Martedì della XV settimana del T.O.

Martedì della XV settimana del T.O.

dal Vangelo secondo Mt 11, 20-24

In quel tempo, Gesù si mise a rimproverare le città nelle quali aveva compiuto il maggior numero di miracoli, perché non si erano convertite:
«Guai a te, Corazin! Guai a te, Betsaida. Perché, se a Tiro e a Sidóne fossero stati compiuti i miracoli che sono stati fatti in mezzo a voi, già da tempo avrebbero fatto penitenza, ravvolte nel cilicio e nella cenere. Ebbene io ve lo dico: Tiro e Sidóne nel giorno del giudizio avranno una sorte meno dura della vostra.
E tu, Cafàrnao, “sarai forse innalzata fino al cielo? Fino agli inferi precipiterai!”.  Perché, se in Sòdoma fossero avvenuti i miracoli compiuti in te, oggi ancora essa esisterebbe! Ebbene io vi dico: Nel giorno del giudizio avrà una sorte meno dura della tua!».

Il commento di don Antonello Iapicca

Il peccato di Sodoma e Gomorra non è innanzitutto, come di solito si pensa, quello di una sessualità pervertita, la sodomia per intenderci. La tradizione giudaica insiste invece sull’unica regola di Sodoma: il rifiuto dell’ospitalità, che è sempre la madre di ogni disordine, anche di quello sessuale. La trasgressione di questa legge da parte di Lot fece scoprire i due angeli che furono a visitarlo (Gen. 19, 1-4). I nomi di Sodoma e Gomorra in ebraico sono rispettivamente “il campo” e “i covoni”. Nomi legati alla fecondità, alla prosperità, che evocano semi e seminagione, immagine e profezia del Messia e dell’amore. Fecondo è solo chi accoglie l’amore, chi lascia che il seme penetri e dia inizio alla vita; chi si chiude in se stesso e nel proprio egoismo cercherà nell’altro soddisfazione e gratificazione, sempre infeconde, come accade nei rapporti contro natura.

Nella Scrittura appaiono molti episodi e molte profezie al riguardo. Il Cantico dei Cantici descrive in modo sublime il Signore come uno Sposo che scende nel suo giardino alla ricerca della sua amata. La parabola del seminatore ne trasmette gli echi. Non a caso, proprio tra i campi e i covoni, prima Davide e i suoi prodi, e poi Cristo con i suoi discepoli, compiendo in modo autentico e impensabile la Legge, cercano il nutrimento riservato ai sacerdoti. Laddove è stato gettato il seme della Parola attraverso l’annuncio del Vangelo, il Signore, unico e vero mediatore e sacerdote tra l’uomo e il Padre, cerca il suo frutto. Quei campi e quei covoni sono opera sua, il frutto del suo mistero pasquale annunciato dalla Chiesa. Ciascun uomo sulla terra, covoni del grande campo di Dio, è sua proprietà. Non accogliere Cristo è non accogliere se stessi, rifiutando la propria identità e l’unico senso della propria vita. “Precipitare” è allora la naturale conseguenza di una scelta, non un castigo ingiusto di un Dio ingiusto: o apriamo la porta a Cristo per accoglierlo, o spalanchiamo le finestre per buttarci giù e suicidarci, non ci sono alternative. Sì, chi non accoglie Cristo si suicida in una eutanasia dell’anima che le sottrae l’unico alimento che la fa vivere ed essere feconda.

“Sodoma” e “Gomorra” richiamano a una storia d’amore tradita per superbia e autosufficienza, gli stessi peccati delle altezzose “Cafarnao e Corazin”, delle emancipate “Tiro e Sidone”, della ricca “Betsaida”. Non c’è posto per la Grazia in chi si presume giusto, e allora “chi si crede giusto, che si cucini nel suo brodo! Lui è venuto per noi peccatori e questo è bello. Lasciamoci guardare dalla misericordia di Gesù, facciamo festa e abbiamo memoria di questa salvezza!” (Papa Francesco, Omelia a Santa Marta, 5 luglio 2013).L’unico antidoto al rifiuto di Cristo, infatti, è la costante memoria del suo amore. Insegniamo ai nostri figli a fare memoria in mezzo alla confusione nella quale vivono? Gli sposi fanno ogni giorno memoria delle opere di Dio in loro, per resistere ai terremoti della vita matrimoniale? Un sacerdote sa guardare alla sua storia e farne un memoriale di misericordia e gratuità nella messa che celebra ogni giorno, per guidare il popolo a lui affidato a contemplare, anche nelle traversie della vita, la fedeltà buona e giusta di Dio?

Quel lembo di Galilea è la geografia della storia di ciascun uomo: giunge lo Sposo, l’Atteso, il nuovo Mosè, il Messia. E’ Lui il Pane disceso dal cielo, la sua carne e il suo sangue sono l’unica vita. Ma questo discorso è duro, e molti, proprio lì, nella sinagoga di Cafarnao, anche tra i suoi amici e parenti, hanno cominciato ad abbandonarlo. Non lo hanno accolto sino in fondo, il loro amore era come rugiada del mattino, evaporata al sorgere del Sole di verità. Gesù non è una rosetta, magari la migliore, in mezzo ad altri filoni e ciriole. Gesù è un pane speciale, unico, al punto che senza di Lui non si può vivere, che senza di Lui la vita è morte. Che pretesa! Cafarnao, Betsaida, Corazin, non lo hanno potuto accettare: troppo ricche, troppo radical e liberali, in quella Galilea al confine tra Israele e la terra pagana, terra così incline ad assorbirne le idolatrie e a diluirvi dentro la propria fede.

Cafarnao, Betsaida, Corazin, sono i nostri nomi. Siamo superbi. Le porte del cuore sono sprangate. La predicazione, i miracoli, quante volte ci hanno scaldato, emozionato, per poi essere dimenticati, strozzati dal nostro ego smisurato dato in sposo all’idolatria? E siamo “precipitati”, proprio come si può constatare oggi nel sito di Cafarnao, di cui non resistono che poche vestigia archeologiche perché sprofondata nel Lago di Tiberiade. Eccoci allora così spesso soli, sfiduciati, con i nostri fallimenti a darci dolore.

E così, per sfuggire la sofferenza, banalizziamo il male, scivoliamo sui peccati e ci auto-giustifichiamo prendendo come scudo la nostra debolezza. Ma in fondo ancora non conosciamo il pianto ed il dolore per i peccati, e ci chiudiamo così alla misericordia. Sodoma e Gomorra non potevano accogliere lo straniero perché turbava i loro standard, che erano quelli del peccato. Forse non giungiamo a chissà quali nefandezze, ma il principio è lo stesso: difendiamo quello che desideriamo fare, inzuppandolo nella melassa della libertà. Magari le ferite sanguinassero davvero dilaniandoci dal dolore! Spalancheremmo le porte al medico capace di curarci.

L’arroganza, l’assolutezza nei giudizi, l’incapacità di amare e accogliere il prossimo così com’è, sono figli perversi della chiusura alla Grazia, l’unica capace di cambiare radicalmente il nostro cuore. Sono frutto di un’affezione subdola al male che desideriamo compiere. Per questo banalizziamo gli aspetti importanti e decisivi, chiudendo cuore e mente al perdono: “Dell’immagine di Dio e di Gesù, alla fine, non ammettiamo forse soltanto l’aspetto dolce e amorevole, mentre abbiamo tranquillamente cancellato l’aspetto del giudizio? Come potrà Dio fare un dramma della nostra debolezza? – pensiamo. Siamo pur sempre solo degli uomini! Ma guardando alle sofferenze del Figlio vediamo tutta la serietà del peccato, vediamo come debba essere espiato fino alla fine per poter essere superato. Il male non può continuare a essere banalizzato di fronte all’immagine del Signore che soffre” (Card. J. Ratzinger, Meditazioni sulla Via Crucis al Colosseo, 2005).

Che fare? “Pentirsi”, “convertirsi”. Accogliere, oggi, di nuovo, l’amore e il perdono, la misericordia infinita di chi vuole ridonarci la verginità perduta, del Signore che ancora una volta, oggi, vuol ricrearci per una nuova fecondità.  “Tua sorella Sodoma e le città dipendenti torneranno al loro stato di prima” (Ez. 16, 55): il Capitolo 16 di Ezechiele descrive magistralmente la parabola di Israele, di Sodoma e delle sue sorelle, immagini della nostra vita. Amata e riscattata mille volte, e altrettante perduta in adulteri e idolatrie, figlie della superbia antica. Ma l’ultima parola è la misericordia, la vita nuova in Cristo: “Dopo le irrimediabili minacce, il Signore lascia risplendere l’amore. Bisogna ascoltare, ascoltare fino in fondo per arrivare all’ultima parola, il Nome del Signore! Egli è giustizia e tenerezza. Il suo essere sorprende ogni logica e ogni attesa. Come se l’attesa offerta al Santo, Benedetto Egli Sia, meritasse all’uomo il segreto del Signore, o come se il Signore desiderasse riservare a coloro che accettano di andare fino in fondo a se stessi il Suo nome di pazienza dove risplende il Perdono” (M. Vidal, L’ebreo Gesù e lo Shabbat, Napoli 1988, pag. 45).

Ezechiele annuncia che “Anche io mi ricorderò dell’alleanza conclusa con te nella tua giovinezza e stabilirò con te un’alleanza eterna. Allora ti ricorderai della tua condotta e ne resterai confusa….tu non apra più bocca, quando ti avrò perdonato quello che hai fatto” (Ez. 16, 60.63). Come Giobbe, anche noi possiamo riconoscere la nostra stoltezza, e abbandonarci, silenziosi, alla misericordia di Dio: “Dirà il profeta Geremia al popolo ribelle: “La tua stessa malvagità ti castiga e le tue ribellioni ti puniscono. Renditi conto e prova quanto è triste e amaro abbandonare il Signore, tuo Dio” (Geremia 2, 19). È da questa tristezza e amarezza che il Signore vuole salvare l’uomo liberandolo dal peccato. Ma “serve una trasformazione dall’interno, un qualche appiglio di bene, un inizio da cui partire per tramutare il male in bene, l’odio in amore, la vendetta in perdono” (Benedetto XVI, Catechesi di mercoledì 18 maggio 2011). Serve quest’oggi che si apre dove sciogliere umilmente un cuore contrito e umiliato nelle viscere misericordiose di Gesù. Basta solo aprire una fessura, anche di qualche millimetro, che lasci filtrare un piccolissimo fascio di luce. Il bagliore della Pasqua ha il potere di sbriciolare l’orgoglio, proprio illuminando la stoltezza della presunzione.

Stringiamoci allora all’alleanza nuova ed eterna che anche oggi, nel corpo e sangue del Signore, ci viene offerta gratuitamente. Tanti miracoli sono stati compiuti nella nostra vita, il primo è questo respiro che ci tiene in vita in questo istante. Chiediamo a Dio la Grazia di non abituarci mai al suo amore: che cosa abbiamo fatto per meritare tutto quello che abbiamo? Nulla, se non credere alla menzogna con la quale il demonio ha ridipinto e stravolto i segni dell’amore di Dio, inducendoci a pensare che fossero i graffi della sua ingiustizia. Imploriamo allora il dono dello stupore quotidiano di fronte alla visita beneficante del Signore, gratuita perché immeritata: “senza meraviglia l’uomo cadrebbe nella ripetitività e, poco alla volta, diventerebbe incapace di un’esistenza veramente personale” (Giovanni Paolo II, Fides et ratio, n. 4).

Lunedì della XV settimana del T.O.

Lunedì della XV settimana del T.O.

dal vangelo secondo Mt. 10, 34-41
Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell`uomo saranno quelli della sua casa. Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà. Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta come profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto come giusto, avrà la ricompensa del giusto. E chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa”.
Il commento di don Antonello Iapicca
I Leviti portavano il peso della loro responsabilità. Erano addetti alla Tenda della Riunione, il luogo ove era conservata l’Arca dell’Alleanza, nucleo di quello che nel Tempio diverrà il Santo dei Santi. I Leviti custodivano la Presenza di Dio, scelti come primizie del popolo per assicurare assistenza al Signore. Avevano messo Dio al di sopra dei loro stessi fratelli, della famiglia, di tutto; essi dissero dei propri genitori: “Non li abbiamo mai visti; non portarono riguardo ai fratelli e non conobbero i figli perché osservarono i Tuoi detti e preservarono il Tuo patto, essi insegneranno i Tuoi statuti a Giacobbe e la Tua legge ad Israele; portarono il profumo dinanzi a Te e l’olocausto sul Tuo altare. O Signore, benedici i loro averi e gradisci l’opera delle loro mani, ferisci i fianchi di coloro che sorgeranno contro di loro ed i nemici loro, sì che non possano rialzarsi” (Dt).
I Leviti non avevano parte con il popolo, perché il Signore era loro parte ed eredità: per questo la loro eredità era magnifica, e la loro sorte era caduta su luoghi deliziosi. La vita dei leviti era tutta per l’Arca, per la Torah, per il cuore stesso di Dio, da dove, nel giorno di Yom Kippur, il Sommo Sacerdote gridando il Nome dell’Altissimo, impetrava e otteneva il perdono per tutto il popolo. Nulla potevano amare più dell’Arca che custodiva la Presenza di Dio, difesa e vittoria del Popolo. Erano per Dio e per questo erano per ogni loro fratello. Proprio la “separazione” da ogni legame di carne li donava a tutti: se cadevano loro cadeva il popolo.
Così anche noi siamo stati chiamati ad essere per il mondo i custodi della Presenza di Dio. E’ infinitamente più importante di ogni legame: la nostra primogenitura è l’assicurazione per il Cielo che Dio offre ad ogni uomo. Per salvare chi ci è accanto e ci è stato affidato, è necessario che la Spada portata da Cristo, la Croce che ci fa Leviti della sua presenza e tabernacolo della misericordia, “separi il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera”; solo un buonismo sentimentale opera del demonio è incapace di vedere le ferite di Cristo crocifisso nelle lacerazioni operate da Cristo e dalla fedeltà a Lui. Perché siano salvati e accompagnati, ogni giorno, in Cielo, nella comunione con Dio, è necessario che “i nemici dell`uomo siano quelli della sua casa”: solo allora sarà svelata quella parte di loro che è nemica di Cristo, e così potranno incontrare in noi le braccia distese ad abbracciarli nell’amore autentico, che offre la vita per il nemico, che prega per lui, che perdona. Altro che “pace” di Nutella, dolce al palato e velenosa per l’anima. Dio non si è fatto carne per vendere placebo; Cristo non inganna, ama a prezzo della propria vita. E’ nemico un figlio che rifiuta la fede trasmessa dai genitori; un nemico da amare prendendo il rifiuto e perdonando senza  anestetizzare la fede adeguandola alla carne: il compromesso e la paura di soffrire non hanno nulla a che vedere con l’amore.
“Amare la propria vita”, difendere i propri spazi, i criteri, le comodità, rifiutando la precarietà di chi ha le radici solo in Cristo, significa vedersela sfilare, perderla inesorabilmente: “trovare” la vita, infatti, per un apostolo significa “trovare” in Cielo tutti coloro che il “Nome” di Gesù ha iscritto nei Cieli. Se ne mancherà qualcuno significa che avremo difeso la vita in tutte quelle circostanze nelle quali Dio aveva messo sul nostro cammino persone segnate dal suo Nome: ad esempio, quando non avremo perdonato quel collega, o non avremo lasciato che quel parente si porti via il nostro denaro, o avremo mentito al figlio sulla fede.
Il Santo, il totalmente altro, s’è fatto uomo per salvare ogni uomo. La Parola s’è fatta carne perché ogni uomo possa tornare al Padre. La Parola, come una “spada”, penetra sin nelle giunture più profonde di ciascuno di noi, per separare, dividere, vagliare, illuminare e fare verità. Soprattutto, per strappare l’uomo dal dominio della carne e delle passioni, del peccato e della morte. La Pace che annuncia il Signore apparendo ai discepoli è il frutto d’un combattimento senza esclusioni di colpi. La “divisione” che ha lacerato le carni del Signore, la “spada” che ha trapassato il cuore di Maria, sono queste la nostra salvezza: la Parola di verità, la Parola crocifissa che scioglie i legami morbosi, costruiti sui compromessi. Essa spezza le catene della dipendenza affettiva, rompe il muro sentimentale che umilia l’orizzonte infinito della vita divina. La sua “spada”, la Parola di fuoco, ci conduce all’incontro con la verità e la misericordia che liberano le nostre vite.
La vita è seria, e la felicità è un cuore indiviso. Paradossalmente, solo un cuore spezzato dalla spada, crocifisso con Cristo, “diviso” dalla passione e dal cercare se stesso, capace di sostenere e portare la Croce e il peso della responsabilità, è un cuore indiviso. Da esso fluisce l’amore al Signore, libero, e, in Lui, l’amore alle creature, anche le più prossime. La libertà di vivere seriamente nelle croci di ogni giorno, di portare sempre nel proprio corpo il morire di Gesù, perché nelle nostre esistenze appaia anche la sua resurrezione. Il Signore è vivo in noi, novelli Leviti del Terzo Millennio. Siamo chiamati a portare l’Arca dell’Alleanza Nuova ed Eterna che Gesù ha stabilito con l’umanità: piccoli, deboli, incompresi, rifiutati. Umiliati. Cristiani. Offrendo a chiunque ci incontri di amare e servire Cristo in noi, nell’Arca che custodisce Cristo che è la nostra vita; le nostre storie custodiscono la Presenza misteriosa di Dio. Offrendo, dalla nostra Croce, a tutti la ricompensa eterna. La nostra vita, libera e unita al Signore, anche oggi, è un segno per ogni uomo. Un segno di Cristo, del Cielo, del suo amore; così potremo scoprire che, assumendo ogni giorno la nostra storia, così come il Signore ce la dona, portando l’Arca per la quale siamo stati eletti, “è la Torà che porta noi. È lei che ci mantiene in vita come popolo e che ci garantisce continuità”.
Martedì della XV settimana del T.O.

Venerdì della XIV settimana del T.O.

Dal Vangelo secondo Matteo 10,16-23.

Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe.
Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe;
e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani.
E quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire:
non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi.
Il fratello darà a morte il fratello e il padre il figlio, e i figli insorgeranno contro i genitori e li faranno morire.
E sarete odiati da tutti a causa del mio nome; ma chi persevererà sino alla fine sarà salvato.
Quando vi perseguiteranno in una città, fuggite in un’altra; in verità vi dico: non avrete finito di percorrere le città di Israele, prima che venga il Figlio dell’uomo. 

Il commento di don Antonello Iapicca

Il Signore invia i suoi apostoli “come pecore in mezzo ai lupi”. Proprio per essere di Cristo, essi sono indifesi, esposti agli attacchi di tutti. Non c’è nulla di cui stupirsi, perché l’apostolo incarna Colui che lo manda. E’ Lui che perseguitano, è Lui che odiano. Anche noi ne sappiamo qualcosa, quando il nostro cuore in fermento è incapace di accettare un minimo rimprovero, un semplice aiuto. Quante volte abbiamo rifiutato e perseguitato, ucciso nei nostri cuori i messaggeri del Signore. Lui è la Verità, la Parola che ci annuncia la Chiesa ci smaschera, e questo non piace a nessuno. L’orgoglio ferito muove rabbiosamente le acque torbide della violenza nascosta.
L’episodio di Nabal, nel primo Libro di Samuele, lo esprime bene: questi “è troppo cattivo e non gli si può dire una parola” (1 Sam. 25,17). La traduzione non è esatta perché l’originale ebraico, invece di cattivo, recita “stolto”. Nabal è accecato e non è capace di leggere gli eventi, non vuole accogliere Davide con i suoi prodi, nonostante in passato lo avessero aiutato e difeso. Nabal non ascolta nessun consiglio, mentre la moglie di nascosto si accinge ad intercedere per il marito presso Davide, che, grazie a lei, desiste da ogni vendetta: “Non faccia caso il mio signore di quell`uomo stolto che è Nabal, perché egli è come il suo nome: stolto si chiama e stoltezza è in lui” (1 Sam. 25, 25). Nabal, quando si rende conto di quello che è successo, è preso da un fremito e muore: è la sorte dello stolto, strangolato dalla propria stoltezza. Davide è figura di Cristo e dei suoi Apostoli, inviati nel mondo ad annunciare il Regno. Nabal è figura di chi non accoglie la predicazione, per stoltezza, per orgoglio.
Per questo il Signore invia i propri discepoli come “pecore in mezzo ai lupi”, indifesi dinanzi alla violenza bruta di chi è accecato dall’orgoglio e dalla presunzione, con il cuore e la mente chiusi in un vano e stolto ragionare. E’ necessaria la debolezza di una pecora: un apostolo capace di difendersi, potente in mezzi e strategie, renderebbe vana la predicazione perché sconfesserebbe la Croce, l’unica capace di svelare la stoltezza nel cuore di chi ascolta. Quando nell’evangelizzazione la sapienza mondana prende il posto della sapienza della Croce, ha buon gioco la stoltezza di Nabal e il Vangelo è rifiutato senza che gli apostoli se ne accorgano. E’ l’opera del demonio che, astutamente, attirando nella rete del dialogo e della tolleranza, spoglia il Vangelo della sua forza originale, rendendolo un irrilevante contorno al pensiero del mondo. O, peggio, facendone un imprimatur al falso buonismo incapace di sanare alla radice il cuore delle persone.
Quando la Chiesa – un sacerdote, un padre, una madre, un amico, tu ed io – cerca nel mondo le formule per annunciare il Vangelo stravolge il mandato del Signore: essa allora va come un lupo in mezzo agli agnelli, perché in fondo, che cos’è il mondo se non un grande gregge di “pecore senza pastore”? Quando la Chiesa, per la paura del rifiuto e del fallimento, accetta le subdole lusinghe del mondo e su questo sintonizza le sue parole e i suoi criteri, diventa un branco di lupi travestiti da agnelli, e da sposa si trasforma in un’isterica zitella sempre insoddisfatta; invece “la Chiesa esiste per proclamare, per essere voce della Parola del suo Sposo, che è la Parola. E la Chiesa esiste per proclamare questa Parola fino al martirio. Martirio precisamente nelle mani dei superbi, dei più superbi della Terra. Come Giovanni Battista che, soltanto, indicava, si sentiva voce, non Parola. Il segreto di Giovanni. Perché Giovanni è santo e non ha peccato? Perché mai, mai ha preso una verità come propria. Non ha voluto farsi ideologo. L’uomo che si è negato a se stesso, perché la Parola venga su. E noi, come Chiesa, possiamo chiedere oggi la grazia di non diventare una Chiesa ideologizzata. La Chiesa è senza ideologie, senza vita propria: la Chiesa che è il mysterium lunae. Una Chiesa che sempre sia al servizio della Parola. Una Chiesa che mai prenda niente per se stessa, senza idee proprie, senza un Vangelo preso come proprietà, soltanto una Chiesa voce che indica la Parola, e questo fino al martirio” (Papa Francesco, Omelia a Santa Marta, 24 giugno 2013).
Per questo Gesù invia gli apostoli “prudenti e semplici”, afferrati completamenti dalla sua Parola da annunziare senza orpelli e glosse mondane; la “prudenza” che sa discernere gli eventi, e in essi svelare l’opera di salvezza di Dio e quella distruttiva del demonio. Un padre e una madre sono inviati ogni istante ai propri figli come apostoli prudenti e semplici, “senza idee proprie”, con la sola Parola di Dio ad illuminare, correggere, e, soprattutto, ad amare; solo così potranno essere sempre e in ogni circostanza una Buona Notizia, un Vangelo di Verità e misericordia per i propri figli, nella libertà che sorge dalla semplicità e dalla prudenza. E, con i genitori, anche ciascuno di noi con i propri amici, con la fidanzata e il fidanzato, con i parenti, con chiunque, “sempre pronti a dare ragione della fede” che illumina e discerne il dito di Dio tra I flutti spesso violenti della storia. Solo un apostolo semplice e prudente saprà stare nella pace e potrà annunciare con coraggio e misericordia il Vangelo che “lo Spirito” farà sorgere sulle sue labbra, anche dinanzi alle difficoltà più grandi, ai turbamenti, ai peccati e ai rifiuti di coloro ai quali è inviato, “ai loro tribunali”, alle “flagellazioni nelle loro sinagoghe”, “davanti ai governatori e ai re” della cultura e del potere di questa società.
Tutto ciò che accade agli Apostoli è “per causa” di Cristo, “per dare testimonianza a loro e ai pagani”. Ogni secondo della nostra vita è legato alla missione e per il suo bene. Siamo, con gli Apostoli di ogni generazione, il suo vessillo innalzato sul mondo, una profezia di verità sulle tenebre della menzogna. Ma le tenebre non hanno accolto la luce, non possono. Per il mondo vi è una sola salvezza, quella che è stata anche per noi: la Croce del Signore, le sue braccia distese sul male. Non v’è “nulla da pre-occuparsi”, non c’è tempo per “occuparsi” in anticipo di ciò che è ancora nella mente di Dio; non siamo noi a dirigere e ispirare la sua volontà: lo Spirito Santo, il respiro e il pensiero di Dio in noi opereranno in ogni occasione compiendo il piano d’amore del Padre. Unica “occupazione”, istante dopo istante, è per noi restare aggrappati al Signore, perché il suo amore colmi ogni spazio della nostra vita.
Sappiamo come San Paolo che non ci aspettano altro che catene e persecuzioni, incomprensioni e odio. Il Vangelo è chiaro e duro: “sarete odiati da tutti”. Ma come, non dovremmo farci accettare, cercare soluzioni e mediazioni, pazientare e dialogare? Il demonio è abilissimo a confondere le acque e a mettere tutto nello stesso calderone. La pazienza e la misericordia non sono opzioni strategiche per prevenire il rifiuto e le persecuzioni. In questo caso sarebbero delle caricature, atteggiamenti ipocriti di chi non ha a cuore la salvezza dell’altro ma solo il proprio successo e il salvare la pelle. Pazienza e misericordia invece sono le attitudini del cuore dell’apostolo che ha annunciato il Vangelo a “tutti”, la carità più grande, ed è stato, da “tutti” odiato e rifiutato.
Se l’apostolo vive la vita di Cristo in ogni circostanza, essa si rivela a “tutti” quelli che incontra, senza adeguarla e scolorirla per renderla commestibile alla carne dell’altro. E sempre incontrerà resistenza e odio, perché la carne non accetta lo Spirito, gli muove guerra; in “tutti” c’è qualcosa che rifiuta Cristo, quando l’annuncio raggiunge la famiglia e il modo di educare i figli, il rapporto con il denaro, le situazioni incancrenite di peccato. Per questo “il fratello darà a morte il fratello e il padre il figlio, e i figli insorgeranno contro i genitori e li faranno morire”. Ma se la carne non è punta dal Vangelo e non lascia fuoriuscire il pus che in essa si nasconde, non può essere salvata. Se la verità non raggiunge la menzogna e non la denuncia, colui che vive nelle tenebre resterà schiavo. Solo quando il Vangelo plana sulla morte e la svela, come ad esempio Gesù ha fatto in occasione degli esorcismi, esso diviene fonte di salvezza e può compiere con potenza ciò che annuncia. E’ inevitabile che i demoni, stanati e attaccati, si agitino e odino Cristo: è un aspetto inevitabile e insostituibile della missione della Chiesa. Solo chi non ama e cerca nella Chiesa la propria realizzazione fugge dall’annuncio autentico della Croce, legato indissolubilmente a quello della resurrezione. Dove non c’è denuncia dei peccati non c’è buona notizia, perché dove la morte non appare anche la resurrezione diviene inutile.
La “perseveranza sino alla fine” è il frutto dell’intimità con Cristo che ci dona il discernimento semplice e prudente di ogni evento, in famiglia, al lavoro, nelle relazioni personali; esso ci indicherà in ogni circostanza l’occasione per rendere testimonianza: nessun istante della nostra vita è inutile, perché ciascuno, anche quelli più tristi e noiosi, costituiscono l’occasione per offrire noi stessi al martirio che salva questa generazione. Un dolore di denti, un’umiliazione sul lavoro, la solitudine, tutto è santo perché ogni istante è un frutto preziosissimo della Passione del Signore, maturo per essere mangiato da tutti coloro che, affamati e accecati, hanno smarrito la vita.
Stiamone certi, Lui ci verrà incontro e ci porterà con Lui, già qui quando riterrà opportuno che “fuggiamo in un’altra città” senza ostinarci a voler convertire le persone, quando esse si ostinano nel rifiuto, lasciando a ciascuno la libertà che il Padre ha donato sin dal principio. Ma Gesù verrà “prima” di quanto pensiamo, nel mezzo della vita spesa in missione nelle nostre “città”, e si manifesterà con potenza confermando il Vangelo annunciato: è Lui che compie l’opera dell’apostolo, ogni giorno; forse a noi non sarà dato di vederlo, ma non importa, perché quando Lui giungerà alla nostra vita, il suo amore ci colmerà, consolerà e rallegrerà, sera dopo sera, sino all’ultima che ci schiuderà il riposo che attende ogni umile lavoratore della sua vigna: “Sparso il seme del Vangelo mediante la sua presenza corporale, subì la passione e la morte e risuscitò, mostrando con la passione ciò che dobbiamo sopportare per la verità, con la risurrezione ciò che dobbiamo sperare nell’eternità” (S. Agostino. De civ. Dei XVIII, 49)
Scoop di Repubblica. Papa Francesco è andato a Lampedusa perché non voleva parlare della sua enciclica

Scoop di Repubblica. Papa Francesco è andato a Lampedusa perché non voleva parlare della sua enciclica

Bergoglio trasformato in un marxista sentimentalone. Le incredibili analisi di Repubblica e del Fatto che fanno diventare il Santo Padre un “white bloc”
Correttore Di Bozze da www.tempi.it   

Papa Francesco a LampedusaOrmai è chiaro a tutti che il Correttore di bozze, come tutti i clericofascisti senza scrupoli, non si fa problemi ad arruolare strumentalmente financo il Papa nella sua crociata di promozione della destra cattolica più becera e reazionaria. Tuttavia, in quanto a faziosità, il Correttore di bozze è una misera schiappa al cospetto dei suoi nemici giornalisti miscredenti e bolscevichi, i quali un giorno sì e l’altro pure trasformano il capo della Chiesa in “uno di loro” con una nonchalance a dir poco invidiabile. Sul viaggio del Santo Padre a Lampedusa hanno dato il meglio.

Il Fatto quotidiano, per esempio, scodella oggi un commento di Marco Filoni che esordisce così: «Il Papa ha parlato di indifferenza e di tenerezza. Il primo è un tema gramsciano, la seconda è la stessa invocata da Ernesto Guevara de la Serna, detto il “Che”». Ed è già tanto che non attribuisca il concetto di “periferia esistenziale” all’architetto Fuksas. Comunque l’analisi del Fatto mica si ferma qui. Secondo il quotidiano dei giustizieri, il Papa non scopiazza le idee solo dai comunisti famosi, ma anche dai comunisti poracci. Infatti, quando Francesco a Lampedusa ha detto «dovevo venire oggi per risvegliare le nostre coscienze», stava di certo usando «parole simili» a quelle di «Frantz Fanon, lo psichiatra terzomondista, che si batteva per l’Algeria affinché si accendesse “un bagliore nelle coscienze”». Cosa che evidentemente fa di lui l’inventore della parola coscienza.

Oh, per carità, tutto questo indiscutibile ispirarsi alle peggio zecche marxiste «non basta a fare del Papa un rivoluzionario», si paracula Filoni. Francesco «rimane sempre il successore di Pietro», sia chiaro. «Eppure il suo linguaggio è quello semplice e diretto di chi parla al popolo, alla massa». Egli «sta dalla parte degli ultimi, sta con i popoli che devono autodeterminarsi e liberarsi dalle oppressioni che li soffocano», scrive il Fatto. Pare che a Lampedusa fosse lì lì per invitare gli immigrati a prendersi l’isola con le armi. Saranno stati i cattivoni della Curia romana a impedirglielo? Chissà, sta di fatto che «Francesco sembra esser il primo Papa postcoloniale, almeno nella lingua. E anche partigiano se intendiamo, con Gramsci, colui che parteggia, colui che non è indifferente».

che-guevaraE nel caso dovesse sembrarvi un po’ troppo cialtrone paragonare il Papa a Gramsci, Che Guevara e Pajetta, è lo stesso Fatto quotidiano con un altro commento ad alzare il livello e buttarla in cultura: il Santo Padre – sostiene Alessandro Robecchi qualche pagina più avanti – è praticamente un no global. Proprio così. Scrive Robecchi: «Bergoglio ha pregato per i ventimila morti del Mediterraneo, ha parlato di globalizzazione e di indifferenza, e ha denunciato coloro che “nell’anonimato prendono decisioni socioeconomiche che aprono la strada a questi drammi”» e quindi dà ragione alla simpatica teppa che «appena una dozzina di anni fa, a Genova, ma non solo a Genova, metteva al centro della sua agenda argomenti come questi – libera circolazione delle persone e non solo delle merci, guasti ed eccessi della globalizzazione, decisioni geopolitiche che provocano stragi su vasta scala». E mentre il camerlengo in Vaticano si attrezza già con estintori e bulloncini per Sua Santità, il Correttore di bozze si unisce a Robecchi nell’elogio di questo «coraggiosissimo White Bloc di nome Francesco».

Più sofisticato l’articolo su Repubblica di Barbara Spinelli, una intellettuale talmente divertente che se avesse la barba potrebbe essere Scalfari. Ebbene, per spiegare la presunta svolta a sinistra completata da Bergoglio a Lampedusa, la Spinelli decide di «immaginare una storia completamente diversa. Una storia segreta, non confessata, non ufficiale». Del resto si sa, «a volte un racconto fantasticato si avvicina al vero». Tanto più se il “vero” corrisponde alle tesi di Repubblica. «Immaginiamo dunque – scrive la Scalfara Spinelli – che Papa Francesco abbia accettato di firmare un’enciclica scritta quasi per intero da Joseph Ratzinger, perché all’enciclica non era affatto interessato. Quel che lo interessava sopra ogni cosa, che lo convocava, era il viaggio a Lampedusa, sul bordo di quel Mediterraneo dove sono morti, dal 1988, 19 mila migranti in fuga dalla povertà, dalle guerre, dalle torture». Avete capito bene. Il «racconto che si avvicina al vero» sarebbe questo secondo Repubblica: al Papa non gliene frega niente della fede, tant’è che ha accettato di firmare una ciofeca scritta da Benedetto XVI pur di levarsi il problema e partire per Lampedusa, dove invece avrebbe potuto esprimere tutto il suo scalfarismo.

Testuale: «Così grave è il male di questo mondo, così vaste le colpe dei singoli, dei loro Stati, anche della Chiesa, che occuparsi di teologia in modo tradizionale – con precetti, verità assolute – può apparire una distrazione, se non un’incuria. (…) La teologia non fa piangere, e di lacrime c’è soprattutto bisogno, ha detto il Pontefice. È come se il Papa dicesse (ma stiamo immaginando): “Io non scrivo encicliche, per ora. O meglio ne propongo una tutta nuova: facendomi testimone e pastore che non teorizza ma agisce. Io vado dove le lacrime sono sostanza del mondo”». 

Il pezzo va avanti così, sbrodolosamente, ancora a lungo. Alla fine però la papessa repubblicona arriva al punto: e il punto è che Francesco a Lampedusa non avrebbe fatto «nessun accenno al relativismo, al nichilismo, parole europee dei secoli scorsi», perché per lui «essenziali sono le lacrime, l’anestesia del cuore». Insomma la Spinelli sembra proprio sperarci, nel rincoglionimento totale del Papa: «Tutto questo possiamo immaginare, senza scostarci troppo dal vero», ribadisce la quota rosa di Scalfari. Ci crede talmente tanto, la Barbara, da sentirsi in dovere di sgridare i bifolchi che invece hanno osato criticare le parole del Papa sull’accoglienza dei migranti. Quel berlusconiano di un Cicchitto, per dirne uno, «ha avuto perfino l’impudenza di invocare la laicità: che lo Stato governi, e i Papi scrivano encicliche». Uè impudentone, chi ti credi di essere? Ezio Mauro?

Fortuna che «disobbediente, imperturbato, il Papa infrange quest’ordine imbalsamato» e «fa politica quando potrebbe installarsi in un’enciclica». Ricordatevelo, la prossima volta che qualche giornalaccio cattivo accuserà la Chiesa di “fare ingerenza”.

Egitto, le paure dei cristiani

Egitto, le paure dei cristiani

Nella convulsa fase di transizione hanno pagato un prezzo in vite umane. E adesso temono che la Costituzione provvisoria li emargini ancor di più

GIORGIO BERNARDELLI
da Vatican Insider

Digiunano anche i copti in queste ore in Egitto. Come i musulmani entrati oggi nel mese di Ramadan, anche loro si astengono dal cibo: è il digiuno in preparazione alla festa del martirio dei santi Pietro e Paolo, che questa chiesa d’Oriente celebra il 12 luglio. Preghiere e gesti che si intrecciano tra moschee e chiese in un momento così delicato per il futuro del Paese.

Il bilancio di questi giorni è stato pesantissimo per i copti, contro cui soprattutto fuori dal Cairo si è scatenata la rabbia degli islamisti. Non c’è stata solo l’uccisione a sangue freddo di padre Mina  Aboud Sharubim, avvenuta sabato scorso a El Arish nel Sinai: altri quattro cristiani erano già stati uccisi venerdì nel villaggio di  Al Dabaya, alla periferia di Luxor. Un musulmano era stato trovato ucciso e subito gli islamisti reagito additando come responsabile un cristiano locale, reo di essersi schierato a favore dei Tamarod, i «ribelli» che hanno raccolto le firme per la destituzione del presidente Mohammed Morsi. È stato assalito lui e altri tre cristiani copti presso i quali aveva cercato rifugio. Nella zona del Sinai e a Luxor non si contano ormai più gli atti intimidatori nei confronti delle chiese: l’ultimo è stato ieri mattina, quando uomini armati e mascherati hanno esploso dei colpi di arma da fuoco contro una chiesa a Port Said; fortunatamente non ci sono state vittime, ma la paura è stata comunque tanta. È il prezzo che i cristiani pagano per il sostegno esplicito dato all’intervento dell’esercito che – sull’onda delle manifestazioni del 30 giugno – ha tolto di mezzo Morsi, imponendo una fase di transizione verso nuove elezioni. «Questa road map – aveva assicurato papa Tawadros in diretta tv una settimana fa, subito dopo l’annuncio del generale al-Sissi – è stata messa a punto tenendo conto di tutti i fattori che possono garantire un futuro pacifico all’Egitto. Ha di mira esclusivamente il bene del Paese, senza l’intenzione di escludere o emarginare nessuno». Adesso – però – anche nel nuovo contesto sancito dalla nomina dell’economista Hazem el-Beblawi a capo del governo cominciano a emergere tutte le ambiguità della situazione al Cairo. Pur continuando a guardare all’esercito come propria garanzia di protezione c’è perplessità in queste ore tra i cristiani per il testo della Dichiarazione costituzionale provvisoria varata dal presidente ad interim Adly Mansour. Proprio lo scontro sulla Costituzione imposta dagli islamisti era stato il principale terreno di scontro tra i copti e i Fratelli Musulmani: si guardava con grande preoccupazione al ruolo più forte riconosciuto alla Sharia, la legge islamica.

Da parte cristiana ci si attendeva che il presidente ad interim andasse a modificare subito quei punti. Invece sul tema del rapporto tra Stato e religioni anche nella Costituzione provvisoria resta confermato l’impianto voluto dai Fratelli Musulmani. Dietro a questa scelta di Mansur c’è la volontà di non perdere il sostegno alla fase di transizione da parte dei salafiti – gli islamisti ancora più radicali -. Ed è vero che il ruolino di marcia per i prossimi mesi prevede una commissione in cui si ridiscutano tutti i punti controversi della Costituzione. Ma i dubbi tra i cristiani restano, vista anche la prontezza con cui l’Arabia Saudita e i Paesi del Golfo (i grandi sponsor dei salafiti) sono saliti sul carro del nuovo corso al Cairo: «Ci prendono in giro – ha dichiarato oggi in maniera molto netta all’Agenzia Fides, il vescovo copto cattolico di Minya Botros Fahim Awad Hanna -. Le disposizioni che nella vecchia Costituzione apparivano pessime agli occhi dei cristiani vengono messe addirittura in risalto nel nuovo testo. Se non parliamo adesso, poi non potremo dire più niente».

Martedì della XV settimana del T.O.

Giovedì della XIV settimana del T.O.

Dal Vangelo secondo Matteo 10,7-15.

E strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino.
Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date.
Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture,
né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché l’operaio ha diritto al suo nutrimento.
In qualunque città o villaggio entriate, fatevi indicare se vi sia qualche persona degna, e lì rimanete fino alla vostra partenza.
Entrando nella casa, rivolgetele il saluto.
Se quella casa ne sarà degna, la vostra pace scenda sopra di essa; ma se non ne sarà degna, la vostra pace ritorni a voi.
Se qualcuno poi non vi accoglierà e non darà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dai vostri piedi.
In verità vi dico, nel giorno del giudizio il paese di Sòdoma e Gomorra avrà una sorte più sopportabile di quella città.

Il commento di don Antonello Iapicca

Il Regno dei Cieli è vicino e gli Apostoli di ogni tempo ne sono gli ambasciatori. Con loro anche noi siamo chiamati ad annunciare il Regno di Dio, la patria nella quale siamo stati accolti e dalla quale siamo inviati. Nella vita, nel pensiero, nelle parole, come stigmate luminose, gli apostoli recano impressa la fragranza del Regno della Grazia, dove vivono coloro che “hanno ricevuto tutto gratuitamente e tutto gratuitamente donano”. Ecco il cuore della missione, la fonte dello zelo: la gratuità con la quale siamo stati amati, riscattati, chiamati. Nessun merito, nessun curriculum, perché se fosse per questi…. Solo la gioia di essere stati amati gratuitamente: “La gioia nasce dalla gratuità di un incontro! E’ il sentirsi dire: “Tu sei importante per me”, non necessariamente a parole. Questo è bello… Ed è proprio questo che Dio ci fa capire. Nel chiamarvi Dio vi dice: “Tu sei importante per me, ti voglio bene, conto su di te”. Gesù, a ciascuno di noi, dice questo! Di là nasce la gioia! La gioia del momento in cui Gesù mi ha guardato. Capire e sentire questo è il segreto della nostra gioia. Sentirsi amati da Dio, sentire che per Lui noi siamo non numeri, ma persone; e sentire che è Lui che ci chiama. E la gioia dell’incontro con Lui e della sua chiamata porta a non chiudersi, ma ad aprirsi; porta al servizio nella Chiesa” (Papa Francesco, Ai seminaristi e alle novizie, 6 luglio 2013).

Purtroppo spesso ci troviamo davanti a Dio come chi molto ha dovuto sacrificare per “scegliere” di servirlo, come chi ha comunque diritti acquisiti sul campo, tra sforzi e rinunce: “Io non mi fido di quel seminarista, di quella novizia, che dice: “Io ho scelto questa strada”Non mi piace questo! Non va!” (Papa Francesco, ibid). Ma questo “non va” è per ognuno di noi chiamato ad essere cristiano, scelto da Cristo ad essere un suo ambasciatore; è il peggio che potrebbe capitare alla Chiesa e ai suoi apostoli, dimenticare la gratuità e l’insondabilità misteriosa dell’elezione. Si scivola nel moralismo che fa a pezzettini l’universo intero con le sue ingiustizie, che “spella il fratello” (Papa Francesco), che esibisce opzioni preferenziali per poveri e ultimi dal proprio saldo primo posto di potere e di arroganza, quello che polverizza i peccatori. Chi dimentica la propria storia, e l’amore con il quale Dio l’ha salvata, non sarà mai un apostolo di Lui, sarà piuttosto un superbo rappresentante di se stesso, del proprio egoismo rivestito di falso altruismo, lupi travestiti da agnelli, mercenari della missione, sempre alla ricerca di se stessi, ingannatori tra i peggiori.

Le ultime parole di Gesù sulla sorte di chi non accoglie il Vangelo suppone che questi abbiano davvero incontrato Cristo, ascoltato la Buona Notizia e visto i segni del Regno di Dio, autentici, che contestino quelli, corrotti, del mondo. Se gli apostoli e la Chiesa presentano surrogati e caricature, il mondo e i suoi figli sono privati dell’oggetto stesso a cui aprirsi; se annunciamo la severa e inconcludente legge moralistica di un’etica senz’anima, se gettiamo pesi che non portiamo neanche con un dito, se trasmettiamo una serie di compromessi con il pensiero mondano per essere ben accetti, se dubitiamo del potere di Cristo perché non abbiamo sperimentato o abbiamo dimenticato la gratuità del miracolo che ci ha sanati, purificati e perdonati, coloro ai quali siamo inviati si troveranno davanti delle caricature ipocrite e saranno così privati della libertà nella quale accogliere o rifiutare il Signore. Si troveranno dinanzi a una menzogna, e sarà loro sottratta la possibilità di essere salvati e ricevere la Pace messianica, quella portata da Cristo risorto.

Per questo gli Apostoli chiamati nella gratuità, donano se stessi gratuitamente, come un frutto maturo dell’opera di Cristo: si comprende allora perché non portano con sé alcuna sicurezza, alcun appoggio se non la Parola per la quale sono stati inviati. La Parola che conferma le loro parole, che rende evidente la loro natura di figli di Dio e cittadini del Cielo. La volontà di Dio si compie in loro per pura Grazia. “Oro, argento, moneta di rame nelle cinture, bisaccia da viaggio, due tuniche, sandali, bastone” non fanno per loro: gli apostoli non “si procurano” nulla che sappia di mondo, non sono apostoli per acquisire meriti, per saziare la fame della carne. Sono liberi perché colmi dell’amore di Cristo, entrano nel mondo ma non gli appartengono; per salvarlo, infatti, non si possono usare gli strumenti che lo stanno condannando. Il bagaglio, come fu per per Davide dinanzi a Golia, sono solo le cinque pietre, i cinque libri della Torah, la Parola trafitta delle cinque piaghe del Signore. Il potere di curare e guarire li accompagna, per schiudere il Cielo, la vittoria sul mondo e la corruttibilità della carne, la vita più forte della morte: la vita divina operante nella carne, è questo il miracolo più grande, perché nessun apostolo può darsela da se stesso, è un dono del Cielo, invocato senza posa in una preghiera che, in ogni circostanza, inginocchia l’apostolo con Cristo nel Getsemani, il seno benedetto della Passione che ha salvato l’umanità.

Solo chi è con Lui nella notte dell’angoscia che prelude alla croce, può “uscire da se stesso” e lasciarsi crocifiggere per amore e così annunciare il Vangelo del perdono dei peccati. Solo inginocchiandosi con Gesù potremo vivere con Lui l’angoscia per un figlio, per la moglie, il fidanzato, il collega, trasformandola nello zelo pieno di compassione che ci avvicinerà ad ogni persona in pericolo, alle situazioni più disperate con la certezza incrollabile della fede, lo stesso cuore e la stessa mente di Cristo dinanzi all’evento decisivo per la salvezza dell’umanità: “l’evangelizzazione si fa in ginocchio. Senza il rapporto costante con Dio la missione diventa mestiere. Ma da che lavori tu? Da sarto, da cuoca, da prete, lavori da prete, lavori da suora? No. Non è un mestiere, è un’altra cosa. Il rischio dell’attivismo, di confidare troppo nelle strutture, è sempre in agguato. Se guardiamo a Gesù, vediamo che alla vigilia di ogni decisione o avvenimento importante, si raccoglieva in preghiera intensa e prolungata. Coltiviamo la dimensione contemplativa, anche nel vortice degli impegni più urgenti e pesanti. E più la missione vi chiama ad andare verso le periferie esistenziali, più il vostro cuore sia unito a quello di Cristo, pieno di misericordia e di amore. Qui sta il segreto della fecondità pastorale, della fecondità di un discepolo del Signore!” (Papa Francesco, Ibid).

La Chiesa è il segno fecondo del Cielo che strappa gli uomini al mondo per generarli al Regno di Dio. Per questo, senza timore essa opera i prodigi per i quali è mandata nel mondo: “guarisce gli infermi, risuscita i morti, sana i lebbrosi, caccia i demòni”, proprio nei luoghi i suoi figli sono chiamati ogni giorno. Un padre che non scaccia i demoni che affliggono il figlio – la superbia che lo sguinzaglia sulle strade della concupiscenza e delle false libertà ad esempio – ha perduto lo Spirito Santo, non è più un “padre in missione”: sarà un padre amico, psicologo, pedagogo che cercherà nella sapienza carnale e mondana le soluzioni per risolvere i problemi del figlio, e non lo amerà con l’amore di Cristo. Un prete che si appoggia sui propri criteri, magari quelli studiati sui libri e deliberati nei consigli pastorali, non “serve”, diviene come il sale che ha perduto il sapore e non può mettersi a “servizio” del bene di ciascuna pecora affidatagli sciogliendo se stesso per salare con verità e misericordia la sua vitaha perduto il sapore della Croce, il sale che purifica, sana e scaccia i demoni dai giovani, dai matrimoni, dagli anziani e dalle vedove. Ormai non crede più al potere della croce, l’unica capace di liberare chi è schiavo del peccato; mentre “il mistero pasquale è il cuore palpitante della missione della Chiesa! E se rimaniamo dentro questo mistero noi siamo al riparo sia da una visione mondana e trionfalistica della missione, sia dallo scoraggiamento che può nascere di fronte alle prove e agli insuccessi. La fecondità pastorale, la fecondità dell’annuncio del Vangelo non è data né dal successo, né dall’insuccesso secondo criteri di valutazione umana, ma dal conformarsi alla logica della Croce di Gesù, che è la logica dell’uscire da se stessi e donarsi, la logica dell’amore. È la Croce – sempre la Croce con Cristo, perché a volte ci offrono la croce senza Cristo: questa non va! – Ed è dalla Croce, supremo atto di misericordia e di amore, che si rinasce come «nuova creatura»” (Papa Francesco, Omelia del 7 luglio 2013).

La Chiesa compie ciò che annuncia, perché “rimane nel mistero pasquale di Cristo”, celebrandolo nei sacramenti e annunciandolo sempre e ovunque: Cristo è vivo in Lei, e si mostra a chiunque da essa è raggiunta. Vivere in questa Grazia, la Grazia del mistero pasquale di Cristo che si rinnova istante dopo istante nelle nostre vite concrete e diviene così il segno di una vita celeste ancorata nell’amore crocifisso di Cristo e per questo autentica, a questo sono chiamati e inviati gli Apostoli, tu ed io: “Gesù bastonava tanto contro gli ipocriti: ipocriti, quelli che pensano di sotto; quelli che hanno – per dirlo chiaramente – doppia faccia. Parlare di autenticità ai giovani non costa, perché i giovani – tutti – hanno questa voglia di essere autentici, di essere coerenti. E a tutti voi fa schifo, quando trovate in noi preti che non sono autentici o suore che non sono autentiche!” (Papa Francesco, Ai seminaristi e novizie, 6 luglio 2013).

Ogni giorno sulle strade della nostra vita siamo chiamati ad essere quel che siamo, cristiani. La vita celeste in noi, lo Spirito Santo che ispira, guida e compie in noi le opere di vita eterna che ogni uomo attende, che tutti hanno diritto di vedere, per credere ed essere salvati. Nessun piano preventivo, nessun programma se non quello di essere docile alla volontà di Dio, alla Sua Grazia. Al lavoro, in famiglia, nella malattia, nella sofferenza o nella gioia, l’amore del quale siamo amati è la nostra manna, che non imputridisce. Non possiamo portare due tuniche, come il Popolo di Israele non poteva accaparrare due razioni di manna nel tentativo incredulo di assicurarsi il futuro, pena la corruzione della primogenitura. Ogni giorno, invece, dobbiamo uscire e attingere il suo amore, nell’ascolto della Parola e nei sacramenti, formati permanentemente per andare ad annunciare il Regno; nella certezza che, accolti oppure no, in ogni circostanza la pace, l’aria del Cielo, nessuno potrà togliercela. Essa è con noi per sempre.