Martedì della XII settimana del T.O.

Martedì della XII settimana del T.O.

dal Vangelo secondo Mt 7,6.12-14

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 
«Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi.
Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti.
Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che vi entrano. Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano!».

Il commento di don Antonello Iapicca

La primogenitura è una cosa molto seria. Siamo stati eletti da prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati nell’amore al cospetto di Dio e degli uomini. I doni di Grazia ricevuti durante tutta la nostra vita sono i segni di una chiamata speciale, ed essa non è mai un fatto esclusivamente personale. Dio ha pensato per noi una missione importante, molti uomini sono legati alla nostra vita. Ma il rischio di disprezzare la primogenitura esiste e possiamo incorrervi con molta più facilità di quanto pensiamo; il demonio, come già con Adamo ed Eva, punta sempre diritto a strapparci l’elezione, che è, “in principio”, quella di essere creature e non creatori, per vivere nella fedeltà e nell’obbedienza docile alla volontà del Padre. In questo atteggiamento, infatti, si è rivelata e compiuta la primogenitura del Figlio di Dio: obbedendo al Padre Gesù ha salvato l’umanità, dando compimento al mistero d’amore per il quale si era incarnato.

“Gettare le cose sante ai cani e le nostre perle ai porci” significa, al contrario, chiudersi ostinatamente nell’orgoglio di voler condurre la vita secondo i propri criteri, frustrando la volontà di Dio. Le “perle”, infatti, sono tutte le opere d’amore che Dio ha preparato per noi, pensieri, parole e gesti con le quali il Padre ha pensato fare bella la nostra vita, per salvare il mondo attraverso di essa. Gettarle ai porci significa farne oggetto di commercio, sporcarle e renderle impure, inadatte al culto: la Grazia per perdonare il marito che non ci ha compreso; la grazia per prendere su di sé l’ingiustizia del collega di lavoro; la Grazia che vince l’egoismo per concepire una nuova via; la Grazia per non soddisfare gli appetiti della carne e non fumare quello spinello; le Grazie pronte ogni giorno per noi possono essere disprezzate o pervertite, per divenire cibo impuro per animali impuri, e fare della nostra vita affidataci per essere una liturgia di bellezza e lode che chiami alla fede le persone, un porcile maleodorante che chiude la speranza.

Ciò significa entrare nella storia di ogni giorno per la porta spaziosa e larga del compromesso che regna nel mondo senza Dio, dell’annacquamento della fede per lasciar spazio alla carne e ai suoi desideri, quelli che muovono guerra allo Spirito: come Esaù, disprezzare  la primogenitura per un piatto di lenticchie, per rispondere, infantilmente, ai capricci della carne. E non si tratta solo della sessualità; le lenticchie fumanti dinanzi ai nostri occhi sono i criteri mondani circa il denaro, il lavoro, i beni, la salute, la famiglia, l’amicizia, la politica. Ogni giorno possiamo dare ai cani, che è l’epiteto duro con il quale Israele chiamava i pagani, le cose sante, le cose della nostra vita “separate”, “messe da parte” dal mondo perchè siano segno dell’altro mondo; il Signore oggi ci ricorda l’altissima vocazione nella quale ci ha riscattati e per la quale ci ha introdotto nella Chiesa. Ci ha santificato, comprato al caro prezzo del suo sangue, ed ogni cosa, ogni momento e ambito della nostra vita è una “perla” che anticipa il Cielo. Il matrimonio e la famiglia, l’amicizia e il fidanzamento, la scuola e il lavoro, tutto di noi costituisce come un filo di perle che il suo amore e la sua Grazia ci fa indossare perchè chi ci è accanto possa vedere Lui e il destino eterno a cui è chiamato.

Siamo nel mondo ma non siamo del mondo: per questo il combattimento che ci attende ogni mattina è serio, e ci chiama a non scendere dalla Croce che ci unisce a Cristo, a scegliere la porta stretta e la via angusta che ci fa donare la vita per amore. Il Signore oggi ci chiama a rimanere nel suo amore che ci santifica, che ci purifica, che fa della nostra vita una liturgia di santità per il mondo. I porci erano gli animali immondi, che si rorolano nel loro vomito. Toccarli e mangiarli rendeva immondi, incapaci a celebrare il culto di Israele che era segno della presenza e della vita di Dio. Gettare le perle ai porci significa dunque buttar via l’intimità con Dio, uscire dalla comunione del Popolo Santo, disprezzare la primogenitura e la missione speciale alla quale Israele è chiamato. E’ il pericolo che incombe anche su di noi, dimenticare la nostra identità per mondanizzarci: il risultato sarà sempre quello di chiuderci nel nostro egoismo e voltare le spalle ai fratelli. Il Signore ha fatto a noi quello che avrebbe voluto fosse fatto a Lui: sulla Croce ci ha accolti e amati così come siamo. E’ questa la santità vera, il Cielo sulla terra, la presenza viva e autentica di Dio tra gli uomini. La porta stretta del sacrificio e della sottomissione, dell’obbedienza e del perdono, la via angusta dell’amore che la Chiesa e i cristiani sono chiamati a percorrere per attirare e condurre ogni uomo alla Vita vera, eterna, salvata.

Martedì della XII settimana del T.O.

Venerdì della XI settimana del T.O.

dal Vangelo secondo  Mt 6, 19-23

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignuòla e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignuòla né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore.
La lucerna del corpo è l’occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!».

Il Commento di don Antonello Iapicca

Lo sguardo scruta ciò che il cuore suggerisce, sempre. Gli occhi cercano il tesoro del cuore. Senza posa, affannati, guardiamo, fissiamo, sogniamo. Un tesoro luminoso accende lo sguardo di pace e di letizia. Inconfondibile è lo sguardo di chi vive in Dio. E’ trasfigurato e reca le tracce splendenti del Cielo, perché gli occhi innamorati di Cristo ne riflettono la mitezza. E ogni gesto e parola, ogni passo parlano di Lui. Oggi, noi, dove abbiamo il nostro tesoro? Da che cosa è attirato il nostro sguardo? Per chi palpita il nostro cuore? Per chi o per che cosa stiamo accumulando? Gli sforzi, il lavoro, gli affetti, se non sono per il Cielo, sono irrimediabilmente per la terra, ovvero per la corruzione.

Chi vive per Dio vive per l’eternità, ed ogni aspetto della vita, anche il più semplice e apparentemente insignificante, reca il segno dell’incorruttibile amore. Chi vive per se stesso, solo per questa vita, è già roso dai vermi: le cose, gli amori, le amicizie, sfuggono, i ladri sono già alla porta pronti a scassinare, mentre lo sguardo, come quello di Caino, si fa torvo. E le parole, e gli atti si impregnano di sfiducia, di rancori, di tristezza inrancidita. Ma no, i nostri occhi sono fatti per Lui, il nostro cuore attende Lui, il Signore Gesù. E’ Lui la nostra vita, il nostro tesoro, l’amore che dà luce e pace. Lui, per noi e noi per Lui, e in questa relazione unica, ogni aspetto della vita diviene trasparente, anche i più difficili. Chi ha consegnato se stesso a Colui che tutto ha dato per noi, non ha più nulla da difendere e riconoscerà in ogni orma che precede il suo cammino, il luogo e il momento dove donarsi senza riserve. Nessuna sorpresa, nessuna paura di fronte ai ladri, perché la vita che non muore e non si esaurisce è sempre pronta ad essere donata. Pur essendo derubati mille volte al giorno, non potremo mai perdere ciò che non ha fine, l’amore infinito di Gesù. Siamo chiamati ad essere dispensatori di misericordia, con uno sguardo celeste e di pace su chiunque bussi al nostro cuore. Marito, moglie, suocera, collega, tutti potranno ricevere o anche derubare l’amore che stiamo ricevendo gratuitamente da Colui che non si è difeso di fronte alle nostre rapine, i peccati che gli hanno strappato a brandelli ogni centimetro di vita. Perdonati, risanati e colmati di Lui, siamo inviati anche oggi a lasciarci spogliare per vestire di misericordia questa generazione.

Asia Bibi, quattro anni dopo in un carcere più lontano

Asia Bibi, quattro anni dopo in un carcere più lontano

 Oggi ricorre il quarto anniversario dell’arresto in Pakistan di Asia Bibi, senza che vi sia all’orizzonte alcuna schiarita riguardo alla sua situazione. Al contrario. In un giorno imprecisato, ma tuttavia successivo al 6 giugno, quando ha ricevuto per l’ultima volta la visita degli avvocati, Asia Bibi è stata trasferita dal carcere generale di Sheikhupura a quello femminile di Multan, distante sei ore di auto.

Lo ha comunicato il suo collegio di difesa, che ha cercato di incontrarla in questi giorni, precisando che avvocati e familiari vedono in questa iniziativa un ulteriore elemento di incertezza nella lunga e dolorosa vicenda della donna e che ne auspicano un ritorno a Sheikhupura, più vicino al luogo d’origine e ai propri cari.
Oggi, a 1.462 giorni dalla sua incarcerazione, la vicenda della cattolica arrestata con l’accusa di blasfemia, successivamente condannata a morte in prima istanza, e da 19 mesi in attesa del processo d’appello, si proietta non verso una liberazione da molti auspicata nel Paese e chiesta con forza anche da organizzazioni e governi stranieri, incluso quello italiano e la Santa Sede, ma verso un ulteriore capitolo di detenzione.
La possibilità di un trasferimento a Multan, seconda città come popolazione del Punjab, provincia dove si è svolta finora la vicenda giudiziaria e carceraria della donna, era emersa già da un rapporto dei servizi segreti pachistani divulgato l’11 gennaio 2011 dal quotidiano pachistano Express Tribune.

Allora, la motivazione riguardava soprattutto la sua sicurezza. Il trasferimento avrebbe dovuto garantirle, secondo le spiegazioni circolate allora, minori rischi, tuttavia la possibilità del provvedimento, successivamente riemersa più volte, aveva sollevato perplessità e preoccupazione per l’incolumità di Asia Bibi durante la traduzione a Multan.

Se questi rischi sono stati evitati, la nuova collocazione non potrà che aggravare il già precario stato di salute della donna e il dolore suo e dei familiari per l’impossibilità di incontri frequenti. Le visite, infatti, abitualmente accompagnate da avvocati difensori, dovranno necessariamente diradarsi, data la maggiore distanza e i costi aggiuntivi del viaggio.

Due giorni fa, i responsabili di una Ong che segue il caso hanno potuto visitare Asia Bibi nel nuovo carcere. Tra le varie cose, hanno manifestato preoccupazione perché alla donna non viene più fornito cibo crudo da cucinare, precauzione usata nella precedente struttura per evitare qualsiasi rischio di avvelenamento, ma riceve i pasti di tutte le altre detenute.

Come ricorda Paul Bhatti, ex ministro per l’Armonia religiosa, «non necessariamente il trasferimento può essere negativo, se fatto per garantire maggiore sicurezza e adeguati servizi. Anche il fatto che la notizia non sia stata resa pubblica non è straordinaria in sé, pure se acquista rilevanza per Asia Bibi, trattandosi di un caso noto».

«I parenti dono essere informati, ma normalmente non vengono spiegate le ragioni del trasferimento», ricorda il cattolico Bhatti, che dopo l’esperienza nel passato governo è ora impegnato attivamente nell’Associazione per tutte le minoranze del Pakistan, co-fondata dal fratello Shahbaz, assassinato oltre due anni fa, politico coraggioso che si era impegnato anche per Asia Bibi. Quello della sicurezza è un assillo sempre presente tra coloro che si sono incaricati di sostenere la causa della donna e di proteggere la sua famiglia, che vive nascosta per evitare rappresaglie. La memoria dei prigionieri accusati di blasfemia assassinati in carcere oppure dopo la liberazione a seguito di una sentenza assolutoria, è ben presente.

Come aveva confermato tempo fa all’agenzia Fides Haroon Masih Barker, fondatore della “Masihi Foundation”, organizzazione attiva a favore di Asia Bibi, «i terroristi si possono nascondere ad ogni passo e perfino infiltrarsi fra le guardie che dovrebbero proteggerla, come è accaduto per il governatore Salman Taseer (assassinato per avere preso le difese della detenuta e per averla incontrata in carcere accompagnato dalla moglie e da una figlia)».

Stefano Vecchia da www.avvenire.it
Quando la Chiesa riscopre San Giuseppe

Quando la Chiesa riscopre San Giuseppe

La Congregazione per il culto di divino ha pubblicato un decreto con il quale il padre putativo di Gesù viene menzionato anche in alcune preghiere eucaristiche

di MARCO TOSATTI da Vatican Insider

Il padre putativo di Gesù Cristo, quella figura misteriosa che pure tanta importanza implicita ha nella storia del Messia, avrà anche ufficialmente un maggior onore nella Chiesa cattolica. E in particolare avrà più spazio e visibilità nei canoni della messa. Per decisione di papa Ratzinger, che è stata accolta e confermata dal suo successore, papa Francesco, la Congregazione per il culto di divino ha pubblicato un decreto che dispone che san Giuseppe venga menzionato accanto alla Madonna anche nelle preghiere eucaristiche II, III e IV. Fino ad oggi la menzione  «..con san Giuseppe suo sposo» era riservata al solo canone romano.

E’ grazie a San Giuseppe che Gesù può fatto ascendere genealogicamente fino a Davide, un elemento che forse può apparire non particolarmente rilevante ai nostri occhi, ma che rivestiva e riveste un grande ruolo per identificare il Cristo con il Messia profetizzato nei secoli. Ma soprattutto, dice il documento della Congregazione, “Mediante la cura paterna di Gesù, San Giuseppe di Nazareth, posto a capo della Famiglia del Signore, adempì copiosamente la missione ricevuta dalla grazia nell’economia della salvezza”.

La sua accettazione di Maria, incinta, come sposa; anche se era ben consapevole di non aver avuto rapporti con lei, e l’accettazione degli “inizi dei misteri dell’umana salvezza” aderendo alla notizia del concepimento da parte dello Spirito Santo ne fa un personaggio di primo piano nella vita cristiana. Inoltre, rileva il documento, San Giuseppe è “divenuto modello esemplare di quella generosa umiltà che il cristianesimo solleva a grandi destini e testimone di quelle virtù comuni, umane e semplici, necessarie perche gli uomini siano onesti e autentici seguaci di Cristo”.

Non è certamente un personaggio che si mette avanti, nella storia di Gesù, San Giuseppe; e il suo ruolo nei Vangeli è tanto importante quanto dimesso. Ma non si può dimenticare che San Giuseppe “si è dedicato con gioioso impegno all’educazione di Gesù Cristo, è̀ divenuto il custode dei più preziosi tesori di Dio Padre ed è stato incessantemente venerato nei secoli dal popolo di Dio quale sostegno di quel corpo mistico che è la Chiesa”.

Continua così il documento: “Nella Chiesa cattolica i fedeli hanno sempre manifestato ininterrotta devozione per San Giuseppe e ne hanno onorato solennemente e costantemente la memoria di Sposo castissimo della Madre di Dio e Patrono celeste di tutta la Chiesa, al punto che già il Beato Giovanni XXIII, durante il Sacrosanto Concilio Ecumenico Vaticano II, decreto che ne fosse aggiunto il nome nell’antichissimo Canone Romano”. E sia Benedetto che Francesco sono d’accordo nel decretare “che il nome di San Giuseppe, Sposo della Beata Vergine Maria, sia d’ora in avanti aggiunto nelle Preghiere eucaristiche II, III e IV della terza edizione tipica del Messale Romano, apposto dopo il nome della Beata Vergine Maria”.

Martedì della XII settimana del T.O.

Giovedì della XI settimana del Tempo Ordinario

dal Vangelo secondo Mt 6, 7-15
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Pregando, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate. Voi dunque pregate così:
Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome;
venga il tuo regno; sia fatta la tua volontà,
come in cielo così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
e rimetti a noi i nostri debiti
come noi li rimettiamo ai nostri debitori,
e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male.
Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe».

 
Il commento di don Antonello Iapicca
Si può vivere da orfani o da figli. Schiavi o liberi. Infelici o felici. Chiediamoci oggi se viviamo da figli liberi; o se siamo schiavi di un sorriso, di un’attenzione, di un affetto. Oggi più che mai il mondo ci offre gadget da orfani, kit di sopravvivenza per anime prosciugate di senso e sostanza. Li abbiamo visti i nostri figli? Sembrano automi, la mano si infila in automatico nella tasca ogni tre – quattro minuti per tirar fuori lo smartphone, e lo sguardo inebetito a fissarne lo schermo, sperando un commento, un post, qualcosa che riempia il vuoto pneumatico di un tempo che ha il solo compito di scivolare via come una parentesi tra un messaggio e l’altro. Ma forse anche noi, padri e madri, siamo incapsulati nella stessa nevrosi che fa della vita un pedaggio da pagare per entrare nelle grazie degli altri, “sprecata” come quella dei nostri figli.
Allo stesso modo, una preghiera piena di parole “sprecate” è il sintomo di chi si sente tradito, inutile, disprezzato, dimenticato ai bordi della storia che conta, delle scelte importanti, e tenta, con le parole, di farsi notare e di essere importante. Come noi, spesso orfani che cercano di costruirsi un’identità che non sia ignorata. Le “tante parole” della preghiera, come i post gettati parossisticamente nei social networks, segnano una vita in ginocchio davanti agli uomini e alle cose, perché prostrata dinanzi a sé stessi; “come i pagani”: molti dei, nessun Padre. Conoscere Lui, infatti, è la vita eterna, è sapere d’essere amati, ora, così come siamo, senza condizioni.
I rabbini raccontavano questa breve parabola: “Il figlio di un re aveva preso una cattiva strada. Il re gli inviò il suo precettore con questo messaggio: “Ritorna figlio mio!”. Ma il figlio gli fece rispondere: “Con che faccia posso tornare? Mi vergogno a comparirti dinanzi”. Il padre allora gli mandò a dire: “Può un figlio vergognarsi di tornare da suo padre? E se tu torni, non torni da tuo padre?” (Dt R. 2,24). Chi ha conosciuto il Padre ha la libertà di ritornare sempre alla fonte e all’origine del proprio essere, di gettarsi tra le sue braccia con semplicità schietta, fiducia filiale, umile audacia, nella certezza di essere accolti con misericordia: “La consapevolezza che abbiamo della nostra condizione di schiavi ci farebbe sprofondare sotto terra, il nostro essere di terra si scioglierebbe in polvere se l’autorità dello stesso nostro Padre e lo Spirito del Figlio suo non ci spingessero a proferire questo grido: “Abbà, Padre!”. Quando la debolezza di un mortale oserebbe chiamare Dio suo Padre se non soltanto allorché l’intimo dell’uomo è animato dalla potenza dall’alto?” (S. Pietro Crisologo, Ser. 71).
Chi ha “una stanza dove ritirarsi e sfogare le proprie angosce, confessare i propri peccati, piangere e stringersi al petto di suo Padre, non ha più bisogno di prostrarsi agli idoli, e la sofferenza procurata dai rifiuti, dalle incomprensioni, dai fallimenti, non ha il potere di strappargli la speranza e la pace. Conoscere il Padre nell’’esperienza del suo amore presente in ogni evento della nostra vita, ci sazia e ci fa persone, ci rende la dignità che ci spetta, l’attenzione, la stima, l’amore. Chi attinge al cuore del Padre sa amare gli altri di un amore libero, sganciato dalle rincorse affannate e deluse, sfugge ai compromessi, lotta per la castità, vive nella luce della verità, dona la sua vita senza appropriarsi di quella altrui: “Chi va verso Dio non si allontana dagli uomini, ma si rende invece ad essi veramente vicino” (Benedetto XVI, Deus caritas est, 42).

L’incontro con Dio mio Padre fa scaturire il Padre nostro nel quale vivere ogni istante. Nell’intima preghiera che si abbandona totalmente a Lui, ritroviamo anche tutti gli altri uomini. In mio Padre nessuno mi è più  estraneo, e ogni relazione assume i contorni della libertà e della verità. Come fu per Gesù nel Getsemani, l’Abbà che sgorga dal cuore attira a Dio, misteriosamente, schiere di uomini. Il Padre nostro è la prima missione che ci è affidata: avere nel cuore ogni figlio di nostro Padre, ogni nostro fratello. Per loro – perduti, dispersi, sofferenti – è la nostra vita di figli, ritmata e accompagnata dalle parole della preghiera: esse invocano il “Nome di Dio santificato” nelle nostre esistenze, perché si veda “il Cielo in terra” nelle opere che Dio compie in ciascuno, opere sante, ovvero separate e diverse da quelle del mondo ma ben presenti nella sua storia; implorano “l’avvento del Regno” nel quale viverecome figli del Re, regnando sul denaro e sugli idoli mondani, per dischiudere a tutti le porte sul destino che attende ogni uomo; desiderano il “compimento della volontà di Dio” che è “umiltà nella conversazione, fermezza nella fede, discrezione nelle parole, nelle azioni giustizia, nelle opere misericordia, nei costumi severità… non fare dei torti e tollerare il torto subito, mantenere la pace con i fratelli, amare Dio con tutto il cuore… nulla assolutamente anteporre a Cristo, poiché neppure lui ha preferito qualcosa a noi. Volontà di Dio è stare inseparabilmente uniti al suo amore, rimanere accanto alla sua croce con coraggio e forza” (S. Cipriano, Trattato «Sul Padre nostro»); sono le parole di chi è affamato del “pane quotidiano”, l’unico che alimenta la vita divina, il cibo di cui si è alimentato Gesù, la Croce che ci attende ogni “oggi”; parole che sperano la “libertà” dal demonio e “il male”, che desiderano “il perdono” sul quale infrangere l’odio e il rancore. Il Padre Nostro è il respiro interiore dei figli che hanno perduto la propria vita per amore.
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Benedetto XVI: Il Padre Nostro. Da ‘Gesù di Nazaret’

Wojtyla, anche i teologi approvano il secondo miracolo

Wojtyla, anche i teologi approvano il secondo miracolo

Dopo l’ok dei medici è arrivato il via libera dalla commissione dei teologi. Per la santità di Giovanni Paolo II manca solo il “sì” di cardinali e vescovi

da Vatican Insider

Karol Wojtyla

Dopo l’ok dei medici, è arrivato quello dei teologi. La commissione dei teologi della Congregazione per le Cause dei Santi ha approvato il secondo miracolo di Giovanni Paolo II, compiuto dopo la beatificazione. Per la proclamazione della santità di Wojtyla manca ora solo il via libera della commissione di cardinali e vescovi del dicastero che di dovrebbero riunire nelle prossime settimane.

Nell’aprile scorso, come scriveva Vatican Insider, la consulta medica della Congregazione delle cause dei santi aveva infatti riconosciuto come inspiegabile una guarigione di una donna attribuita al beato Giovanni Paolo II. Un miracolo, che porterà il Pontefice polacco scomparso nel 2005 a ottenere l’aureola di santo in tempi record, ad appena otto anni dalla morte.

Tutto è avvenuto in gran segreto, nella massima riservatezza. In gennaio il postulatore della causa, monsignor Slawomir Oder, ha presentato per un parere preliminare una presunta guarigione miracolosa alla Congregazione vaticana per i santi. Com’è noto, dopo l’approvazione di un miracolo per la proclamazione a beato, le procedure canoniche prevedono il riconoscimento di un secondo miracolo, che deve essere avvenuto dopo la cerimonia di beatificazione.

Due medici della consulta vaticana hanno esaminato previamente questo nuovo caso, dando entrambi parere favorevole. Il dossier con le cartelle cliniche e le testimonianze è stato quindi presentato ufficialmente al dicastero, che ha subito messo in agenda l’esame.

È evidente, dai passi compiuti, la volontà della Congregazione delle cause dei santi di procedere celermente, com’era già avvenuto per la beatificazione di Giovanni Paolo II, celebrata dal suo successore Benedetto XVI il 1° maggio 2011. Questa corsia preferenziale che continua a essere aperta per Wojtyla sta a indicare che anche Papa Francesco è a favore della canonizzazione del Pontefice polacco.

È ancora prematuro parlare di date per la canonizzazione, ma la rapidità con cui sta avvenendo il processo sul miracolo lascia ancora aperta la possibilità di celebrarla domenica 20 ottobre, a ridosso della festa liturgica stabilita per il beato Wojtyla, fissata il 22 ottobre.