da Baltazzar | Lug 9, 2013 | Chiesa, Liturgia
dal vangelo secondo Mt 9, 32-38
In quel tempo, presentarono a Gesù un muto indemoniato. Scacciato il demonio, quel muto cominciò a parlare e la folla presa da stupore diceva: «Non si è mai vista una cosa simile in Israele!». Ma i farisei dicevano: «Egli scaccia i demòni per opera del principe dei demòni».
Gesù andava attorno per tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagòghe, predicando il vangelo del regno e curando ogni malattia e infermità. Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore. Allora disse ai suoi discepoli: «La mèsse è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il padrone della mèsse che mandi operai nella sua mèsse!».
Il commento di don Antonello Iapicca
Troppe parole o troppo poche, comunque la si metta siamo affetti dallo stesso mutismo, quello del cuore. “Stanchi e sfiniti come pecore senza il pastore” che ci annunci il cammino della vita e ci conduca al pascolo dove saziare di amore il cuore, spesso non riusciamo a trovare le parole giuste al momento giusto; o serriamo le labbra per chiudere con il mondo, o con qualche suo abitante: moglie, marito, amici, genitori, suocera o colleghi, normalmente quelli che ci sono più vicini. Il demonio muto è il demonio che strozza la lode, che impedisce la gioia, perché ammutolisce la voce del Pastore, estirpa la fede dal cuore, disorienta il pensiero e spinge a vagare e a perdersi lontano dal gregge. Ne abbiamo esperienza. Scontenti, trasciniamo le nostre ore come le gambe di un vecchio che si affatica tra la camera e il bagno. Il demonio muto ci appesantisce, scolora le nostre esistenze, infiacchisce speranze ed entusiasmi. Ci assopisce sulla routine quotidiana smorzando la speranza. E ci ammutolisce e immalinconisce: “Un anziano diceva: «Tre poteri di Satana precedono tutti i peccati: il primo è l’oblio, il secondo la negligenza, il terzo la cupidigia. Difatti, dall’oblio nasce la negligenza, dalla negligenza la cupidigia, e questa fa cadere l’uomo. Ma se l’anima è abbastanza attenta da scacciare l’oblio, non giungerà alla negligenza, se non è negligente non sentirà la cupidigia, e se non ha la cupidigia mai peccherà»”.
Mutismo e malinconia nascono dunque dall’oblio, dal dimenticare le opere d’amore compiute da Dio nella nostra vita: sono segni di un cuore stanco e sfinito di rincorrere esiti mai raggiunti. Un cuore senza pastore, compiaciuto delle proprie parole vuote e senza costrutto, guidato da un mercenario che lo conduce diritto alla morte, all’estinzione della felicità e dell’attesa. Un cuore orgoglioso sigilla le labbra. Un cuore sconfitto e incapace d’accettare l’umiliazione della verità. Un cuore chiuso in un altezzoso silenzio: “Ora, con questi muscoli che non tengono, con questa stanchezza, con questa facilità alla malinconia, con questo masochismo strano che la vita di oggi tende a favorire o con questa indifferenza e questo cinismo che la vita di oggi rende, come rimedio, necessario per non subire una fatica eccessiva e non voluta, come si fa ad accettare sé e gli altri in nome di un discorso? Non si può rimanere nell’amore a se stessi senza che Cristo sia una presenza come è una presenza una madre per il bambino. Senza che Cristo sia presenza ora – ora!–, io non posso amarmi ora e non posso amare te ora” (Mons.Luigi Giussani).
Il Signore Gesù di questo cuore ha compassione, un cuore “stanco e sfinito” che ha smarrito l’amore, per se stesso innanzi tutto, in cui non trova nulla di affascinante e appassionante, speranze evaporate nei fallimenti di relazioni e progetti. Un cuore che ha smarrito l’amore all’altro, allo studio, al lavoro, al sole e al cielo. Un cuore chiuso nel petto, muto dinanzi agli eventi, come la sera del “dì di festa”, sul quale scende la coltre della disillusione: “e già non sai né pensi, Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto… E fieramente mi si stringe il core, A pensar come tutto al mondo passa, E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito Il dì festivo, ed al festivo il giorno Volgar succede, e se ne porta il tempo Ogni umano accidente.” (Giacomo Leopardi, La sera del dì di festa).
Quante piaghe in mezzo ai nostri petti, e quante giornate sfiorite come il giorno di festa che scivola via senza aver lasciato orma duratura di gioia e di pace. Cuori stretti nella solitudine, “messe” di Dio che così “pochi operai” sanno riconoscere come tale; quanti farisei intorno e dentro di noi, quanti ipocriti che, ciechi su se stessi e sull’amore di Dio, scambiano il bene con il male, l’opera di Gesù con quella del “principe dei demoni”. Quanti si affannano a curare l’esterno della coppa, e lasciano l’interno pieno di corruzione: è proprio di chi ha perduto il discernimento che nasce dalla misericordia, scambiare Dio per il demonio; e quando questo avviene si sbaglia l’approccio al fratello, e la cura della sua malattia sarà sempre un palliativo che non risolve. Chi non riconosce Cristo e non crede nel suo potere ha ormai ceduto mente e anima a satana, abile a camuffarsi e a far dimenticare l’origine autentica di ogni male: l’oblio del peccato, infatti, rifiuta, di conseguenza, l’unico capace di perdonare e sanare davvero: “«Adamo, dove sei?»: è la prima domanda che Dio rivolge all’uomo dopo il peccato. «Dove sei, Adamo?». E Adamo è un uomo disorientato che ha perso il suo posto nella creazione perché crede di diventare potente, di poter dominare tutto, di essere Dio. E l’armonia si rompe, l’uomo sbaglia e questo si ripete anche nella relazione con l’altro che non è più il fratello da amare, ma semplicemente l’altro che disturba la mia vita, il mio benessere. E Dio pone la seconda domanda: «Caino, dov’è tuo fratello?». Il sogno di essere potente, di essere grande come Dio, anzi di essere Dio, porta ad una catena di sbagli che è catena di morte, porta a versare il sangue del fratello. Queste due domande di Dio risuonano anche oggi, con tutta la loro forza; tanti di noi, mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri” (Papa Francesco, Omelia a Lampedusa, 7 luglio 2013).
Quanti oggi credono ancora nella stoltezza della predicazione, autentico esorcismo per ogni uomo ingannato? Quanti guardano all’uomo con “compassione”, sino ad accogliere, come un pastore, la pecora perduta, nel cuore e nella vita, come i tanti “nostri fratelli e sorelle cercavano di uscire da situazioni difficili per trovare un po’ di serenità e di pace; cercavano un posto migliore per sé e per le loro famiglie, ma hanno trovato la morte” (Papa Francesco, Omelia a Lampedusa)? Essi sono immagine di ciascuno di noi e di chi ci è accanto, saliti su un barcone in cerca di una spiaggia dove risolvere i propri problemi, pressati da situazioni insopportabili, in famiglia, al lavoro, come nella patria povera e ormai inospitale. Come i tanti immigrati siamo incappati anche noi nelle mani dei trafficanti, e abbiamo perso dignità e, spesso la vita, divenendo prima sordi e poi muti di fronte al fratello, incapaci ormai di amare. E quante volte ci siamo trasformati anche noi in trafficanti che lucrano sulle sofferenze di chi ci è accanto, nell’indifferenza che lascia morire gli altri credendo così di difendere se stessi? “In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro” (Papa Francesco, Omelia a Lampedusa).
Ma ogni uomo, anche tu ed io come la moglie, il marito e i figli, i colleghi e chi incontriamo sulla metropolitana, è parte della “messe” di Dio, proprietà di Colui che lo ha creato a sua immagine e somiglianza. L’incompiutezza dell’opera rapita dall’inganno del demonio accolto nella libertà, grida nel petto come un graffio che impedisce la felicità: essa erompe solo nel compimento dell’opera iniziata con la nostra creazione. Per questo è necessario che, sulle strade d’ogni generazione e di ogni luogo, corrano con urgenza i piedi degli “operai” annunciatori del Vangelo del Regno. La predicazione è, infatti, la rugiada della compassione di Dio, le viscere di misericordia che generano la fede, danno sostanza alla speranza, muovono alla carità. “Operai” che operino il compimento dell’opera di Dio, di loro ha bisogno il mondo, sterminata “messe” di Dio; ciascuno di noi ha oggi bisogno di quest’unica opera di compassione e guarigione, di queste viscere materne che nella Parola del Regno, dell’amore e della vittoria sul peccato e sulla morte, rigenerano ad una vita nuova. Muti possiamo essere dischiusi alla parola, alla relazione e all’amore solo dalla Parola “stolta” e semplice del Vangelo.
Essa è, secondo il cuore della tradizione ebraica, l’atteso “dì di festa” e giunge a noi come carne della nostra carne, ossa delle nostra ossa. L’annuncio del Vangelo che bussa al nostro cuore è l’autentico Shabbat, il giorno del riposo che completa in noi l’opera che Dio ha iniziato creandoci. L’annuncio del vangelo è il settimo giorno, il giorno in cui Dio riposa perché, nell’incontro della sua Parola con il nostro mutismo, si compie la ricreazione, ed ecco ciascuno di noi ridiviene “cosa molto buona”. Secondo la tradizione rabbinica infatti, in occasione dello Shabbat si riceve una Neshamah yeterah (anima supplementare) che permette di apprezzare nel suo più giusto valore il calore dell’amicizia e dello spirito di famiglia (B. Betsah 16a e Taanit 27b). Shabbat porta a compimento la messe di Dio, il gregge ritrova il suo Pastore che lo conduce ai pascoli del riposo, la memoria vince l’oblio come accaduto al figliol prodigo, l’attenzione e l’amore prendono il posto dell’egoismo e dell’indifferenza: : ecco quello di cui il mondo ha bisogno, il miracolo che deve poter vedere per credere, il perdono che rigenera, proprio quello che “non si è mai visto di simile in Israele” e nel nostro quartiere, a Lampedusa come in ogni angolo della terra.
Ogni caricatura mondana della felicità ci ha sino ad ora delusi, ogni affetto, ogni progetto, ogni giorno di festa ci ha piagato il cuore nella malinconia colata dalla vanità della carne. Le viscere materne di Dio rivelate nella “compassione” del suo Figlio ci raggiungono oggi come la sposa che, in tutto, abbiamo atteso, l’aiuto simile a noi, l’Eva tratta dalla nostra stessa costola, il luogo ove riposare e deporre il nostro desiderio d’amare senza il timore che tutto si estingua nel volgere di un giorno. Per Israele Shabbat è la sposa da accogliere con onore e unzione. E’ la carne di Cristo che ha preso su di sé ogni nostra sofferenza, che ha vinto la morte che ci assedia e ci ammutolisce, la sua Parola nella carne e nella parola dei suoi messaggeri, “gli operai” della messe di Dio inviati a scacciare satana dal cuore degli uomini.
Gesù cerca i nostri silenzi sanguinanti per colmarli delle Sue parole di misericordia. Oggi la sua “compassione” è la nostra guarigione. Il suo amore senza condizioni anche oggi caccia dal nostro cuore il principe del silenzio, smascherando con la Parola le sue menzogne. Abbandoniamoci a Lui e consegniamogli malinconia e orgoglio e lasciamoci amare, per correre in mare ad accogliere e prendere sulle spalle i naufraghi in cerca di pace, magari proprio quando, sporco e affamato, si fa carne nel figlio ribelle o nel collega invidioso: “La tua volontà sia davanti a Te, Dio dei cieli, siano ascoltati e evangelizzati buoni vangeli, vangeli di salvezza, di conforto e consolazione dai quattro angoli della terra” (Liturgia di Shabbat per l’annuncio del mese, Rosh Odesh).
da Baltazzar | Lug 8, 2013 | Benedetto XVI, Chiesa, Papa Francesco
Ieri, mentre veniva presentata al mondo la nuova enciclica “Lumen fidei”, scritta a quattro mani da Benedetto XVI e da papa Francesco, i due uomini di Dio insieme hanno anche inaugurato, nei giardini vaticani, una statua di san Michele Arcangelo, consacrando la città vaticana a lui e a san Giuseppe.
Da tali fatti emerge non solo l’affetto fraterno che unisce Francesco e il predecessore, ma soprattutto la loro comunione di fede profonda. Questa unità, in un mondo segnato dal conflitto, è il miracolo della grazia, l’essenza del cristianesimo.
E va sottolineato anche perché i giornali tendono a parlare della Chiesa secondo i criteri di giudizio mondani. Senza vederne il miracolo.
Non a caso, proprio ieri mattina, su “Repubblica”, un articoletto pretendeva di proclamare invece la radicale “discontinuità” fra Benedetto XVI e papa Francesco. Un’idea clamorosamente smentita dagli stessi eventi del giorno.
Del resto sempre ieri il papa ha pure firmato i decreti di canonizzazione di altri due papi, Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. E ha voluto datare la sua enciclica così: “29 giugno, solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo”.
Dunque, con una straordinaria serie di gesti, in una stessa giornata, ha potentemente sottolineato la continuità e la grandezza del papato da san Pietro ai giorni nostri.
E ha offerto a noi l’occasione di abbracciare, con un solo sguardo, la “creatività” di Dio nel nostro tempo.
Egli infatti ha parlato al mondo di oggi attraverso la testimonianza potente e affascinante di papa Wojtyla, profeta di fede e di libertà; poi attraverso la sapienza profonda e l’umiltà di Benedetto XVI, che ha fatto brillare la ragionevolezza della fede davanti allo smarrimento dei moderni; infine alla nostra generazione Dio parla attraverso la paternità tenera e accorata di papa Francesco, grande abbraccio di misericordia su tutte le miserie e le ferite umane (la visita del Papa a Lampedusa, fra i disperati della terra – lunedì prossimo – ce lo mostra in modo commovente).
L’enciclica “Lumen fidei”, dicevo, è profondamente segnata da questa continuità del giudizio della Chiesa sul mondo moderno e dalla variegata ricchezza della sua testimonianza.
Costituisce del resto un evento memorabile: non è cosa di tutti i giorni che un’enciclica sia scritta a quattro mani, concordemente, da due papi.
Ma, portando la firma dell’unico pontefice in carica che umilmente riconosce nel corpo stesso dell’enciclica la paternità del predecessore per buona parte del documento (“nella fraternità di Cristo, assumo il suo prezioso lavoro, aggiungendo al testo alcuni ulteriori contributi”), con buona pace di “Repubblica”, mostra senza alcun dubbio possibile, che papa Francesco abbraccia e fa suo il magistero del predecessore.
Ovviamente lo fa donando alla vita della Chiesa di questi giorni e al mondo in rapida mutazione, ulteriori spunti di riflessione che tutti – quelli antichi di Benedetto e quelli nuovi – convergono sul volto di Gesù Cristo e la fede in Lui.
Alcuni rapidi flash. La fede è luce, mentre il mondo sprofonda sempre più nelle tenebre. E’ un giudizio sul momento presente. Il Papa contesta apertamente l’idea che lo spazio della fede si apra “lì dove la ragione non può illuminare”.
No. I secoli moderni – dai totalitarismi del Novecento alla confusione del presente – hanno dimostrato che le pretese assolute della ragione producono infelicità.
E la luce della fede non è un sentimento soggettivo, ma verità oggettiva: “quando la sua fiamma si spegne anche tutte le altre luci finiscono per perdere il loro vigore”. Essa dunque sa “illuminare tutta l’esistenza dell’uomo”.
E’ la prima contestazione della “dittatura del relativismo”.
Un secondo flash. Cosa è la fede? Una credenza? Una dottrina? Una morale? No. Sta tutta in questa frase: “riconosciamo che un grande Amore ci è stato offerto”.
Per questo l’enciclica usa l’espressione giussaniana “incontro che accade nella storia” e sottolinea che il Salvatore ci ha raggiunto attraverso una “catena umana” che ha attraversato i millenni, cioè la Chiesa, la tradizione.
Un altro prezioso spunto. Nella mentalità dominante si oppone di solito alla fede l’agnosticismo o l’ateismo. Invece la “Lumen fidei”, in base alla lezione biblica, oppone alla fede “l’idolatria”.
In effetti l’ateismo non esiste. Nessun uomo può vivere, anche un solo istante, senza affermare qualcosa o qualcuno. E’ ciò che la Sacra Scrittura chiama “idolo”.
Dunque l’unica grande opzione della vita sta in questo: fidarsi di Gesù Cristo o di qualche idolo. Non è possibile per nessuno sottrarsi a questa scelta. Chi è più affidabile? Chi merita veramente fiducia? Gesù di Nazaret, colui che è morto per me e per te, o un qualunque idolo?
Questa enciclica ci libera da tanti luoghi comuni. Per esempio la cultura dominante pensa Dio come qualcuno che “si trovi solo al di là”, quindi “incapace di agire nel mondo”, perciò “il suo amore non sarebbe veramente potente, capace di compiere la felicità che promette”. Così “credere o non credere in Lui sarebbe del tutto indifferente”.
Invece è vero il contrario. E sono i fatti – i concretissimi fatti – a gridarlo. E’ tutta una storia ricchissima di fatti a provarlo.
Del resto “quando l’uomo pensa che allontanandosi da Dio troverà se stesso, la sua esistenza fallisce”.
Ma come inizia la fede? Incontrando Gesù, oggi come duemila anni fa. In un incontro con i cristiani che sono una cosa sola con Lui. Chi non vorrebbe vedere gli occhi di Gesù?
Ebbene, citando Guardini, l’enciclica spiega che la Chiesa è la portatrice storica dello sguardo di Cristo sul mondo. In essa si sperimenta una vita comune. Così noi scopriamo che non siamo più soli.
Si aderisce a quello sguardo, fino a farlo nostro, dando credito a alla compagnia di Gesù e cominciando a seguirlo concretamente: “se non crederete non comprenderete”. Perciò “la fede non è un fatto privato, una concezione individualistica, un’opinione soggettiva”.
Questa è la profonda ragionevolezza della fede. Chi ritiene invece che essa sia “una bella fiaba” o “un bel sentimento”, indichi qualcuno che sia più credibile di Cristo da seguire.
La prova sperimentale – dice l’enciclica – mostra a ciascuno che l’amicizia di Cristo illumina la vita come nessuna cosa al mondo e apre il cuore umano all’amore che tutti desideriamo.
Per questo possiamo riconoscere che Egli è la verità: “richiamare la connessione della fede con la verità” dice l’enciclica “è oggi più che mai necessario proprio per la crisi di verità in cui viviamo” perché “nella cultura contemporanea si tende spesso ad accettare come verità solo quella della tecnologia” o “della scienza”.
Il cristiano non pretende con arroganza di essere il padrone della verità. Anzi “la verità lo fa umile” perché non è lui a esserne padrone, ma è la verità a possederlo. Infatti è compagno di cammino di tutti.
L’enciclica ha molti spunti antirelativisti. Per esempio sulla teologia (che è “al servizio della fede dei cristiani” e alla sequela del magistero). Sulla fede “fai-da-te” (la fede è una, non si può prendere una cosa e rifiutarne un’altra). Sulla rilevanza pubblica della fede cristiana. Sulla “fraternità” che non è possibile senza riconoscere un Padre di tutti.
La fede proclama il primato dell’uomo nell’universo e al tempo stesso “ci fa rispettare maggiormente la natura”. Con buona pace di “Repubblica” esalta il matrimonio come “unione stabile dell’uomo e della donna… capaci di generare una nuova vita”, riconoscendo “la bontà della differenza sessuale”.
E fa abbracciare tutte le sofferenze del mondo: “all’uomo che soffre Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto”, ma offre la sua presenza che accompagna e che si carica di tutti i dolori umani.
La fede cristiana annuncia la “città di Dio” che ci è preparata per sempre. E si affida a colei che è “la Madre della nostra fede”.
Decisamente queste pagine sono una grande luce nelle tenebre del presente.
Antonio Socci da www.antoniosocci.com
da Baltazzar | Lug 8, 2013 | Chiesa, Liturgia
dal Vangelo secondo Mt 9,18-26In quel tempo, mentre Gesù parlava, giunse uno dei capi che gli si prostrò innanzi e gli disse: «Mia figlia è morta proprio ora; ma vieni, imponi la tua mano sopra di lei ed essa vivrà». Alzatosi, Gesù lo seguiva con i suoi discepoli.
Ed ecco una donna, che soffriva d’emorragia da dodici anni, gli si accostò alle spalle e toccò il lembo del suo mantello. Pensava infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita». Gesù, voltatosi, la vide e disse: «Coraggio, figliola, la tua fede ti ha guarita». E in quell’istante la donna guarì.
Arrivato poi Gesù nella casa del capo e veduti i flautisti e la gente in agitazione, disse: «Ritiratevi, perché la fanciulla non è morta, ma dorme». Quelli si misero a deriderlo. Ma dopo che fu cacciata via la gente egli entrò, le prese la mano e la fanciulla si alzò.
E se ne sparse la fama in tutta quella regione.
Il commento di don Antonello Iapicca
Ci sono momenti in cui è meglio per noi ritirarci. Lasciare che Dio agisca. Lasciare il Signore solo con la nostra soffrerenza. Lasciarlo entrare. Alberga in noi tanta sfiducia, ammettiamolo. A volte anche la derisione di fronte all’impossibile che Dio solo è capace di fare. Lasciare in disparte quella parte di noi che dubita, mormora, sogghigna di Dio. Lasciare che Lui tocchi la nostra carne morta. Che perdoni, con le sue ferite, i nostri peccati, gravidi di morte e tristezza.
Il Signore è buono, Lui si ferma alla nostra piccolissima fede, basta un gesto, un grido. Quante volte ci gettiamo disperati ai Suoi piedi implorando la salvezza! Spesso ci ricordiamo di Lui solo quando lo necessitiamo per qualche sofferenza insopportabile. Ci avviciniamo, qualcosa dentro di noi ci dice che basta solo toccare il Suo mantello, come quello di Elia, segno – sacramento – del potere della Sua parola profetica che compie ciò che annuncia. Toccarlo è ascoltarlo. Poi, succede che dimentichiamo, ripiombiamo nell’incredulità, nella paura. Eppure a Lui basta una parola. La Sua, la nostra. Un briciolo di fede, un moto del cuore. Il nostro cuore più profondo. Le agitazioni esterne, le nevrosi e i nervosismi Lui li caccia fuori. Il suo amore si appoggia anche su una sola nostra parola.
Non importa se lo cerchiamo solo quando siamo giunti all’ultima spiaggia, è Lui che ci lascia scendere, in quella relazione, in quel lavoro, nello studio, l’ultimo gradino della nostra forza presunta. E lì, di fronte al mare e con dietro l’esercito del Faraone, imparare ad attendere il suo intervento miracoloso che sgorga dall’umile confidenza di chi non ha più nulla da sperare che un miracolo. Perchè appaia il Cielo nella nostra vita, l’impossibile fatto possibile, un segno credibile della presenza di Dio nella storia: ogni nostra debolezza, ogni situazione limite, ogni muro invalicabile è per noi e per il mondo il luogo dell’annuncio più autentico. Per questo importa solo il desiderio profondo di toccarlo, di sfiorare il lembo del suo mantello, laddove ogni pio israelita portava lo “tzitzit” (“frangia” in ebraico). “C’è un obbligo nella Bibbia (Numeri 15, dal verso 38) che noi ripetiamo ogni giorno nella preghiera – fa parte dei tre brani dello shemà –, che afferma che sui quattro angoli della veste occorre portare delle frange, di cui un filo sia di colore celeste, colorato con un pigmento speciale derivato da un mollusco… Il segno esisteva per dire a ogni ebreo: «Ricorda, anche nell’abito che indossi, che esiste Dio ai quattro angoli». Sono frange sulle quali si fanno dei nodi, che seguono una tradizione numerica particolare e simbolicamente rappresentano il nome di Dio. Come tali quindi queste frange rappresentano la parte sacra dell’abito. Ciascun ebreo osservante indossava questo abito e continua a farlo oggi. Non era una veste solo sacerdotale. L’emorroissa toccava perciò la parte sacra dell’abito, toccava quei nodi che rappresentavano il nome di Dio… L’emorroissa toccava perciò la parte sacra dell’abito, toccava quei nodi che rappresentavano il nome di Dio… potremmo dire che l’emorroissa chiedeva una grazia, come atto di bontà nei suoi confronti, hesed”. (Riccardo Di Segni, Il Vangelo spiegato dal Rabbino, 30 Giorni n. 10/11 2009).
Basta sfiorare la sua hesed, il suo amore misericordioso. “Nel termine hesed è insito anche lo slancio entusiastico, come un ardore, la passione nell’atto di amore o di benevolenza” (R. Di Segni, cit.). Toccare con la nostra debolezza il suo ardore d’amore; accendere il fuoco della sua passione con il solo tendere mendicante della nostra mano. Toccarlo, in un istante di fiducia. La fede. Lì, nella parte più vera di noi. Un grido. Un abbandono. La certezza profonda d’essere ascoltati. Lo sguardo di Gesù nel nostro sguardo. “La fanciulla non è morta. Dorme”. La fede è avere questi occhi su ogni evento, su ogni sofferenza. E implorare, semplicemente, che Lui venga a destare quanto di noi s’è assopito. Il Mistero Pasquale che si compie ogni giorno. Anche oggi. “La domanda della presenza di Cristo in ogni situazione e occasione della vita – è una frase del Papa –, questo è l’ascesi. Che diventi familiare in noi la domanda della presenza di Cristo in ogni situazione e occasione della vita, questo è l’ascesi. (Mons. Luigi Giussani, L’opera del movimento. La fraternità di Comunione e liberazione).
Mt 9,18-26
In quel tempo, mentre Gesù parlava, giunse uno dei capi che gli si prostrò innanzi e gli disse: «Mia figlia è morta proprio ora; ma vieni, imponi la tua mano sopra di lei ed essa vivrà». Alzatosi, Gesù lo seguiva con i suoi discepoli.
Ed ecco una donna, che soffriva d’emorragia da dodici anni, gli si accostò alle spalle e toccò il lembo del suo mantello. Pensava infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita». Gesù, voltatosi, la vide e disse: «Coraggio, figliola, la tua fede ti ha guarita». E in quell’istante la donna guarì.
Arrivato poi Gesù nella casa del capo e veduti i flautisti e la gente in agitazione, disse: «Ritiratevi, perché la fanciulla non è morta, ma dorme». Quelli si misero a deriderlo. Ma dopo che fu cacciata via la gente egli entrò, le prese la mano e la fanciulla si alzò.
E se ne sparse la fama in tutta quella regione.
Il commento
Ci sono momenti in cui è meglio per noi ritirarci. Lasciare che Dio agisca. Lasciare il Signore solo con la nostra soffrerenza. Lasciarlo entrare. Alberga in noi tanta sfiducia, ammettiamolo. A volte anche la derisione di fronte all’impossibile che Dio solo è capace di fare. Lasciare in disparte quella parte di noi che dubita, mormora, sogghigna di Dio. Lasciare che Lui tocchi la nostra carne morta. Che perdoni, con le sue ferite, i nostri peccati, gravidi di morte e tristezza.
Il Signore è buono, Lui si ferma alla nostra piccolissima fede, basta un gesto, un grido. Quante volte ci gettiamo disperati ai Suoi piedi implorando la salvezza! Spesso ci ricordiamo di Lui solo quando lo necessitiamo per qualche sofferenza insopportabile. Ci avviciniamo, qualcosa dentro di noi ci dice che basta solo toccare il Suo mantello, come quello di Elia, segno – sacramento – del potere della Sua parola profetica che compie ciò che annuncia. Toccarlo è ascoltarlo. Poi, succede che dimentichiamo, ripiombiamo nell’incredulità, nella paura. Eppure a Lui basta una parola. La Sua, la nostra. Un briciolo di fede, un moto del cuore. Il nostro cuore più profondo. Le agitazioni esterne, le nevrosi e i nervosismi Lui li caccia fuori. Il suo amore si appoggia anche su una sola nostra parola.
Non importa se lo cerchiamo solo quando siamo giunti all’ultima spiaggia, è Lui che ci lascia scendere, in quella relazione, in quel lavoro, nello studio, l’ultimo gradino della nostra forza presunta. E lì, di fronte al mare e con dietro l’esercito del Faraone, imparare ad attendere il suo intervento miracoloso che sgorga dall’umile confidenza di chi non ha più nulla da sperare che un miracolo. Perchè appaia il Cielo nella nostra vita, l’impossibile fatto possibile, un segno credibile della presenza di Dio nella storia: ogni nostra debolezza, ogni situazione limite, ogni muro invalicabile è per noi e per il mondo il luogo dell’annuncio più autentico. Per questo importa solo il desiderio profondo di toccarlo, di sfiorare il lembo del suo mantello, laddove ogni pio israelita portava lo “tzitzit” (“frangia” in ebraico). “C’è un obbligo nella Bibbia (Numeri 15, dal verso 38) che noi ripetiamo ogni giorno nella preghiera – fa parte dei tre brani dello shemà –, che afferma che sui quattro angoli della veste occorre portare delle frange, di cui un filo sia di colore celeste, colorato con un pigmento speciale derivato da un mollusco… Il segno esisteva per dire a ogni ebreo: «Ricorda, anche nell’abito che indossi, che esiste Dio ai quattro angoli». Sono frange sulle quali si fanno dei nodi, che seguono una tradizione numerica particolare e simbolicamente rappresentano il nome di Dio. Come tali quindi queste frange rappresentano la parte sacra dell’abito. Ciascun ebreo osservante indossava questo abito e continua a farlo oggi. Non era una veste solo sacerdotale. L’emorroissa toccava perciò la parte sacra dell’abito, toccava quei nodi che rappresentavano il nome di Dio… L’emorroissa toccava perciò la parte sacra dell’abito, toccava quei nodi che rappresentavano il nome di Dio… potremmo dire che l’emorroissa chiedeva una grazia, come atto di bontà nei suoi confronti, hesed”. (Riccardo Di Segni, Il Vangelo spiegato dal Rabbino, 30 Giorni n. 10/11 2009).
Basta sfiorare la sua hesed, il suo amore misericordioso. “Nel termine hesed è insito anche lo slancio entusiastico, come un ardore, la passione nell’atto di amore o di benevolenza” (R. Di Segni, cit.). Toccare con la nostra debolezza il suo ardore d’amore; accendere il fuoco della sua passione con il solo tendere mendicante della nostra mano. Toccarlo, in un istante di fiducia. La fede. Lì, nella parte più vera di noi. Un grido. Un abbandono. La certezza profonda d’essere ascoltati. Lo sguardo di Gesù nel nostro sguardo. “La fanciulla non è morta. Dorme”. La fede è avere questi occhi su ogni evento, su ogni sofferenza. E implorare, semplicemente, che Lui venga a destare quanto di noi s’è assopito. Il Mistero Pasquale che si compie ogni giorno. Anche oggi. “La domanda della presenza di Cristo in ogni situazione e occasione della vita – è una frase del Papa –, questo è l’ascesi. Che diventi familiare in noi la domanda della presenza di Cristo in ogni situazione e occasione della vita, questo è l’ascesi. (Mons. Luigi Giussani, L’opera del movimento. La fraternità di Comunione e liberazione).