Bastonate apostoliche di Francesco all’antipolitica (e pure ai preti d’ufficio)

Bastonate apostoliche di Francesco all’antipolitica (e pure ai preti d’ufficio)

Teologia politica a Santa Marta: più impegno e preghiere per chi governa. Lezione “argentina” al clero di Roma

“Apri il giornale e bastonano, guardi la tv e bastonano. Sempre il male, sempre contro. C’è l’abitudine di dire solo male dei governanti e fare chiacchiere sulle cose che non vanno bene”. Troppo comodo, insomma, giudicare chi ci governa stando seduti in poltrona, salendo sui tetti, organizzando sit-in o riempiendo le piazze con bandiere e slogan di protesta più o meno volgari, senza “dare il nostro contributo”, limitandosi a dire “io non c’entro, sono loro che governano”. Il rapporto tra governante e governato è stato al centro dell’omelia pronunciata ieri mattina dal Papa, poco dopo l’alba, nella piccola cappella di Santa Marta. “Tante volte abbiamo sentito che un buon cattolico non si immischia in politica, ma questo non è vero”, ha aggiunto. “Un buon cattolico si immischia in politica, offrendo il meglio di sé, perché il governante possa governare”. Insomma, chi in questi anni fosse diventato sostenitore del patriota dannunziano Guido Keller che dopo l’impresa di Fiume gettò dal proprio aereo un pitale colmo di rape e carote su Montecitorio, farebbe bene a ripassare la dottrina sociale della chiesa cattolica, secondo la quale “la politica è una delle più alte forme della carità”. Il cittadino, dunque, “non può lavarsene le mani”, benché ormai “ci sia l’abitudine di pensare che dei governanti si deve solo chiacchierare, parlare male di loro e delle cose che non vanno bene”. Certo, la tentazione di dire che quel politico “è una cattiva persona che deve andare all’Inferno”, c’è e spesso è pure forte. Ma il cattolico deve pregare anche per il proprio governante (che deve essere umile e amare il suo popolo), “e non lo dico io, ma san Paolo”, ha precisato Bergoglio.

“Alla chiesa serve coraggiosa creatività”

Poco dopo, a bordo della Ford Focus blu, Francesco ha raggiunto San Giovanni in Laterano per l’incontro con il clero romano. Alla chiesa, ha detto rispondendo alle domande delle centinaia di sacerdoti presenti, “serve conversione pastorale e coraggiosa creatività”. Bisogna “cercare strade nuove”, far sì che la chiesa sia sempre più accogliente. Basta con quelli che “in parrocchia sono più preoccupati di chiedere soldi per un certificato che al Sacramento”, ha aggiunto. Così facendo, “si allontana la gente”. C’è necessità, invece, di più “accoglienza cordiale”, e il prete misericordioso deve essere il primo a farsene carico. Non è più tempo di sacerdoti “rigoristi e lassisti”, anzi, da loro bisogna guardarsi bene. Il prete deve sentire “la fatica del lavoro”, perché “la conversione si fa in strada, non in laboratorio”. Infine, ribadendo quanto già detto a bordo dell’aereo Rio-Roma lo scorso luglio, “la chiesa deve fare qualcosa per risolvere i problemi delle nullità matrimoniali. Ridurre la questione al divieto o meno di fare la comunione significa non comprendere il vero problema”. Al clero di Roma Francesco ripete quanto disse, cinque anni fa, ai sacerdoti di Buenos Aires. Non a caso, prima dell’incontro di ieri, ha voluto che il cardinale vicario Agostino Vallini distribuisse ai preti romani il testo da lui preparato in quella occasione. Poche pagine che riprendevano i punti salienti del documento che chiudeva la V Conferenza dell’episcopato latinoamericano di Aparecida, e che aveva in Bergoglio il presidente del comitato di redazione. E’ lì, spiegava il futuro Papa, che si delinea la chiesa del futuro. In quei paragrafi si leggono i presupposti per la grande missione di nuova evangelizzazione da portare avanti nel Ventunesimo secolo. Un programma, disse lui stesso sei anni fa, che andava ben oltre i confini del Sudamerica.

© – FOGLIO QUOTIDIANO

di Matteo Matzuzzi

Francia, il signor Lebouvier vuole sbattezzarsi e denuncia la sua diocesi. Ma il tribunale gli dà torto

Francia, il signor Lebouvier vuole sbattezzarsi e denuncia la sua diocesi. Ma il tribunale gli dà torto

La diocesi di Coutances ha scritto di fianco al suo nome sul registro: la formula: «Ha rinnegato il suo battesimo». Ma l’uomo voleva l’annullamento del Sacramento
di Leone Grotti da www.tempi.it 
René Lebouvier, ateo di 73 anni, già cattolico e ora «libero pensatore» ha denunciato la diocesi di Coutances, in Francia, perché si è rifiutata di cancellare dai registri parrocchiali il suo battesimo. La lunga battaglia dell’uomo contro la Chiesa francese, cominciata nel 2001, si è chiusa l’altro giorno quando la Corte d’appello di Caen ha dato ragione alla diocesi.

«VOGLIO SBATTEZZARMI». Quando Lebouvier ha manifestato l’intenzione di “sbattezzarsi”, nel 2001, la diocesi ha scritto nel registro, di fianco al nominativo dell’uomo: «Ha rinnegato il suo battesimo». Lebouvier ha ottenuto così la rinuncia pubblica al suo battesimo e si è ritenuto soddisfatto. Ma nel 2009, «scandalizzato dall’atteggiamento del Papa in Africa sul preservativo», ha chiesto alla diocesi di «cancellare completamente il mio battesimo». Davanti al rifiuto del vescovo, l’uomo si è rivolto al tribunale, che il 6 ottobre 2011 ha sentenziato che il suo nome doveva effettivamente essere cancellato dai registri.

BATTESIMO NON SI ANNULLA. La Chiesa ha fatto ricorso perché, come spiega al Le Figaro il cappellano di una scuola di Seine-et-Marne, «il battesimo non è un contratto o un abbonamento che apre a dei diritti o che si può cancellare. Dio infatti non viene mai meno al suo giuramento, contrariamente agli uomini». Il battesimo dunque non può essere annullato perché, per quanto l’uomo lo rinneghi, il Sacramento divino non si cancella. Inoltre è un atto pubblico celebrato alla presenza di testimoni: non si può far finta che non sia mai esistito. Ma poiché la Chiesa riconosce chi rinuncia pubblicamente alla religione cattolica, la diocesi ha aggiunto di fianco al suo nome la dicitura: «Ha rinnegato il suo battesimo».

«LIBERTÀ RISPETTATA». Ispirandosi a tutti questi motivi, la Corte d’appello di Caen ha dato ragione alla diocesi di Coutances, stabilendo che «la libertà del signor Lebouvier di non appartenere alla religione cattolica è rispettata anche senza la cancellazione o un’ulteriore correzione del documento in questione». In Francia si celebrano circa 300 mila battesimi all’anno e secondo le statistiche della Chiesa sono circa mille le persone che ogni anno chiedono di sbattezzarsi.

Giovedì della XXIII settimana del T.O.

Giovedì della XXIII settimana del T.O.

dal Vangelo secondo Luca 6,27-38.

Ma a voi che ascoltate, io dico: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano.
A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica.
Dà a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo.
Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro.
Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso.
E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso.
E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, che merito ne avrete? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto.
Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gl’ingrati e i malvagi.
Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro.
Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato;
date e vi sarà dato; una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio».

Il commento di don Antonello Iapicca

Gesù parla “a noi che ascoltiamo”, non a tutti. Attenzione, questo è fondamentale. Gesù non sta annunciando un nuovo ordine mondiale, non sta promulgando una nuova Costituzione, fosse anche, parafrasando Benigni, la più bella del mondo. Gesù parla a chi ascolta. La fede, infatti, viene dall’ascolto della predicazione. Essa è sempre “stolta” per il mondo, perché annuncia Cristo crocifisso. Eccolo infatti emergere dalle sue stesse parole: l’amore al nemico è l’amore crocifisso. Gesù parla a noi che abbiamo l’orecchio aperto per ascoltare, e ci invita innanzitutto a contemplare Lui, disteso sulla Croce ad offrire la vita per te e per me, suoi acerrimi nemici. O non è così? Non lo abbiamo maledetto ogni volta che abbiamo mormorato parlando male di Lui e della sua volontà? E come ha risposto? Benedicendoci! Ad ogni nostra maledizione Gesù ha sempre risposto parlando bene di noi al Padre, ripetendo senza sosta: “Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno”. Ci ha giustificati, sino a dare la sua vita per noi. Questo è Cristo crocifisso. E così quando lo abbiamo maltrattato, nelle persone che ci sono accanto; non soltanto quando abbiamo alzato le mani, con i figli ad esempio, solo per dar sfogo alle frustrazioni; ma anche quando abbiamo ingannato e sedotto, usato e gettato via le persone come fossero oggetti. O quando lo abbiamo “percosso sulla guancia” in senso di sfida, togliendogli l’onore nelle offese e nelle calunnie con cui abbiamo colpito il prossimo.

Quante volte abbiamo “spellato” chi ci è accanto, come ripete Papa Francesco. Quante volte, con una superficialità disarmante abbiamo lasciato che la nostra lingua si facesse compagna di tante altre impegnate nello smontare pezzo a pezzo la dignità di un collega o anche di un amico? E quanti “mantelli” abbiamo sfilato da chi aveva solo quelli per coprirsi: quante ingiustizie per mettersi in tasca quattro soldi in più; le tasse, ingiuste e chi lo nega, non pagate, senza pensare che qualche anziano, per causa nostra, mangerà meno… Abbiamo preso ciò che non è nostro, mille volte al giorno. Non è nostra quella ragazza che appare nuda sul sito porno che abbiamo cercato. Anche se si sta prostituendo, quella donna è di Cristo che ha pagato per lei con il suo sangue; e di colui per il quale il Padre l’ha pensata; non è nostra la fidanzata sulla quale abbiamo allungato la mano; non è nostra neanche la moglie, e nemmeno il marito e nemmeno i figli. Ma quante volte ce ne siamo appropriati, volendo sapere delle loro cose intime, violando il segreto riservato a Dio; o cercando di assoggettare chi ci è accanto perché pensino e facciano come vogliamo noi. E Gesù ci ha sempre perdonato, amandoci senza riserve.

Non lo avremmo meritato, eppure…. Se il matrimonio è ancora in piedi è grazie alla sua Croce sulla quale si è donato, offrendoci la guancia, la tunica, tutto se stesso. E’ su di Lui che si è abbattuta la nostra concupiscenza e mille volte si è infranta perché non provocasse danni più grandi. Questa è la Croce predicata dalla Chiesa, la salvezza che abbiamo sperimentato tante volte. Siamo stati amati senza alcun merito, senza nessun diritto, gratuitamente. E oggi di nuovo ci viene annunciato l’amore svelato sulla Croce di Gesù, per ridestare la gratitudine e scoprire in essa la nostra vocazione. “A noi che ascoltiamo” è riservato il privilegio di essere, per il mondo, crocifissi con Cristo. La Chiesa, assemblea convocata per ascoltare il Signore, è la Sposa che Cristo ha unito a sé sul Legno benedetto: l’amore infinito che essa sperimenta si rivela proprio attraverso la sua presenza nella storia. Unita allo Sposo ne mostra la vita: i suoi figli amano i nemici per strapparli all’inimicizia. Stretti nel suo abbraccio che ci infonde la vita che non muore, stendiamo le braccia per donare tutto quello che abbiamo, liberi, senza difendere nulla. Mantello e onore, denaro e vita, tutto è per chi ancora non ha conosciuto il Signore, per quelli che lo odiano, perché la “misura” del suo amore è ben più grande di quella dei peccati più atroci.
“Manikos eros” diceva Casabilas, amore folle quello di Dio. E lo stesso Elisabetta della Trinità, quando affermava di credere nel “troppo amore di Dio”, per abbandonarsi e non vivere altro che di quella misericordia, la molecola fondamentale della stessa aria che respiriamo. “Mi prostro nella mia miseria e, riconoscendola apertamente, la espongo davanti alla misericordia del mio Maestro” (Elisabetta della Trinità). La vita autentica nasce dallo stare interiormente prostrati dinanzi al seno materno di Dio, in attesa, come la donna fenicia, come Maria ai piedi di Gesù, come la Maddalena. Aspettando trepidanti la sua misericordia, che si schiuda il suo seno (misericordia traduce il greco oiktirmon che a sua volta traduce l’ebraico rahamin, che indica il ventre, l’utero) e ne sgorghi quel liquido amiotico senza il quale non possiamo essere gestati alla vita celeste. La sua misericordia è, infatti, l’acqua della vita.

Non esiste unità di misura per l’amore di Dio. E noi, quante volte misuriamo il tempo speso per gli altri, il perdono offerto, la quantità di vita consegnata? Sì, perchè in fondo, quel che facciamo è prestare e mai donare. Per chi dona le misure non contano. Il dono non conosce calcoli. Quando nel cuore si comincia a tenere una segreta contabilità, una partita di dare e avere, è il segno che il Cielo è ormai chiuso, e la vita dei figli è divenuta vita di orfani. Come nella parabola del figliol prodigo, che esige dal padre di conteggiare la parte che gli spetta per spendersela in libertà e autonomia. E’ proprio questo il primo passo verso la rovina: aver obbligato suo padre a misurare ciò che non ha misura; ed è esattamente quello che, malmostosamente, ha fatto anche il figlio maggiore, quando, preda della gelosia, si è messo a calcolare l’incalcolabile amore del padre. Entrambi non avevano compreso che il tranello antico posto dal demonio ad Adamo ed Eva, era proprio quello di misurare l’eredità, che, da infinita, diviene così qualcosa di finito, esauribile, invidiabile, oggetto di gelosie, avarizia e concupiscenza, di difesa strenua a costo di uccidere l’altro con giudizi e condanne: misurare l’amore del Padre conduce sempre a rinchiuderlo nello spazio angusto della carne, dell’umano, farlo decadere dall’agape all’eros. E’ questo, in definitiva, il frutto mortale del peccato, voler accaparrarsi della Grazia, del dono, e ritrovarsi così padroni del nulla, schiavi delle passioni, sempre a corto di pazienza e misericordia, privati di quell’eccedenza d’amore, di quell’amore smisurato che, solo, può compiere la vita. Senza l’agape, i matrimoni restano senza vino, e fanno acqua, incapaci di sopportare l’urto della carne. Senza l’eccedere della carità, le amicizie evaporano, i fidanzamenti si piegano ai compromessi, le relazioni tra genitori e figli divengono campi di battaglia.
Eccoci in un giorno nuovo; ci aspetta un momento difficile con la moglie, un figlio ribelle, una suocera indurita, un collega geloso, un fidanzato in crisi, di fronte a quello che ci presenta la storia ferita dal peccato, possiamo davvero misurare quello che abbiamo tra le mani? “Che cos’è questo nulla per sfamare tanta gente, per vivere in pienezza e secondo la volontà d’amore del Padre?”. Misuriamo, come i discepoli, e ci ritroviamo con cinque pani e due pesci, nulla di fronte all’eccezionalità della necessità. Perché ogni situazione che siamo chiamati a vivere è eccezionale e necessita un amore smisurato, che, come il Nilo, tracimi dal letto abituale, quello dell’ordinaria amministrazione dei compromessi ipocriti e impauriti, per fecondare e donare la vita. Il peccato ha ferito la storia, per viverla da figli di Dio è necessario un amore che ha vinto il peccato.
Occorre un amore senza misura per custodire la castità nel fidanzamento, che superi la passione e il sentimento, per rispettare e custodire l’altro nella purezza di un figlio di Dio, attendendo con pazienza di vedere confermata la volontà di Dio nel matrimonio; è necessario un amore che trascenda ogni calcolo per aprirsi alla vita e vivere la sessualità coniugale abbandonati alla volontà di Dio; un amore più forte della vanità femminile, delle angosce per la precarietà economica, un amore che abbracci la vita consegnandola al suo Autore, affidandola a Colui che la rende eterna, superando i confini della carne.
Gesù ci guarda oggi e ci chiede il nulla che abbiamo per trasformarlo in un folle e smisurato amore, capace di eccedere e condurci in una vita nuova, quella dei figli, somiglianti al Padre, allevati nella sua misericordia per essere pura misericordia per ogni nostro prossimo. Chi vive nascosto nel seno del Padre, immerso nella sua misericordia, chi si nutre, istante dopo istante del suo perdono, chi sperimenta, quotidianamente, il suo amore incalcolabile, ha smarrito il giudizio, il suo cuore è ormai intento a succhiare il latte della misericordia e non può preoccuparsi di condannare e pensar male degli altri. I suoi occhi sono intrisi nello sguardo del Signore, non sanno guardare nessuno se non attraverso gli occhi di Dio. E non può amare che con il cuore di Dio, senza timore, perché il proprio cuore è già nel Cielo e nessuno potrà mai trafugare ciò che non si si può misurare e non si esaurisce. Un amore donato nella carne delle proprie ore, spese gratuitamente, senza difendere nulla, senza invidia e gelosia perché Dio è lo stesso e ama tutti con lo stesso cuore.
Israele conosceva l’attenzione al forestiero perché ne aveva fatta l’amara esperienza in Egitto e aveva visto e assaporato la vittoria del braccio di Yahwè disteso a liberarlo. Così l’uomo creato per amare e perdonare, straniero in una terra d’odio e rancore, liberato gratuitamente dalla tirannide dell’oppressore, conoscerà per esperienza l’angustia di chi è ancora straniero in una terra non sua. Saprà perdonare chi non sa perdonare. Non si tratta di cercare e sforzarsi di non giudicare, di non condannare, di allargare la misura del proprio cuore. E’ opera impossibile all’uomo. Si tratta di conoscersi, di avere chiaro l’abisso del proprio cuore, e in esso incontrare l’infinita misericordia del Padre. Chi vive ai piedi dell’amore è trasformato a poco a poco in amore misericordioso, capace di giustificare, senza misura. Dal suo grembo, dalle sue viscere, nascerà solo misericordia, in misura traboccante, incalcolabile, la stessa nella quale è rinato, gratuitamente.
Bastonate apostoliche di Francesco all’antipolitica (e pure ai preti d’ufficio)

Il digiuno cristiano non è quello di Marco Pannella

di Tommaso Scandroglio da www.lanuovabq.it

Domenica scorsa Papa Francesco ha deciso di indire per sabato 7 settembre “una giornata di digiuno e di preghiera per la pace in Siria, in Medio Oriente, e nel mondo intero”. L’invito è esteso a tutti, credenti e non.

Marco Pannella si è sentito chiamato in causa solo a sentire che il Pontefice invitava anche i laici a digiunare e non gli è parso vero di dire la sua: «Quando lui invita il mondo, non solo quello cattolico, sabato prossimo, ad una giornata di preghiera, di impegno e, per quel che lo riguarda, di digiuno per la Siria e contro la violenza, aiuta anche noi, anche me, in questo momento della realtà storica e politica del Partito Radicale. A partire da quel che annuncia Papa Francesco – ha continuato il leader radicale dai microfoni della radio omonima – vorrei suggerire che dalle carceri italiane venga fuori una tre giorni – da sabato a lunedì – di digiuno, contro la guerra, la violenza, e la violenza di Stato».

Insomma, dal punto di vista di Pannella, il digiuno voluto dal Papa e il suo, stessa cosa sono e quindi si sente legittimato ad arruolare persino Papa Francesco nella sua lotta per i “diritti civili”, superandolo in bontà perché ha rilanciato all’invito del pontefice con ben tre giorni di digiuno. Invece lo sciopero della fame indetto a più riprese e ormai da decenni dai radicali e la pratica del digiuno cristiano hanno una natura differente e perseguono scopi quasi diametralmente opposti.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna che la pratica del digiuno ha una duplice valenza. Di base aiuta a «farci acquisire il dominio sui nostri istinti e la libertà di cuore» (2043). I radicali, si sa, invece spingono ad un asservimento dell’uomo ai propri istinti riconosciuto per legge: pensiamo ad esempio alle loro lotte per la liberalizzazione delle droghe e della prostituzione.

Su un piano più elevato, poi, il digiuno cristiano esprime “la conversione in rapporto a se stessi” (1434). Insieme a preghiera ed elemosina, il digiuno rappresenta un «mezzo per ottenere il perdono dei peccati, gli sforzi compiuti per riconciliarsi con il prossimo, le lacrime di penitenza, la preoccupazione per la salvezza del prossimo, l’intercessione dei santi». Tutte cose estranee – banale a dirsi – al pensiero radicale e in specie a quello pannelliano.

Ma perché il Papa chiede di digiunare e pregare per la pace? Come può il nostro digiuno influenzare chi è nella stanza dei bottoni pronto a scatenare nuovi conflitti armati? Ci viene in soccorso una nota della CEI del 1994 dal titolo “Il senso cristiano del digiuno e dell’astinenza”. In questa nota i vescovi spiegano che il digiuno è uno strumento potente di “implorazione dell’aiuto divino”, strumento che lo stesso Gesù ha adottato nel deserto per lottare contro il maligno. Papa Francesco in buona sostanza ci ricorda che la storia non è fatta solo dagli uomini, ma anche da Dio dagli angeli buoni e da quelli ribelli. Una visione della vicenda umana metafisica, anzi spirituale. Se allora le guerre non nascono solo da motivazioni umane, terrene, bensì hanno la loro radice in potenze sovrannaturali, allora gli strumenti per combattere il male devono avere anch’essi natura sopranaturale. Se il digiuno è compiuto con il giusto spirito di contrizione, di carità e di abbandono a Dio, se esprime davvero un gesto di amore e di richiesta di aiuto, ecco che acquista efficacia. Un’efficacia non solo simbolica – come lo sciopero della fame di Pannella – ma effettiva. Il digiuno vissuto così come la Chiesa insegna realmente acquista un valore spirituale così pregnante che può orientare le coscienze dei governanti. Il digiuno fatto dagli uomini e offerto a Dio, nella mani di Quest’ultimo diviene realmente un condizionamento verso il bene. Dio bussa incessantemente alle porte del cuore di ogni uomo e il digiuno e la preghiera di molti aumenteranno il numero di mani di coloro che bussano.

L’iniziativa del Pontefice si inserisce nella tradizione millenaria dei credenti in Dio, così come ricorda ancora la CEI: «Le celebrazioni penitenziali, in tempo di gravi calamità e nei momenti decisivi dell’Alleanza fra Dio e il suo popolo, comportano anche l’indizione di un solenne digiuno per l’intera comunità. […] Privandosi del cibo, alcuni protagonisti della storia del popolo d’Israele riconoscono i limiti della loro forza umana e si appellano alla forza di Dio, che solo li può salvare». Stentiamo a credere che Pannella sia animato da simili motivazioni spirituali e da tali afflati religiosi.

Le sue motivazioni in realtà sono altre. In mano al leader radicale il digiuno non è strumento di richiesta di aiuto, bensì strumento di lotta, di protesta, altoparlante affinché i media si accorgano di lui, messinscena pubblica e strepitante per dar eco ad iniziative che all’opposto non potrebbero uscire dall’anonimato. Infatti tale pratica non è chiamata neppure “digiuno”, bensì “sciopero della fame” proprio per sancirne la natura ideologica, quasi sindacalista in opposizione ai poteri forti. La prospettiva dietetica di Pannella è allora politica, meramente appiattita sul piano orizzontale e autoreferenziale. Pannella digiuna per sé in fondo, e la pace, la condizione dei carcerati ecc … sono solo un pretesto per accendere i riflettori su di lui e sulla sua faccia emaciata che offre a favore di flash e telecamere.

Anche in questo lo sciopero della fame non c’entra nulla con il digiuno cristiano. Per rimanere alle parole del Vangelo, Gesù così ammoniva: «E quando digiunate, non abbiate un aspetto malinconico come gli ipocriti; poiché essi si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. […] Ma tu, quando digiuni, ungiti il capo e lavati la faccia, affinché non appaia agli uomini che tu digiuni».

Sulla stessa frequenza d’onda si muove Paolo VI con la Costituzione apostolica Paenitemini del 1966: la penitenza deve essere «atto religioso personale, che ha come termine l’amore e l’abbandono nel Signore: digiunare per Dio, non per se stessi». E così viene commentato questo passo dalla nota della CEI già richiamata: «Oggi, infatti, il digiuno viene praticato per i più svariati motivi e talvolta assume espressioni per così dire laiche, come quando diventa segno di protesta, di contestazione, di partecipazione alle aspirazioni e alle lotte degli uomini ingiustamente trattati». Una protesta che – è bene dirlo – può anche tradursi legittimamente nella forma del digiuno, ma che nulla a che vedere con la pratica cristiana indicata da Cristo e dal Magistero.

Giovedì della XXIII settimana del T.O.

Venerdì della XXII settimana del T.O.

Dal Vangelo secondo Luca 5,33-39

In quel tempo, i farisei e i loro scribi dissero a Gesù: «I discepoli di Giovanni digiunano spesso e fanno preghiere, così pure i discepoli dei farisei; i tuoi invece mangiano e bevono!». 
Gesù rispose loro: «Potete forse far digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro? Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto: allora in quei giorni digiuneranno». 
Diceva loro anche una parabola: «Nessuno strappa un pezzo da un vestito nuovo per metterlo su un vestito vecchio; altrimenti il nuovo lo strappa e al vecchio non si adatta il pezzo preso dal nuovo. E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo spaccherà gli otri, si spanderà e gli otri andranno perduti. Il vino nuovo bisogna versarlo in otri nuovi. Nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice: “Il vecchio è gradevole!”».

Il commento di don Antonello Iapicca

Amore e libertà: i discepoli di Gesù digiunano per amore, in libertà. Il digiuno cristiano è memoria, non è solo una pratica religiosa per purificarsi. E’ inginocchiarsi dinanzi al Crocifisso e implorare il suo ritorno. E’ una condizione essenziale dell’esistenza, vivendo autenticamente la vita terrena, che è già e non ancora. Lo Sposo è con noi, ma, contemporaneamente, non lo è in pienezza, perché questa è riservata al Cielo. La terra è ancora un cammino, passi che si susseguono verso il compimento, mentre la mancanza e il desiderio si acuiscono all’avvicinarsi della meta. Le nostre nozze con il Signore sono certo indissolubili, eppure “vi sono giorni nei quali lo sposo ci è tolto”. E’ quando la vita si addentra nel mistero di una compiutezza pregustata ma non ancora completamente assaporata. E’ il mistero della Chiesa, sposa e vedova allo stesso tempo, che esplode di gioia intorno alla mensa eucaristica, ma che digiuna nell’attesa della parusia. Essa vive del Memoriale del suo Signore, l’eucarestia, presenza viva del suo Sposo amatissimo. Per Lui getta ogni avere, gli spiccioli che ha per vivere, per Lui digiuna, perché Lui è la sua vita.
Nel mezzo del banchetto pasquale rinnovato ogni settimana erompe in un grido di nostalgia e speranza: Maràn athà, che afferma la certezza che il Signore nostro viene, ma che si può leggere anche marana tha, Signore nostro, vieni! E’ la parola che chiude la Scrittura: “Colui che attesta queste cose dice: «Sì, verrò presto!». Amen. Vieni, Signore Gesù” (Ap. 22,20). Il digiuno è il nostro Maràn athà, le lacrime appassionate della Maddalena presso la tomba del suo Signore; il digiuno è l’attesa fatta preghiera, perché lo Sposo torni presto per portarci con Lui. Presentando il calice nell’ultima cena, Gesù ha detto: «In verità vi dico, non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel Regno di Dio» (Mc 14,25). Dopo quel banchetto lo Sposo sarà tolto e i discepoli dovranno digiunare nell’attesa del suo ritorno, nella speranza dell’eterno «banchetto delle nozze dell’Agnello» (Ap 19,9). Il nostro digiuno partecipa così a quello di Gesù deposto nel sepolcro. Un digiuno che custodisce la promessa di bere con Lui il vino nuovo del Regno di Dio. Digiunare è spogliarci in attesa d’essere una sola carne redenta con il nostro Sposo, nell’ansia del santo e castissimo amplesso, quell’amore eterno per il quale siamo stati creati.
Il digiuno esprime la novità di un rapporto autentico con Dio, non più basato sul timore ma sull’amore, come un’abitudine nuova, l’abito nuovo con il quale entrare nella storia quotidiana; come alle nozze di Cana, il digiuno prepara e spera, l’avvento del “vino nuovo”, il segno di una festa e un’allegria sconosciute che scaturiscono dall’amore più forte della morte. La Chiesa, come Maria, sa che Gesù è con Lei, nella vita dei suoi figli, anche se non è giunta ancora l’ora della sua definitiva manifestazione riservata alla parusia. Per questo prega e digiuna perché. anche se le nozze si compiranno solo nel mondo futuro, il demonio non abbia potere sul loro preludio che è la vita in questo mondo. Pur digiunando, la Chiesa non smette il “vestito nuovo” della festa per indossare abiti rattoppati che certamente si squarceranno.
I cristiani non cercano soluzioni superficiali ai problemi, come i digiuni fatti per dimagrire nel corpo e ingrassare così l’uomo vecchio schiavo dell’orgoglio e della vanità. In poco tempo, e senza accorgersene, la fame del superbo si fa più forte ed esigente, e finisce per divenire più grasso e tronfio di prima, l’esito inevitabile di chi cerca sempre il compromesso tra il passato di peccato e la vita nuova della Grazia, tra il mondo e Dio, come “toppe cucite sugli strappi”, “otri” incapaci di contenere e custodire l’assoluta novità dell’amore di Cristo. I cristiani, paradossalmente, digiunano pregustando già il “vino nuovo” che non spacca gli otri della propria vita, ma, proprio nella precarietà e nella debolezza di una vedova, la memoria dello Sposo che è il digiuno, costituisce la loro forza, con la quale entrano nei giorni senza dissipare e strappare nulla, donandosi con amore a tutti.
Per questo Santa Teresa d’Avila diceva “Muoio perché non muoio”, e San Paolo affermava che “il morire è meglio del vivere”. Non era disprezzo della vita, anzi: più si vive intensamente la vita terrena più si desidera di addormentarsi per risvegliarsi in Cielo. Più la vita è perduta per amore, più forte è l’ansia d’un amore perfetto e definitivo: siamo chiamati a divenire “uomini che hanno in sé un desiderio così possente che supera la loro natura, ed essi bramano e desiderano più di quanto all’uomo sia consono aspirare, questi uomini sono stati colpiti dallo Sposo stesso; Egli stesso ha inviato ai loro occhi un raggio ardente della sua bellezza. L’ampiezza della ferita rivela già quale sia lo strale e l’intensità del desiderio lascia intuire Chi sia colui che ha scoccato il dardo” (N. Kabasilas). Feriti dal dardo d’amore del loro Sposo i figli delle nozze vivono un’attesa di pienezza che nulla sulla terra può colmare.
Quando sperimentiamo la lontananza da una persona cara che vorremmo vicino; quando dobbiamo vedere le persone amate dileguarsi e scomparire dall’orizzonte della nostra vita; quando forte è l’esperienza della frustrazione, e sforzi, progetti, speranze sembrano andare in fumo; quando le sofferenze, la precarietà, le malattie, la solitudine, i fallimenti, ghermiscono l’esistenza e non le lasciano proprio nulla cui appoggiarsi, nulla a dare consistenza alle giornate, al lavoro, agli affetti; quando le debolezze ci rivelano incapaci di donare la vita e amore; quando la Croce ci accoglie, spogli di ogni certezza, nell’esperienza dura di trovarci lontani dal paradiso, nudi e indifesi come Adamo ed Eva prostrati dalla fatica e dal dolore; quando, come a Cana, “non abbiamo più vino”, e questo definisce senza sconti la nostra vita; quando la guerra e la violenza incombono, e i demoni affilano le armi per ucciderci, il digiuno emerge quale condizione esistenziale autentica e ineludibile. Papa Francesco lo sa bene e per questo ha invitato tutti a digiunare perché il Signore ci doni la sua pace. Essa non può essere il frutto di compromessi terreni, precari e stabiliti per essere infranti; la pace può essere solo un dono celeste, che superi le barriere degli egoismi. Qualcosa di nuovo e imprevisto, un otre nuovo per contenere il vino nuovo della vita divina.
Per questo in alcuni momenti, quando più intensa è l’esperienza della mancanza di pienezza e più viva è la consapevolezza che la presenza assoluta dello Sposo è questione di vita o di morte – quando siamo incastrati sul legno della Croce – è “naturale” il digiuno, il segno con il quale affermare di voler accogliere la storia così come Dio ce la dona, perché proprio in essa è presente il nostro Sposo. Cristo crocifisso, infatti, appare come la feccia degli uomini, uno davanti al quale coprirsi il volto per non guardare, non di certo come lo Sposo più bello; eppure, celato in quel “digiuno d’uomo” c’è Dio. Sul Golgota nessuno era capace di vederlo; al contrario, era lì come il peggiore dei bestemmiatori. Esattamente come appare la nostra esistenza, ferita, nuda, affamata; ma in essa è nascosto Cristo, carne della nostra carne, la sua Vita divina vi è deposta come un seme nella nostra vita mortale, la pienezza incastonata nella precarietà e nella caducità.
Non mangiare, non fumare, non parlare, digiunare da qualcosa, non è allora solo una pratica ascetica per “saziare” e ingrassare l’uomo vecchio che, spesso, fa anche della religione qualcosa di carnale, idolatrando perfino la santità. Digiunare è un’esigenza, un grido dalla Croce, l’eco stesso delle parole del Signore Crocifisso: “Dio mio, Dio mio, Sposo mio perché mi hai abbandonato?” (Sal. 21).Il digiuno sono le lacrime che sperano il suo amore. E’ questa l’ascesi, l’ascesa orante al trono della misericordia che sappiamo non deludere mai. Digiunare è lasciare che la verità prenda il posto delle menzogne, delle fughe e delle alienazioni, nella speranza fiduciosa di fare la stessa esperienza del salmista e di Gesù descritta al termine del salmo: “E io vivrò per lui… «Ecco l’opera del Signore!»” (Sal. 21). La fame che il digiuno suscita rivela la nostra realtà, quella dei nostri figli, dei giovani ai quali, troppo spesso, indichiamo percorsi diametralmente opposti e che non potranno mai realizzare le loro vite, consegnandoli così alla menzogna della vanità.
E’ dovere ineludibile di ogni educatore e apostolo illuminare profeticamente la vita e indicare nel digiuno, nel sacrificio, nel combattimento quotidiano, l’unico cammino che svela la verità celata nelle apparenze, la sola via autentica per vivere e non sopravvivere. Digiunare è come dipingere un’icona, un’immagine del destino promesso celato tra le pieghe delle vicende umane: “… quale percorso interiore l’icona presupponga. L’icona non è semplicemente la riproduzione di quanto è percepibile con i sensi, ma piuttosto presuppone, come egli afferma, un “digiuno della vista”. La percezione interiore deve liberarsi dalla mera impressione dei sensi ed in preghiera ed ascesi acquisire una nuova, più profonda capacità di vedere, compiere il passaggio da ciò che è meramente esteriore verso la profondità della realtà, in modo che l’artista veda ciò che i sensi in quanto tali non vedono e ciò che tuttavia nel sensibile appare: lo splendore della gloria di Dio, la gloria di Dio sul volto di Cristo” (J. Ratzinger, Messaggio inviato al Meeting di Rimini, 2002). La nostra vita è come un’icona che svela al mondo la Verità trasfigurata nella carne delle nostre storie quotidiane. E’ dunque parte essenziale della missione che ci è affidata, camminare interiormente con Cristo per aprire il Cielo della speranza a questa generazione. Questi luoghi e quest’ora non sono il destino definitivo: ogni uomo è nato per il Paradiso. Il nostro digiuno ne è un segno, per tutti.
 
 
APPROFONDIMENTI
 
 

L’icona dello Sposo

Silvano Fausti. Lo Sposo è con loro

Giovanni Paolo II. Allora digiuneranno

Raniero Cantalamessa. I discepoli e il digiuno

Emiliano Jimenez. Elemosina, preghiera, digiuno.

Luigi Giussani. La tristezza

Beato Jan Ruysbroeck. Ecco lo Sposo, andategli incontro

San Giovanni della Croce. Lo sposo è con loro

San Paciano. Lo Sposo è con loro

Bastonate apostoliche di Francesco all’antipolitica (e pure ai preti d’ufficio)

Il grido di dolore del Papa per la Siria: «C’è un giudizio di Dio e della storia sulle azioni»

da www.tempi.it

Drammatico appello del pontefice che condanna l’uso di armi chimiche e invita tutta la Chiesa, ma anche le altre religioni e i non credenti, a una giornata di digiuno e preghiera per la pace. Appuntamento a Roma il 7 settembre 

Il primo Angelus  di Papa FrancescoL’espressione cupa, la voce grave. È un papa Francesco visibilmente addolorato quello che si è affacciato stamane alla finestra su piazza San Pietro per la recita dell’Angelus domenicale. Il Papa quest’oggi non ha commentato il Vangelo della domenica ma ha subito espresso il proprio profondo dolore e turbamento per quello che sta accadendo in Siria, dicendosi «profondamente ferito, angosciato per gli sviluppi che si prospettano». Papa Francesco ha proclamato per il 7 settembre, vigilia della ricorrenza della natività di Maria regina della pace, una giornata di digiuno e preghiera per la pace in Siria, nel Medio Oriente e nel mondo intero a cui ha invitato a partecipare, nelle forme che riterranno opportune, anche le altre chiese, le altre religioni e i non credenti.

LA VIA DELLA PACE. «Quest’oggi cari fratelli e sorelle – ha detto il Papa – vorrei farmi interprete del grido che sale da ogni parte della terra, da ogni popolo, dal cuore di ognuno, dall’unica famiglia umana, con angoscia crescente: è il grido della pace. Il grido che dice con forza: vogliamo un mondo di pace, essere uomini di pace. Il grido dell’umanità dilaniata da conflitti: scoppi la pace, mai più la guerra, mai più la guerra, la pace è un dono troppo prezioso che deve essere promosso e tutelato».

«IL MIO CUORE FERITO». «Il mio cuore – ha proseguito il Papa – è profondamente ferito da quello che sta accadendo in Siria e angosciato dai drammatici sviluppi che si prospettano. Pensiamo quanti bambini non potranno vedere la luce del futuro. Con particolare fermezza condanno l’uso delle armi chimiche: ho ancora fisse nella mente e nel cuore le terribili immagini. C’è un giudizio di Dio e della storia alle nostre azioni, a cui non si può sfuggire. Non è mai l’uso della violenza che porta alla pace, la guerra chiama la guerra, la violenza chiama la violenza».

L’INVITO AI NON CREDENTI. «Che cosa possiamo fare noi per la pace nel mondo come diceva papa Giovanni? A tutti spetta il compito di ricomporre i rapporti di convivenza nella giustizia e nell’amore. Una catena di impegno per la pace unisca tutti gli uomini e le donne di buona volontà. È un invito che rivolgo all’intera Chiesa cattolica, ma anche ai cristiani di altre confessioni, agli uomini e donne di altre religioni e anche a coloro che non credono: la pace è un bene che supera ogni barriera perché è un bene di tutta l’umanità. Lo ripeto a voce alta: non è la cultura dello scontro, del conflitto quella che costruisce la convivenza nei popoli e tra i popoli, ma quella dell’incontro, del dialogo. Questa è l’unica strada per la pace»

APPUNTAMENTO IL 7 SETTEMBRE. «Il grido della pace si levi alto perché giunga al cuore di tutti e tutti depongano le armi e si lascino guidare da un anelito di pace. Per questo fratelli e sorelle ho deciso di indire per tutta la Chiesa il 7 settembre, vigilia della ricorrenza della natività di Maria regina della pace, una giornata di digiuno e preghiera per la pace in Siria, nel Medio Oriente e nel mondo intero». L’appuntamento è per sabato 7 settembre alle 19 in piazza san Pietro, ma il Papa ha invitato anche tutte le parrocchie e le diocesi lontane da Roma a organizzare iniziative per unirsi alla veglia.

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