Meeting. Morire per la fede: Paul Bhatti e il martirio di suo fratello Shahbaz

Meeting. Morire per la fede: Paul Bhatti e il martirio di suo fratello Shahbaz

di Rodolfo Casadei da www.tempi.it

«In Pakistan ci sono forze che puntano all’instabilità. E non è solo colpa degli estremisti islamici. Ma l’esempio di mio fratello ci dà il coraggio di vivere in qualsiasi condizione» 

shahbaz-bhatti-morte-anniversario-jpg-crop_displayPaul Bhatti, ex ministro dell’Armonia nazionale e degli Affari delle minoranze e medico, è il fratello maggiore di Shahbaz Bhatti, il politico e ministro cattolico pakistano ucciso dagli estremisti islamici nel marzo del 2011 a Islamabad per la sua azione in difesa delle minoranze religiose. Paul, che è stato invitato a rendere la sua testimonianza alla Giornata dei Movimenti il 19 maggio scorso a Roma, è oggi ospite per la seconda volta del Meeting per l’Amicizia fra i popoli. Qui anticipa i temi che tratterà nel corso dell’appuntamento riminese.

Dottor Bhatti, lei ha testimoniato a Roma alla Giornata dei Movimenti. Che giudizio dà di questa sua esperienza?
Per me è stata una vera sorpresa ricevere l’invito mentre mi trovavo in Germania. Era una cosa bella, e come tale l’ho vissuta. Da una parte è stato un onore parlare davanti a tante persone, dall’altra è stato molto utile perché la testimonianza di fede forte di Shahbaz, che ho rievocato, è un esempio da seguire per i giovani di oggi. La vita e la morte di Shahbaz significano che la nostra fede e la Chiesa sono vivi anche oggi, che ci sono persone come mio fratello che credono, vivono e muoiono per questa fede. Spero inoltre di poter collaborare in futuro coi movimenti ecclesiali che ho incontrato, non solo per le nostre comunità cristiane pakistane, ma per tutte le persone che sono emarginate e maltrattate in nome della religione.

Sono passati due anni e mezzo dall’assassinio di suo fratello. Che legame c’è ora fra di voi?
Io ho avuto sempre un rapporto particolare con lui quando era vivo. In famiglia eravamo sei fratelli, e io ero il maggiore. Lui mi prendeva a modello: studiava per essere il primo della classe come me. Accettava i miei consigli, c’era un affetto molto forte fra noi. Quando mi sono trasferito in Italia con una borsa di studio, lui ha sofferto per l’interruzione della nostra relazione. Quando tornavo in Pakistan lui sospendeva tutti i suoi impegni e passava il tempo con me a chiacchierare. Andavamo a passeggiare in campagna e lui mi raccontava tantissime cose, ma soprattutto la sua visione della Chiesa e di Gesù Cristo, quello che lui avrebbe voluto fare. Mi sembrava solo l’esaltazione di un giovane, ma parenti e amici mi dicevano: «Attento, Shahbaz è una persona particolare, ha un grado di intelligenza e di fede molto diverso da quello di un ragazzo comune». Negli ultimi anni la sua fede era sempre più intensa; pregava col Rosario, e quando gli comunicavo qualche piccolo problema in Italia mi diceva: «Pregherò, e vedrai che il problema si risolverà». Adesso tengo molte fotografie di lui, in soggiorno e in ufficio. Ogni tanto, quando mi trovo in difficoltà, ne guardo una e parlo con lui: «E adesso cosa facciamo?». Tantissime volte quando dovevo parlare col primo ministro, o prendere una decisione importante come nel caso di Rimsha Masih, prima parlavo con lui: «Shahbaz, adesso tu cosa faresti?». Soltanto quando penso al fatto che è stato assassinato mi rendo conto che è morto, altrimenti tantissime volte parlo con lui come se fosse una persona viva. E molto allegra, com’è sempre stato.

Paul BhattiIncontra spesso persone a lei sconosciute che invece hanno frequentato suo fratello? Che cosa le dicono?
La cosa che mi meraviglia di più sono le tante persone importanti con cui Shahbaz aveva familiarità molto tempo prima di diventare ministro. Noi eravamo una famiglia comune e lui apparteneva a una minoranza, non aveva allora cariche politiche. Eppure persone ricche e importanti lo conoscevano. Quando aveva solo 24-25 anni i suoi ospiti erano già le persone più elevate della società: politici, governatori, ministri, parlamentari. E anche oggi la sua figura affascina: nei giorni scorsi a Islamabad trecento giovani cristiani appartenenti anche a classi elevate si sono riuniti e mi hanno chiamato dicendo che volevano seguire il suo cammino. La settimana prossima celebreranno una Messa durante la quale giureranno di mettersi alla sequela della missione di mio fratello Shahbaz. Sono trecento studenti.

Lei è stato ministro dell’Armonia nazionale e degli Affari delle minoranze per due anni. Che bilancio fa della sua esperienza?
Direi positivo. E ho intenzione di continuare l’opera iniziata anche senza essere più ministro. Durante il mio mandato ho avuto un buon dialogo con tantissimi leader religiosi, coi vertici dello Stato e coi diplomatici stranieri. Oggi la comunità internazionale è più decisa nel fornirci appoggio: la settimana prossima sono inviato al parlamento britannico a Londra a parlare di libertà religiosa e di minoranze. Anche se non sono più ministro sarò ricevuto con lo stesso protocollo, e questo significa in qualche modo che loro hanno apprezzato quello che abbiamo fatto. Il mio più grande successo è stato la soluzione del caso di Rimsha Masih.

Perché invece Asia Bibi è ancora in prigione?
Il caso di Rimsha Masih l’ho seguito sin dall’inizio personalmente. Il caso di Asia Bibi, dopo l’assassinio del governatore del Punjab e di mio fratello, ha preso una piega particolare. Io credo che questo caso possa essere ancora risolto, ma purtroppo è stato strumentalizzato da tantissime Ong per farsi pubblicità e raccogliere fondi. Io finora non ho ricevuto nessuna richiesta di seguire il suo caso. Comunque proporrei una strategia diversa da quella che si sta seguendo attualmente.

Una strategia diversa?
Sì, completamente diversa.

asia-bibiRecentemente in Pakistan un attentato contro un bus di studentesse ha provocato una strage a Quetta. Perché succedono queste cose?
Le ragazze sono state attaccate in quanto sciite, ma non è una questione di persecuzione religiosa. In Pakistan ci sono forze molto attive che puntano all’instabilità. Non sempre si tratta di fanatismo religioso o di estremismo: spesso ci sono dietro grandi organizzazioni o Stati stranieri che vogliono creare instabilità in Pakistan.

È possibile far cambiare idea agli estremisti? Cosa si dovrebbe fare?
Non è questo il punto. Gli estremisti sono organizzati in gruppi che sono il risultato di un lungo lavoro di formazione e di preparazione da parte di sostenitori di certe ideologie. Io non punto il dito contro il ragazzo o il fanatico in genere che si fa esplodere o che uccide: questi soggetti sono stati cresciuti sin da piccoli in base a una determinata ideologia, è stato fatto loro il lavaggio del cervello in scuole che accoglievano i più poveri. È gente che non conosce nulla del mondo e non ha gli strumenti né la capacità per valutare. Si tratta di andare alle radici, di prosciugare le sorgenti che riescono a creare questo tipo di scuole dove si insegna l’odio ai bambini.

Lo Stato potrebbe fare di più per proteggere i cristiani, gli sciiti o le studentesse da questa violenza?
Io credo di sì, ma per fare di più lo Stato deve avere una sua integrità e stabilità. Sfortunatamente questi gruppi estremisti agiscono in modo che nessun governo diventi stabile e forte. I politici dedicano tutti i loro sforzi a sopravvivere al terrorismo, e non fanno altro.

blasfemia-pakistanOggi i cristiani sono più accettati o meno accettati nella società pakistana di quando era vivo Shahbaz?
Dipende dal gruppo sociale al quale appartengono. Molti cristiani sono anche persone economicamente emarginate, discriminate perché fanno i lavori più umili, e vivono in contesti degradati e pericolosi. Finché questi cristiani non vengono aiutati, quel tipo di discriminazione e di violenze continuerà a esistere. Al livello di noi professionisti, invece, i cristiani sono accettati come gli altri.

Come vivono i cristiani la loro condizione di evidente persecuzione?
Alcuni sono ottimisti, perché hanno una fede forte. Però bisogna dire che l’attuale condizione dei cristiani non è soltanto colpa del governo e colpa di estremisti: anche noi cristiani siamo colpevoli della situazione. Le migliori scuole del Pakistan sono cristiane, appartengono alla Chiesa, ma non le abbiamo usate per educare i nostri emarginati; Asif Ali Zardari e Yousaf Gilani, rispettivamente primo ministro e presidente, hanno studiato nelle scuole cristiane, come me e Shahbaz. Ma pochi o nessuno dei nostri cristiani poveri ha studiato a quel livello.

Come vede il futuro del cristianesimo in Asia? Come dovrebbe essere condotta l’evangelizzazione in questo continente?
È importante potenziare il dialogo fra le grandi religioni. Mettere in evidenza i valori comuni dell’amore per gli esseri umani e allentare le loro paure nei nostri confronti: credono che vogliamo distruggere le loro religioni per convertirli alla nostra. Dobbiamo trasmettere il messaggio che il cristiano non ha per obiettivo convertire l’altro, ma portare l’amore di Cristo a tutti e l’amore per il prossimo.

Lei è stato invitato anche quest’anno al Meeting di Rimini. Di cosa parlerà ai giovani che saranno presenti?
Della fede. E di Shahbaz, di come, pur avendo risorse limitate, si è impegnato e non ha avuto mai paura di niente. La fede ci dà il coraggio di vivere anche in condizioni molto difficili, ci toglie la paura. La società materialista di oggi ci insegna a vivere solo per noi stessi, ma quelli come mio fratello testimoniano che il modo giusto di vivere è un altro. È quello di vivere per un Altro e per gli altri.

Venerdì della XX settimana del T.O.

Venerdì della XX settimana del T.O.

Dal Vangelo secondo Matteo 22,34-40.
 
Allora i farisei, udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme
e uno di loro, un dottore della legge, lo interrogò per metterlo alla prova:
«Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?».
Gli rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente.
Questo è il più grande e il primo dei comandamenti.
E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso.
Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti». 

Il commento di Don Antonello Iapicca
Gesù ha appena annunciato la resurrezione e ha messo a tacere i sadducei che la negavano. Con le sue parole aveva reso credibile e ragionevole il fatto più irragionevole. Gesù era un grande, nessun dubbio al riguardo. Ma anche molto pericoloso. E i farisei, ” udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme

e uno di loro, un dottore della legge, lo interrogò per metterlo alla prova“. Avevano paura di perdere la posizione acquisita tra il popolo; dopo aver messo in ridicolo i sadducei Gesù avrebbe potuto ridimensionare anche il loro prestigio. Bisognava prevenire il disastro cercando di togliere autorità all’insegnamento di Gesù. Era un irregolare, le sue parole potevano essere prese per eretiche, ma non era facile coglierlo in fallo; Gesù si muoveva, infatti, in quella zona franca dove l’eresia si confondeva con l’ortodossia. Bisognava metterlo alla prova con qualcosa di serio e fondamentale. Si doveva interrogarlo sul cuore della fede di Israele, lo Shemà, e vediamo come se la sarebbe cavata….

In ebraico la parola comandamento significa contemporaneamente: una parola che affida un incaricoun comando fissato come un ordine di servizio, la legge “incisa” che orienta e dirige il compimento di una missione. In ogni caso, secondo la tradizione di Israele, il “comandamento” è sempre una parola di vita. Osservare, compiere i comandamenti è la via alla riuscita della vita, perché la vita è una missione affidata a ciascun uomo: “Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto, ed il vostro frutto rimanga” (Gv.15). In questa luce, i farisei interrogano Gesù su che cosa, nella Legge, sia fondamentale per vivere da perfetto israelita.

Ma Gesù non si lascia prendere in trappola, Lui che è l’autore della Legge e di ogni comandamento. Semplicemente, risponde presentando la misericordia e la giustizia che stanno alla base della relazione con Dio, fonte di quella tra ciascun uomo e il suo prossimo: “la ripetizione del Tetragramma, attirando la nostra attenzione, ci richiama a riconoscere e a proclamare che tutto ciò che è contenuto nel mondo e nell’universo è sotto il dominio dell’Unico Dio. Inoltre, secondo la tradizione giudaica, il Tetragramma, qui reso con “Signore” o “Eterno”, indica la Middath ha-rachamim, la qualità divina della misericordia, mentre Elohim indica la Middath ha-din, la giustizia divina. Giustizia e misericordia, viene quindi messo in risalto fin dall’inizio della proclamazione di fede del giudaismo, costituiscono per il pensiero ebraico le due qualità precipue della Maestà divina!” (Hirsch). Gesù rivela il cuore della Legge sintetizzandola nell’amore, da cui deriva ogni altra Parola, della Torah e dei Profeti. Senza amore tutto è vano dirà San Paolo, e sarà un approfondimento di questa risposta di Gesù.

L’incipit delle Dieci Parole di Vita, vergate con il fuoco dell’amore divino e rivelate sul Sinai, rammentano un’esperienza d’amore. L’ascolto è preceduto e accompagnato dall’esperienza di una giustizia e una misericordia gratuite realizzate per Israele attraverso la liberazione dall’Egitto. E in essa, il Popolo ha conosciuto Dio come unico, nell’amore e nel potere. Lo stesso incipit appare nello Shemà, il comandamento più grande. L’amore a Dio e al prossimo scaturisce dall’esperienza dell’unicità dell’amore che rivela Dio. Per questo prima di essere un comandamento, esso è un’affermazione, un annuncio e una profezia, la rivelazione di un’identità. “Ascolta Israele, il Signore è uno”: Il comandamento più grande rivela la grandezza di Colui che comanda, la sua unicità. La missione affidata ad Israele prima e alla Chiesa poi, l’incarico che costituisce la vita di ciascuno di noi, rivela l’identità di Colui che incarica e affida la missione. E nella sua identità è rivelata anche quella dell’apostolo, dell’inviato. Liberatore e liberato, in questa relazione sperimentata è gestato, nasce e si compie il comandamento più grande. Dio è l’unico da amare con tutto se stesso perché e l’unico che ama ogni uomo con tutto se stesso come fosse l’unico al mondo.
Gesù conosce le vicende del proprio popolo. Egitto, Mitraym, in ebraico significa “angoscia, luogo dove l’umano è definitivamente incastrato e rinserrato”. In Egitto il popolo ha vissuto nella condizione servile. Ciò non significa solamente la schiavitù in senso fisico. In Egitto il Popolo ha vissuto incastrato nel servizio agli idoli, e forse si è anche sottomesso all’idolatria. Essa è sempre dissipazione e disordine dell’uomo, del suo cuore, della sua mente, delle sue forzeDisordine in ebraico si dice “Faraone”. Asservito al Faraone il Popolo santo aveva perduto la sua identità, l’arco scoccato stava fallendo il bersaglio, e la vita scorreva slegata nella fatica della schiavitù. In questa situazione fallimentare è avvenuto l’impossibile, Dio stesso è sceso a liberare il Popolo per condurlo al bersaglio autentico, al compimento della sua missione. Il comandamento più grande, la sintesi di tutta la Torah e dei profeti, è quindi il sigillo e il segno dell’opera unica compiuta dall’unico che ne aveva il potere.
“Il Popolo ebraico attesta, compiendo il primo comandamento, che “solo il SIgnore suo Dio” può fare questo. Testimonia che ne è beneficiario. Accetta e decide, per quanto possibile, di assumere la liberazione dalla servitù del Faraone. Vuole servire il Solo Signore, rendergli culto, orientare tutte le sue forze, tutto il suo cuore, tutta la sua anima, tutto il suo tutto, a questo solo culto” (Marie Vidal, Un ebreo chiamato Gesù). E Dio era solo, non v’era con Lui alcun dio straniero. Lui ha spiegato le sue ali e ha liberato il suo popolo; Lui ha rivelato se stesso nella forza incommensurabile del suo amore, l’unico che ha reso possibile l’impossibile. Non vi sono altri dei, non si allineano altri signori. E’ uno. E’ Dio. L’unica via al compimento della Legge, ovvero l’unico cammino che conduce alla Vita è amarlo perché è unico: amarlo con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze è l’unica vita ragionevole, intelligente, sapiente.

Lo Shemà, l’ascolto che si fa obbedienza e compimento di un amore esclusivo, è il comandamento più grande perché è il comandamento dell’uomo libero. La libertà è la missione affidata ad ogni uomo creato ad immagine e somigliante del Dio libero che, liberamente lo ha tratto dal nulla per puro amore. Non esiste vita autentica dove non esiste libertà, perché non esiste amore laddove permane la schiavitù. Dove regna il Faraone vi è disordine e l’uomo vive dissipato; cuore, anima e forze si combattono conducendo l’uomo ad una schizofrenia interiore che lo distrugge. San Giovanni della Croce commentando la citazione di Dt 6,5 afferma come “tutto il lavoro necessario per giungere all’unione con Dio, consiste nel purificare la volontà dai suoi affetti e appetiti, in modo che da umana e grossolana diventi volontà divina, cioè identificata con quella di Dio… quando la volontà indirizza le passioni, potenze e appetiti verso Dio e li distoglie da tutto ciò che non è Lui, allora conserva la forza dell’anima per Dio, quindi giunge ad amarlo con tutte le forze”. E’ quanto afferma anche la sapienza di Israele: “Bisogna benedire Dio per il male e per il bene, perché è scritto: Amerai…. con tutto il cuore: con le tue due inclinazioni, il bene e il male…” (Ber. 9,5).
Anche il Targum offre una interpretazione analoga, il che significa che era quella diffusa nel I secolo, al tempo di Gesù. Secondo la concezione rabbinica molto simile a quella di San Giovanni della Croce, vi sono due “istinti”, uno buono e uno cattivo. Quest’ultimo, in sè, è moralmente neutro. Diventa cattivo solo quando non è condotto nelle vie della Torah. Il pio ebreo prega ogni giorno così: “Possa l’istinto cattivo non acquistare potere sopra di noi. Costringi il nostro istinto a rimanere a te sottomesso”. Esiste il demonio e la schiavitù e sottomissione ad esso preclude qualunque altra libertà. Il dialogo di Gesù con i giudei del capitolo 8 del vangelo di Giovanni verte sullo Shemà, anche se non appare esplicitamente. La libertà sorge dalla Verità annunciata dalle parole di Gesù:  “Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Gli risposero: «Noi siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi tu dire: Diventerete liberi?». Gesù rispose: «In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora lo schiavo non resta per sempre nella casa, ma il figlio vi resta sempre;  se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero… Chi è da Dio ascolta le parole di Dio: per questo voi non le ascoltate, perché non siete da Dio”. L’ascolto della sua Parola è l’unica possibilità offerta all’uomo per essere libero davvero, affrancato dal potere del demonio, dalla schiavitù idolatrica che esso suppone. La Parola di Gesù è dunque lo Shemà capace di ri-orientare la vita sul cammino del compimento, dove cuore, anima e forze sono impiegate per amare. Lo Shemà che genera e gesta i figli di Dio perché vivano liberi come il Padre loro.
A chi consegnare se stessi se non vi è nessun altro che Lui? Chi amare se non ci ha creato, amato e redenti se non Lui solo? Come dividere il nostro amore con idoli vani, inesistenti, incapaci d’amare e di salvare? Tutto ha origine da un’esperienza nella nostra concretissima vita. Non si tratta di un impegno, di buona volontà. Si tratta d’amore. Questo amore che sorge dall’essere amato è la roccia su cui fondare l’esistenza, la stabilità nell’instabilità, la certezza nella precarietà. Lo Shemà è il fondamento del matrimonio, del fidanzamento, dell’amicizia, del lavoro, della Chiesa stessa. Lo Shemà irrora di eternità tutto il transitorio della vita generando la libertà di amare in qualunque circostanza, senza illusioni, nella santa indifferenza che sbriciola ogni preteso assoluto che vorrebbe rubare mente, anima e corpo. Non vi è argomento di discussione, non vi è problema, difficoltà o sofferenza, non vi è precarietà, non vi è differenza e attrito, non vi è male che abbia ragione dell’amore che compie lo Shemà. Non vi è difetto della moglie o impuntatura del marito, non vi è ribellione del figlio, non vi è tentazione della carne che abbia potere sullo Shemà, perchè esso incarna il Cielo in ogni questione della terra, mette in fila le priorità e i valori, illumina le questioni più intricate, sciogliendole dal laccio che le vorrebbe innalzare in un assoluto teso a nascondere il fondamento autentico.
Lo Shemà è l’antidoto al fallimento delle relazioni: chi vive lo Shemà non dirà mai “non ti amo più, sono cambiati i miei sentimenti, non è più come prima”; perchè lo Shemà compiuto inchioda ogni relazione sul robusto Legno della Croce, il luogo della libertà che si fa dono, sia quel che sia, costi quel che costi. Lo Shemà è il sigillo della Grazia e dell’elezione a vivere sulla terra l’amore celeste, la missione affidata alla Chiesa e a ciascuno di noi.
Dio infatti è unico perchè il Suo amore è l’unico che scende con noi e in noi, nella sofferenza più profonda, nei dolori di un cancro, nelle angosce dei tradimenti e dei fallimenti, nei tormenti dei dubbi, in tutti gli istanti delle nostre vite. Lui è l’unico che ci ama così come siamo. Lui solo può darci la vita nella morte, orientare tutto di noi verso il compimento della missione affidata. L’esperienza del Suo amore genera il radicale e assoluto amore a Lui. Da esso sgorga, naturalmente, l’amore al prossimo, il dono totale che giunge sino al nemico, perché ogni uomo, qualunque sia la sua situazione, reca scolpito il cromosoma divino. Ascoltare è dunque amareAscoltare la Verità è obbedire alla Verità; non a caso in ebraico i due verbi coincidono. Nulla di sentimentale, erotico e passionale. Un amore crudo, reale, totale, ragionevole e sapiente. L’amore crocifisso di Colui che, unico, ci ha donato tutto. Nel Suo tutto consegnato il nostro tutto consegnatoAmore per amore. La liturgia celeste che appare nel dialogo tra Gesù e lo scriba, tra Gesù e ciascuno di noi oggi, e ogni giorno: Ascoltare e proclamare nella vita, per pura Grazia, lo Shemà, l’unicità dell’amore di Dio, un canto di gioia nel compimento della propria vita secondo la volontà-comandamento-parola del Padre.
Meeting. Morire per la fede: Paul Bhatti e il martirio di suo fratello Shahbaz

Le rivolte arabe fanno male ai cristiani

di Riccardo Cascioli da www.la nuovabq.it

Cristiani perseguitati

Grazie anche alle discutibili scelte politiche dei paesi europei la situazione dei cristiani in Medio Oriente e nel Nord Africa è rapidamente peggiorata. E’ quanto emerge dai vari rapporti sulla Libertà religiosa mentre al Meeting per l’amicizia fra i popoli in svolgimento a Rimini parte un appello per i cristiani perseguitati che si può firmare sia nei locali della Fiera di Rimini, dove si svolge il Meeting, sia online sul sito del Meeting di Rimini.

L’appello ricorda giustamente che «ogni anno nel mondo, oltre 100mila cristiani vengono uccisi e molti altri sono costretti a subire ogni forma di violenza: stupri, torture, rapimenti, distruzione dei luoghi di culto». E ricorda anche che «esistono anche forme più silenziose e sofisticate di pregiudizio e di opposizione verso i credenti e i loro simboli religiosi», con chiaro riferimento a ciò che accade in Europa.

Ma guardando alla mappa delle persecuzioni emerge con chiarezzache – accanto a situazioni ormai purtroppo consolidate come i paesi islamici e l’India del fanatismo nazionalista indù – negli ultimi anni c’è una realtà in cui la situazione è peggiorata nettamente: ovvero quella dei paesi interessati dalla cosiddetta “primavera araba”. Come nota l’ultimo Rapporto sulla Libertà religiosa (2012), pubblicato dall’Aiuto alla Chiesa che soffre,  la situazione è diventata preoccupante in paesi che, sotto il profilo della libertà religiosa, prima delle rivolte arabe godevano di una relativa calma, come Tunisia, Egitto, Libia e Siria.

L’Egitto è cronaca di questi giorni, con decine di chiese assaltate e distrutte su preciso ordine dei Fratelli musulmani (ma anche villaggi e attività commerciali dei cristiani sono state prese di mira). E anche sulla Siria abbiamo più volte dato conto della difficile situazione in cui si trovano i cristiani a causa della guerra civile. Nella Libia del post-Gheddafi la situazione si è fatta difficile soprattutto nella Cirenaica dove più volte sono state denunciate violenze nei confronti dei cristiani ad opera di gruppi salafiti che agiscono indisturbati contando anche sul fatto che la situazione nel paese è caotica. E anche in Tunisia l’ascesa al potere degli islamisti ha notevolmente peggiorato al situazione.

Ed è qui che entra in gioco la responsabilità di Europa e Stati Uniti: sia per l’appoggio acritico alle rivolte che hanno portato gli islamisti al potere (vedi Egitto e Tunisia) sia per la guerra voluta in Libia per spodestare Gheddafi, sia per la guerra civile alimentata in Siria illudendosi di poter facilmente togliere di mezzo Assad e sostituirlo con un governo non più amico dell’Iran.

Tutto ciò ha prodotto come era facilmente prevedibile la penetrazione dei gruppi fondamentalisti in tutta questa regione sia attraverso le elezioni (Egitto e Tunisia) sia attraverso il controllo delle milizie.
Non c’è dubbio che l’aver provocato e favorito situazioni di conflitto che ora sono fuori controllo – come in Libia e Siria – non fa altro che rafforzare il fondamentalismo e il terrorismo che vede nelle comunità cristiane le prime vittime.

Non basta dunque votare risoluzioni – come al Parlamento Europeo – per la difesa dei cristiani nel mondo, è necessario che Unione Europea e singoli governi (compresi gli Stati Uniti) cambino rapidamente rotta nelle politiche internazionali lavorando per la pacificazione e smettendo di aiutare direttamente o indirettamente le correnti più estreme dell’islam politico.

Ratzinger e le dimissioni: «Me l’ha detto Dio»

Ratzinger e le dimissioni: «Me l’ha detto Dio»

È questa la spiegazione che Benedetto XVI avrebbe dato nel corso di un colloquio privato: la rinuncia frutto di un’esperienza «mistica»

di Andrea Tornielli da Vatican Insider

Benedetto XVI

«Me l’ha detto Dio». Con queste parole il Papa emerito Benedetto XVI avrebbe spiegato la sua decisione di rinunciare al pontificato. La ricostruzione di un colloquio privato con una persona che ha visitato Ratzinger qualche settimana fa e ne ha riferito i contenuti scegliendo però di mantenere l’anonimato è stata rilanciata dall’agenzia cattolica «Zenit».

«Dopo circa sei mesi dall’annuncio che ha sconvolto il mondo – scrive Zenit – la decisione di Ratzinger di vivere nel nascondimento fa ancora riflettere e interrogare. Qualcuno ha avuto il privilegio di sentire dalle labbra del Papa emerito le motivazioni di questa scelta. Nonostante la vita di clausura, Ratzinger concede infatti – sporadicamente e solo in determinate occasioni – alcune visite privatissime» nell’ex convento Mater Ecclesiae in Vaticano, divenuto la sua dimora. Durante questi incontri, l’ex Pontefice «non commenta, non svela segreti, non si lascia andare a dichiarazioni che potrebbero pesare come “le parole dette dall’altro Papa”, ma mantiene la riservatezza che lo ha sempre caratterizzato. Al massimo osserva soddisfatto le meraviglie che lo Spirito Santo sta facendo con il suo successore, oppure parla di sé, di come questa scelta di dimettersi sia stata un’ispirazione ricevuta da Dio».

«Me l’ha detto Dio», è stata la risposta del Pontefice emerito alla domanda sul perché abbia rinunciato al soglio di Pietro. Ratzinger avrebbe poi subito precisato che «non si è trattato di alcun tipo di apparizione o fenomeno del genere; piuttosto è stata “un’esperienza mistica”‘ in cui il Signore ha fatto nascere nel suo cuore un “desiderio assoluto” di restare solo a solo con Lui, raccolto nella preghiera». Secondo la fonte l’esperienza mistica si sarebbe protratta lungo tutti questi mesi, «aumentando sempre di più quell’anelito di un rapporto unico e diretto con il Signore. Inoltre, il Papa emerito – scrive Zenit – ha rivelato che più osserva il “carisma” di Francesco, più capisce quanto questa sua scelta sia stata “volontà di Dio”».

Dunque non soltanto Ratzinger sarebbe più che mai convinto dell’opportunità della sua scelta, che tanto ha fatto discutere soprattutto tra i suoi più vicini collaboratori, ma sarebbe anche contento nel vedere ciò che il suo successore sta realizzando. In un precedente colloquio con un accademico tedesco Benedetto XVI aveva già parlato della sintonia dal punto di vista teologico con il suo successore Francesco. Quest’ultimo, del resto, non manca occasione di manifestare anche pubblicamente la venerazione per il suo predecessore, del cui consiglio ha detto di non volersi in alcun modo privare.

Francesco: Difendere la vita dal concepimento alla fine naturale

Francesco: Difendere la vita dal concepimento alla fine naturale

di Alessandro Speciale da Vatican Insider

I cosiddetti valori “non negoziabili” non sono quelli che papa Francesco mette abitualmente al centro della sua azione. Ed è un cambiamento di tono rispetto al passato recente della Chiesa che in molti hanno notato, con grande soddisfazione in alcuni settori e altrettanto grande disappunto in altri. Ma questo non significa che Francesco sia timido dall’affrontare i temi ‘scomodi’ della bioetica cattolica quando se ne presenta l’occasione. Lo ha fatto, in questi giorni, in un messaggio ai cattolici di Irlanda, Scozia, Inghilterra e Galles, in occasione della Giornata della Vita che si celebrerà in diverse date dal 28 luglio al 6 ottobre.

Nel messaggio, il pontefice sottolinea il “valore inestimabile della vita umana”: “Anche i più deboli e i più vulnerabili, i malati, gli anziani, i non nati e i poveri, sono capolavori della creazione di Dio, fatti a sua immagine, destinati a vivere per sempre, e meritevoli della massima riverenza e rispetto”, scrive Francesco.  Proprio oggi, con l’apposizione del sigillo reale da parte della Regina Elisabetta, il matrimonio tra persone dello stesso sesso è diventato ufficialmente legale in Inghilterra e nel Galles. Il Parlamento aveva dato ieri il via libera finale, al progetto fortemente voluto dal premier conservatore David Cameron.

“Richiamando alla mente gli insegnamenti di Sant’Ireneo – recita il messaggio –, secondo i quali la gloria di Dio diventa visibile nell’essere umano, il Santo Padre incoraggia tutti voi a lasciare che la luce di quella gloria rispenda in modo così brillante che tutti possano riconoscere il valore inestimabile della vita umana”. Il papa annuncia anche di voler pregare perché la Giornata della Vita “contribuisca ad assicurare che la vita umana riceva sempre la protezione che le è dovuta”. Il tema della Giornata, “Custodisci la vita. Ne vale la pena”, è tratto da un’omelia pronunciata nel 2005 dall’allora cardinale Bergoglio per una Messa in onore del patrono delle donne incinte, San Raimondo Nonnato, religioso spagnolo del XIII secolo che, secondo la tradizione, venne estratto dal corpo della madre morta il giorno precedente.

Venerdì della XX settimana del T.O.

Giovedì della XV settimana del T.O.

dal Vangelo secondo Mt 11, 28-30

Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. 
Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. 
Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero». 

Il commento di don Antonello Iapicca

Lui ci chiama, per imparare la mitezza e l’umiltà, il cuore di Cristo. Ascoltare e andare. E’ questa la volontà di Dio per noi. Oggi e sempre. Sino all’ultima chiamata, quella per le nozze eterne. Andare e fermarsi presso di Lui. Vedere dove Lui abita, stare con Lui, imparare con l’orecchio aperto come un discepolo. Ai suoi piedi, cercando e desiderando l’unica cosa buona, la sua Parola, la sua vita, il suo amore. In questo atteggiamento del cuore, e solo in esso, troveremo ristoro, riposo per il nostro intimo, per le nostre anime.

Entrare nel suo riposo, nello shabbat preparato per noi, entrarvi con un cuore docile. Se oggi ascoltiamo la sua voce non induriamoci, lasciamoci sedurre dalla sua misericordia. Il suo Giogo, la Croce d’ogni giorno, è il cammino al riposo. Perchè riposa solo chi ha presente sempre la verità: “Sappi [tre cose,] da dove vieni: da una goccia putrefatta; dove vai: verso un luogo di polvere, di larve e di vermi; e davanti a chi dovrai rendere conto: davanti al Re, il Re dei re, il Santo, benedetto Egli sia” (Avot 3,1). Sapere queste tre cose è la verità che libera dall’orgoglio e dall’arroganza di dover condurre la propria vita con lo sforzo e l’angoscia di chi presume di sé ed esige dagli altri.

Andare al Signore è già imparare ad essere miti e umili di cuore. Il mite infatti, come recita il salmo 37, possiede già la terra perchè ha conosciuto la propria debolezza, non se ne scandalizza, si lascia condurre, e può vivere dell’autentico alimento: “Ricordati di tutto il cammino che il Signore, il tuo Dio, ti ha fatto fare in questi quarant’anni nel deserto per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandamenti. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provar la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per insegnarti che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che vive di tutto quello che procede dalla bocca del Signore”(Deut. 8,2-3). L’umiltà della verità conduce all’abbandono totale alla Parola: in un manoscritto ebraico scoperto nel 1898 nel cosiddetto Cairo Genizah, il luogo dove in una sinagoga del Cairo venivano “sepolti” i manoscritti logori contenenti le Sacre Scritture, è stato trovato questo frammento: “Venite a me, voi che siete senza istruzione, prendete dimora nella mia casa di studio [beit midrash]. Quanto tempo volete rimare privi di queste cose, mentre la vostra anima ne è tanto assetata? Ho aperto la bocca e ho parlato della sapienza: Acquistatela senza denaro. Sottoponete il collo al suo giogo, e permettete alla vostra anima di portare il suo carico. Essa è vicina a quelli che la cercano e la persona che dà la sua anima la trova. Vedete con gli occhi che poco mi faticai, ma ho perseverato fino a quando non l’ho trovata”.

Imparate (màthete = studiate) Da (apo) me. L’umiltà e la mitezza si studiano, ed il libro è Cristo, la sua stessa vita incarnata nella nostra esistenza. Studiare le sue parole, il suo pensiero, i suoi sentimenti, sino ad assumerli e a farli nostri. Nulla di sentimentale o moralistico, piuttosto il com-prendere, il prendere-con noi, su di noi, il giogo della Torah, il carico leggerissimo dello straordinario compiuto in Cristo. Prendere con noi una vita, un amore, una relazione, un lavoro e una malattia, anche una depressione, un giogo pesantissimo per chi non conosce Cristo. Un giogo che, senza la Grazia, schiaccia e uccide: e questo è per quanti esigono dai cristiani, facendo della Chiesa un luogo di leggi, di obblighi, di volontariati asfissianti: “«Gli scribi e i Farisei seggono sulla cattedra di Mosè. Fate dunque ed osservate tutte le cose che vi diranno, ma non fate secondo le opere loro; perché dicono e non fanno. Difatti, legano dei pesi gravi e li mettono sulle spalle della gente; ma loro non li vogliono muovere neppure con un dito» (Mat. 23:2-4).

“Mosè era un uomo molto umile, più di ogni altro uomo sulla faccia della terra.” (Numeri 12,3). E’ mite chi ha imparato che la lotta d’ogni giorno non è contro le creature di carne, contro suocere o mariti o mogli o figli o colleghi di lavoro o coinquilini di condominio. La lotta è contro il demonio, il padre della menzogna e dell’orgoglio. In questa lotta occorre imbracciare le armi della fede, la Parola, lo zelo per il Vangelo, il suo amore infinito. La fede, la speranza e la carità, i doni del Cielo riservati a chi reclina il proprio capo sul petto di Gesù. La nostra mente nel cuore di Gesù:  questa la fonte della mitezza e dell’umiltà, la porta al riposo e alla pace.

Ci aiuta la figura di Davide: “instancabile e tenace ricercatore di Dio, ne ha tradito l’amore, e questo è caratteristico: sempre è rimasto cercatore di Dio, anche se molte volte ha gravemente peccato; umile penitente, ha accolto il perdono divino, anche la pena divina, e ha accettato un destino segnato dal dolore. Davide così è stato un re, con tutte le sue debolezze, «secondo il cuore di Dio» (cfr 1Sam 13,14), cioè un orante appassionato, un uomo che sapeva cosa vuol dire supplicare e lodare” (Benedetto XVI, Catechesi del 22 giugno 2011). Non perdere mai l’audacia di ritornare a Dio, di abbandonarsi alla misericordia del Padre: è questa l’umiltà, la mitezza autentica, il cuore secondo Dio che conosce Dio e non dubita di Lui, mai. Neanche davanti alla caduta più atroce, mai. Neanche dinanzi alla contraddizione più umilante. Mai. Nella certezza che, inginocchiati con Cristo nel Getsemani, nulla e nessuno potrà mai separarci dal suo amore.