un romano andò a salutare i liberatori, mentre finestre e case della città erano serrate o chiuse a lutto”.

Nel 6 capitolo a pagina 155 Viglione insiste su come non andava fatta l’Italia. Non una unificazione politica con ingrandimento del piccolo Piemonte, ma una confederazione cattolica degli Stati preunitari. Si scelse la “via sabauda”, con la conquista dei Regni della Penisola e della guerra all’Austria. Occorreva giustificare la conquista come una inevitabile azione di civiltà contro un’intollerabile barbarie non più accettabile in tempi di progresso e di democrazia. Ricordate Gladstone, tornato a Napoli nel 1888, confessò che aveva scherzato sullo stato di salute del Regno borbonico, lo stesso Petruccelli della Gattina, noto deputato della Sinistra, feroce anticlericale, scrive in riguardo a Poerio, un attivo fuoriuscito inventato per calunniare i borboni: “Quando noi agitavamo l’Europa e la incitavamo contro i Borboni di Napoli, avevamo bisogno di personificare la negazione di questa orrida dinastia, avevamo bisogno di presentare ogni mattina ai credenti leggitori d’una Europa libera una vittima vivente, palpitante, visibile, che quell’orco di Ferdinando divorava ad ogni pasto”. Il problema è che dopo centocinquant’anni si continua a scherzare e a credere a queste menzogne. A incensare ai vari padri della Patria come Cavour e Garibaldi, soprattutto quest’ultimo, un pirata e ladro di cavalli, in Perù venne arrestato e gli tagliarono i padiglioni delle orecchie. Sulla morte di Anita, la sua compagna, c’è un racconto inquietante, pare che dall’autopsia del cadavere si riscontra la trachea rotta e una lividura circolare intorno al collo, segni ‘non equivoci’ di morte per strangolamento. Se veramente così fosse, chi e perché poteva avere interesse a strangolare Anita? Si chiede il professore Viglione nel libro.

A proposito della spedizione dei mille in Sicilia, scrive nel 1882, il massone Pietro Borrelli: “non si deve lasciar credere all’Europa che l’unità italiana, per realizzarsi, aveva bisogno d’una nullità intellettuale come Garibaldi. Gli iniziati sanno che tutta la rivoluzione in Sicilia fu fatta da Cavour, i cui emissari militari, vestiti da merciaiuoli girovaghi, percorrevano l’isola e compravano a prezzo d’oro le persone più influenti”.

Infatti, enormi sono state le somme dispensate per corrompere i funzionari borbonici e per fomentare tra il popolo manifestazioni antiborboniche. Ma queste cose non sono accadute solo nel Sud in mano a Garibaldi. La corruzione, diventava malattia endemica della nuova Italia.

Le due Italie. Parte 3.

Mazzini, il Risorgimento e i padri del totalitarismo rosso e nero.

Con la caduta di Napoleone, fallirono i tentativi giacobini di organizzare una “Nuova Italia” rivoluzionaria, ma non si poterono cancellare quegli ideali di sovversione politico-istituzionale connessi a quelle esperienze. Fu Giuseppe Mazzini, il padre spirituale della Patria a ereditare quegli ideali e il professore Viglione nel testo che sto presentando Le due Italie, edito da Ares, sviluppa una singolare tesi quella di riscontrare nel processo risorgimentale le “radici dei fenomeni di totalitarismo di massa, che hanno caratterizzato la storia italiana del XX secolo. Sia del totalitarismo di stampo nazionalista e sociale che condurrà alla dittatura fascista, sia di quello rivoluzionario, radical-laicista, che condurrà prima alla guerra civile del 1943-45 e poi alla vasta diffusione delle istanze comuniste e alla lacerazione ideologica dell’Italia repubblicana (fino al terrorismo)”. Il professore si rende conto che il tema del legame fascismo-Risorgimento, e quello con le istanze comuniste per certi aspetti è scottante. Entrambi i filoni totalitari riconducono, seppure per vie differenti, a quel mondo settario massonico italiano dell’età del Risorgimento e quindi nel primo dei “padri della patria”, Giuseppe Mazzini, il grande ispiratore del totalitarismo italiano, sia quello rosso che nero e volendo anche del terrorismo. Del resto lo avevano sempre denunciato diversi studi storici, tra cui quelli cattolici del XIX secolo come Giacinto de’ Sivo, Paolo Mencacci, Patrick K. O’ Clery o i padri de La Civiltà Cattolica.

 Massimo Viglione sinteticamente ripercorre il pensiero di Mazzini, considerato un vero e proprio “sacerdote dell’umanità”, fondatore di una nuova religione panteista e gnostica che come compito primario doveva liberarsi dal cristianesimo e soprattutto dal Papato, per fondare la “terza Roma”, che dovrà sostituire quella cattolica. Addirittura Mazzini non accettava nemmeno la formula cavouriana “libera Chiesa in libero Stato”, perché per lui lo Stato sarà la Chiesa e la Chiesa sarà lo Stato. Non per niente si parla di ‘teocrazia mazziniana’. Simile alla teocrazia islamica? Così Mazzini e compagni preparano una Nuova Italia, voluta da pochi, non popolare, elitaria, contro quella Vera millenaria, autentica, cattolica. E dopo il pensiero viene l’azione, un pensiero così “utopico e di un dottrinario estremista – per Viglione – non può che far seguito una scia di sangue e di tragedie. Mazzini dopo aver plagiato questi giovani spingendoli fino al suicidio collettivo, li manda a morire per una missione senza nessuna speranza, guardandosi bene dal partecipare in prima persona.

 Nel 3 capitolo della II parte il libro di Viglione si occupa della Proposta Cattolica per l’unità del Paese e non può non fare riferimento a quella più conosciuta di Vincenzo Gioberti, presentato dalla storiografia ufficiale come l’uomo nuovo dei ‘moderati’, colui che aveva compreso che non potevano essere i metodi fallimentari del Mazzini a fare l’Italia. Ma per Viglione, Gioberti un prete, ed ex mazziniano è l’uomo dell’inganno, se in un primo momento auspicava una Italia unita senza Rivoluzione. Una confederazione degli Stati preunitari con leadership del Pontefice romano, forse per addolcire i cattolici, di ‘ingraziarsi’ perfino il Papa. Successivamente Gioberti, gettò la maschera, passando senz’altro dalla parte dei democratici, soprattutto dopo il 1849, scrivendo il De Rinnovamento civile d’Italia, opera di chiara matrice rivoluzionaria e sovversiva, che rinnegava apertamente il precedente pensiero. Peraltro Viglione, presenta una lettera di Gioberti, proprio nell’anno del Primato, dove il nostro afferma che l’unione federativa della nostra Penisola e l’arbitrato del Papa sono utopie. Parole agghiaccianti, per chi conosce l’entusiasmo generale che la sua opera aveva suscitato in Italia, specie tra i moderati e i cattolici. E soprattutto dopo che addirittura lo stesso Pio IX credette alla sincerità della proposta di Gioberti. Per Viglione il Primato fu il libro degli inganni, che riuscì a disgregare come conferma Antonio Gramsci, il movimento cattolico e a togliergli la fiducia in se stesso, fu il capolavoro politico del Risorgimento, di Vincenzo Gioberti, il Mazzini dei moderati.

 Il neoguelfismo di Gioberti è lo stratagemma per far passare la Rivoluzione liberale borghese sulle masse italiane che non ne volevano sapere della rivoluzione. Del resto nell’Istruzione permanente data ai membri della setta massonica nel 1817, troviamo scritto:“il nostro scopo finale è quello di Voltaire e della Rivoluzione francese: l’annientamento per sempre del cattolicesimo ed ancora dell’idea cristiana (…)Per fare questo non ci vuole qualche mese, un anno, forse degli anni, qualche secolo, “ma nelle nostre file il soldato muore, ma la guerra continua(…)”.Gioberti secondo Viglione condivideva in pieno il progetto dell’Alta Vendita.

 Nel 1848, dopo la I guerra di indipendenza avviene la rottura con il mondo cattolico e la possibilità che ci sia una vera unità degli italiani nel rispetto dell’identità del popolo italiano. Nella I guerra di indipendenza, almeno nella prima fase “si realizzò– per il professore Viglione – il momento migliore dell’intera storia nazionale degli ultimi due secoli: un’unione ideale vera fra una buona parte degli italiani”. Il progetto venne fatto fallire miseramente, nel 1848 si decise “la scelta di campo” – scrive Viglione – se avesse vinto il progetto neoguelfo, sarebbe nata un’Italia confederativa cattolica e monarchica, decentrata e tradizionalista, che avrebbe senzìaltro riscosso il consenso massiccio delle popolazioni italiane (proprio ciò che mancava a Mazzini e ai vari settari), legate ai loro legittimi sovrani: insomma, la ‘vera Italia’, ‘universale’ in quanto cattolica, decentrata in quanto confederativa, monarchica e sacrale, opposta alla ‘nuova Italia’, voluta dalle élite rivoluzionarie. Per Viglione, occorreva assolutamente mandare a monte il progetto neoguelfo, a costo di far vincere l’Austria. E così fu fatto”.

 Nel 4 capitolo il libro sfata alcuni pregiudizi, la vulgata nei confronti degli Stati preunitari, in particolare, quello riguardante il Regno delle Due Sicilie e poi dello Stato Pontificio. Conquistati, meglio scrivere aggrediti, manu militari, una inequivocabile operazione politico- militare di aggressione a legittimi e secolari Stati amici e pacifici da parte del Re di Sardegna. Naturalmente, “per giustificare tutto questo dinanzi ai contemporanei e alla storia, occorreva creare le condizioni morali che rendessero apprezzabili tali operazioni”. Così venne fatto credere agli italiani e alle Potenze straniere, “che quegli Stati erano infami e corrotti, oppressivi e incivili, e pertanto l’azione cavouriana-garibaldino-piemontese era non solo giustificabile, ma costituiva un’azione di civiltà e generosità”. La guerra rivoluzionaria di Casa Savoia e tutto il movimento unitario doveva apparire come un inevitabile soccorso a popolazioni che languivano in stato di miseria e schiavitù e non attendevano altro che l’aiuto del re sabaudo. Ma sulla “leggenda nera” degli Stati preunitari molto si è scritto e ormai forse non ci crede più nessuno. Rimando i lettori agli scritti di Carlo Alianello, ma soprattutto a  un’ottima opera di Patrick Keyes O’ Clery, La Rivoluzione Italiana. Come fu fatta l’unità della nazione (I ed. 1875-1892),Ares, Milano 2000.

 DOMENICO BONVEGNA

                                                                                         

Le famiglie ebree che Pio XII nascose al Gianicolo

Nuove conferme dell’opera di assistenza agli ebrei

di Antonio Gaspari

ROMA, martedì, 23 agosto 2011 (ZENIT.org).- Dalle ricerche svolte da Giovanni Preziosi risulta che anche La Società del Sacro Cuore, situata al Gianicolo a Roma, nascose e protesse famiglie ebree, su diretta sollecitazione e indicazione di Pio XII.

In un articolo pubblicato da L’Osservatore Romano lo scorso 11 maggio, Giovanni Preziosi ha raccontato di aver svolto una accurata ricerca nell’archivio Generale della Società del Sacro Cuore, dove ha rinvenuto dei documenti rimasti finora nascosti. Si tratta del Giornale della Casa ‘Villa Lante’, nel quale le religiose annotavano tutti gli avvenimenti che di giorno in giorno riguardavano l’istituto, a quel tempo sotto la guida spirituale della superiora generale di origini ispaniche Manuela Vicente, coadiuvata dalla madre vicaria Giulia Datti. Le due suore si occuparono degli aspetti logistico-organizzativi per facilitare l’ospitalità ai rifugiati ebrei e a molti altri antifascisti.

Secondo i documenti trovati da Preziosi, le suore svolsero quelle attività su indicazione dell’allora Pontefice Pio XII. Sembra infatti che il Papa fosse in ottimi rapporti con questa congregazione religiosa, perché già negli anni Trenta, quando era Cardinale, gli era stato affidato il ruolo di protettore della Società del Sacro Cuore.

L’autore di queste ricerche è un quarantunenne di Torre del Greco. Laureato in Scienze politiche è impegnato in ricerche di carattere storico. Nel 2006 ha pubblicato “Sulle tracce dei fascisti in fuga. La vera storia degli uomini del duce durante i loro anni di clandestinità” ed i saggi: L’affaire Rossoni: un ministro del duce rifugiato politico presso il Santuario di Montevergine (“Annali Cilentani” – Studi e Ricerche sul Mezzogiorno minore, n. 2 del 2001) e Operazione conventi: le ratlines vaticane per l’espatrio clandestino degli ex gerarchi fascisti. L’affaire Rossoni (“Elite e Storia” – Rivista Semestrale di Studi Storici, n. 2 del 2003).

Giovanni Preziosi collabora con “la Civiltà Cattolica” e, sporadicamente, con “L’Osservatore Romano”. Molte delle sue ricerche sono pubblicate sul blog http://giovannipreziosi.wordpress.com/.

Considerando l’attualità e l’interesse per di tali ricerche ZENIT lo ha intervistato.

Cosa raccontano i documenti da lei rinvenuti nell’archivio generale dell’Istituto di diritto pontificio Società del Sacro Cuore?

Preziosi: Questi documenti, del tutto inediti, che ho rinvenuto in seguito ad una paziente e meticolosa spigolatura nell’archivio Generale della Società del Sacro Cuore – un istituto di diritto pontificio che sorge sul Gianicolo, fondato agli inizi del 1800 da Madeleine-Sophie Barat –, si sono rivelati a prima vista subito di notevole interesse dal punto di vista storiografico proprio perché contribuiscono a gettare un ulteriore fascio di luce sulla vexata quaestio relativa ai cosiddetti “silenzi” di Pio XII in merito alla Shoah dimostrando, al di là di ogni ragionevole dubbio, come fosse fallace e destituita di qualsiasi fondamento la tesi – balzata prepotentemente agli “onori” della cronaca negli anni ‘60, ed in seguito alimentata ad hoc da più parti fino ai nostri giorni secondo la quale il papa avrebbe seguito cinicamente questa politica del “silenzio” semplicemente per biechi calcoli di interesse e preoccupazioni diplomatiche. Tali polemiche, tuttavia, ritengo che abbiano giovato al progresso della ricerca storica, in quanto proprio in questi ultimi tempi – anche in virtù della ricerca di cui ho dato conto su “l’Osservatore Romano” e l’apertura di vari archivi, compreso in parte l’Archivio Segreto Vaticano – nuovi studi, in realtà, attestano che la voce del pontefice fu l’unica a levarsi in difesa di quanti erano perseguitati. Prova ne sia, ad esempio, proprio il Giornale della Casa di “Villa Lante” e il diario, scritto meticolosamente da suor Maria Teresa Gonzáles de Castejón nel chiuso della sua cella, dai quali si apprendono particolari finora rimasti avvolti nel mistero e nascosti tra le brume di questi archivi. Si apprende, infatti, il ruolo di primo piano svolto da questa congregazione religiosa, mediante la madre superiora Manuela Vicente – abilmente coadiuvata dalla madre vicaria Giulia Datti, che su espressa sollecitazione di Pio XII – tramite il Sostituto della Segreteria di Stato di Sua Santità per gli affari ordinari, mons. Giovanni Battista Montini – si adoperarono per offrire degna assistenza e ospitalità a numerose persone e, in alcuni casi intere famiglie, in prevalenza di religione ebraica che, proprio per tale motivo, erano ferocemente perseguitati dai nazi-fascisti e correvano il rischio di essere deportati negli esecrabili campi di concentramento tedeschi allestiti per la cosiddetta “soluzione finale”.

In che modo le suore nascosero e protessero gli ebrei e i perseguitati?

Preziosi: Alla sua domanda preferirei far rispondere direttamente suor Maria Teresa Gonzáles de Castejón, la quale scrive, con dovizia di particolari, nel suo diario: “Avevamo nel nostro giardino una catacomba, che esisteva già, come rifugio. Questa catacomba era molto grande. Poco dopo qualche famiglia conoscente o amici della nostra comunità, dormirono nel rifugio della casa madre”. Davvero rocambolesca appare poi la minuziosa descrizione dell’episodio che coinvolse la famiglia Sonnino, che da poco si era rifugiata nella Casa della Societa del S. Cuore. Lasciamo ancora una volta la parola a suor Maria Teresa che scrive: “Ho detto che tra i nostri rifugiati vi era una giovane donna con sua figlia. Suo marito, e credo suo figlio, erano rifugiati al Collegio Orientale dei Gesuiti in Piazza Santa Maria Maggiore. Una mattina il padre Gordello S.J. che conosceva bene questa famiglia Sonnino e che aveva convertito al cristianesimo, venne da noi e mi disse: Occorre annunciare una triste notizia alla signora Sonnino. Suo marito è morto in seguito a una crisi cardiaca questa notte. All’inizio della notte i soldati tedeschi sono venuti a fare una perquisizione da noi (C’erano abbastanza rifugiati, ebrei ed altri). Come l’Orientale [l’omonimo Collegio dei gesuiti] comunica dall’interno con il Collegio Russo (il Russicum è anche dei Gesuiti) noi li abbiamo fatti passare di là […]”.

Tuttavia l’improvvisa irruzione dei soldati nazisti si rivelò fatale per il signor Sonnino che stava ancora smaltendo i postumi di un’altra grave crisi cardiaca che aveva accusato qualche mese prima. “Noi ci siamo messe a pregare presso di lui – scrive, con dovizia di particolari, suor Maria Teresa Gonzáles de Castejón –, quando [improvvisamente] i soldati tedeschi sono entrati [e] abbiamo detto loro: Attenzione! Qui c’è un defunto”. E conclude tirando un sospiro di sollievo: “Hanno guardato senza far niente”. Questa encomiabile opera di assistenza e ospitalità fornita dalle suore della Società del Sacro Cuore viene suffragata anche dal Giornale della Casa della Società del S. Cuore di Gesù, laddove si legge, in una nota autografa che reca la data dell’11 ottobre 1943: “Giornata di gran lavoro da una parte e di gran terrore dall’altra!… Mentre su tutte aiutano a sgombrare la sala della scuola dalle panche, tavolini, lavagne e ridurla a camera da letto, giù in portineria è un succedersi di giovani spaventati che chiedono per pietà di essere messi al sicuro dai tedeschi che vogliono deportarli in Germania. La Rev.da Madre e la Madre Economa scendono per calmarli, consigliarli, rassicurarli: è stata una mattinata di ansia da una parte e di tanta materna bontà e comprensione dall’altra. C’è un fuggi fuggi: gli uomini temono di essere presi dai tedeschi e corrono a nascondersi, o almeno a mettere al sicuro la moglie e figliuoli […] la sala della scuola ben arredata accoglie intere famiglie con bambinaie nella sala da pranzo e nella precedente tre tavole riuniscono grandi e piccole dai due ai sessant’anni e più; vi sono moglie e madri di diplomatici, di militari, ex alunne…”. Nel mesi successivi, per la precisione il 5 giugno 1944, la Superiora Generale, ricevette finanche la visita di una personalità di spicco dell’aristocrazia, stiamo parlando della marchesa Caterina Leonardi di Villacortese Dama di Corte niente meno che di S.A. la Regina Elena di Savoia, la quale giunse a “nome di Sua Maestà per ringraziare madre Manuela Vicente dell’ospitalità che aveva concesso a sua sorella, la principessa Milica [Petrović Romanoff], Gran Duchessa di Russia”, tenuta scrupolosamente lontano da occhi indiscreti al punto che perfino le altre consorelle della comunità ignoravano la sua vera identità per tutto il periodo della sua permanenza presso la casa di Trinità dei Monti.

Infatti, su espresso desiderio della S. Sede, Madre Manuela Vicente aveva accettato ben volentieri di offrire “ospitalità alla principessa Milica che, nella sua duplice veste di sorella della Regina d’Italia, e moglie del Granduca di Russia Pietro Nikolaevič era sospettata dagli ‘occupanti tedeschi’… e [tutto] si è fatto per nasconderla, solo le Madri sapevano il vero nome di questa principessa reale”.

Il Pontefice Pio XII era al corrente della cosa?

Preziosi: Leggendo questi documenti direi proprio di si. Si noti bene questa data: 6 ottobre 1943. Ebbene, dai documenti degli archivi dell’Office of Strategic Service declassificati alcuni anni or sono risulta che le forze alleate, proprio dal 6 ottobre 1943, mediante il cablogramma numero 19 erano al corrente del dispaccio segreto con il quale Hitler aveva pianificato il destino degli ottomila ebrei romani, ordinandone la deportazione nei campi di sterminio tedeschi per essere definitivamente «liquidati». È interessante notare la scansione cronologica di questi avvenimenti che coincidono sorprendentemente con la circolare vaticana del 25 ottobre 1943, rivelata dall’attuale segretario di Stato cardinale Tarcisio Bertone, in cui si “forniva l’orientamento di ospitare gli ebrei perseguitati dai nazisti in tutti gli istituti religiosi, di aprire gli istituti e anche le catacombe”. Com’è noto pochi giorni dopo, il 16 ottobre, si verificò l’ignominioso rastrellamento del ghetto ebraico di Roma. Dunque, come si evince in modo incontrovertibile da questi documenti, gli alleati erano perfettamente al corrente, e con ben dieci giorni d’anticipo, del piano scellerato che i tedeschi stavano per mettere in atto. Occorreva dunque far presto e, pertanto, non sembra del tutto azzardato ipotizzare che, attraverso qualche canale diplomatico, anche l’entourage vaticano fosse venuto a conoscenza di questa notizia. Del resto non si potrebbe spiegare diversamente la sollecitudine con cui Pio XII, tramite monsignor Giovanni Battista Montini, aveva esortato la superiora generale della Società del Sacro Cuore Manuela Vicente ad allestire adeguati rifugi presso le proprie case religiose allo scopo di dare asilo agli ebrei perseguitati.  È interessante notare poi cosa accadde il 29 maggio del 1944. Si legge, infatti, nel Giornale della Casa che: “Un’opera di zelo obbligò ieri la Rev.da Madre ad andare in Vaticano per ottener modo di salvare un’anima quasi restia alla grazia, ma il Signore ha esaudito le nostre preghiere e da una buona lettera sappiamo che la premura delle Madri e di S. E. Mons. Montini della Segreteria di Stato non sono state vane e il pericolo è allontanato. Vera grazia dello Spirito Santo!…”.

Che tipo di rapporti aveva il Papa con la congregazione religiosa della Società del Sacro Cuore?

Preziosi: Anche in questo caso è interessante rilevare come prima di ascendere al soglio pontificio, l’allora Cardinale Eugenio Pacelli era neanche a farlo apposta il cardinale protettore di questa congregazione religiosa. In effetti i rapporti idilliaci tra Pio XII e la Società del S. Cuore risalivano fin dagli anni Trenta allorché all’allora Cardinale Pacelli era stato affidato per l’appunto il ruolo di protettore di questa congregazione e, in seguito, si erano vieppiù consolidati con la madre superiora Manuela Vicente ragion per cui tutto lascia supporre che furono proprio questi solidi rapporti di fiducia ad indurre il pontefice a rivolgersi senza alcuna esitazione alle suore della Società del S. Cuore per assicurare un rifugio sicuro ad alcune persone di religione ebraica perseguitate dai nazi-fascisti. Il Vicariato intratteneva canali privilegiati con la Superiora della Comunità madre Yvonne De Thélin, mentre il Vaticano interpellava direttamente la Superiora Generale. Inoltre, si deve anche tener conto che il direttore della Congregazione era un ecclesiastico del calibro del gesuita Padre Tacchi Venturi, passato alla storia per il suo ruolo di maîtres à penser e raffinato interlocutore tra la Santa Sede e il regime fascista.

Quali prove dimostrano che la Santa Sede ha avviato e coordinato la rete di assistenza ad ebrei e perseguitati?

Preziosi: Le prove che attestano, al di là di ogni ragionevole dubbio, il coinvolgimento della Santa Sede nel coordinamento di questa sofisticata rete di assistenza a beneficio degli ebrei sono contenute proprio nel Giornale della Casa «Villa Lante» della Società del Sacro Cuore, nel quale le religiose annotavano tutti gli avvenimenti che di giorno in giorno riguardavano l’istituto, a quel tempo sotto la guida spirituale della superiora generale di origini ispaniche Manuela Vicente, sagacemente coadiuvata dalla madre vicaria Giulia Datti – dal quale apprendiamo, in data 6 ottobre 1943, un particolare davvero molto interessante. «La Rev.da Madre [Manuela Vicente] – si legge – è stata chiamata in Vaticano; si è recata con Sorella Platania alla Segreteria di Stato dove S. E. Mons. Montini l’ha pregata, in nome del Santo Padre, di alloggiare tre famiglie minacciate, come molte altre, di essere prese dai tedeschi. Ha pure offerto un’automobile, affinché la Madre possa andar subito alla Casa Madre per chiedere i dovuti permessi. […] Già una 15ª di persone alloggiano a Betania e la Rev.da Madre studia il modo di trovare altri buoni posti per meglio entrare nei desideri del Santo Padre che si degna darle tanta fiducia».

In effetti questa tesi viene suffragata anche nel diario scritto da suor Maria Teresa Gonzáles de Castejón che dichiara apertamente: “Noi sapevamo che il Santo Padre aveva aperto le porte del Vaticano ai rifugiati, soprattutto agli ebrei, per salvarli dalla persecuzione razzista. Molte case di religiosi e religiose avevano seguito il suo esempio, e le Reverende Madri Datti, Dupont e Perry decisero di nascondere anche dei rifugiati». Inoltre per scongiurare il pericolo delle improvvise perquisizioni nazifasciste all’interno degli ambienti ecclesiastici, la S. Sede provvide a far pervenire a tutti i superiori dei conventi romani un “avviso” firmato dal governatore militare di Roma Rainer Stahel, in cui si dichiarava esplicitamente che l’edificio era sotto le dirette dipendenze della Città del Vaticano e, pertanto, venivano interdette perquisizioni o requisizioni d’ogni genere. In effetti questo documento sembra che fosse pronto almeno fin dal 12 ottobre 1943, come si evince chiaramente da quanto annotato meticolosamente dalle religiose del Sacro Cuore di Gesù nel diario della loro Casa di Villa Lante, in cui si legge quanto segue:“Nell’impossibilità di comunicare con le varie vicarie, potrebbe essere bene far sapere alle Reverende Madri che possono ricorrere all’Ordinario della diocesi, per i permessi… Speciali poteri temporanei sono stati concessi dalla Santa Sede. In realtà molte Madri Vicarie lo sapevano già. Il Vaticano ha fatto dire, che un documento era pronto, attestante che la nostra Casa Madre era riconosciuta come bene della Santa Sede. Nessuna domanda è stata fatta, ma questa protezione sarà ricevuta con riconoscenza. […] Questo attestato potrebbe essere affisso all’interno del portone…”.

Le due italie: “giacobini & insorgenti” (parte 2)

di Domenico Bonvegna

Sto argomentando sul libro di Massimo Viglione, 1861. Le Due Italie, edito da Ares, una domanda interessante si pone l’autore: quanti su 22 milioni di italiani del XIX secolo, avevano coscienza reale e volontà effettiva di unificare politicamente la Penisola abbattendo per sempre i secolari legittimi governi in cui vivevano?

La risposta è “pochi eletti”, l’1 per cento della popolazione. E ancora, quanti dei sette milioni di abitanti del Regno delle Due Sicilie (eccetto i fratelli Spaventa, Settembrini, Ricciardi e qualche decina di carbonari) si sentivano “italiani”come l’intendevano i cosiddetti patrioti anziché napoletani, o siciliani, calabresi etc. La realtà è che i grandi attori della Risorgimento italiano non volessero “fare l’Italia”in piena sintonia con la sua secolare identità, storia, civiltà, bensì volevano fare una “nuova Italia”su basi centralistiche e stataliste simili alla nazione francese nata dalla rivoluzione dell’89.

Il braccio sinistro della Rivoluzione Italiana è stata la Massoneria, è difficile negare il ruolo centrale che hanno avuto le associazioni massoniche locali e straniere nel Risorgimento. La Carboneria, la Giovine Italia, erano direttamente filiazioni massoniche. Massoni sono stati la maggior parte dei protagonisti della Rivoluzione Italiana. Del resto gli stessi Papi non hanno mai smesso di di condannare la Massoneria come ispiratrice della guerra alla Chiesa cattolica e del Risorgimento stesso. Del resto il fine della massoneria e quindi dei risorgimentisti era di sostituire alla religione e alla Chiesa cattolica una nuova religione, quella della patria risorgimentale.

Nella 2 parte del testo Massimo Viglione affronta i fatti che hanno caratterizzato la Rivoluzione risorgimentista, partendo dalla data fondamentale del 1796, una data di cui nessuno o quasi sa nulla e che invece svolge un ruolo d’importanza capitale, molto più del 1848, del 1861, del 20 settembre 1860, del 1915-18, del 1922, anche dell’8 settembre ’43, e poi del ’45, del 18 aprile 1948 e così via. Per Viglione il 1796 sta all’Italia come il 1789 sta alla Francia. La differenza è che i francesi esaltano (o pochi condannano) il loro 1789, noi invece abbiamo perduto la memoria di quell’anno, ricordato solo dagli esperti in materia nei loro libri e nei loro disertati convegni.

Nel 1796, c’è stata l’invasione degli eserciti francesi di Napoleone e con loro l’importazione della Rivoluzione francese, imposta con le baionette, i cannoni, le stragi, i furti e le profanazioni delle Chiese. “E’ l’anno della nascita delle repubbliche giacobine e democratiche, sorte sulle spoglie degli antichi tradizionali Stati monarchici e aristocratici, comunque cristiani, della formazione di una aperta e perseguita coscienza rivoluzionaria, laica e repubblicana, nelle élites del nostro paese”. Ma è anche l’anno in cui inizia la grande Insorgenza Controrivoluzionaria di tutto il popolo italiano dalle Alpi alle Calabrie, “il più grande, drammatico ed eroico (e ancora oggi poco conosciuto) evento della storia degli italiani. Talmente drammatico ed eroico che lo si è cancellato dalla memoria collettiva, in quanto sgradito alla ideologia del Risorgimento; ed è per questo che nessuno coglie veramente fino in fondo l’importanza del 1796″. Il 1796 secondo Viglione, è l’inizio della “nuova storia” degli italiani, è l’ “anno del prima e del poi”, per noi italiani, rappresenta, lo spartiacque della nostra civiltà. In pratica, è l’inizio della modernità in Italia. E’ chiaro che qui non possiamo approfondire la questione, rinvio alla lettura di alcuni ottimi testi dello stesso Viglione e di altri storici che a partire dal 1990 hanno svolto un’appassionante opera di ricerca poi convogliata nell’ Istituto Storico per l’Insorgenza e per l’Identità nazionale ( www.identitanazionale.it ) . Nel 1796 iniziò la Rivoluzione Italiana: “un uragano storico-politico-militare, nonché anche specificamente religioso, si abbattè sulla Penisola dopo secoli di pace, portando con sé una grave eredità: la divisione e l’odio ideologico”. E’ importante questo aspetto, gli italiani erano in pace da quasi tre secoli, non avevano mai conosciuto l’odio ideologico, anche se erano divisi geopoliticamente, ma erano uniti nello spirito delle identità di vedute, credenze e tradizioni.

Dal 1796 non si è più “italiani”e basta, ma giacobini o insorgenti, cattolici o massoni, repubblicani o monarchici, democratici o conservatori, etc. Per Viglione in pratica è l’inizio della “guerra civile italiana”, per l’esattezza della prima guerra civile, poi ci sarà quella del cosiddetto brigantaggio nel 1861 e infine la terza quella nel 43-45. A pagina 76 del libro, Viglione scrive: “Napoleone non fu un ‘semplice’ invasore. Egli portò con sé, sulla punta delle baionette dei suoi soldati, le idee, le utopie e i modi di comportamento della Rivoluzione francese. Esportò insomma in Italia la Rivoluzione e lo fece con la violenza, l’occupazione, il sopruso”.

In poco tempo gli italiani si ritrovarono in casa, il giacobinismo, il repubblicanesimo rivoluzionario, la guerra, i governi legittimi sovvertiti, le chiese derubate, saccheggiati i monti di pietà, i musei, le banche, gli ospedali. Violenze e tragedie che gli italiani non avevano più vissuto da secoli. Spontaneamente tutto il popolo italiano insorse con qualsiasi arma contro gli invasori e soprattutto contro i giacobini locali, dando vita all’ insorgenza controrivoluzionaria. “Si tratta della più grande rivolta popolare della storia italiana, – scrive Viglione – e certamente di una delle più grandi di tutti i tempi(…) Tale insurrezione, detta Insorgenza in quanto composta da una miriade di insorgenze locali, fu ‘nazionale’ nel senso geografico del termine, in quanto si estese dalla val d’Aosta alla Puglia, dalla Calabria al Tirolo, risparmiando solo la Sicilia, ove i francesi non arrivarono mai”. Una guerra insurrezionale durata fino al 1810, che ha visto oltre 300 mila italiani di tutte le classi sociali, in particolare popolari e contadine, prendere le armi e combattere per la Chiesa cattolica e i governi monarchici e tradizionali, ne morirono non meno di 100 mila, dall’altra parte appena qualche migliaio di uomini per lo più intellettuali. Per questo si spiega il motivo della rimozione degli storici ufficiali, chiamati i cani da guardia.

Comunque non si può giudicare la storia del risorgimento senza fare riferimento al fenomeno dell’Insorgenza controrivoluzionaria. Qualsiasi storico serio comprenderà “la lacuna storica che la storiografia nazionale ha imposto agli italiani, facendo praticamente scomparire dai libri di testo, tutta questa epocale vicenda, e sostituendoli pedissequamente con continui ripetitivi studi su pochi giacobini indigeni che andarono a ballare intorno agli ‘alberi della libertà’ imposti dall’invasore, coadiuvandolo nei suoi furti, nelle sue profanazioni e nelle sue stragi”.

Sia Viglione, come altri storici, da qualche decennio, sostengono che la stragrande maggioranza del popolo italiano insorse in armi contro gli ideali laicisti di democrazia giacobina della Rivoluzione francese, pronti a morire in difesa della tradizionale civiltà cattolica, sacrale e legittimista. Inoltre occorre “costatare che i cosiddetti “protomartiri del Risorgimento”, i “patrioti”napoletani del 1799, furono impiccati proprio perché odiati da tutto il popolo, e, soprattutto, che erano solo qualche centinaio in tutto, mentre, dall’altra parte della barricata, vi furono pronti a morire per la propria patria, quella vera, non quella ideologica, non meno di 60.000 persone, che nessuno ha mai ricordato o che si sono sempre qualificate come ‘briganti’, sulla scia terminologica vandeana”.