Il Papa: Cosa sarebbe la Chiesa senza la novità degli Ordini Religiosi che si realizza anche oggi nei nuovi carismi donati dallo Spirito

Per san Bonaventura Cristo non è più, come era per i Padri della Chiesa, la fine, ma il centro della storia; con Cristo la storia non finisce, ma comincia un nuovo periodo. Un’altra conseguenza è la seguente: fino a quel momento dominava l’idea che i Padri della Chiesa fossero stati il vertice assoluto della teologia, tutte le generazioni seguenti potevano solo essere loro discepole. Anche san Bonaventura riconosce i Padri come maestri per sempre, ma il fenomeno di san Francesco gli dà la certezza che la ricchezza della parola di Cristo è inesauribile e che anche nelle nuove generazioni possono apparire nuove luci. L’unicità di Cristo garantisce anche novità e rinnovamento in tutti i periodi della storia.

Certo, l’Ordine Francescano – così sottolinea – appartiene alla Chiesa di Gesù Cristo, alla Chiesa apostolica e non può costruirsi in uno spiritualismo utopico. Ma, allo stesso tempo, è valida la novità di tale Ordine nei confronti del monachesimo classico, e san Bonaventura – come ho detto nella Catechesi precedente – ha difeso questa novità contro gli attacchi del Clero secolare di Parigi: i Francescani non hanno un monastero fisso, possono essere presenti dappertutto per annunziare il Vangelo. Proprio la rottura con la stabilità, caratteristica del monachesimo, a favore di una nuova flessibilità, restituì alla Chiesa il dinamismo missionario.

A questo punto forse è utile dire che anche oggi esistono visioni secondo le quali tutta la storia della Chiesa nel secondo millennio sarebbe stata un declino permanente; alcuni vedono il declino già subito dopo il Nuovo Testamento. In realtà, “Opera Christi non deficiunt, sed proficiunt“, le opere di Cristo non vanno indietro, ma progrediscono. Che cosa sarebbe la Chiesa senza la nuova spiritualità dei Cistercensi, dei Francescani e Domenicani, della spiritualità di santa Teresa d’Avila e di san Giovanni della Croce, e così via? Anche oggi vale questa affermazione: “Opera Christi non deficiunt, sed proficiunt“, vanno avanti. San Bonaventura ci insegna l’insieme del necessario discernimento, anche severo, del realismo sobrio e dell’apertura a nuovi carismi donati da Cristo, nello Spirito Santo, alla sua Chiesa. E mentre si ripete questa idea del declino, c’è anche l’altra idea, questo “utopismo spiritualistico”, che si ripete. Sappiamo, infatti, come dopo il Concilio Vaticano II alcuni erano convinti che tutto fosse nuovo, che ci fosse un’altra Chiesa, che la Chiesa pre-conciliare fosse finita e ne avremmo avuta un’altra, totalmente “altra”. Un utopismo anarchico! E grazie a Dio i timonieri saggi della barca di Pietro, Papa Paolo VI e Papa Giovanni Paolo II, da una parte hanno difeso la novità del Concilio e dall’altra, nello stesso tempo, hanno difeso l’unicità e la continuità della Chiesa, che è sempre Chiesa di peccatori e sempre luogo di Grazia.

Cari fratelli e sorelle,

la scorsa settimana ho parlato della vita e della personalità di san Bonaventura da Bagnoregio. Questa mattina vorrei proseguirne la presentazione, soffermandomi su una parte della sua opera letteraria e della sua dottrina.

Come già dicevo, san Bonaventura, tra i vari meriti, ha avuto quello di interpretare autenticamente e fedelmente la figura di san Francesco d’Assisi, da lui venerato e studiato con grande amore. In particolar modo, ai tempi di san Bonaventura una corrente di Frati minori, detti “spirituali”, sosteneva che con san Francesco era stata inaugurata una fase totalmente nuova della storia, sarebbe apparso il “Vangelo eterno”, del quale parla l’Apocalisse, che sostituiva il Nuovo Testamento. Questo gruppo affermava che la Chiesa aveva ormai esaurito il proprio ruolo storico, e al suo posto subentrava una comunità carismatica di uomini liberi guidati interiormente dallo Spirito, cioè i “Francescani spirituali”. Alla base delle idee di tale gruppo vi erano gli scritti di un abate cistercense, Gioacchino da Fiore, morto nel 1202. Nelle sue opere, egli affermava un ritmo trinitario della storia. Considerava l’Antico Testamento come età del Padre, seguita dal tempo del Figlio, il tempo della Chiesa. Vi sarebbe stata ancora da aspettare la terza età, quella dello Spirito Santo. Tutta la storia andava così interpretata come una storia di progresso: dalla severità dell’Antico Testamento alla relativa libertà del tempo del Figlio, nella Chiesa, fino alla piena libertà dei Figli di Dio, nel periodo dello Spirito Santo, che sarebbe stato anche, finalmente, il periodo della pace tra gli uomini, della riconciliazione dei popoli e delle religioni. Gioacchino da Fiore aveva suscitato la speranza che l’inizio del nuovo tempo sarebbe venuto da un nuovo monachesimo. Così è comprensibile che un gruppo di Francescani pensasse di riconoscere in san Francesco d’Assisi l’iniziatore del tempo nuovo e nel suo Ordine la comunità del periodo nuovo – la comunità del tempo dello Spirito Santo, che lasciava dietro di sé la Chiesa gerarchica, per iniziare la nuova Chiesa dello Spirito, non più legata alle vecchie strutture.

Vi era dunque il rischio di un gravissimo fraintendimento del messaggio di san Francesco, della sua umile fedeltà al Vangelo e alla Chiesa, e tale equivoco comportava una visione erronea del Cristianesimo nel suo insieme.

San Bonaventura, che nel 1257 divenne Ministro Generale dell’Ordine Francescano, si trovò di fronte ad una grave tensione all’interno del suo stesso Ordine a causa appunto di chi sosteneva la menzionata corrente dei “Francescani spirituali”, che si rifaceva a Gioacchino da Fiore. Proprio per rispondere a questo gruppo e ridare unità all’Ordine, san Bonaventura studiò con cura gli scritti autentici di Gioacchino da Fiore e quelli a lui attribuiti e, tenendo conto della necessità di presentare correttamente la figura e il messaggio del suo amato san Francesco, volle esporre una giusta visione della teologia della storia. San Bonaventura affrontò il problema proprio nell’ultima sua opera, una raccolta di conferenze ai monaci dello studio parigino, rimasta incompiuta e giuntaci attraverso le trascrizioni degli uditori, intitolata Hexaëmeron, cioè una spiegazione allegorica dei sei giorni della creazione. I Padri della Chiesa consideravano i sei o sette giorni del racconto sulla creazione come profezia della storia del mondo, dell’umanità. I setti giorni rappresentavano per loro sette periodi della storia, più tardi interpretati anche come sette millenni. Con Cristo saremmo entrati nell’ultimo, cioè il sesto periodo della storia, al quale seguirebbe poi il grande sabato di Dio. San Bonaventura suppone questa interpretazione storica del rapporto dei giorni della creazione, ma in un modo molto libero ed innovativo. Per lui due fenomeni del suo tempo rendono necessaria una nuova interpretazione del corso della storia:

Il primo: la figura di san Francesco, l’uomo totalmente unito a Cristo fino alla comunione delle stimmate, quasi un alter Christus, e con san Francesco la nuova comunità da lui creata, diversa dal monachesimo finora conosciuto. Questo fenomeno esigeva una nuova interpretazione, come novità di Dio apparsa in quel momento.

Il secondo: la posizione di Gioacchino da Fiore, che annunziava un nuovo monachesimo ed un periodo totalmente nuovo della storia, andando oltre la rivelazione del Nuovo Testamento, esigeva una risposta.

Da Ministro Generale dell’Ordine dei Francescani, san Bonaventura aveva visto subito che con la concezione spiritualistica, ispirata da Gioacchino da Fiore, l’Ordine non era governabile, ma andava logicamente verso l’anarchia. Due erano per lui le conseguenze:

La prima: la necessità pratica di strutture e di inserimento nella realtà della Chiesa gerarchica, della Chiesa reale, aveva bisogno di un fondamento teologico, anche perché gli altri, quelli che seguivano la concezione spiritualista, mostravano un apparente fondamento teologico.

La seconda: pur tenendo conto del realismo necessario, non bisognava perdere la novità della figura di san Francesco.

Come ha risposto san Bonaventura all’esigenza pratica e teorica? Della sua risposta posso dare qui solo un riassunto molto schematico ed incompleto in alcuni punti:

1. San Bonaventura respinge l’idea del ritmo trinitario della storia. Dio è uno per tutta la storia e non si divide in tre divinità. Di conseguenza, la storia è una, anche se è un cammino e – secondo san Bonaventura – un cammino di progresso.

2. Gesù Cristo è l’ultima parola di Dio – in Lui Dio ha detto tutto, donando e dicendo se stesso. Più che se stesso, Dio non può dire, né dare. Lo Spirito Santo è Spirito del Padre e del Figlio. Cristo stesso dice dello Spirito Santo: “…vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14, 26), “prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà” (Gv 16, 15). Quindi non c’è un altro Vangelo più alto, non c’è un’altra Chiesa da aspettare. Perciò anche l’Ordine di san Francesco deve inserirsi in questa Chiesa, nella sua fede, nel suo ordinamento gerarchico.

3. Questo non significa che la Chiesa sia immobile, fissa nel passato e non possa esserci novità in essa. “Opera Christi non deficiunt, sed proficiunt“, le opere di Cristo non vanno indietro, non vengono meno, ma progrediscono, dice il Santo nella lettera De tribus quaestionibus. Così san Bonaventura formula esplicitamente l’idea del progresso, e questa è una novità in confronto ai Padri della Chiesa e a gran parte dei suoi contemporanei. Per san Bonaventura Cristo non è più, come era per i Padri della Chiesa, la fine, ma il centro della storia; con Cristo la storia non finisce, ma comincia un nuovo periodo. Un’altra conseguenza è la seguente: fino a quel momento dominava l’idea che i Padri della Chiesa fossero stati il vertice assoluto della teologia, tutte le generazioni seguenti potevano solo essere loro discepole. Anche san Bonaventura riconosce i Padri come maestri per sempre, ma il fenomeno di san Francesco gli dà la certezza che la ricchezza della parola di Cristo è inesauribile e che anche nelle nuove generazioni possono apparire nuove luci. L’unicità di Cristo garantisce anche novità e rinnovamento in tutti i periodi della storia.

Certo, l’Ordine Francescano – così sottolinea – appartiene alla Chiesa di Gesù Cristo, alla Chiesa apostolica e non può costruirsi in uno spiritualismo utopico. Ma, allo stesso tempo, è valida la novità di tale Ordine nei confronti del monachesimo classico, e san Bonaventura – come ho detto nella Catechesi precedente – ha difeso questa novità contro gli attacchi del Clero secolare di Parigi: i Francescani non hanno un monastero fisso, possono essere presenti dappertutto per annunziare il Vangelo. Proprio la rottura con la stabilità, caratteristica del monachesimo, a favore di una nuova flessibilità, restituì alla Chiesa il dinamismo missionario.

A questo punto forse è utile dire che anche oggi esistono visioni secondo le quali tutta la storia della Chiesa nel secondo millennio sarebbe stata un declino permanente; alcuni vedono il declino già subito dopo il Nuovo Testamento. In realtà, “Opera Christi non deficiunt, sed proficiunt“, le opere di Cristo non vanno indietro, ma progrediscono. Che cosa sarebbe la Chiesa senza la nuova spiritualità dei Cistercensi, dei Francescani e Domenicani, della spiritualità di santa Teresa d’Avila e di san Giovanni della Croce, e così via? Anche oggi vale questa affermazione: “Opera Christi non deficiunt, sed proficiunt“, vanno avanti. San Bonaventura ci insegna l’insieme del necessario discernimento, anche severo, del realismo sobrio e dell’apertura a nuovi carismi donati da Cristo, nello Spirito Santo, alla sua Chiesa. E mentre si ripete questa idea del declino, c’è anche l’altra idea, questo “utopismo spiritualistico”, che si ripete. Sappiamo, infatti, come dopo il Concilio Vaticano II alcuni erano convinti che tutto fosse nuovo, che ci fosse un’altra Chiesa, che la Chiesa pre-conciliare fosse finita e ne avremmo avuta un’altra, totalmente “altra”. Un utopismo anarchico! E grazie a Dio i timonieri saggi della barca di Pietro, Papa Paolo VI e Papa Giovanni Paolo II, da una parte hanno difeso la novità del Concilio e dall’altra, nello stesso tempo, hanno difeso l’unicità e la continuità della Chiesa, che è sempre Chiesa di peccatori e sempre luogo di Grazia.

4. In questo senso, san Bonaventura, come Ministro Generale dei Francescani, prese una linea di governo nella quale era ben chiaro che il nuovo Ordine non poteva, come comunità, vivere alla stessa “altezza escatologica” di san Francesco, nel quale egli vede anticipato il mondo futuro, ma – guidato, allo stesso tempo, da sano realismo e dal coraggio spirituale – doveva avvicinarsi il più possibile alla realizzazione massima del Sermone della montagna, che per san Francesco fu la regola, pur tenendo conto dei limiti dell’uomo, segnato dal peccato originale.

Vediamo così che per san Bonaventura governare non era semplicemente un fare, ma era soprattutto pensare e pregare. Alla base del suo governo troviamo sempre la preghiera e il pensiero; tutte le sue decisioni risultano dalla riflessione, dal pensiero illuminato dalla preghiera. Il suo contatto intimo con Cristo ha accompagnato sempre il suo lavoro di Ministro Generale e perciò ha composto una serie di scritti teologico-mistici, che esprimono l’animo del suo governo e manifestano l’intenzione di guidare interiormente l’Ordine, di governare, cioè, non solo mediante comandi e strutture, ma guidando e illuminando le anime, orientando a Cristo.

Di questi suoi scritti, che sono l’anima del suo governo e che mostrano la strada da percorrere sia al singolo che alla comunità, vorrei menzionarne solo uno, il suo capolavoro, l’Itinerarium mentis in Deum, che è un “manuale” di contemplazione mistica. Questo libro fu concepito in un luogo di profonda spiritualità: il monte della Verna, dove san Francesco aveva ricevuto le stigmate. Nell’introduzione l’autore illustra le circostanze che diedero origine a questo suo scritto: “Mentre meditavo sulle possibilità dell’anima di ascendere a Dio, mi si presentò, tra l’altro, quell’evento mirabile occorso in quel luogo al beato Francesco, cioè la visione del Serafino alato in forma di Crocifisso. E su ciò meditando, subito mi avvidi che tale visione mi offriva l’estasi contemplativa del medesimo padre Francesco e insieme la via che ad esso conduce” (Itinerario della mente in Dio, Prologo, 2, in Opere di San Bonaventura. Opuscoli Teologici /1, Roma 1993, p. 499).

Le sei ali del Serafino diventano così il simbolo di sei tappe che conducono progressivamente l’uomo dalla conoscenza di Dio attraverso l’osservazione del mondo e delle creature e attraverso l’esplorazione dell’anima stessa con le sue facoltà, fino all’unione appagante con la Trinità per mezzo di Cristo, a imitazione di san Francesco d’Assisi. Le ultime parole dell’Itinerarium di san Bonaventura, che rispondono alla domanda su come si possa raggiungere questa comunione mistica con Dio, andrebbero fatte scendere nel profondo del cuore: “Se ora brami sapere come ciò avvenga, (la comunione mistica con Dio) interroga la grazia, non la dottrina; il desiderio, non l’intelletto; il gemito della preghiera, non lo studio della lettera; lo sposo, non il maestro; Dio, non l’uomo; la caligine, non la chiarezza; non la luce, ma il fuoco che tutto infiamma e trasporta in Dio con le forti unzioni e gli ardentissimi affetti … Entriamo dunque nella caligine, tacitiamo gli affanni, le passioni e i fantasmi; passiamo con Cristo Crocifisso da questo mondo al Padre, affinché, dopo averlo visto, diciamo con Filippo: ciò mi basta” (ibid., VII, 6).

Cari amici, accogliamo l’invito rivoltoci da san Bonaventura, il Dottore Serafico, e mettiamoci alla scuola del Maestro divino: ascoltiamo la sua Parola di vita e di verità, che risuona nell’intimo della nostra anima. Purifichiamo i nostri pensieri e le nostre azioni, affinché Egli possa abitare in noi, e noi possiamo intendere la sua Voce divina, che ci attrae verso la vera felicità.

da http://segnideitempi.blogspot.com

Preti e pedofilia. Nessuna "tonache pulite". Piuttosto un "severo discernimento, un realismo sobrio e l'apertura ai nuovi carismi"

di Don Antonello Iapicca

La Chiesa sembra precipitare in una sindrome da accerchiamento. Lo spuntare come funghi dei casi di pedofilia la stringe in un assedio nel quale occorre assolutamente tenere i nervi saldi e affidarsi allo Spirito Santo. Per questo ci sembrano avventate le prese di posizione di vaticanisti e blog che si dicono amici del Papa ma che mostrano una scarsissima sensibilità ecclesiale. Non si può fare il triplo salto mortale per passare dal lassismo all’intransigentismo giustizialista. La Chiesa non è un’istituzione come le altre. Il Papa ed i Vescovi nulla hanno a che fare con Di Pietro. Nella Chiesa non è in atto nessuna inchiesta “tonache pulite”. Tolleranza zero e slogan affini non fanno parte del linguaggio e dello spirito della Chiesa.

Il Foglio pubblica oggi un’intervista a Manfred Lütz, teologo e psichiatra direttore dell’ospedale psichiatrico di Colonia, membro del Pontificio consiglio per i laici e del consiglio direttivo della Pontificia accademia per la vita, consultore della Congregazione per il clero. Lütz dice tra l’altro: “La prima cosa da fare è non sminuire il problema. Perché prima di ogni altra considerazione va ricordato che gli abusi su minori perpetrati da sacerdoti e religiosi cattolici sono un crimine particolarmente ripugnante. Sono un male da denunciare e da non occultare. Il sacerdote, infatti, ha un ruolo paterno nei confronti del minore e quindi purtroppo il suo atto criminoso ha in sé qualcosa d’incestuoso. Inoltre questi crimini minano la fiducia in Dio dei bambini che li subiscono”. Ma Lütz dice anche che “occorre non drammatizzare troppo… prima di esprimere giudizi si devono conoscere i fatti… un’eccessiva drammatizzazione non giova alle vittime. Queste, spesso, hanno un rapporto ambivalente con i persecutori. Provano affetto per loro e insieme si sentono offesi. E’ una situazione molto delicata e se si drammatizza troppo non si aiuta chi è vittima a uscire allo scoperto”.

Anche per questo l’iniziativa del Vescovo di Bolzano ci sembra decisamente sopra le righe. “la Diocesi (di Bolzano) intende tra l’altro creare sul sito internet diocesano un forum in cui vengano esaminate eventuali segnalazioni di abusi. In questo modo si vuole assicurare che ogni segnalazione venga subito presa in considerazione e verificata, perché la protezione delle eventuali vittime ha la massima priorità”. Come se un marito per scoprire se la moglie lo tradisce o meno chiedesse di inviare eventuali segnalazioni di comportamenti sospetti alla sua e-mail e aprire un forum sul proprio blog per esaminarle. Verrebbe spontaneamente da chiedersi: ma quest’uomo ha mai parlato con sua moglie? La conosce almeno un po’ o si è sposato per procura? Per dirla chiara: un Vescovo conosce i suoi preti? Si è interessato della loro formazione e dei loro formatori? O ha bisogno di fare del sito diocesano una sorta di Facebook per conoscere la realtà dei suoi collaboratori più prossimi? Non insegnano nulla le storie legate ai social networks, alle contraffazioni e all’assoluta inattendibilità di tali strumenti? Tra l’altro la Lettera De Delictis Gravioribus parla chiaro: “Le cause di questo genere sono soggette al segreto pontificio”. E dice anche molto di più: “Con la presente lettera… si auspica che non solo siano evitati del tutto i delitti più gravi, ma soprattutto che, per la santità dei chierici e dei fedeli da procurarsi anche mediante necessarie sanzioni, da parte degli ordinari e dei gerarchi ci sia una sollecita cura pastorale“.

E’ questo il nodo cruciale: la sollecitudine pastorale. “Il Vescovo è un padre che vive per i suoi figli e fa un tutt’uno con la sua Chiesa, con i suoi sacerdoti, prodigandosi per formare le coscienze e per far crescere nella fede” (Congregazione per i Vescovi, Nota introduttiva al nuovo “Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi Apostolorum Successores“). E’ urgente quindi interrogarsi sulla crescita nella fede dell’intero Popolo di Dio, nel quale sono inclusi anche i presbiteri. Come scriveva S. Agostino commentando le parole di Gesù rivolte a Pietro sul lago di Tiberiade dove lo invitava a pascere le sue pecore: “Anche i pastori sono pecore (pastores ipsi sunt oves) ” (In Io. Evang. Tr. 123,5). E altrove: “Voi siete sue pecore e noi siamo pecore con voi perché siamo cristiani … noi pascoliamo voi e siamo pascolati con voi (pascimus vos, pascimur vobiscum)” (Ser. Casin. I,133,5.13; M.A., I, pp. 404,8; 410,18). I presbiteri provengono da famiglie concrete, hanno ricevuto in esse la loro prima formazione nella fede. “Ai nostri giorni, in un mondo spesso estraneo e persino ostile alla fede, le famiglie credenti sono di fondamentale importanza, come focolari di fede viva e irradiante. È per questo motivo che il Concilio Vaticano II, usando un’antica espressione, chiama la famiglia « Ecclesia domestica » – Chiesa domestica. È in seno alla famiglia che «i genitori devono essere per i loro figli, con la parola e con l’esempio, i primi annunciatori della fede, e secondare la vocazione propria di ognuno, e quella sacra in modo speciale» (Catechismo della Chiesa Cattolica, N. 1656). Prima di entrare in seminario hanno frequentato parrocchie e spesso associazioni, movimenti e nuove comunità. Questo tempo trascorso sino all’ingresso in seminario è decisivo. E’ qui che inizia l’autentica e feconda prevenzione perchè è molto più che vigilanza, è semina e accompagnamento nel cammino di fede di ciascun cristiano. La sollecitudine pastorale deve riguardare in primo luogo la comunità cristiana, l’utero dove si viene gestati alla fede. Una comunità che non sia anonima, che si prenda cura dei suoi membri, dove i pastori conoscano personalmente le pecore affidate. Nel rito di ordinazione presbiterale troviamo questo dialogo:

Rettore del Seminario (O un altro presbitero): Reverendissimo Padre, la Santa Madre Chiesa chiede che questi nostri fratelli siano ordinati Presbitero.

Vescovo: Sei certo che ne siano degni?

Rettore: Dalle informazioni raccolte presso il popolo cristiano e secondo il giudizio dato da coloro che ne hanno curato la formazione, posso attestare ne siano degni.

Vescovo : Con l’aiuto di Dio e Gesù Cristo nostro Salvatore noi scegliamo questi figli per l’ordine del Presbiterato

Assemblea: Rendiamo Grazie a Dio.

Il popolo cristiano è dunque alla base dell’ordinazione presbiterale. Le sue informazioni, unite a quelle dei formatori, contribuiscono all’attestazione di dignità dell’ordinando da parte del Rettore. Ma di quale popolo cristiano si parla? Come, dove, quando il futuro presbitero è stato conosciuto, amato, corretto, accompagnato, educato nella fede? Sono queste le domande cruciali che sorgono dai venti di bufera scatenati dai casi di pedofilia. Le reazioni spesso scomposte degli organi di stampa, le derive giustizialiste anche se comprensibili tradiscono comunque una mancanza di fondo. E’ tempo ormai che, accanto alle tempestive dichiarazioni di collaborazione con le autorità giudiziarie e alle prese di posizioni intransigenti, vi siano delle profonde riflessioni sullo stato della fede nella Chiesa, nelle Diocesi come nelle Parrocchie, negli Istituti secolari come negli Ordini religiosi, non meno che nei seminari.

Nel discorso rivolto ai partecipanti al Convegno per i Vescovi di recente nomina promosso dalla Congregazione per i Vescovi e dalla Congregazione per le Chiese Orientali il 21 settembre 2009, il Santo Padre affermava come “è importante non dimenticare che uno dei compiti essenziali del Vescovo è quello di aiutare, con l’esempio e con il fraterno sostegno, i sacerdoti a seguire fedelmente la loro vocazione, e a lavorare con entusiasmo e amore nella vigna del Signore. A questo proposito, nell’Esortazione postsinodale Pastores gregis, il mio venerato predecessore Giovanni Paolo II ebbe ad osservare che il gesto del sacerdote, quando pone le proprie mani nelle mani del Vescovo nel giorno dell’ordinazione presbiterale, impegna entrambi: il sacerdote e il Vescovo. Il novello presbitero sceglie di affidarsi al Vescovo e, da parte sua, il Vescovo si impegna a custodire queste mani (Cfr n.47). A ben vedere questo è un compito solenne che si configura per il Vescovo come paterna responsabilità nel custodire e promuovere l’identità sacerdotale dei presbiteri affidati alle proprie cure pastorali, un’identità che vediamo oggi purtroppo messa a dura prova dalla crescente secolarizzazione. Il Vescovo dunque – prosegue la Pastores gregis – “cercherà sempre di agire coi suoi sacerdoti come padre e fratello che li ama, li accoglie, li corregge, li conforta, ne ricerca la collaborazione e, per quanto possibile, si adopera per il loro benessere umano, spirituale, ministeriale ed economico” (Ibidem, 47)”.

Non è la prima volta che la Chiesa si trova ad affrontare questioni difficili, scandali terribili che sembravano poterla spazzare via. Nell’articolo citato Lütz afferma tra l’altro che “alcuni dicono che c’è un legame tra pedofilia e celibato e che se si eliminasse il celibato si risolverebbero tanti problemi. Scientificamente questa teoria non ha nessun fondamento. Nel 2003 organizzai in Vaticano, all’interno della Pontificia accademia per la vita, un summit con diversi scienziati (molti non credenti) sul tema ‘abuso di minori da parte di sacerdoti e religiosi’. Tutti concordarono sul fatto che scientificamente non c’è alcuna relazione tra pedofilia e celibato. L’astinenza sessuale, in particolare, non provoca atti di abuso. Uno scienziato ateo molto noto in Germania ha detto che la possibilità che un prete commetta abusi è 36 volte minore rispetto a un padre di famiglia”. Un prete innamorato di Cristo, che abbia cuore e mente afferrati da Lui, che per Lui viva, bruciando di zelo per annunciarlo a tutti. Il cuore di San Francesco Saverio ad esempio, che, gettato dallo Spirito in un mondo completamente pagano, trovò nel Signore energie inspiegabili per consumare la sua vita come una candela perché ogni uomo incontrato potesse ricevere la luce di Cristo. Anche lui ebbe a che fare con la pedofilia dei monaci buddisti, la denunciò senza riserve ma, soprattutto, vi trovò uno stimolo per la propria umiltà e conversione e per un rinnovato zelo apostolico: “Dio ci ha fatto una grazia assai grande e particolare nel portarci in questi luoghi di pagani affinchè non ci dimenticassimo di noi stessi… Noi non abbiamo in chi poter confidare se non in Dio, dato che non abbiamo qua né parenti, né amici… E per questo siamo costretti a riporre tutta la nostra fede, speranza e fiducia nel Signore” (San Francesco Saverio, Lettera 90 da Kagoshima). Di fronte ai peccati l’unico cammino è l’umiltà che apre alla conversione, personale e comunitaria.

Tra le ferite inferte dal demonio, nell’accerchiamento mediatico che mina la credibilità della Chiesa possiamo trovare il seme per un rinnovamento autentico. La storia ce lo insegna. Anche ieri il Papa lo rammentava: “A questo punto forse è utile dire che anche oggi esistono visioni secondo le quali tutta la storia della Chiesa nel secondo millennio sarebbe stata un declino permanente; alcuni vedono il declino già subito dopo il Nuovo Testamento. In realtà, “Opera Christi non deficiunt, sed proficiunt“, le opere di Cristo non vanno indietro, ma progrediscono. Che cosa sarebbe la Chiesa senza la nuova spiritualità dei Cistercensi, dei Francescani e Domenicani, della spiritualità di santa Teresa d’Avila e di san Giovanni della Croce, e così via? Anche oggi vale questa affermazione: “Opera Christi non deficiunt, sed proficiunt“, vanno avanti. San Bonaventura ci insegna l’insieme del necessario discernimento, anche severo, del realismo sobrio e dell’apertura a nuovi carismi donati da Cristo, nello Spirito Santo, alla sua Chiesa. E mentre si ripete questa idea del declino, c’è anche l’altra idea, questo “utopismo spiritualistico”, che si ripete. Sappiamo, infatti, come dopo il Concilio Vaticano II alcuni erano convinti che tutto fosse nuovo, che ci fosse un’altra Chiesa, che la Chiesa pre-conciliare fosse finita e ne avremmo avuta un’altra, totalmente “altra”. Un utopismo anarchico! E grazie a Dio i timonieri saggi della barca di Pietro, Papa Paolo VI e Papa Giovanni Paolo II, da una parte hanno difeso la novità del Concilio e dall’altra, nello stesso tempo, hanno difeso l’unicità e la continuità della Chiesa, che è sempre Chiesa di peccatori e sempre luogo di Grazia”.

Severo discernimento, realismo sobrio e apertura ai nuovi carismi donati da Cristo nello Spirito alla Chiesa. Occorre ripartire da qui. La Riforma protestante, la decadenza del clero, le crisi nella Chiesa hanno sempre suscitato Concili e riforme capaci di imprimere nuovo slancio missionario. E’ successo con il Concilio di Trento ed i suoi luminosissimi frutti lanciati ad evangelizzare le terre appena scoperte. E’ successo con il Concilio Vaticano II di cui il Papa, a dispetto di frettolosi commentatori, ha riaffermato l’insostituibile novità. Essa passa per l’accoglienza dei nuovi carismi. E’ il passaggio cruciale al quale è chiamata la Chiesa in questo tempo. Gli eventi tragici che hanno macchiato la Chiesa con i peccati di pedofilia costituiscono una parola che ci interpella tutti, Pastori e gregge. Le opere di Cristo, nonostante la debolezza dei cristiani, non vanno indietro, ma progrediscono. Per questo il Papa, guardando alla storia della Chiesa può affermare, senza remore, che cosa sarebbe la Chiesa senza la nuova spiritualità degli Ordini religiosi e dei santi, ed oggi che cosa sarebbe la Chiesa senza la freschezza dei nuovi carismi? E’ la continuità che rivela il mistero della Chiesa, di peccatori e luogo di Grazia, che porta il fardello di peccati anche orribili e il manto della misericordia infinita. La continuità dell’opera dello Spirito Santo nella Chiesa. E’ impressionante rileggere le parole di Giovanni Paolo II, timoniere saggio della barca di Pietro secondo Benedetto XVI, dirette ai partecipanti al VI Simposio del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa: “Il punto di riferimento sicuro per quest’opera di evangelizzazione, in continuità con la vivente tradizione della Chiesa, deve restare l’evento di grazia del Concilio Vaticano II. Lo Spirito ha parlato alle Chiese d’oggi e la sua voce è risuonata nel Concilio Ecumenico. Esso si può ben dire che rappresenti il fondamento e l’avvio di una gigantesca opera di evangelizzazione del mondo moderno, giunto ad una svolta nuova della storia dell’umanità, in cui compiti di una gravità e ampiezza immensa attendono la Chiesa”. Il Concilio Vaticano II dunque, il motore dell’evangelizzazione. Quanti oggi si arroccano su posizioni tradizionaliste invocando Benedetto XVI quale estremo garante di non si capisce bene quale passato da rinverdire. Quanti occhi accecati dinnanzi all’apertura e alla modernità del Papa che legge e ci aiuta a discernere l’autentica opera dello Spirito nella Chiesa e nella storia. Gli stessi che invocano forche esemplari per i pedofili cancellerebbero ben volentieri il soffio dello Spirito che ha colmato l’assise conciliare. E, soprattutto, vorrebbero spegnere i carismi donati alla Chiesa in questo tempo.

Ma Benedetto XVI ha ben chiaro il cammino che Dio sta indicando alla Chiesa. In perfetta continuità con il suo Predecessore. Giovanni Paolo II diceva infatti nello stesso discorso appena citato: “Per realizzare un’efficace opera di evangelizzazione dobbiamo ritornare a ispirarci al primissimo modello apostolico. Tale modello, fondante e paradigmatico, lo contempliamo nel Cenacolo: gli apostoli sono uniti e perseveranti con Maria in attesa di ricevere il dono dello Spirito. Solo con l’effusione dello Spirito comincia l’opera di evangelizzazione. Il dono dello Spirito è il primo motore, la prima sorgente, il primo soffio dell’autentica evangelizzazione. Occorre, dunque, cominciare l’evangelizzazione invocando lo Spirito e cercando dove soffia lo Spirito (cf. Gv 3, 8). Alcuni sintomi di questo soffio dello Spirito sono certamente presenti oggi in Europa. Per trovarli, sostenerli e svilupparli bisognerà talora lasciare schemi atrofizzati per andare là dove inizia la vita, dove vediamo che si producono frutti di vita “secondo lo Spirito” (cf. Rm 8)”.

Di fronte alla morte disseminata dagli scandali, al calo delle vocazioni e della frequenza alla messa domenicale, ai problemi enormi sollevati dal relativismo teologico e pastorale occorre lasciare schemi atrofizzati e andare là dove inizia la vita, quella che viene dallo Spirito Santo, la novità delle opere della fede adulta, opere di Vita eterna, la novità che rende, in ogni generazione, la Chiesa “bruna ma bella” (Ct. 1,5 ), un sacramento di salvezza per ogni uomo.

Vittorio Messori: Grazie Kiko !

Non sono né uno storico dell’arte, né, certamente, un esperto di icone. Però posso parlare di quello che ho sperimentato quando, anonimo (e mi perdonerà il sacerdote don Antonio Tagliaferri), confuso in mezzo a molti altri, ho visitato la chiesa di Santissima Trinità, attratto dal grande ciclo pittorico.

Erano anni nei quali ero pervaso da una sottile tristezza, come una velata nostalgia. Perché –mi interrogavo, quando, per grazia, mi riconoscevo quasi d’improvviso credente e cristiano-cattolico in particolare – perché l’architettura, la scultura, la pittura applicata al sacro, riesce ad esprimere oggi solo cose mediocri in gran parte, quando non miserabili? Dove sta oggi quella ispirazione che durante i secoli ha portato a creare testimoni capaci di coinvolgere la mente e il cuore in una profonda emozione che insieme alla Bellezza porta, silenziosamente, a contemplare la Verità?

Sempre mi rispondevo che, alla base di tutto, doveva esserci una crisi di fede; quello sguardo razionalista che analizza la realtà, sezionandola fino ai suoi particolari più profondi, nella quale scompare però il Mistero che la penetra e circonda. Così che, per dirlo con Miguel Angel che certamente lo capì molto bene: “Non basta essere un maestro pieno di scienza e intuizione per creare l’immagine venerabile di Nostro Signore; credo che sia necessario che l’artista conduca una vita cristiana e anche santa, perché il soffio dello spirito lo raggiunga”.

Non mi stupisce dunque che Kiko Arguello, pittore di fama già prima della sua conversione e poi sempre ricercatore appassionato di Dio, sia andato a cercare l’ispirazione lì dove la fedeltà alla Tradizione ha mantenuto altissimo il concetto e la Pratica dell’arte sacra. Nel nostro Occidente, nella Chiesa latina, le icone sono scomparse come presenza viva nel culto, fin dal secolo XIV. Il mondo ortodosso, al contrario, preserva pure nel presente quello sforzo (che è allo stesso tempo artistico, ascetico, teologico e spirituale) di produrre questa pittura “apofatica”, cioè che esprime nel simbolo, l’inesprimibile, conferendogli così un carattere sacramentale che lo fa partecipe della comunione con Dio. Per questo le icone possono essere considerate “come centri materiali nei quali riposa un’energia e una virtù divina che si uniscono nell’arte umana” ((V. Losskey) dando così vita ad un’arte sacra nel pieno senso del termine.

Però Kiko Arguello non è solo un pittore: è un uomo al quale lo Spirito Santo ha concesso il dono di ricondurre nel senso della Trinità una moltitudine di fratelli smarriti e frastornati, attraverso quel Cammino che li converte in umili catecumeni, capaci di stupirsi nuovamente ascoltando la Buona Notizia, desiderosi di aderire a Cristo nell’acqua battesimale e di ricevere la pienezza dello Spirito nella Pentecoste. Così, capace di comprendere bene il valore della Tradizione Orientale, della quale ha rispettato e assunto tutti i suoi schemi, Kiko ha saputo attualizzarla valentemente, esprimerla e realizzarla in uno stile che, secondo la mia opinione, è la sintesi della sua ricerca pittorica e della sua ricerca spirituale.

Vittorio Messori

Una coppia di insegnanti di Valencia, parte con i loro cinque figli come missionari in Papua Nuova Guinea

(AVAN) .- La coppia di Valencia, Pablo Romero e Ana Vila, entrambi di 37 anni, membri del Cammino Neocatecumenale e insegnanti nella scuola secondaria della Congregazione religiosa dei Padri Scolopi Valencia città, sono partiti lunedi per la Papua Nuova Guinea, al nord dell’Australia, come missionari, con i loro cinque figli, di età compresa tra 1 e 10 anni.

I genitori hanno assicurato all’agenzia AVAN che “siamo contenti perché ci sentiamo chiamati da Dio a dedicare la nostra vita a Lui in questo modo, per testimoniare la famiglia cristiana, ovunque richiesto”.

Pablo e Ana, parrocchiani di San Giuseppe Calasanzio a Valencia, hanno sostenuto che, dopo aver constatato che “Dio è sempre stato buono con noi e ci ha aiutato in ogni difficoltà”, sono fiduciosi che “si prenderà cura di noi la Provvidenza” .

Per il mantenimento della famiglia in Papua Nuova Guinea, provvederà la loro comunità di Valencia attraverso contributi finanziari volontari, fino a quando ” troveranno un lavoro.”

Formeranno una comunità Neocatecumenale insieme ad altre tre famiglie, tra cui due australiani, un sacerdote e un seminarista, per sviluppare la cosiddetta “missio ad gentes” del Camino

Venerdì scorso la famiglia ha partecipato, presso il Palazzo Arcivescovile, alla preghiera dell’Angelus guidata dall’Arcivescovo di Valencia, Mons. Carlos Osoro, che ha notato che la loro testimonianza “è una gioia e una grazia”, perchè l’Arcidiocesi di Valencia “attraverso di loro appare rivolta alla missione”

Dopo la recita dell’Angelus, che ha coinvolto molti membri della curia diocesana e congregazioni religiose, la famiglia è stata benedetta da Monsignor Osoro.

Lo stesso venerdì pomeriggio, il Vescovo Ausiliare di Valencia, Mons. Enrique Benavent ha presieduto la cerimonia di “consegna” del crocifisso della missione alla coppia e ai loro figli nella parrocchia di San Giuseppe Calasanzio della capitale valenciana.

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Kiko Argüello: La Quaresima è la gestazione alla fede che culmina nella Pasqua. Lettera del 1978

Parigi, mercoledì delle ceneri 1978

Cari fratelli,

che la pace e la gioia di nostro Signore Gesù Cristo sia con tutti voi. A Lui, che ci ha mostrato che cosa sia la misericordia, la gloria e a benedizione nei secoli. Obbedendo al desiderio di tanti itineranti vostri catechisti, di scrivere in occasione della Pasqua una lettera, in cui potreste trovare una guida e un aiuto in questa Veglia Pasquale, mi son messo a scrivere non senza la trepidazione propria di chi non sa scrivere (voi sapete che lo faccio molto raramente) e con il timore di ripetere delle cose che molti già sapete.

Questa è la quinta lettera di Pasqua che scrivo alle comunità. Nelle altre quattro mi sembra siano descritte, più o meno, le principali caratteristiche della nostra grande Festa. Ad ogni modo, tenterò di dirvi qualcosa. Oggi, mercoledì delle ceneri, comincia la Quaresima ed essa viene a me chiamandomi a conversione.

Il mio grande desiderio sarebbe di andare nel deserto a pregare.. ma non mi è possibile. Penso alle tre tentazioni di Gesù e questo mi aiuta in questa Quaresima a cominciare di nuovo il combattimento: il cuore. Quanto vorrei amare Gesù con tutto il mio cuore, senza mormorare contro di Lui quando mi sento triste o quando soffro le incomodità, le incomprensioni o i problemi propri della mia condizione di apostolo itinerante. La prima tentazione: Israele mormora contro Dio perché‚ secondo loro mangiano un pane miserabile nel deserto e si ricordano delle cipolle, della carne, dei meloni e dei pesci d’Egitto. Anch’io mi ricordo della mia vita in Egitto e sono tentato, dalla concupiscenza degli occhi dalla sessualità, tante volte dal desiderio d’affetto, dalla voglia di riposare, insomma di cercare il mio piacere in tutto. Gesù sta quaranta giorni nel deserto; è scomodo, è duro sentire fame; fame d’amore, fame d’affetto, di comodità; di pane. “Se sei figlio di Dio” perché‚ dovrai soffrire? Se Dio è tuo padre ti dovrebbe amare, dovrebbe desiderare il meglio‚per te. Perché devi soffrire la fame? “Dì che queste pietre si trasformino in pane”…Gesù, fammi rispondere con te oggi e domani:”Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni Parola che esce dalla bocca di Dio”.

Ecco la tua parola che mi è data nella storia, nella mia storia concreta di ciascun giorno, nella mia croce di. oggi: ESSA‚ IL MIO PANE. “maestro, mangia “.”Il mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha inviato”, La Chiesa sa che io ho questa tentazione e mi difende e mi aiuta contro me stesso. E in questa Quaresima mi dice: digiuna, digiuna seriamente, e si allontanerà da te il demonio quando vede la tua volontà decisa ad accettare il PANE della volontà di Dio. Signore, aiutami a volerti bene con tutto il mio cuore. “Shemà Israel, amerai il tuo Dio con tutto il tuo cuore”, sopra la croce sei con il cuore colpito e spezzato. Mosè colpì la roccia del cuore incredulo… e dubitò, i soldati non dubitano, colpiscono, feriscono, uccidono… e sgorgò sangue ed acqua, e chi lo vide rende testimonianza. Dal tuo fianco sgorgò, Signore, la vita della nuova Eva.

Dal nuovo Adamo, la nuova umanità: una nuova creazione, un nuovo cuore, non di pietra, Signore ma di carne come il tuo, facile, facile da trafiggere. “Io toglierò da voi quel cuore di pietra e Vi darò un cuore di carne…

Shemà Israel. Amerai il tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima.

Con tutta l’anima, con tutto il tuo spirito, con tutto il tuo essere, con tutta la tua vita, cioè rischiando te stesso. “Chi non perde perfino la propria vita, non la trova”. Perdersi, umiliarsi, morire: fallire. Perché fallire? Perché‚ camminare per strade oscure senza sapere dove si va? Persa la ragione e persa l’anima, sempre col rischio di pensare se saremo pazzi o no, dove vivere, e soltanto fede e fede nuda…Perché? Perché fallire e camminare così, in Dio solo e senza noi? “Buttati dal pinnacolo del tempio e gli angeli ti raccoglieranno perché il tuo piede non inciampi contro la pietra” e vedendoti venire così dal cielo come gli angeli tutti crederanno in te…Lo vedi? Perché‚ passare per la croce? Perché tanta sofferenza? Non capisci? Perché camminare senza capire? Non ti ascolteranno, la casta sacerdotale non ti accetterà. Tu sei un operaio, un laico senza cultura; dalla Galilea puòo venire qualcosa di buono? Fallirai, ti uccideranno. Tenta Dio Perché no? Obbligalo con la tua fede che le cose siano in un’altra maniera, che li cambi la storia: sono tante te sofferenze, tante le malattie, tanti bambini subnormali, tanta la miseria e tanta la croce, e tanto il fallimento. Perché? Forse che Dio non esiste? O non ha fatto bene le cose? Come sarebbe facile tutti se ci mettessimo un po’ di buona volontà…

“Vai via da me Satana! Tu giudichi le cose secondo il mondo e non secondo Dio”. Anch’io mi scandalizzo della croce, della morte e del fallimento, anch’io non accetto l’umiliazione di essere sotto gli altri, di perdere la mia vita, di non trionfare, di non essere il primo, che le cose non siano e non si facciano come voglio io. La Chiesa mi invita alla preghiera, a umiliarmi davanti a Dio, a riconoscere che io sono una sua creatura, che io non sono Dio, che Dio è l’Altro. Ma come posso pregare se io non so farlo? Tenta come meglio sai, ogni forma è valida. Presto te lo insegneremo, se sei al principio del cammino. Gesù sulla croce, tutto rischiato, tutto perduto, con la fronte – segno dell’anima, della ragione e della vita – coronata di spine, in un’umiliazione totale fino alla beffa, fino alla pagliacciata e allo scherno. Se Dio ha permesso una fine tanto triste, è sicuro, era un peccatore… pensavano i farisei secondo quanto leggevano nelle scritture. E pensavano bene perché morì come peccatore al tuo posto e al mio. Che stupendo amore, nessuno mai mi ha voluto bene così, tanto gratuitamente.

Shemà Israel. Amerai il tuo Dio con tutto il tuo cuore, la tua anima, le tue forze.

Con tutte le tue forze, con tutto il tuo lavoro, con tutti i tuoi soldi. Il denaro, simbolo del potere; con il denaro – sentiamo dire – si ottiene tutto. Israele nel deserto presto si è fatto un idolo d’oro per chiedere le cose delle quali aveva bisogno. I soldi risolvono tante cose… Soldi, potere, IDOLATRIA. Colui che ha potere si teme, si rispetta. Il lavoro mi realizza, mi costruisce, mi permette di guadagnare soldi e possedere delle cose. Avere potere: dominare.

Quante discussioni per denaro, quante sofferenze. “Tutto questo ti darò” – e gli mostra le ricchezze e le glorie di questo mondo – “se tu mi adori”. Ecco la tentazione. Guadagnare il mondo, essere famoso, che tutti ti ammirino, ti vogliano bene. Fama e denaro. “A che serve all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la sua anima?”. Lavorare, lavorare, con tutte le sue forze: il lavoro, il denaro, la politica, il potere. “Di chi è quell’immagine?” dice Gesù Cristo quando gli mostrano la moneta del Cesare. “Di Cesare”, gli rispondono. “Allora date a Cesare quello che è di Cesare”… Gesù sopra la croce, con le mani di lavoratore e falegname trafitte dai chiodi, mani e piedi con cui faceva forza nel lavoro. Amerai Dio con tutte le tue forze, con tutto il tuo lavoro, con tutti i tuoi soldi. La Chiesa ci invita ad uscire dall’alienazione che ci procura il denaro e l’affanno di esso. Ci parla di elemosina, fate elemosina, “fatevi tesori nel cielo”, “vendete i vostri beni”. Ai notabili e farisei dell’epoca, amici delle ricchezze, dice: “date quello che avete in elemosina ed ecco che tutto sarà puro per voi”. Parole fuori della realtà… Tu sei fuori della realtà e della vita, schiavo del denaro, giorno e notte con il cuore secco di avarizia e di idolatria. Convertiamoci a Dio tu ed io.

Anch’io sono tentato tutti i giorni: senza denaro non si può far niente… è necessario viaggiare, mangiare, vestirsi, avere una riserva per gli imprevisti. Usciamo dall’idolatria e restituiamo quello che abbiamo rubato, a causa della nostra avarizia, ai poveri. Il cuore, il pane, il digiuno, l’anima, l’orgoglio, la preghiera, le forze, il denaro, l’elemosina.

La Chiesa ci invita nella Quaresima a riprodurre in noi il combattimento di Gesù. A vivere con lui il tempo del deserto. Esso ci aiuterà a rincontrare la storia della nostra salvezza. Ci risveglia e ci mostra qual’è il combattimento da sostenere nella vita come cristiani. Come abbiamo visto, in questa breve spiegazione delle tentazioni si trovano quattro linee, per così dire, sovrapposte:

” La prima, lo Shemà: amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze;

” La seconda, il cammino d’Israele nel deserto, dove Dio lo porta perché capisca cosa c’è nel suo cuore, perché veda come dubita di Dio e lo tenta e come cerca un altro dio più visibile che faccia la sua volontà.

” La terza, Gesù, nuovo Israele, viene a seguire le orme che Dio, suo Padre, gli ha tracciato attraverso l’Esodo adempiendo lo Shemà nella sua carne.

” E la quarta, Cristo Risorto e vivo oggi nella Chiesa che ci dona il suo stesso Spirito che ci permette di obbedire a Dio secondo il cammino dell’Esodo, realizzando Io Shemà e aiutati della Chiesa che, come una Madre, ci insegna a digiunare, a pregare e a fare elemosina.

Qualcuno, visto questo schema sostanziale della Quaresima, potrebbe pensare che bisogna sforzarsi, facendo elemosina, pregando, digiunando e che così si diventa cristiani; mentre – come si vede nel Vangelo – tutto questo è stato preceduto dal Battesimo. Gesù ha trascorso trent’anni nella famiglia di Nazareth fino a divenire adulto e, dopo essere stato battezzato, “fu portato dallo Spirito Santo nel deserto per essere tentato dal diavolo”.

Per noi, che cosa vuol dire questo? La nostra Quaresima è tutto il tempo catecumenale, nel quale la Chiesa, facendo crescere il tuo Battesimo, ti insegna a combattere ed a vivere questo Shemà: cioè, ad amare Dio con tutto il tuo cuore, senza mormorare per le sofferenze di tutti i giorni; con tutta la tua anima, accettando tante volte di non capire e rischiando la tua vita; e con tutte le tue forze, ossia col tuo denaro e col tuo lavoro. Così, voi sapete, abbiamo un tempo precatecumenale dove siamo messi di fronte alle nostre forze, al lavoro, alla famiglia, alle ricchezze, alla relazione col denaro (1° tentazione). Un tempo catecumenale dove siamo iniziati alla preghiera e ad accettare che noi non siamo Dio, a farci piccoli, ad accettare l’umiliazione, a essere semplificati (2° tentazione). E un terzo tempo, quello dell’elezione, dove la Chiesa ti insegnerà ad entrare nella croce di ogni giorno, vivere nella croce quotidiana, come il cammino che Dio ha scelto per la tua salvezza, a digiunare del mondo e a vi vere del pane venuto dal cielo, nostro Signore Gesù Cristo, Parola di vita eterna per noi (3° tentazione).

Ecco che, finito il cammino neocatecumenale, la Quaresima ripresenta per noi la gestazione alla fede che finisce nella Pasqua. Questo è il contenuto più profondo delle liturgie della Quaresima, del ciclo quaresimale che è ricchissimo delle tappe di preparazione del Battesimo. Il catecumenato nella Chiesa primitiva finiva sempre nella Pasqua, con l’acqua del Battesimo che segna “la fine del peccato e l’inizio della vita nuova” (come dice l’inno della benedizione dell’acqua del fonte). Dico questo per farvi capire l’importanza che nella Chiesa aveva la Veglia pasquale; lo splendore di questa Notte Santa, che marca la nascita dell’uomo celeste in noi e che ci dona la cittadinanza della Gerusalemme eterna, Notte che ci da accesso, come figli di Dio, all’eredità che nostro fratello Gesù Cristo ha lasciato in testamento con la sua morte per noi. E’ finito il tempo di fanciullo, di servo, e la Chiesa ci ridà quello che ci appartiene: lo Spirito dell’amore.

Cristo, conoscendo la fatica, la povertà di amore che abbiamo, e perciò le sofferenze costanti che incontriamo nel vivere quotidiano e come nel nostro spirito si annida la morte e la paura di essa che ci costringe tante volte alla meschinità e all’egoismo ,Lui, Cristo, pieno di amore e tenerezza per la nostra condizione esistenziale, ha steso le sue braccia sulla croce e ha offerto il suo corpo come alimento per la morte, uccidendo la morte e, morto per i miei e per i tuoi peccati, ha fatto testamento in mio e tuo favore della vita che donava. Se il debito del mio peccato e del tuo era la morte, Lui ha pagato con la sua morte facendosi te peccatore: ecco che, risorto dalla morte, te e me con Lui siamo risorti dalla morte, ecco che la sua Resurrezione ci giustifica, ecco che la sua Resurrezione è una luce, un canto, una tromba che annunzia che tu hai accesso gratuito a ricevere lo Spirito Santo.

Ma come potremo ricevere questa ricchezza che Dio ha depositato nella Chiesa? Avvicinandoci ad essa e lasciando che in essa siamo lavati gratuitamente e, spogliati dal nostro corpo di peccato, rivestiti della nuova condizione umana. Per questo Cristo è morto ed è risorto. Per questo è salito nel cielo ed intercede per noi. Affinché nella Chiesa possiamo ricevere uno Spirito nuovo, uno Spirito che non è più soggetto alla morte, perché l’ ha vinta, perché è Risorto dalla morte, uno Spirito che ci rasserena nel fondo di noi stessi, ci dona la pace, ci consola, che ci testimonia che Dio è nostro Padre, che di fronte alla Croce ci dice “non aver paura!”; insomma uno Spirito che ci fa vivere oggi più felici. Quanta gente vive piena di sofferenze terribili, quanta gente vicina a noi soffre per la più piccola cosa! diventa isterica perché la vita non è come vorrebbe.

Va dallo psichiatra per chiedere aiuto, perché le insegni ad accettare la propria vita e amare gli altri, perché si rende conto che dentro di sé non c’è amore. E noi sappiamo che tutta questa gente potrebbe essere più felice se sapesse che nella Chiesa l’attende un’eredità che le appartiene, uno Spirito che Cristo ha guadagnato per tutti, uno Spirito che è l’amore e con il quale farebbe meno fatica nella vita, amerebbe meglio la moglie, i figli, i compagni di lavoro, accetterebbe meglio se stessa. Ma non lo sanno!

Come non dare la vita perché‚ la Chiesa diventi un posto credibile per gli uomini? Ah, se tutti gli uomini sapessero che esiste una piscina, un’acqua dove chi si lava è risanato nel profondo! E quest’acqua non la possiamo separare dalla nostra Veglia pasquale; perché‚ da questa notte scaturisce come una fontana di vita nuova. In essa noi battezziamo i nostri bambini, in essa ritrovano la vita quegli adulti che hanno finito il loro percorso catecumenale, in essa noi siamo invitati a guardare Gesù Cristo Risorto e Vittorioso, per ringraziarlo e gridare, pieni di amore e gratitudine: Vieni, Signore Gesù! Ah, se tu venissi in questa Veglia Pasquale del 1999 e tutti gli uomini ti contemplassero come sei veramente, piena di tenerezza per tutti! Quanti riposerebbero dalle loro fatiche! Ah, se tu venissi in questa Veglia e con te fossimo trasformati e potessimo passare dal nostro Banchetto gioioso pieno di canti e di fiori, al tuo Regno, al Banchetto eterno con Te!

Anche se Tu non ritornassi, celebrare questi magnifici sacramenti dove Tu sei presente con noi, ci trascinerà a portare questo amore, tutto l’anno, a tanti fratelli ai quali non è ancora arrivata questa realtà. Tu fortifichi la nostra attesa; ogni anno ti desideriamo di più, ti aneliamo, sentiamo il nostro esilio in Babilonia, arrivando perfino a sospirare la nostra morte fisica, ultima Pasqua che ci introdurrà nella Gerusalemme celeste.

Come voi sapete, fratelli, il nostro cammino neocatecumenale ha uno scopo preciso: aprire un itinerario di ritorno alla casa del Padre per la pecora perduta, per lontani dalla Chiesa. In questo senso le nostre feste pasquali hanno un’importanza di prim’ordine perché esse predicano e realizzano il contenuto della nostra fede. E’ chiaro che noi dovremo adattare questo cammino alle condizioni del nostro momento storico: da un lato, aiutare i fratelli lontani che si stanno riaccostando alla Chiesa e, dall’altro, restare ancorati alla tradizione più viva e autentica della Chiesa.

Il Papa Paolo VI il mercoledì 7 luglio 1976 parlando sulla necessità oggi, di ricostruire la Chiesa, diceva: “Tutto il lavoro compiuto nei secoli a noi precedenti… ci chiama a ricominciare da capo, memori sì e custodi gelosi di ciò che la storia autentica della Chiesa ha accumulato per questa e per le future generazioni, ma consapevoli che l’edificio fino all’ultimo giorno del tempo reclama lavoro nuovo, reclama costruzione faticosa, fresca, geniale, come se la Chiesa, il divino edificio, dovesse cominciare oggi la sua avventurosa sfida alle altezze del cielo”.

Per questo, aiutarvi a vivere la Veglia pasquale è lo scopo fondamentale di questa lettera. La pace e la gioia di Gesù Cristo, nostra Pasqua,. sia con tutti voi.

Kiko Argüello

Don Giussani, un uomo rapito dalla Bellezza dell’incontro con Cristo

Il ricordo di don Carrón nel quinto anniversario della sua morte

ROMA, lunedì, 22 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Il tratto più significativo della personalità e dell’opera di don Luigi Giussani va rintracciato nel suo farsi promotore di un incontro personale con Cristo, che solo può appagare le ansie del cuore umano.

E’ quanto ricorda in una intervista a Radio Vaticana don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione (Cl), nel quinto anniversario della sua morte.

“Sempre più andiamo avanti e sempre più sentiamo la paternità di don Giussani, sempre più vediamo che effetto ha sulla nostra vita e questo ci suscita la gratitudine nei suoi confronti”, ha detto don Carrón.

La caretteristica di don Giussani, ha continuato, è l’essere “ripartito da questa proposta del cristianesimo come di un avvenimento che entra in linea con la struttura più profonda dell’essere umano, che è il cuore”.

“Questo rimane sempre – ha aggiunto –: il cuore, anche nelle situazioni più lontane delle persone, nelle ferite della vita, nelle domande più urgenti che l’uomo trova dentro di sé, aspetta una risposta”.

“E questo nessuna situazione culturale e sociale lo può cambiare ed è per questo che tanto più ci sono urgenze nella vita, tanto più l’uomo è aperto al possibile incontro con il cristianesimo. E lo incontra non come una regola, ma come una testimonianza in una Persona!”.

Con i suoi insegnamenti don Giussani ha ricordato a una società come quella moderna dominata dall’autodeterminazione e dall’autosufficienza, che “occorre la semplicità, che ha l’uomo semplice, di aprirsi a Qualcosa che ha proprio l’energia e la capacità di darci quello che noi non riusciamo a fare da soli”.

Don Giussani nasce nel 1922 a Desio, un paesino nei pressi di Milano. Giovanissimo, entra nel seminario diocesano di Milano, proseguendo gli studi e infine completandoli presso la Facoltà teologica di Venegono.

Gli anni trascorsi nel seminario diocesano di Milano furono per don Giussani anni di studio intenso e di grandi scoperte, come la lettura di Giacomo Leopardi con la quale, raccontava egli stesso, soleva talvolta accompagnare la meditazione dopo l’Eucaristia.

Ad educarlo alla musica fu in particolare il padre Beniamino, socialista di tendenze anarchiche, il quale spendeva i pochi soldi risparmiati per invitare a casa la domenica gruppi di musicisti. Don Giussani, fece tesoro di questa passione, anche durante gli anni del suo insegnamento al liceo Berchet “quando – racconta – per dimostrare l’esistenza di Dio andavo a scuola con un giradischi e facevo sentire Chopin e Bethoven”.

Ordinato sacerdote il 26 maggio 1945, don Giussani si dedica all’insegnamento presso lo stesso seminario di Venegono. In quegli anni si specializza nello studio della teologia orientale, della teologia protestante americana e nell’approfondimento della motivazione razionale dell’adesione alla fede e alla Chiesa.

A metà degli anni Cinquanta chiede di poter lasciare l’insegnamento in seminario per quello nelle scuole medie superiori. Per dieci anni, dal 1954 al 1964, insegna al Liceo classico “Berchet” di Milano. Inizia a svolgere in quegli anni una attività di studio e di pubblicistica volta a porre all’interno e all’esterno della Chiesa l’attenzione sul problema educativo.

E proprio nel 1954, don Luigi Giussani dà vita a partire dal Liceo classico “Berchet”, a un’iniziativa di presenza cristiana chiamata Gioventù Studentesca (GS), con lo scopo di “[…] elaborare una propria proposta culturale per la crescita dall’interno e dal basso nel mondo giovanile e studentesco”.

La sigla attuale, Comunione e Liberazione (www.clonline.org), compare per la prima volta nel 1969. Nel 1982 il Pontificio Consiglio per i Laici lo riconosce come Associazione di fedeli di diritto pontificio. Essa sintetizza la convinzione che l’avvenimento cristiano, vissuto nella comunione, è il fondamento dell’autentica liberazione dell’uomo.

“L’originale intuizione pedagogica” di Cl come scrisse Giovanni Paolo II nella lettera a don Giussani, in occasione dei 50 anni del movimento celebratisi nell’ottobre del 2004, sta nel “riproporre (…) in modo affascinante e in sintonia con la cultura contemporanea, l’avvenimento cristiano, percepito come fonte di nuovi valori, capaci di orientare l’intera esistenza”.

In una lettera inviata al Santo Padre in vista di quelle celebrazioni, don Giussani affermò non solo di non aver “mai inteso ‘fondare’ niente” ma di vedere “il genio del movimento” nell’ “avere sentito l’urgenza di proclamare la necessità di ritornare agli aspetti elementari del cristianesimo, vale a dire la passione del fatto cristiano come tale nei suoi elementi originali, e basta”, dove “il cristianesimo si identifica con un Fatto – l’Avvenimento di Cristo -, e non con un’ideologia”.

Comunione e Liberazione, per la quale non è prevista alcuna forma di tesseramento, ma solo la libera partecipazione delle persone, ha come scopo l’educazione cristiana matura dei propri aderenti e la collaborazione alla missione della Chiesa in tutti gli ambiti della società contemporanea.

Strumento fondamentale di formazione degli aderenti al movimento è la catechesi settimanale denominata “Scuola di comunità”. La rivista ufficiale del movimento è il mensile internazionale “Tracce – Litterae Communionis” disponibile in undici lingue (italiano, inglese, spagnolo, brasiliano, portoghese, polacco, russo, francese e tedesco e, con diversa periodicità, anche in giapponese e ungherese).