Il sì del Cammino Neocatecumenale alla legge Tarzia

Intervista a Giampiero Donnini

ROMA, mercoledì, 1° dicembre 2010 (ZENIT.org).- Anche il Cammino Neocatecumenale, nato su iniziativa di Kiko Argüello, sostiene con entusiasmo la legge Tarzia affinché gli uomini e le donne possano davvero essere liberi di scegliere la vita.

Il Cammino Neocatecumenale, in quanto itinerario di iniziazione cristiana per la riscoperta della fede è diffuso ad oggi in più di 900 diocesi di 105 Nazioni, con oltre 20 mila comunità in 6.000 parrocchie.

Dalla voce di Giampiero Donnini, responsabile della Iª comunità neocatecumenale nata a Roma nel 1968 nella parrocchia dei Martiri Canadesi, abbiamo appreso le ragioni di questo sì alla proposta di legge regionale del Lazio di “Riforma e riqualificazione dei consultori familiari” presentata dalla Consigliera Olimpia Tarzia.

Cosa pensa della Legge Tarzia?

Giampiero Donnini: Penso che la proposta dell’on. Tarzia sia un’iniziativa encomiabile e da sostenere, anche alla luce del discorso fatto dal Santo Padre sabato scorso a S. Pietro in occasione della veglia per la vita nascente. “Esorto i protagonisti della politica, dell’economia e della comunicazione sociale a fare quanto è nelle loro possibilità – ha affermato il Papa – per promuovere una cultura sempre rispettosa della vita umana, per procurare condizioni favorevoli e reti di sostegno all’accoglienza e allo sviluppo di essa”.

Il Cammino Neocatecumenale è da sempre dalla parte delle famiglie. Basti ricordare il Family Day nel 2006 a S. Giovanni, da noi promosso. Una grande manifestazione di famiglie con tanti, tanti bambini. Questa apertura alla vita nasce da un incontro con Gesù Cristo, il quale ci dona il Suo amore in modo totalmente gratuito. Un amore effusivo che si dona ad altri tenendo presente che ogni figlio che nasce è l’inizio di un ramo di eternità che nasce nell’umanità. Per questo sosteniamo Olimpia!

Perché è così importante che venga attuata una riforma e una successiva riqualificazione dei consultori?

Giampiero Donnini: Partiamo dal presupposto che chi arriva al consultorio si trova in un momento di difficoltà e per questo va ancora di più aiutato e sostenuto. Il fatto è che la persona si trova di fronte ad una scelta e la scelta non è tra una cosa buona ed una cattiva, si sceglie tra due cose apparentemente buone. Ma le conseguenze sono ben diverse!

Le donne che hanno abortito non si perdonano più, ma restano “ferite” nell’anima. Solo l’amore di Gesù Cristo, che non giudica, sana queste ferite. Nella proposta di legge Tarzia si intende chiaramente e validamente rispettare la libertà vera delle famiglie, che è tale solo quando può essere esercitata unitamente ad una conoscenza completa della realtà delle scelte possibili; solamente dopo aver ricevuto un’informazione corretta e completa su ogni aspetto, la donna, la famiglia possono scegliere il loro personale agire con vera responsabilità umana.

La libertà di scegliere, si diceva, nasce da un’informazione corretta e completa. Proprio su questo aspetto della comunicazione della cultura della vita oggi c’è molto da fare. Cosa ne pensa?

Giampiero Donnini: Penso che proprio sabato scorso il Papa durante la veglia per la vita nascente ci abbia lanciato un messaggio molto chiaro. “Ci sono tendenze culturali che cercano di anestetizzare le coscienze con motivazioni pretestuose – ha affermato il Santo Padre -. Riguardo all’embrione nel grembo materno, la scienza stessa ne mette in evidenza l’autonomia capace d’interazione con la madre, il coordinamento dei processi biologici, la continuità dello sviluppo, la crescente complessità dell’organismo. Non si tratta di un cumulo di materiale biologico, ma di un nuovo essere vivente, dinamico e meravigliosamente ordinato, un nuovo individuo della specie umana”.

Proprio in forza di questo il Cammino Neocatecumenale conferma il suo sì all’amore per la vita, così strettamente legato all’amore per la libertà della persona; proprio in virtù di questi ideali, ribadiamo il nostro più attivo sostegno alla legge Tarzia e soprattutto al suo iter di approvazione, invitando soprattutto i più giovani a far parte di questo impegno comunitario al servizio della conoscenza, della corretta informazione, per la difesa della verità e del bene comune.

Il Papa ha ricevuto gli iniziatori del Cammino Neocatecumenale

Si è parlato delle iniziative per la nuova evangelizzazione dell’Europa

CITTA’ DEL VATICANO, martedì, 16 novembre 2010 (ZENIT.org).- Papa Benedetto XVI ha ricevuto sabato mattina in udienza privata gli iniziatori del Cammino Neocatecumenale, gli spagnoli Kiko Argüello e Carmen Hernández e il sacerdote italiano Mario Pezzi.

Secondo quanto ha confermato a ZENIT Álvaro de Juana, portavoce del Cammino Neocatecumenale in Spagna, uno dei temi trattati è stato quello della nuova evangelizzazione in Europa, un argomento al quale questa realtà ecclesiale ha sempre dato grande importanza.

“Il Pontefice si è mostrato in ogni momento molto contento per l’opera del Cammino Neocatecumenale”, ha affermato de Juana.

Gli iniziatori del Cammino hanno spiegato al Papa l’opera che i neocatecumenali svolgono da alcuni anni in città di Olanda, Germania e Francia – dove la presenza della Chiesa è a volte scarsa – mediante la missio ad gentes.

La missio ad gentes è una forma di evangelizzazione che consiste nella implantatio ecclesiae, cioè nell’invio di missionari volontari (in genere due o tre famiglie con i loro figli e accompagnate da un sacerdote) in luoghi decristianizzati, dove la Chiesa è già scomparsa o è sul punto di scomparire.

L’Esortazione Apostolica Verbum Domini, pubblicata di recente, allude alla necessità della missio ad gentes nel paragrafo 95, in cui i Padri sinodali ribadivano l’importanza che la Chiesa non si limiti “ad una pastorale di ‘mantenimento’”.

In questo senso, Kiko Argüello, che stato proprio uditore al Sinodo sulla Parola di Dio, ha spiegato come la pratica del Cammino si rifletta al punto 73 di questa Esortazione, quando si afferma che “è bene che nell’attività pastorale si favorisca anche la diffusione di piccole comunità, formate da famiglie o radicate nelle parrocchie o legate ai diversi movimenti ecclesiali e nuove comunità”.

Un altro dei temi trattati dal Papa e dagli iniziatori del Cammino Neocatecumenale è stata la prossima Giornata Mondiale della Gioventù di Madrid 2011.

Secondo quanto ha spiegato Argüello a Benedetto XVI, più di 200.000 giovani di questa realtà ecclesiale provenienti da tutto il mondo percorreranno itinerari di tutta Europa evangelizzando e realizzando missioni per 10 giorni.

Dopo aver partecipato agli atti della GMG di Madrid, assisteranno a un incontro con gli iniziatori del Cammino in cui ci si attende che migliaia di giovani esprimano la propria volontà di consacrarsi a Cristo.

“Questi giovani sono frutto della comunità cristiana e, in concreto, di piccole comunità radicate nella parrocchia e che salvano la famiglia”, ha sottolineato Argüello.

I rappresentanti neocatecumenali hanno infine comunicato l’avvio, su richiesta dei Vescovi locali, di tre nuovi seminari diocesani missionari Redemptoris Mater, a San Paolo (Brasile), Bruxelles (Belgio) e Trieste.

Con queste tre nuove fondazioni, i seminari Redemptoris Mater nel mondo diventano 78.

Queste realtà, dipendenti da ogni Vescovo locale e aperte su sua richiesta, hanno la vocazione specifica di formare sacerdoti per la missione in qualsiasi parte del mondo, in base alla spiritualità propria del Cammino Neocatecumenale.

Sette diaconi per la sfida missionaria

Nella basilica di San Giovanni in Laterano l’ordinazione di seminaristi del Redemptoris Mater, presieduta dal cardinale Agostino Vallini di Marta Rovagna

I frutti del carisma del Cammino neocatecumenale sono tangibili nelle vocazioni, molte, che fioriscono ogni anno: domenica sera (31 ottobre) sono sette i seminaristi del Redemptoris Mater che sono stati ordinati diaconi dal cardinale vicario Agostino Vallini. I giovani, che hanno dai 30 ai 37 anni, si sono formati presso il seminario neocatecumenale di Roma e presso quello di Goma, nella regione del Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo. Per tutti, dopo gli anni di studio, un periodo di vita come itineranti: un’esperienza di almeno un anno di evangelizzazione in missione, a sostegno di un sacerdote, di laiche consacrate o di famiglie.

«I seminari Redemptoris Mater nascono a supporto della missio ad gentes, voluta da Giovanni Paolo II – spiega monsignor Claudiano Strazzari, rettore del seminario – e in questo contesto la formazione dei seminaristi lascia ampio spazio anche all’educazione missionaria». I luoghi di missione sono i più diversi, «da luoghi lontani, ancora pagani – sottolinea don Claudiano – a luoghi scristianizzati, come in Europa centrale e orientale».

Per i seminaristi questa è un’occasione seria e importante di incontrarsi e scontrarsi con la povertà e con la Provvidenza di Dio. A raccontarlo è Jacob, uno dei sette nuovi diaconi, che si è formato al Redemptoris Mater di Goma e che è andato come itinerante nel Sud del Congo: «È stata un’esperienza molto forte – racconta il seminarista madrileno – sono stato in Katanga, una regione molto povera con una famiglia in missione, abbiamo evangelizzato e vissuto giorno dopo giorno sperimentando una grandissima povertà e precarietà. All’inizio questa condizione, che si vive anche a Goma, mi spaventava: troppe differenze, dal colore di pelle, di cultura, di razza. Tanta povertà e questo essere guardato continuamente come “bianco”. Pensavo di non farcela e avevo davvero paura. Ma in questa dimensione – ricorda Jacob – ho incontrato il Signore, molto da vicino. Sono ancora lì perché è lì che Dio mi è apparso come segno vivente». Accettare questa sfida per il seminarista spagnolo è stato aprirsi a una vita diversa e piena: «Studiare in Congo mi ha anche aiutato a riconciliarmi con la mia famiglia e con la mia storia: ero molto irrequieto quando sono entrato in seminario a 20 anni; ora, a quasi 30, sono grato a Dio di tutti i doni che mi ha fatto».

Non tutti i sacerdoti formati nei Redemptoris Mater partiranno per la missione: «Sarà il cardinale Vallini a scegliere la loro destinazione chiaramente – sottolinea don Claudiano – quasi tutti vivono infatti la loro prima esperienza di presbiterio incardinati nelle parrocchie romane. Nella Capitale, per coloro che sono già diventati sacerdoti, il Redemptoris Mater continua a offrire, accanto alla formazione permanente della diocesi, anche una formazione per coloro che hanno studiato e vissuto con noi da seminaristi». Un modo per condividere, respirare e rafforzare il proprio carisma, «quello suscitato dallo Spirito Santo – ricorda il rettore del seminario – nella Chiesa attraverso il Cammino neocatecumenale, un percorso di riscoperta del proprio battesimo che porta alla nascita e al fiorire di tante vocazioni» e che confluiscono nei vari seminari neocatecumenali, 78 in tutto il mondo.

L’esperienza di Paolo, romano di Tor Sapienza, è diversa: «Mi sono laureato in statistica – racconta il seminarista, oggi quasi 37enne – e ho iniziato a lavorare, con una carriera promettente per la quale mi spendevo tanto. Poi ho sperimentato la misericordia di Dio, il Signore ha lavorato dentro di me lentamente. Un giorno, mentre mi trovavo a Milano per lavoro ho iniziato a leggere “Le Confessioni” di Sant’Agostino, e ho cominciato a pensare a una vita diversa». Il percorso, lungo otto anni, non è stato facile: «Ogni anno scegliere di continuare il seminario è stato un combattimento – spiega Paolo – pian piano diversi amici sono usciti, si sono sposati e hanno avuto figli, io rimanevo, mi sembrava che non fosse la strada per me ma sentivo che il Signore mi chiamava a restare, giorno dopo giorno». Per Paolo, itinerante in Costa Rica e in Israele, la cosa più bella di questo percorso di formazione che si sta per concludere è un’opportunità unica da poter cogliere: «Quella di portare Gesù Cristo agli altri, e questo è possibile – conclude – grazie alla sua misericordia per me. Sono contentissimo perché avevo in mente un progetto di vita tutto diverso, il Signore ha stravolto completamente questi piani e ora sono davvero felice».

2 novembre 2010 da Romasette.it

In pace con Israele, in nome di Gesù.

La cittadella neocatecumenale affacciata sul lago di “Tiberiade”

Roma. “All’apertura della Domus Galilaeae moltissimi ebrei  hanno cominciato a visitarci e a tornare. Solo l’anno socrso ne sono passati più di centomila… Noi sentiamo che dobbiamo accoglierli e servirli come fratelli”. Lo ha detto, intervenendo al Sinodo sul medio oriente, padre Rino Rossi, dal 2003 responsabile della Domus Galilaeae, il centro per la formazione dei missionari del Cammino neocatecumenale che sorge sul Monte delle Beatitudini, non lontano dal lago di Tiberiade. Era stata benedetta nel 2000, mentre era ancora in costruzione, da Giovanni Paolo II, e da allora non ha mai smesso di essere un simbolo di amicizia tra il movimento fondato dallo spagnolo Kiko Argilello e il popolo ebraico (a partire dal progetto, opera dell’architetto di Haifa Dan Mochly e dell’argentino padre Daniel Cevilan). Al punto che alla Domus, affrescata dallo stesso Argüello, qualcuno ha ritenuto di dover rimproverare un eccesso di contaminazione, con l’esposizione di una Torah del XV secolo, del candelabro di Hanukkà, o per il canto-preghiera “Shemah Israel” che accoglie i visitatori.
Al Foglio, padre Rossi spiega che il Cammino neocatecumenale “è in contatto stretto sia con le chiese locali sia con la realtà ebraica, che ci ha offerto una buona accoglienza. Naturalmente è stata fondamentale la visita di Papa Wojtyla, e l’opportunità che ci fu data di organizzare la grande messa sul Monte delle Beatitudini, a fianco della Domus. Per la prima volta tutte le televisioni israeliane trasmisero una cerimonia cristiana di quell’imponenza, con più di centomila persone riunite”. I simboli ebraici nella Domus Galilaeae, spiega ancora padre Rossi, “dicono che dobbiamo andare alle nostre radici e mettere al centro la parola di Dio, come ha raccomandato il Concilio Vaticano II. Questo ci porta a riscoprire la nostra fondamentale connessione con il popolo ebraico e con le sue tradizioni. Gesù Cristo è ebreo e non possiamo capire la sua predicazione nel Nuovo testamento se non conosciamo l’Antico. Il Cammino neocatecumenale si inserisce nella scia del Concilio, e poi del magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI”.
E’ capitato qualche fraintendimento, racconta padre Rossi: “Alcuni arabi si sono scandalizzati per il decalogo di Mosè scolpito in ebraico su marmo all’ingresso della nostra biblioteca. Ma quello è un richiamo al momento cruciale che stiamo attraversando. La nostra cultura europea nasce da radici giudaico-cristiane, mentre oggi il nuovo ordine europeo vuole dimenticare quella radice, e cerca di introdurre norme che le sono completamente contrarie (sulla famiglia, per esempio). Il cammino della vita, rivelato da Dio sul Sinai con i dieci comandamenti, è stato ripreso da Gesù sul Monte delle Beatitudini, con quello che è il cuore della sua predicazione: il sermone della montagna”. In quella circostanza, conclude il responsabile della Domus Galilaeae, “Gesù riprende la Torah, non la abolisce ma la porta a compimento: amate coloro che vi odiano, ci dice. Nella Domus è stato messo in evidenza qualcosa che abbiamo in comune con l’ebraismo: il compito di realizzare quel contenuto, questione di vita o di morte per il mondo futuro”.

(da IL FOGLIO del 23/10/2010)

Chiara Luce Badano, “una ragazza dal cuore cristallino”

La prima beata del movimento dei Focolari

ROMA, domenica, 26 settembre 2010 (ZENIT.org).- Questo sabato migliaia di persone hanno partecipato al Santuario del Divino Amore, a Roma, al rito di beatificazione di Chiara Luce Badano, la giovane focolarina morta a 19 anni.

A priedere al rito a nome del Santo Padre davanti ai fedeli giunti da ogni parte del mondo e con i giovani in prima linea, l’Arcivescovo Angelo Amato, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi.

14 i Vescovi che hanno concelebrato tra cui quello di Cuba e della Tailandia e i Nunzi apostolici di Lituania e Giordania insieme al Cardinale Ennio Antonelli, Presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia. Rappresentati anche vari movimenti dall’Azione Cattolica, alla Comunità di Sant’Egidio, al Rinnovamento carismatico, agli Scout, a Schoenstatt.

“Una ragazza dal cuore cristallino”, ha definito Chiara Luce mons. Angelo Amato, nella sua omelia. “Una ragazza moderna, sportiva, positiva che in mondo ricco di benessere, ma spesso malato di tristezza e di infelicità ci trasmette un messaggio di ottimismo e di speranza”.

Il presule ha poi richiamato alcuni episodi semplici e quotidiani della sua vita a Sassello, densi però di una radicalità evangelica sorprendente: dalla merendina donata ai poveri, all’accoglienza del giovane disadattato e della signora emarginata, o ancora la testimonianza al bar con gli amici perché “non conta tanto parlare di Dio. Io lo devo dare con la vita”.

Monsignor Amato ha quindi ripercorso le tappe della malattia (un’osteosarcoma) che colpì la giovane Chiara a sedici anni e che in poco tempo la condusse alla morte.

“Non ho più le gambe e mi piaceva tanto andare in bicicletta, ma il Signore mi ha dato le ali”, disse dopo aver perso l’uso delle gambe.

“Soffriva, ma l’anima cantava – ha detto ancora monsignor Amato –. Rifiuta la morfina perché – diceva – ‘mi toglie lucidità e io posso offrire a Gesù soltanto il mio dolore’”.

“I giorni dell’esistenza terrena di Chiara – ha ricordato il Prefetto – furono giorni di carità donata a piene mani. Ella cambiò il dolore in gioia, le tenebre in luce, dando significato e sapore anche allo strazio del suo corpo debole. Nella malattia, ella si rivelò donna forte e sapiente: ‘Voi siete il sale della terra e la luce del mondo’”.

“La beata Chiara Badano è una missionaria di Gesù – ha continuato – , un’apostola del Vangelo come buona notizia a un mondo ricco di benessere, ma spesso malato di tristezza e di infelicità. Ella ci invita a ritrovare la freschezza e l’entusiasmo della fede”.

“L’invito a ritrovare l’entusiasmo della fede – ha detto il presule – è rivolto a tutti, ai giovani anzitutto, ma anche agli adulti, ai consacrati, ai sacerdoti. A tutti è data la grazia sufficiente per diventare santi”.

“Si tratta – ha sottolineato infine – di un segno concreto della fiducia e della stima che il Papa ha nei giovani, nei quali vede il volto giovane e santo della Chiesa”.

“E’ un momento storico, una conferma, da parte della Chiesa che la spiritualità dell’unità vissuta porta alla santità”, ha detto Maria Voce, attuale presidente dei Focolari. “E’ un nuovo impegno. Chiara Luce ci sprona a correre nella via della santità”.

Al termine della celebrazione un breve incontro di Maria Voce e dei genitori di Chiara Badano con la stampa.

“E’ stata un’emozione grandissima, abbiamo un’infinita riconoscenza a Dio per averci dato una figlia”, così ha detto la mamma, Maria Teresa. E a proposito dei genitori che si trovano a vivere la loro stessa situazione ha ribadito: “Sono momenti di grande dolore, ma la consolazione può arrivare solo da Dio. E’ stata la forza dell’unità a sostenerci, una forza che non viene dall’unità tra noi due ma dalla potenza dell’unità sprigionata da tutte le persone del movimento”.

Opus Dei, breve storia di un'esperienza spirituale per la Chiesa

Il 2 ottobre 1928, nostro Padre «vide» l’Opus Dei. Usò sempre il verbo «vedere», e l’evento fa parte del suo rapporto personalissimo con Dio. Tuttavia è centrale anche per noi e per la vita della Chiesa, perché la santità stessa di nostro Padre si struttura sul carisma di fondatore. Sappiamo che in quel giorno egli era a Madrid e stava facendo, in solitudine,  gli esercizi spirituali. Il tutto rientra, evidentemente, in un disegno provvidenziale.

L’atteggiamento del Padre, come egli stesso ebbe a dichiarare più volte, non fu mai quello di un giocatore di scacchi che, mentre fa una mossa, ha già previsto quelle successive: viveva in un sereno abbandono alla Volontà di Dio e cercava in tutti i modi di non ostacolarla con inutile precipitazione umana.
Si trasferì a Madrid, col permesso del suo ordinario, l’arcivescovo di Saragozza, per conseguire il dottorato in Diritto presso l’Università statale. Giunse definitivamente nella capitale il 20 aprile 1927 e, appena una settimana dopo, si iscrisse alla disciplina di Storia del diritto internazionale; poi, alla fine di agosto, a quella di Filosofia del diritto.

La svolta nei suoi programmi è rappresentata dalla fondazione dell’Opera: il 2 ottobre 1928 il Signore cambiò il corso della sua vita e gli fece vedere con chiarezza meridiana che la sua missione sulla terra consisteva nel fare l’Opus Dei. «Madrid è stata la mia Damasco», l’ho sentito talvolta esclamare con commossa gratitudine. Non so se egli giunse immediatamente alla conclusione di doversi stabilire in modo definitivo nella capitale, dove l’Opera era nata e dove le prospettive di sviluppo apparivano migliori. Fin dagli inizi ebbe l’autorizzazione ecclesiastica dell’Ordinario del luogo.

In quel 2 ottobre 1928 si dischiusero al fondatore gli orizzonti verso i quali il Signore, affidandogli l’Opus Dei, lo chiamava: una mobilitazione di cristiani che, in tutto il mondo, in tutti gli strati sociali, attraverso il loro lavoro professionale, svolto con libertà e responsabilità altrettanto personali, ricerchino la propria santificazione santificando nel contempo, dall’interno, tutte le attività temporali, in un potente slancio di evangelizzazione per ricondurre a Dio tutte le anime. È, con qualche decennio d’anticipo, il messaggio di rinnovamento della Chiesa voluto dal Concilio Vaticano II che ha proclamato la vocazione universale alla santità per la salvezza del mondo, con tutte le conseguenze pastorali che ne derivano e che delineano la funzione ecclesiale dell’Opus Dei finché, come diceva il fondatore, ci saranno sulla terra uomini che lavorano.

Con chi si confidò il fondatore, oltre, naturalmente, che con il suo confessore?
Ritengo che fra i primi ci fosse uno dei suoi professori dell’Università civile di Saragozza, don José Pou de Foxà, ordinario di Diritto canonico, molto noto in Spagna. In una lettera dei primissimi anni trenta, don José Pou gli scrisse: «Dimmi che cosa ti succede, perché ti trovo diverso. Scrivi sempre con molta gioia e vedo che sei sempre contento, ma sembri più riservato; ti succede qualcosa: hai qualche pena?». È probabile che nella risposta il Padre l’abbia messo a parte in qualche modo della sua vocazione divina; infatti, in una lettera successiva, don José Pou afferma che, in seguito alle notizie ricevute, capiva bene perché fosse così immerso nel Signore e anelasse compiere la sua Santissima Volontà; e aggiunge: «Tu dici di essere uno strumento inutile e inetto. Meno male che dici questo, perché altrimenti vorresti fare una cosa tua e non una cosa di Dio. Dal momento che ti trovi nella disposizione di considerarti inetto, Dio farà tutto e tutto sarà di Dio».
Il nostro fondatore non parlò con nessun altro della missione ricevuta dal Signore, a parte le persone che si avvicinavano all’Opera e, dopo la metà del 1930, il suo direttore spirituale che ebbe ad assicurargli molte volte: «Tutto questo è di Dio».

Non ne parla neppure in famiglia? Con la madre vivevano la sorella Carmen, di poco più di due anni maggiore di lui, e il piccolo Santiago, che nel 1928 aveva undici anni.

Soltanto nel 1934 il Padre parlò esplicitamente dell’Opera a sua madre e a sua sorella, alle quali non era sfuggito, malgrado le precauzioni del Padre, l’intensificarsi delle sue mortificazioni, segno evidente che qualcosa di importante era entrato nella sua vita. Me lo raccontarono loro stesse, e c’è anche una lettera del 20 settembre 1934 in cui egli racconta come si svolse il colloquio: «Dopo un quarto d’ora dal mio arrivo in questo paese (vi sto scrivendo da Fonz, anche se imbucherò questi fogli domani a Barbastro), parlai dell’Opera a mia madre e ai miei fratelli, a grandi linee. Quanto avevo importunato i nostri amici del Cielo in vista di questo momento! Gesù fece in modo che andasse tutto molto bene. Vi dirò, letteralmente, quello che mi risposero. Mia madre: “Va bene, figlio: ma non ti frustare, non ti sciupare”. Mia sorella: “Me l’immaginavo, e lo avevo detto alla mamma”. Il piccolo: “Se tu hai dei figli…, devono trattarmi con molto rispetto, perché io sono… il loro zio!”. Tutti e tre ritennero subito assolutamente naturale che il loro denaro venisse utilizzato per l’Opera. E — sia gloria a Dio! — con tanta generosità che, se avessero dei milioni, li darebbero ugualmente».

E il nome «Opus Dei» da dove viene?
Nei suoi primi appunti autobiografici il Padre, quando si riferiva alla fondazione, parlava sempre dell’«Opera» o dell’«Opera di Dio», ma non pensava ancora a un nome preciso. Qualche tempo dopo, si convinse dell’opportunità di questo nome. Il come è raccontato in una sua ampia relazione autografa del 14 giugno 1948, che riferisce un episodio avvenuto alla fine del 1930: «Un giorno andai a parlare con il p. Sànchez in un parlatorio della Residenza di via de la Flor; gli parlai delle mie cose personali (gli parlavo dell’Opera solo nella misura in cui riguardava la mia anima) e alla fine il buon p. Sànchez mi chiese: “Come va quest’Opera di Dio?”. Poi per strada cominciai a pensare: “Opera di Dio. Opus Dei! Opus, operatio… lavoro di Dio. Questo è il nome che cercavo!”. E in seguito si chiamò sempre Opus Dei».

Un giovane sacerdote con pochissimi mezzi, in una situazione politica di grande tensione che poi sarebbe deflagrata nella Guerra civile… L’Opus Dei è nata piccola, ma da sempre con apertura universale.

Ricordo benissimo, per esempio, che fin dall’inizio della mia vocazione, nel 1935, il Padre mi spinse a studiare il giapponese, come effettivamente feci, anche se con risultati poco incoraggianti. Aveva una predilezione particolare per l’Estremo Oriente e quando, finalmente, nel dopoguerra fu possibile iniziare stabilmente il lavoro dell’Opera laggiù, ne fu contentissimo. Quando giunse la prima lettera dei suoi figli dal Giappone, scrisse sulla busta: «La prima lettera dal Giappone! Sancta Maria Stella Maris, filios tuos adiuva!». Anche in seguito, quando sbrigava la corrispondenza, se arrivava una lettera dal Giappone egli apriva la busta e poi la metteva da parte. Tutte le altre lettere le ammucchiava e le leggeva dopo insieme a me. Ma la prima lettera che leggeva era sempre quella proveniente dal Giappone: i suoi figli giapponesi occupavano un posto speciale nel suo cuore, perché stavano in un Paese meraviglioso, con una lingua così difficile e nel quale la maggior parte della gente non conosce ancora Cristo.

Questo spirito universale si tradusse in pratica non appena le condizioni sociali lo permisero, cioè dopo la Guerra civile spagnola e, soprattutto, dopo la seconda Guerra mondiale. Il Padre stesso, con frequenti viaggi, preparò il terreno dell’espansione dell’Opera, e il seme attecchì rigogliosamente.
Ricordo solo un Paese in cui la preistoria fatta dal fondatore non fu seguita dall’avvio di un’attività apostolica stabile: la Grecia. Il Padre vi si recò nel 1966, assieme a don Javier Echevarrìa, a Javier Cotelo e a me. Egli desiderava impiantarvi quanto prima l’Opera e disseminò a piene mani il seme divino. Il 26 febbraio salpammo da Napoli. Ad Atene e a Corinto visitammo i luoghi in cui, secondo la tradizione, aveva predicato san Paolo. Il Padre non dette troppa importanza all’autenticità di quella tradizione popolare; al ritorno, infatti, spiegò: «II posto può essere o non essere quello; se non lo fosse, non ci guadagneremmo né ci perderemmo nulla. Ma, in fin dei conti, ci guadagna chi sa approfittarne per avvicinarsi di più a Dio. Lì abbiamo fatto una comunione spirituale e abbiamo pregato per la futura attività apostolica in Grecia. Se san Paolo è stato davvero lì, molto bene; e se non c’è stato, fa lo stesso: questo è secondario».

Vedemmo anche diverse chiese bizantine; a volte ci capitò di entrare durante una cerimonia liturgica, cui assistevano pochi fedeli, in gran parte donne. Il Padre pregò per quel popolo, separatosi dalla Chiesa cattolica. Andammo alla cattedrale cattolica e all’Università di Atene. Il 13 marzo facemmo ritorno a Roma.
In seguito però considerammo poco fattibile iniziare l’attività apostolica in Grecia, tra l’altro perché i cattolici erano una piccola minoranza. Il nostro fondatore commentò: «La mia impressione è che la possibilità umana di lavoro sia minima. È quasi tutto molto ridotto…; non so come dirlo: ma per lo Spirito Santo nulla è impossibile». Non abbandonò la speranza di potervi inviare alcuni figli suoi quando le circostanze fossero state più favorevoli. A questo proposito una volta disse: «L’attività apostolica non sarà facile, ma neppure difficile; sarà come dappertutto. Sarà frutto della preghiera, della mortificazione e del lavoro di tutti».

La spiritualità e i modi apostolici dell’Opus Dei coincidono con quelli del suo fondatore. Mi piacerebbe sentirli ribadire esplicitamente, anche in un elenco forzosamente incompleto.
L’elenco sarà senz’altro incompleto, perché la spiritualità dell’Opus Dei tende a realizzare «l’unità di vita», cioè l’unione di azione e di contemplazione, attraverso la pratica di tutte le virtù, umane e soprannaturali.
Nell’osservare la vita spirituale del fondatore rileviamo che il fondamento era costituito, come egli stesso disse più volte, dal senso della filiazione divina, che si traduce in un desiderio ardente e sincero, tenero e profondo insieme, di imitare Gesù Cristo quale fratello suo, figlio di Dio Padre. Lo spirito di filiazione lo portava a mantenersi sempre alla presenza di Dio, a vivere con una fede assoluta nella Provvidenza, a corrispondere serenamente e gioiosamente alla Volontà divina.

Se tutti, in qualsiasi situazione e condizione, siamo chiamati alla santità — e l’Opus Dei aiuta a prendere coscienza di questa realtà e a trarne le conseguenze — tutti siamo chiamati a partecipare della vita di Cristo. Pertanto, la vita del cristiano non può non essere incentrata sul Sacrificio eucaristico, in cui si realizza la massima unione possibile dell’uomo con Cristo.

La profonda percezione di tutta la ricchezza racchiusa nel mistero del Verbo Incarnato fu il solido sostegno della spiritualità del fondatore. Egli comprese che, con l’Incarnazione del Verbo, tutte le realtà umane oneste venivano elevate all’ordine soprannaturale: lavorare, studiare, sorridere, piangere, stancarsi, riposare, stringere amicizia, ecc, erano state altrettante azioni divine nella vita di Gesù Cristo; potevano quindi compenetrarsi perfettamente con la vita interiore e con l’apostolato: in una parola, con la ricerca della santità. Ecco perché in lui — e, grazie al suo esempio, in tante altre anime — lo sforzo per raggiungere la perfezione umana nel compimento dei propri doveri si trasformò, per opera della grazia, in preghiera, in cammino di santificazione, di esercizio di tutte le virtù soprannaturali e, allo stesso tempo, in fecondo servizio umano, in generoso impegno contro i nemici dell’anima.
Perciò svolse sempre le proprie mansioni con atteggiamento contemplativo: le offriva al Signore nell’iniziarle e nel terminarle, le costellava di giaculatorie; insomma, trasformava tutto in preghiera.

Come conseguenza e allo stesso tempo come fonte dell’unità di vita, egli alimentava ininterrottamente il senso della presenza di Dio e trasformava tutto il giorno in preghiera. Soleva spiegare, e l’abbiamo già ricordato, che l’arma dell’Opus Dei non è il lavoro, è la preghiera: per questo trasformiamo il lavoro in preghiera. Era un’anima contemplativa «nel bel mezzo della strada», come gli piaceva dire in italiano, anche quando parlava in un’altra lingua; affermava infatti che per un cristiano comune la cella è la strada. Prendeva spunto da qualunque avvenimento per elevarlo all’ordine soprannaturale e fame argomento del suo dialogo con Dio. Il suo piano di vita, inoltre, comprendeva ciò che egli chiamava norme di sempre, vale a dire alcune pratiche di pietà che scandivano, frequentissime, tutta la sua giornata e alimentavano l’intimità con il Signore: presenza di Dio, considerazione della propria filiazione divina, comunioni spirituali, atti di ringraziamento, atti di riparazione, giaculatorie, che si univano alle sue mortificazioni, allo studio, al lavoro, all’ordine, il tutto vissuto con la gioia di sapersi figlio di Dio.

La cura delle piccole cose costituisce un altro dei lineamenti basilari dello spirito del fondatore. Era meraviglioso che un cuore tanto grande, un’anima che seppe volare così in alto e fu protagonista di formidabili imprese divine riuscisse a immergersi con tutta la pienezza in ciò che — com’era solito dire — viene colto soltanto da una pupilla dilatata dall’amore.
Altri aspetti che completano la fisionomia spirituale del fondatore erano: una pietà dottrinale, alimentata dallo studio della Rivelazione e dalle pratiche personali di preghiera, di mortificazione e di penitenza; una tenera devozione per la Madonna, san Giuseppe, i santi Angeli custodi, i nostri Patroni e i nostri santi intercessori, per la Chiesa e per il Papa; e un autentico rispetto della legittima libertà degli altri.

Nella vita del nostro fondatore si univano l’orazione, la mortificazione — orazione dei sensi —, il lavoro e l’apostolato: quindi l’apostolato in lui era veramente, secondo una sua espressione, il traboccare della vita interiore. Sono testimone di come sfruttasse tutti i momenti e tutte le occasioni possibili per parlare di Dio; diceva di non volere e di non saper parlare d’altro.
Egli affermava che la parte più importante e più efficace dell’attività apostolica dell’Opera è costituita dall’apostolato svolto individualmente da ogni membro con l’esempio e con la parola, nelle relazioni che ciascuno intesse quotidianamente con i suoi amici e colleghi, nel proprio ambiente sociale, professionale e famigliare.

Con la Costituzione Apostolica Ut sit, del 28 novembre 1982, Giovanni Paolo II ha eretto l’Opus Dei in Prelatura personale. In conformità al carisma fondazionale, l’Opera è dunque riconosciuta dalla Chiesa come struttura giurisdizionale secolare, di carattere personale — cioè non territoriale —, costituita da un Prelato, dai sacerdoti incardinati nell’Opus Dei e dai laici. Con l’erezione in Prelatura, si è concluso il lungo iter giuridico che ha conosciuto diverse tappe: nel 1941 l’Opera fu approvata come Pia unione dal vescovo di Madrid; nel 1943 l’erezione diocesana della Società Sacerdotale della Santa Croce consentì l’incardinazione di sacerdoti provenienti dal laicato dell’Opera; con le approvazioni del 1947 e del 1950 come Istituto secolare di diritto pontificio venne assicurato il carattere internazionale adeguato all’espansione apostolica, dell’ Opera.
Come ha vissuto il fondatore, che non ha contemplato con occhi terreni la configurazione definitiva, questi diversi passaggi giuridici?

Nell’ordinamento canonico allora vigente non esisteva nessuna figura giuridica che potesse adattarsi a quello che il Signore voleva per l’Opera e neppure si intravvedeva una possibilità concreta di aprire nuove strade. Ecco perché all’inizio il fondatore non si affrettò a chiedere l’approvazione formale dell’autorità ecclesiastica: in quel caso, infatti, l’Opus Dei sarebbe stata incasellata in uno schema giuridico inadeguato. Il nostro fondatore, quindi, si limitò a mantenere l’Ordinario di Madrid sempre al corrente di tutto e a non fare nessun passo senza la sua venia e la sua benedizione.

La prima approvazione in scriptis risale al 1941 e fu in parte affrettata dalla terribile campagna di calunnie scatenatasi contro il fondatore alla fine della Guerra civile spagnola. Per stroncare quelle calunnie, don Leopoldo Eijo y Garay, vescovo di Madrid, che era già intervenuto ripetutamente a voce in difesa dell’Opus Dei e del suo fondatore, decise di far pesare tutta la propria autorità e, per dissipare gli equivoci, volle dare un’approvazione scritta all’Opera. A tal fine chiese al Padre di dargli una copia dei Regolamenti.
Fin dall’inizio il fondatore dell’Opus Dei fu restio a usare il termine di «Costituzioni» per parlare dei Regolamenti, degli Statuti o del Diritto particolare dell’Opera; infatti nel linguaggio ecclesiastico questo vocabolo era ormai consacrato dall’uso a designare la legislazione propria dei religiosi o dello stato di perfezione, mentre l’Opus Dei era una realtà ecclesiale completamente diversa.

Passarono alcuni mesi, ma il fondatore non si era ancora deciso ad accingersi alla stesura dei Regolamenti, come gli aveva chiesto il vescovo. Finché, ormai nel 1941, si accorse improvvisamente che, pur avendo sempre voluto obbedire con lealtà e delicatezza all’autorità ecclesiastica, ora proprio lui non stava obbedendo a don Leopoldo. Chiese subito un’udienza e, non appena fu ricevuto dal Prelato, gli disse: «Signor Vescovo, mi deve perdonare, perché le ho disobbedito senza rendermene conto. Vostra Eccellenza mi aveva detto di presentare la documentazione e io non l’ho fatto. Non l’ho fatto perché non mi sentivo spinto da Dio a farlo: temo che un’approvazione che non rispetti la natura teologica, ascetica e giuridica dell’Opus Dei possa essere causa di gravi danni. D’altronde, quando ho compreso che inconsciamente stavo opponendo una resistenza passiva a quest’approvazione, mi sono colmato di gioia: penso infatti che qualunque fondatore, nel vedere il proprio vescovo così ben disposto ad approvare la sua fondazione, si sarebbe affrettato a preparare i documenti e a presentarli. Io non l’ho fatto perché l’Opera non è mia, ma di Dio; e quando arriverà il momento di darle una veste giuridica, se non potrà essere Lei ad approvare l’Opera, l’approverà il suo successore». L’episodio mi è stato raccontato in questi termini dal fondatore in parecchie occasioni.

Tuttavia il vescovo insistette sulla necessità di dare un sostegno ufficiale all’Opera per difenderla dagli attacchi di cui era oggetto; così il Padre si sottomise alla volontà dell’Ordinario e poco dopo, il 14 febbraio 1941, presentò il testo dei Regolamenti perché l’Opera venisse riconosciuta come Pia unione.
È con questo atteggiamento di adesione alla Volontà di Dio che il fondatore accettò anche le successive configurazioni giuridiche dell’Opera, sapendo «concedere, senza cedere, con l’intenzione di recuperare».
Egli difese risolutamente il carisma fondazionale, pur obbedendo fedelmente all’autorità ecclesiastica, e la soluzione definitiva che è toccato a me portare a compimento come primo successore del fondatore, corrisponde perfettamente alle disposizioni che egli lasciò definite con ogni completezza.

La principale difficoltà che il fondatore dovette superare fu quella di far comprendere il carattere pienamente secolare dell’ Opera, che in nessun modo può essere confusa o assimilata agli ordini, alle congregazioni e alle associazioni religiose. E questo non per disistima verso i religiosi, ma semplicemente perché l’Opera è essenzialmente diversa dalle istituzioni religiose, senza alcuna pretesa esclusivistica.

Il nostro fondatore ha sempre amato, rispettato, e per quanto possibile aiutato i religiosi, predicando corsi di esercizi a religiosi e a religiose, incoraggiando le persone che gli chiedevano consiglio a seguire la vocazione religiosa se ne avevano i sintomi, e sempre prodigandosi per l’unità — che non significa uniformità — dell’apostolato, per la quale i membri dell’Opus Dei pregano quotidianamente.
Il Padre non era minimamente critico nei confronti di altre persone o istituzioni della Chiesa. Sin da quando lo conobbi, l’ho sentito ripetere spesso con parole più o meno simili: «Non muoverò mai nemmeno un dito per spegnere una fiamma che è stata accesa in onore di Cristo: non è compito mio. Se l’olio che arde non è buono, si spegnerà da sola».

Fra i mille episodi che potrei citare, mi viene in mente che verso il 1940 venne nella nostra casa di via Diego de Leon, a Madrid, una ragazza che aveva bisogno di una certa somma come dote per entrare in religione. Il Padre verificò la sincerità delle sue intenzioni e, dopo averne parlato con me, chiese a Isidoro Zorzano, che era l’amministratore, quanto denaro avevamo in cassa, poi lo diede tutto a quella futura novizia.
Del resto i religiosi autenticamente spirituali hanno sempre capito l’originalità pastorale dell’Opera. Per esempio suor Lucia, la veggente di Fatima, si adoperò per facilitare l’avvio della nostra attività apostolica in Portogallo, e ha sempre pregato per l’Opera. Nel 1972 il fondatore, accompagnato da me, andò a trovarla e quella volta suor Lucia gli regalò qualche migliaio di opuscoli contenenti alcune sue riflessioni sulla Madonna e sul Rosario: il Padre li diffuse con molta gioia.

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