Il vescovo che sussurrava ai gay

Il vescovo che sussurrava ai gay

di Riccardo Cascioli da www.lanuovabq.it

Palermo, chiesa di san Francesco Saverio

«Ciascuna parola in questa occasione è equivocabile. La parola “contro”, soprattutto, è dannosa, “suona male”. La giornata della Famiglia non è e non deve essere contro qualcuno. Non è e non deve essere una manifestazione di muscoli o di forza: la logica del Vangelo, infatti, non è quella della lotta ma è quella del sussurrare la verità alla ricerca sempre della più profonda verità dell’uomo». E’ questa la parte centrale del comunicato diffuso dal delegato per la famiglia della Conferenza episcopale Siciliana (Cesi), monsignor Calogero Peri, vescovo di Caltagirone, alla vigilia del Gay Pride nazionale e del Family Day che si svolgono a Palermo. 

Come è noto il Gay Pride è già in svolgimento e culminerà sabato nella solita grande sfilata. Alcune associazioni palermitane hanno organizzato in concomitanza – seppure in una diversa parte della città – il Family Day per il prossimo fine settimana.

Il comunicato dei vescovi siciliani è dunque una presa di distanza dal Family Day: si può certamente comprendere la preoccupazione che il dibattito sulla famiglia non si trasformi in una sterile contrapposizione ideologica o che addirittura non si creino condizioni per incidenti in piazza. Tanto è vero che altre associazioni hanno organizzato un secondo Family Day per la settimana successiva.

Il problema è però che dietro c’è dell’altro, che non è detto, e che dà un valore diverso alle parole di mons. Peri.

Non staremo qui a dilungarci sulla curiosa concezione della “logica del Vangelo” spiegata nell’occasione: basti rilevare che si fa riferimento alla verità, ma è così sussurrata che non si capisce quale sia. Si dice che la logica non è quella della lotta e – più avanti nel comunicato – si afferma anche che “Cristo non sarebbe andato contro nessuno”: eppure dalla cacciata dei mercanti nel tempio ai durissimi attacchi contro scribi e farisei (“razza di vipere”, “ipocriti”, “sepolcri imbiancati”), il Vangelo è pieno di episodi in cui Gesù parla a muso duro: per salvare, certo, non per distruggere l’altro, ma sempre a muso duro; per non parlare di San Paolo, per cui la lotta contro il peccato è una delle metafore preferite (e risparmiamo, per carità umana, i giudizi di Paolo sulla sodomia). Mons. Peri afferma che la verità va sussurrata, ma nel Vangelo questo verbo non si incontra neanche una volta; al contrario Gesù invita a una certa decisione invitando a temere non già chi può uccidere solo il corpo, ma piuttosto Colui che “ha il potere di gettare nella Geenna” (Mt 10,28, Lc12,5).

Certo, a volte si ha l’impressione che appellarsi alla “logica del Vangelo” nasconda in realtà la mancanza di coraggio nell’annunciare la verità, ma – come si diceva sopra – in questo caso si ha piuttosto l’impressione che nasconda qualcosa di più imbarazzante.

Bisogna infatti sapere che all’interno delle manifestazioni del Gay Pride c’è una parte riservata ai cristiani gay, che includono anche quelle associazioni gay “cattoliche” che in numero crescente vengono “riconosciute” o “accettate” ormai da diverse diocesi. A cominciare proprio da Palermo. Leggiamo ad esempio nel sito Gionata.org che «dal 14 al 23 giugno 2013 Palermo ospiterà dieci giorni di mostre, incontri di riflessione, incontri ecumenici e proiezioni sul tema “Fede e omosessualità” organizzate da Ali d’Aquila, il gruppo di gay e lesbiche cristiani di Palermo». Stasera ad esempio, è previsto il Question-time su Bibbia e Omosessualità, organizzato in collaborazione con i Laici missionari comboniani e la «partecipazione di Fra Vittorio Avveduto, Don Franco Barbero, Pastore Alessandro Esposito, Padre Cosimo Scordato».

Se Franco Barbero è in realtà un ex prete ridotto allo stato laicale nel 2003 da Giovanni Paolo II per motivi che è facile comprendere, padre Cosimo è il rettore della Chiesa di San Francesco Saverio, base del gruppo Ali d’Aquila, e ben noto sostenitore dell’omosessualismo cristiano; e fra Vittorio è un francescano famoso in città e non solo, anche lui teorico di un cambiamento del catechismo in materia di omosessualità.

Sarei ovviamente lieto di venire smentito, ma non ho trovato da nessuna parte qualche intervento autorevole di vescovi siciliani che a questi sacerdoti e gruppi non dico spieghino la verità, ma almeno la sussurrino.

Anche perché la partecipazione di parroci palermitani al Gay Pride va ben oltre l’equidistanza tra due manifestazioni.
E quel che più è grave è che non pare proprio che i due sacerdoti lo facciano con un atto di disobbedienza verso il vescovo. Anche questo lo apprendiamo dal sito Gionata.org, dove vengono elencate le diocesi in cui si sono celebrate le veglie di pregheira contro l’omofobia lo scorso 17 maggio. Ecco cosa si dice di Palermo (articolo a cura di Ali d’Aquila):

«Nel 2011 il veto della curia cattolica palermitana portò gli organizzatori (la parrocchia di S. Lucia, la Comunità di S. F. Saverio, la Chiesa Valdese di via Spezio, la Chiesa Luterana, il gruppo Ali d’aquila e inoltre la Comunità Kairòs che avrebbe curato la Lectio) a realizzare la preghiera in Piazza della Pace, davanti alla chiesa negata (S. Lucia).
Nel 2012 la proposta di tenere la veglia nella parrocchia di S. Gabriele Arcangelo ha trovato l’assenso del vescovo cattolico romano, il quale ha inviato un suo delegato, e subito ben due comunità parrocchiali cattoliche – quella di S. Gabriele, parrocchia ospite, e quella di S. Giuseppe Artigiano – hanno colto l’apertura del vescovo, promuovendo la veglia. Nel 2013 le parrocchie coinvolte salgono a tre. A S. Gabriele Arcangelo e S. Giuseppe Artigiano si aggiunge infatti la parrocchia della Pietà alla Kalsa, grazie all’interessamento del II Vicariato di zona dell’Arcidiocesi di Palermo, all’interno del quale la parrocchia ricade». Vale la pena aggiungere che «la Veglia verrà introdotta dal Vicario episcopale di zona del II Vicariato dell’Arcidiocesi, p. Roberto Zambolin, e verrà dato il benvenuto da p. Domenico Barbieri, monaco dei “Ricostruttori nella preghiera”, parroco di S. Maria della Pietà».

E’ perciò chiaro che l’arcidiocesi di Palermo sta promuovendo attivamente un approccio al tema dell’omosessualità che è opposto a quanto si trova scritto nel Catechismo che, da ogni cattolico, dovrebbe essere considerato la Verità.

Magari fosse almeno sussurrata questa Verità, la realtà è che viene apertamente negata. E senza che nessuno si senta in dovere di dire qualcosa. A dimostrazione che il problema più grave legato alla “lobby gay nella Chiesa” va oltre la già seria situazione di sacerdoti e vescovi omosessuali che fanno gruppo fra di loro: stanno cercando di sovvertire il Magistero della Chiesa.

Mercoledì della XI settimana del T.O.

Mercoledì della XI settimana del T.O.

Dal Vangelo secondo Matteo 6,1-6.16-18.

Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli.
Quando dunque fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa.
Quando invece tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra,
perché la tua elemosina resti segreta; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa.
Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
E quando digiunate, non assumete aria malinconica come gli ipocriti, che si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa.
Tu invece, quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo tuo Padre che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.

Il Commento di don Antonello Iapicca

Il Signore ci chiama a chiudere la porta e cercare nostro Padre; a scendere le scale del cuore e scoprire di vivere come orfani, chiasso all’esterno, tra impegni e parole, e far tutto per essere notati; anche quando ci nascondiamo scappando dagli altri, in fondo è perché la nostra vita dipende da loro. Una parola, questa di oggi, per gli affamati di vita e di amore. Ed è una buona notizia: c’è speranza, perché c’è la conversione, la Teshuvà direbbe un pio israelita, il ritorno. La conversione è il figlio prodigo, la fitta che gli percuote il petto, la percezione chiara d’aver buttato la vita e di essere ormai un relitto in secca, perso nella solitudine, con il nulla nel cuore, nessun viso, nessuna parola, tutto perduto. Ma, per una Grazia misteriosa, quella che scocca al termine della discesa, rientra in sé stesso, nella verità dalla quale era uscito ingannato da seducenti sirene di fumo. Rientra, e si trova da solo, e intuisce quello che ha smarrito: suo Padre. “Mi alzerò e tornerò da mio Padre“. Questo Vangelo accende oggi in noi la stessa scintilla per indurci a chiudere la porta del cuore e rientrare lì da dove siamo usciti, perduti tra i tentacoli del lavoro, degli impegni, delle cose, degli affetti, di noi stessi spalmati sul cuore, ruvido e secco, degli “altri”, proni tra giornate disordinate, cercando invano una ghianda, un affetto, un sorriso, una parola, un qualcosa di autentico che dia verità e valore alla nostra vita. Per questo siamo tante volte prede della concupiscenza. E’ per aver smarrito la nostra identità di figli che buttiamo i nostri corpi in relazioni fugaci. La sensualità, i peccati legati al sesso, siano essi i rapporti prematrimoniali o i rapporti coniugali egoistici e non aperti alla vita, o siano essi i peccati di una sessualità disordinata, la masturbazione o i rapporti omosessuali, sono tutti originati da una perdita di senso e di identità. Sono i peccati che caratterizzano gli orfani; anche la psicologia ci rivela che i disordini sessuali hanno sempre origine nella disintegrazione dei rapporti con i propri genitori. A maggior ragione essi sono il frutto avvelenato del demonio che ha soppiantato il Padre nel cuore dell’uomo. Quando è lui a far da padre, i suoi figli ne vorranno compiere i desideri. E sono sempre desideri di morte, realizzati attraverso relazioni egoistiche, che succhiano la vita dell’altro per restarne poi uccisi. Come i giudizi, le invidie, le gelosie, i desideri carnali di gadget e persone, rivelano che molto facciamo per attirare l’attenzione, accaparrarsi il cuore, i pensieri, la stima e gli affetti di chi ci sta intorno. E’ la concupiscenza che alberga nel nostro cuore, che ci fa vivere fuori dalla tenda, come Esaù, cacciando amore e sostentamento laddove non ve ne sono, rischiando così, seriamente, la primogenitura. Vivere proiettati al di fuori di sé stessi in una continua esibizione dei propri sentimenti, delle proprie parole, delle proprie buone azioni, frecce con le quali crediamo di infilzare le nostre prede: l’amico, la fidanzata, il marito, la moglie, il capoufficio, chiunque sia, compromettendo il rapporto esistenziale con nostro Padre. E’ il trionfo di Facebook, sempre connessi e in vetrina, sperando un “mi piace” che colmi il vuoto inaccettabile.
E’ tempo, dunque, di rientrare nel cuore e scoprire, senza paura, la solitudine e, da essa, cercare nel segreto lo sguardo di Chi abbiamo dimenticato. “Il digiuno, l’elemosina, la preghiera”, sono, infatti, innanzi tutto i segni d’una realtà che il mondo e il demonio ci occultano: la solitudine profonda della dimenticanza di Dio, il modo che ci ha dato di accettare, consapevolmente, l’assenza che erode le nostre giornate. Avendo tradito lo Sposo, in noi non c’è posto per il Padre. Siamo soli e affamati d’amore, anche se strepitiamo e ci facciamo notare. Per questo oggi Gesù ci richiama ad un segreto, a ritornare alla stanza più intima, tameion nell’originale greco del Vangelo, che può significare un magazzino o una dispensa, oppure la stanza più intima, quella meno adatta ad attirare l’attenzione degli ospiti, probabilmente perché senza finestre. Chiudere la porta, e scendere laddove non vi sono finestre, gli occhi e la bocca chiusi di fronte alle tentazioni della concupiscenza, in un’intimità di figli che tutto attendono da loro Padre. E’ il pudore a cui siamo chiamati, il segreto intimo di una relazione che ci mostra solo a nostro Padre, esattamente come siamo. Il pudore, secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica “è una parte integrante della temperanza. Il pudore preserva l’intimità della persona. Consiste nel rifiuto di svelare ciò che deve rimanere nascosto. È ordinato alla castità, di cui esprime la delicatezza. Regola gli sguardi e i gesti in conformità alla dignità delle persone e della loro unione… Il pudore è modestia. Ispira la scelta dell’abbigliamento. Conserva il silenzio o il riserbo là dove traspare il rischio di una curiosità morbosa. Diventa discrezione“. E’ esattamente ciò che Tobi dice a suo figlio Tobia: “E’ bene tenere nascosto il segreto del re, ma è cosa gloriosa rivelare e manifestare le opere di Dio” (Tb. 12,7). E’ l’atteggiamento di Maria che custodisce ogni parola ed ogni avvenimento come i luoghi del suo intimo rapporto con Dio, meditando, ruminando la storia nel suo cuore con timore e stupore: il pudore e la castità che custodiscono il proprio intimo nell’amore di Dio, ma che prorompono altresì nel Magnificat che benedice e rivela le opere del Padre: “Come nella relazione tra uomo e donna esiste la sfera totalmente personale, che necessita dello spazio protettivo della discrezione, e allo stesso tempo il rapporto a due nel matrimonio e nella famiglia per sua essenza include pure una responsabilità pubblica, così è anche nella relazione con Dio: il «noi» della comunità orante e la dimensione personalissima di ciò che si può comunicare solo a Dio si compenetrano a vicenda” (J. Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Volume I). In ogni caso è fondamentale fissare i propri occhi su Cristo, principio e perfezionatore della nostra fede. Lasciarci guardare da Lui solo, desiderare solo il suo sguardo di misericordia, senza mostrare il nostro intimi agli altri, nell’illusione che lo sguardo altrui ci dia quell’identità che abbiamo perduto; altrimenti, continueremo ad irretire gli occhi di chi ci è intorno nelle nostre parole, nelle nostre opere, nella simpatia, nelle battute, nell’ipocrisia, per restarene a nostra volta accalappiati. E’ l’ophtalmodoulia (Ef. 6,6), la schiavitù degli occhi, sorella di quella delle parole: “Mi viene in mente una bellissima parola della prima lettera di san Pietro, nel primo capitolo, versetto 22. In latino suona così: ‘Castificantes animas nostras in oboedentia veritatis’. L’obbedienza alla verità dovrebbe ‘castificare’ la nostra anima, e così guidare alla retta parola e alla retta azione. In altri termini, parlare per trovare applausi, parlare orientandosi a quanto gli uomini vogliono sentire, parlare in obbedienza alla dittatura delle opinioni comuni, è considerato come una specie di prostituzione della parola e dell’anima. La ‘castità’ a cui allude l’apostolo Pietro è non sottomettersi a questi standard, non è cercare gli applausi, ma cercare l’obbedienza alla verità” (Benedetto XVI, Omelia alla Commissione Teologica Internazionale, 6 febbraio 2007). E la Verità è Cristo, e in Lui risplende anche la verità di ciascuno, la debolezza e l’incapacità pronte ad accogliere l’onnipotenza divina. E’ lui infatti che conosce sino in fondo chi siamo davvero, e, in questa conoscenza rompe ogni ipocrisia, togliendo ogni maschera che ci rende anonimi, senza identità se non quella vana, senza peso, che viene dalla vana-gloria. Cercare dunque il suo sguardo, la sua Gloria, il peso specifico della nostra esistenza in Lui; tutto, in pensieri, parole ed opere in Cristo e per Lui. E’ questa la Parola di oggi, meravigliosa. In tutto quello che pensiamo, diciamo e facciamo (elemosina, digiuno e preghiera ne sono i simboli “religiosi”) “è sempre in gioco il bisogno di riconoscimento. Se lo cerco negli altri, non ne avrò mai abbastanza; resterò sempre schiavo e del giudizio degli altri e dell’immagine (idolatria) del mio invece che della realtà di Dio. Se lo cerco in Dio, allora ritrovo la mia realtà in colui che mi ama di amore eterno, ai cui occhi sono prezioso e degno di stima, addirittura un prodigio (Ger. 31, 3; Is. 43, 4) Sal. 139,14)… Il mio essere è il suo vedermi e amarmi” (S. Fausti, Una comunità legge il Vangelo di Matteo I, Bologna 1999, pag. 84). Torniamo a casa dunque, insieme a Gesù torniamo a nostro Padre; ci attende la Sua ricompensa, il suo abbraccio di misericordia, che sono le braccia distese di Cristo sulla Croce che ci attende oggi, il suo amore fatto carne e sangue, l’amore che non si esaurisce. Ritorniamo a casa. Papà è alla finestra e freme nell’attesa di correrci intorno. Ma il cammino è cosa nostra, senza di esso non c’è amore vero. Il Figlio lo ha inaugurato per noi risalendo dal sepolcro prima di noi. Le sue orme ci conducono dalla morte alla vita, sino alla notte delle notti, la notte dei figli nel Figlio, la Pasqua che ci consegnerà all’eternità dell’amore del Padre. In Lui, nell’intimità di un pudore che si abbandona confidente, possiamo oggi tornare a casa, e, come San Francesco, essere davvero persone, uomini, donne, cristiani in comunione con ogni creatura, vivi di una vita che non muore da spendere nell’amore.
Nigeria, nuovo attacco Bruciate quattro chiese

Nigeria, nuovo attacco Bruciate quattro chiese

 Quattro chiese sono state bruciate in un attacco commesso probabilmente da appartenenti al gruppo jihadista Boko Haram nello Stato di Borno, uno dei tre Stati del nord della Nigeria dove è stato imposto lo stato di emergenza. Un gruppo di uomini armati di ordigni esplosivi artigianali e di bombe molotov ha assalito le comunità Hwa’a, Kunde, Gathahure e Gjigga sulle Gwoza Hills, mettendo a fuoco le quattro chiese, razziando e saccheggiando il bestiame e le riserve di cereali della popolazione.

“Purtroppo non ho informazioni precise e non so a quali comunità cristiane le chiese distrutte appartengono” dice all’Agenzia Fides Ignatius Ayau Kaigama arcivescovo di Jos e presidente della Conferenza episcopale della Nigeria. “Tutte le comunicazioni sono state tagliate con le zone interessate dalle operazioni militari e non è possibile mettersi in contatto con il vescovo di Maiduguri” spiega monsignor Kaigama.

Nonostante questo episodio l’arcivescovo afferma che “l’operazione dell’esercito nigeriano e l’imposizione dello Stato d’emergenza ha sollevato il morale della popolazione. La gente si sente più sicura”.
Di fronte ai recenti attacchi in Niger c’è ormai la certezza che Boko Haram si stia coordinando con i gruppi jihadisti cacciati dal Mali. “Boko Haram è un problema regionale e deve essere risolto con un approccio regionale” commenta Kaigama. “Scontiamo una terribile negligenza da parte della nostra intelligence e delle nostre forze di polizia che non hanno affrontato per tempo il fenomeno. Si deve ora mettere insieme le risorse di Nigeria, Niger e Mali per affrontare la minaccia dei gruppi jihadisti. Penso che comunque alla fine saranno sconfitti” conclude Mons. Kaigama.

da Avvenire.it
Mercoledì della XI settimana del T.O.

Martedì della XI settimana del T.O.

Dal Vangelo secondo Matteo 5,43-48.
Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste.

Il commento di don Antonello Iapicca

La perfezione è un amore che non è di questo mondo, quello che giunge sino al nemico. Ma chi è il nemico? Buona domanda. Le anime belle diranno che non hanno nemici. Ingannandosi. Niente pacifismo, e neanche non-violenza, che si traduce in un altro tipo di violenza, immancabilmente. Niente sfilate, niente manifestazioni, niente bandiere arcobaleno, ma amore. Amore crocifisso, la vita donata, senza riserve. Sant’Agostino ci insegna che “la misura dell’amore è amare senza misura”, ossia infinitamente, come ama Dio. L’amore manifestato in Cristo. L’amore che non resiste al male, che non fa calcoli, che, paziente, si lascia tradire, insultare, disprezzare. L’amore che non cerca il proprio interesse, o gratificazioni e gratitudine. L’amor puro che ama perché ama. E basta. Un amore che non ci appartiene per natura.

Scriveva H. De Lubac: “L’umanesimo cristiano deve essere un umanesimo convertito. Nessun amore naturale può esistere senza l’irruzione nel soprannaturale. Ci si deve perdere per trovarsi. Dialettica spirituale, la cui inesorabilità si impone all’umanità come al singolo, vale a dire sia al mio amore per l’uomo come al mio amore per me stesso. Legge dell’exodus, legge dell’exstasis” (H. De Lubac, Katholizismus als Gemeinshaft). L’amore che ci annuncia oggi il Signore è dunque l’amore pasquale, che passa attraverso la Croce per esplodere nella risurrezione, l’esodo che conduce all’estasi, la visione del Cielo, la visione di Cristo risuscitato.

E’ l’esperienza di Santo Stefano, inginocchiato in un amore che è esattamente quello di Gesù: sotto i colpi della lapidazione, il cuore di Stefano, ricolmo di Cristo, traboccante del suo amore, schiude i suoi occhi alla contemplazione del compimento, della “perfezione”. Nel martirio, nell’amore ai suoi persecutori egli è già nel Cielo. La preghiera per i nemici conduce lo sguardo di Stefano a contemplare il volto di Cristo risuscitato alla destra del Padre. E’ il Cielo in terra e la terra in Cielo. Per questo l’amore al nemico e’ un dono celeste, non può essere un frutto degli sforzi umani. Non si colora dell’indifferenza con la quale, indossando sorrisi e compromessi di tolleranza, crediamo di risolvere i problemi. No. In certe situazioni, quando appare il nemico, si può solo amare.

La moglie, il marito, i figli, sì proprio i figli, i colleghi, i condomìni, i parenti, gli amici, quando cercano di invadere i nostri territori si tramutano in nemici. Quando l’altro parte alla conquista delle nostre idee, dei nostri schemi, delle nostre certezze, delle decisioni, del tempo, del denaro, dei nostri diritti. Ecco, decine di volte al giorno ci imbattiamo nei nemici, spesso con i soliti nemici, e si finisce con il divorziare, giuridicamente o solo nel cuore, e, comunque, si spezza qualcosa, perché ci è impossibile amare oltre la morte che l’altro, diventatoci nemico, spesso solo con la presenza, ci procura. Come potremo amare allora? Come potremo essere “perfetti”, cioè felici, realizzati, compiuti, secondo il senso etimologicamente più profondo della parola che appare nel Vangelo? La perfezione, infatti, è innanzi tutto non mancare di nulla.

Solo chi è perfetto davvero, cioè colmo d’amore, può amare. Solo chi ha conosciuto il Buon Pastore che nulla fa mancare alle sue pecore, può vivere senza difendere nulla, perché sa e sperimenta ogni giorno che la vita ricevuta è eterna, non può finire. Anche se strappata non si esaurisce. Perfetto è il figlio che confida in suo padre, nella certezza che mai gli farà mancare qualcosa. Perfetto è Gesù, il Figlio che possiede tutto quello che è di suo Padre. Per questo ama, dona la sua vita ancora prima che qualcuno gliela tolga: “Nei discorsi di Gesù il Padre appare come la fonte di ogni bene, come il criterio di misura dell’uomo divenuto retto («perfetto»): «Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni…». «L’amore sino alla fine», che il Signore ha portato a compimento sulla croce pregando per i suoi nemici, ci mostra la natura del Padre: Egli è questo Amore. Poiché Gesù lo pratica, Egli è totalmente «Figlio» e ci invita a diventare a nostra volta «figli» – a partire da questo criterio” (Benedetto XVI).

Perfetti sono i figli nel Figlio, i cristiani che tutto ricevono dal Padre, la pienezza della vita, della pace, della felicità. Ancora Benedetto XVI ci aiuta a comprendere, attraverso le parole dell’Enciclica “Deus caritas est”: “Egli per primo ci ha amati e continua ad amarci per primo; per questo anche noi possiamo rispondere con l’amore. Dio non ci ordina un sentimento che non possiamo suscitare in noi stessi. Egli ci ama, ci fa vedere e sperimentare il suo amore e, da questo « prima » di Dio, può come risposta spuntare l’amore anche in noi…. Si rivela così possibile l’amore del prossimo nel senso enunciato dalla Bibbia, da Gesù. Esso consiste appunto nel fatto che io amo, in Dio e con Dio, anche la persona che non gradisco o neanche conosco. Questo può realizzarsi solo a partire dall’intimo incontro con Dio, un incontro che è diventato comunione di volontà arrivando fino a toccare il sentimento. Allora imparo a guardare quest’altra persona non più soltanto con i miei occhi e con i miei sentimenti, ma secondo la prospettiva di Gesù Cristo. Il suo amico è mio amico. Al di là dell’apparenza esteriore dell’altro scorgo la sua interiore attesa di un gesto di amore, di attenzione, che io non faccio arrivare a lui soltanto attraverso le organizzazioni a ciò deputate, accettandolo magari come necessità politica. Io vedo con gli occhi di Cristo e posso dare all’altro ben più che le cose esternamente necessarie: posso donargli lo sguardo di amore di cui egli ha bisogno”.

Ecco, l’amore è un dono di Dio che possiamo sperimentare in ogni istante della nostra vita. E’ la libertà autentica, che non ingabbia i rapporti nelle regole di una misera economia dei sentimenti, così diversa da quella di chi, illudendosi, ama prendendosi e dando spazi e tempo, idee e criteri, camminando sul falso equilibrio di due “io” che nulla hanno davvero consegnato all’altro. Quando quello dell’altro si “allarga” sino a scontrarsi e a invadere il proprio, è la fine del presunto amore, si cercano altri “io” che sappiano restare al loro posto, identificando in questo la comprensione, l’affinità, la complicità, e tutto il resto del campionario amoroso da blog e da film.  L’eros dei “pagani”, di chi non ha conosciuto l’amore rivelato in Cristo morto e risuscitato e il potere del suo Spirito, è passione, è sentimento che si esaurisce nel perimetro del contraccambio, che evapora quando l’altro non corrisponde al nostro affetto secondo quanto ci aspettiamo. L’amore di Dio è un amore che non calcola, non progetta: Dio ama e basta. Anche ora, che siamo nemici di Dio, nei pensieri, nelle parole, negli sguardi. Riflettiamo bene, cosa abbiamo pensato di quel collega? Come abbiamo guardato quella ragazza sull’autobus? E potremmo continuare. E Dio? Dio ci ama, ci perdona, di dona la sua vita. Ci dona Cristo, ora, completamente, “perfettamente”. Accoglierlo giorno per giorno è compiere questo Vangelo. E’ la perfezione dell’amore, essere uno con Gesù. Semplicemente, perché si compia in noi lo straordinario per il quale siamo nati: l’amore celeste compiuto nella nostra debolezza terrestre. Amare straordinariamente il marito, la moglie, i figli, il fidanzato, l’amico. Straordinariamente, oltre i confini dell’ordinario: l’amore all’altro sino alla fine, dove termina la sua dolcezza, la sua simpatia, la sua bellezza e iniziano i difetti, l’insopportabilità, i peccati. Amare sino a dove ci ha amato Dio, perché in quell’amore siamo stati uniti a Lui indissolubilmente, per sempre. L’amore che, “come pioggia”, scende sull’altro, sia come sia, che “sorge come sole” di giustizia ogni giorno; amore che si fa preghiera che intercede desiderando il bene autentico dell’altro, il suo incontro decisivo ed eterno con Cristo attraverso il dono di noi stessi. 

Il Papa: «No a ideologie che non rispettano la vita»

Il Papa: «No a ideologie che non rispettano la vita»

da www.avvenire.it

 “Seguire la via di Dio conduce alla vita, mentre seguire gli idoli conduce alla morte”. Così ieri il Papa in Piazza San Pietro dove ha presieduto la Santa Messa in occasione della Giornata dedicata all’”Evangelium Vitae”, nell’anno della Fede. Il Santo Padre ha più volte ribadito la misericordia di “Dio che vuole la vita, sempre ci perdona”. Migliaia i fedeli presenti, con loro anche le delegazioni provenienti da tutto il mondo del “popolo della vita”.

L’affetto dei fedeli, immersi nella preghiera del Rosario, ha accolto il Papa che sorridente sulla jeep vaticana ha benedetto una piazza festante, poi la Santa Messa e l’omelia di Papa Francesco.
Diciamo sì all’amore e no all’egoismo, diciamo sì alla vita e no alla morte, diciamo sì alla libertà e no alla schiavitù dei tanti idoli del nostro tempo; in una parola diciamo sì a Dio, che è amore, vita e libertà, e mai delude”.

“Una fede che ci rende liberi e felici” ha ribadito il Papa sottolineando che “solo la fede nel Dio Vivente ci salva; nel Dio che in Gesù Cristo ci ha donato la sua vita e con il dono dello Spirito Santo ci fa vivere da veri figli di Dio”. E guardando alla liturgia odierna ha evidenziato: Quando l’uomo vuole affermare se stesso, chiudendosi nel proprio egoismo e mettendosi al posto di Dio, finisce per seminare morte. E l’egoismo porta alla menzogna, con cui si cerca di ingannare se stessi e il prossimo.

Ha parlato del “Dio dei viventi, il Dio che si rende presente nella storia, che libera dalla schiavitù”, prima di spiegare il “dono dei Dieci Comandamenti”: Una strada che Dio ci indica per una vita veramente libera, per una vita piena; non sono un inno al “no”: non devi fare questo, non devi fare questo, non devi fare questo. No! Sono un inno, al “sì”, a Dio, all’Amore, alla vita. Cari amici, la nostra vita è piena solo in Dio, perché solo Egli è il Vivente! Il Papa ha evidenziato più volte che “tutta la Scrittura” ci ricorda che Dio è “colui che dona la vita e che indica la via della vita piena”.

“Gesù è l’incarnazione del Dio Vivente, Colui che porta la vita, di fronte a tante opere di morte, di fronte al peccato, all’egoismo, alla chiusura in se stessi. Gesù accoglie, ama, solleva, incoraggia, perdona e dona nuovamente la forza di camminare, ridona vita.”

Grande è la “misericordia di Dio” e “sempre ci perdona”, ha ribadito Papa Francesco: “Dio il Vivente è misericordioso. Siete d’accordo? Diciamolo insieme: Dio, il Vivente è misericordioso! Tutti: Dio, il Vivente, è misericordioso. Un’altra volta: Dio, il Vivente, è misericordioso!”

“E’ lo Spirito Santo, dono del Cristo Risorto” che “ci introduce nella vita divina come veri figli di Dio”, ha proseguito: “Il cristiano è un uomo spirituale, e questo non significa che sia una persona che vive “nelle nuvole”, fuori della realtà, (come se fosse un fantasma), no! Il cristiano è una persona che pensa e agisce nella vita quotidiana secondo Dio, una persona che lascia che la sua vita sia animata, nutrita dallo Spirito Santo perché sia piena, da veri figli. E questo significa realismo e fecondità. Chi si lascia condurre dallo Spirito Santo è realista, sa misurare e valutare la realtà, ed è anche fecondo: la sua vita genera vita attorno a sé.”

“Spesso l’uomo non sceglie la vita, non accoglie il Vangelo della vita – ha aggiunto – ma si lascia guidare da ideologie e logiche” orientate “dall’egoismo, dall’interesse, dal profitto, dal potere, dal piacere e non sono dettate dall’amore, dalla ricerca del bene dell’altro”: E’ la costante illusione di voler costruire la città dell’uomo senza Dio, senza la vita e l’amore di Dio – una nuova Torre di Babele; è il pensare che il rifiuto di Dio, del Messaggio di Cristo, del Vangelo della vita, porti alla libertà, alla piena realizzazione dell’uomo. Il risultato è che al Dio Vivente vengono sostituiti idoli umani e passeggeri, che offrono l’ebbrezza di un momento di libertà, ma che alla fine sono portatori di nuove schiavitù e di morte.

“Solo la fede nel Dio Vivente ci salva – ha concluso- nel Dio che in Gesù Cristo ci ha donato la sua vita con il dono dello Spirito Santo e fa vivere da veri figli di Dio con la sua misericordia. Questa fede ci rende liberi e felici”.

Mercoledì della XI settimana del T.O.

Lunedì della XI settimana del T.O.

Dal Vangelo secondo Matteo 5,38-42.

Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due. Dà a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle. 

Il commento di don Antonello Iapicca

Il Cielo, un anticipo di Cielo è questa Parola. Il cuore di Dio, ferito d’amore, la lancia del malvagio sin dentro il recesso più intimo, e sangue, e acqua, e vita e misericordia sgorganti senza posa. L’amore che ci ha creati liberi si è esposto alla morte, il suo corpo dinanzi al nostro male. E guance, e dorso, e tunica, tutto offerto, senza condizioni; e miglia straziate sotto una croce. E l’amore implorato, esigito, strappato. Il suo dono intrecciato alla nostra concupiscenza. Volevamo amore, vita, rispetto, vendetta, giustizia. Abbiamo trovato il suo volto impregnato di sangue, le sue braccia distese sul mondo, le sue mani e i Suoi piedi trapassati dal ferro. Il Suo cuore squarciato d’amore. Vomitavamo peccato, ci ha donato il perdono. Non ha volto le spalle al nostro dolore violento, ci ha dato se stesso. Ed è in questo amore che siamo stati eletti e chiamati. Per comprendere il brano del Vangelo di oggi, insieme a quello di domani il cuore del discorso della montagna, dobbiamo andare ad un passo della Prima Lettera di San Pietro:”E` una grazia per chi conosce Dio subire afflizioni, soffrendo ingiustamente; che gloria sarebbe infatti sopportare il castigo se avete mancato? Ma se facendo il bene sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio. A questo infatti siete stati chiamati, poichè anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perchè ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca, oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a colui che giudica con giustizia. Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perchè, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate erranti come pecore, ma ora siete tornati al pastore e guardiano delle vostre anime” . (1 Pt. 2, 19-25)
Non si possono comprendere le parole di Gesù senza aver conosciuto Cristo, senza avere l’esperienza profonda del suo amore che ha preso e perdonato i nostri peccati; senza aver conosciuto, concretamente, le sue piaghe, ed esserne stati guariti. Il Discorso della montagna è una follia per chi continua ad errare come pecora senza pastore. Ma se davvero abbiamo gustato quanto è buono il Signore, scopriamo nella chiamata che ci ha raggiunti l’essenza del Vangelo. Anche le parole di oggi sono una Buona Notizia, una chiamata che ci coinvolge. In greco il termine Kaleo – chiamare, esprime innanzi tutto il significato di nominare, di dare un nome; spesso nella Scrittura nominare significa dare una nuova esistenza a chi è stato scelto da Dio: Giacobbe si chiamerà Israele, perchè ha conosciuto la propria debolezza e si appoggerà in Dio. Le profezie dell’Antico Testamento riferiscono del Nome nuovo che il Signore darà al suo Popolo, a Gerusalemme. Anche oggi, negli ordini religiosi, si suole scegliere un nome diverso da quello ricevuto alla nascita, a significare la nuova vita abbracciata.
Ma è al rito del Battesimo che occorre risalire per comprendere quanto la chiamata sia legata all’imposizione del nome. E’ nella rinascita battesimale che un cristiano riceve dignità ed esistenza. La natura che conferisce il battesimo lega indissolubilmente quel nome ricevuto nel rito al nome di Cristo. Per questo, nella chiamata originaria, quella battesimale, si radicano le chiamate particolari, al presbiterato, alla vita consacrata, al matrimonio. Ma qualunque sia la vocazione attraverso la quale Dio ha pensato per ciascuno la vita su questo mondo, vi è una chiamata comune, un’ origine e una fonte dalla quale tutte prendono vita. E’ la chiamata ad essere cristiani, cioè di Cristo. La chiamata che ci unisce a Lui, che ci fa alter Christus in ogni istante della nostra vita: la chiamata ad essere santi. E’ al battesimo dunque che occorre riandare, alla grazia che da esso scaturisce. Lo spiegava Benedetto XVI parlando di San Francesco al clero di Assisi: “Se oggi parliamo della conversione di Francesco, pensando alla radicale scelta di vita che egli fece da giovane, non possiamo tuttavia dimenticare che la sua prima “conversione” avvenne nel dono del Battesimo. La piena risposta che darà da adulto non sarà che la maturazione del germe di santità allora ricevuto. È importante che nella nostra vita e nella proposta pastorale prendiamo più viva coscienza della dimensione battesimale della santità. Essa è dono e compito per tutti i battezzati. A questa dimensione fece riferimento il mio venerato Predecessore, nella Lettera Apostolica Novo millennio ineunte, scrivendo: “Chiedere a un catecumeno: «Vuoi ricevere il battesimo?» significa al tempo stesso chiedergli: «Vuoi diventare santo?»” (n. 31). Il Battesimo, si dice in teologia, esprime un carattere indelebile. Questo carattere è Cristo: attraverso il catecumenato Egli è gestato, nel battesimo nasce e comincia a vivere nel cristiano.
Le parole del Vangelo di oggi sono un annuncio destinato a risvegliare il battesimo in ciascuno di noi. Esse esprimono la nostra natura più intima, quella divina. Non sono assolutamente una nuova legge da compiere. Tanto meno un moralismo esigito ai cristiani. Sono la Parola compiuta in coloro che sono di Cristo, che vivono in Lui: l’amore che descrivono è l’amore di Cristo che vive nei cristiani, secondo le parole di San Paolo: “Sono stato crocifisso con Cristo, e non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (Gal. 2,20). Possiamo allora chiederci se Cristo è davvero vivo in noi. O se, per il peccato, lo abbiamo imprigionato tra le parentesi della nostra volontà, dei nostri desideri, delle nostre concupiscenze. Davanti a questa Parola, ci scopriamo peccatori, bisognosi di conversione. Il battesimo ricevuto da piccoli è più simile ad un bonsai che ad un albero pieno di frutti. Dobbiamo convenire di avere bisogno di camminare ancora, e molto, nel cammino di fede che ci riporta alle acque del battesimo.
Per questo oggi, prima di tutto, è il Signore che ci visita con il suo amore: Lui, oggi, non resiste a ciascuno di noi, alla nostra violenza, al male montante nei nostri cuori. E’ Lui che porge l’altra guancia alla nostra sfida. Siamo noi che, con i pensieri, con le invidie, con i giudizi, schiaffeggiamo ancora il Signore sulla guancia destra, a significare la sfida a duello cui lo sottoponiamo. Infatti, a pensarci bene, per dare uno schiaffo sulla guancia destra occorre darlo di manrovescio: è il gesto della sfida a duello, quello che compare in tanti film, il gesto di gettare il guanto: Gesù oggi non resiste a chi, come ciascuno di noi, lo vuole trascinare in un duello per ottenere giustizia, per lavare nel sangue il tradimento che crediamo ci abbia fatto non compiendo le nostre volontà. Non resiste, si lascia uccidere e lava nel sangue, ancora una volta, i nostri peccati. E’ ancora Gesù che oggi si lascia citare in giudizio e si lascia spogliare di tutto, della sua stessa vita, rappresentata dal mantello e dalla tunica, unici beni inalienabili dei poveri, secondo la legge dell’Antico Testamento. Sì, Gesù non si appella alla Legge, alla stessa Legge di Dio, e si lascia prendere ciò che è suo, il suo diritto, la sua veste, necessaria per vivere. Morirà anche oggi nudo sulla Croce, consegnato ai nostri delitti che lo spogliano del suo amore. Per la sua nudità saremo anche oggi rivestiti della sua misericordia. E’ ancora Gesù che accetterà l’ingiustizia di percorrere un miglio in più, qualcosa di impensabile secondo la Legge che stabiliva in meno di un miglio il limite massimo del lavoro permesso; uno sforzo sovrumano, destinato alla morte.
E’ Lui che accetta l’ingiustizia, l’ultimo posto, il lavoro che spetterebbe a noi, il sacrificio, il dono d’amore che noi non possiamo compiere. Anche oggi si carica dei nostri pesi, perchè noi si possa  sperimentare il giogo leggero del suo amore. E’ Lui che ci dona tutto quel chiediamo, senza sperarne nulla, sapendo di aver gettato la sua vita in mano a degli increduli e a degli ingrati. Anche oggi il Signore viene a ciascuno di noi con il suo perdono, l’ennesima possibilità di sperimentare la Grazia del battesimo, il perdono e la rinascita ad una vita nuova. Il Vangelo di oggi allora ci mostra innanzi tutto l’opera di Dio per ciascuno di noi: nelle parole di Gesù possiamo vedere l’acqua del battesimo, il suo amore infinito capace di purificare ogni nostra malvagità, e di ricrearci in Lui.
Sperimentare oggi questo Vangelo significa essere trasformati in esso, immersi in ciascuna di questa Parola che ci chiama ancora oggi, che ci dà il nome nuovo che risplende nell’amore che ne è descritto. Anche oggi, un passo in più nel cammino alla completa identificazione con Cristo. Lasciamoci amare allora, anche oggi, per essere trasformati, ancora un pochino in più, nello stesso amore che si dona a noi senza riserve.