da Baltazzar | Nov 29, 2011 | Benedetto XVI, Chiesa
Tratto dal sito Cultura Cattolica.it
Ho ricevuto questa lettera da un amico. La pubblico su CulturaCattolica. it perché ne condivido il contenuto
Cari amici di CulturaCattolica. it,
scrivo a voi perché ho trovato spesso sul vostro sito una chiarezza di giudizio e una assoluta fedeltà alla Chiesa e al suo magistero. E, in questi tempi, è una dote straordinaria. Di fronte a quello che accade, anche nella nostra cara Chiesa, a volte sorgono domande e perplessità.
Le notizie dei fatti che ci riguardano sembrano dare testimonianza e conferma di quanto recentemente diceva il Papa Benedetto XVI*, quando riconosceva che le persecuzioni nella Chiesa a volte hanno una radice all’interno della stessa.
Ho visto che avete commentato le parole di Enzo Bianchi, pronunciate in un recente incontro che si è tenuto nel comune di Rimini. Non c’è qui bisogno di riportarle, chi volesse ne può trovare una carrellata sul giornale “La Voce” dell’8 novembre di quest’anno. Incuriosito e stupito per quanto anche da voi affermato, e ricordando che tale Enzo Bianchi era uno dei firmatari della “lettera dei sessantatré teologi” che, nel 1989, era stata pubblicata anche dal settimanale “Famiglia Cristiana”, ho fatto una breve ricerca in Internet per schiarirmi un po’ le idee. In questo ho seguito il suggerimento dato da Benedetto XVI, a proposito della triste vicenda legata a Williamson, ed ecco che cosa ho trovato: innanzitutto mi ha colpito il fatto che molti dei firmatari sono stati e sono tuttora docenti nelle istituzioni cattoliche (compresi seminari e Università); poi ho riconosciuto il nome di Franco Giulio Brambilla, che, dopo essere stato vescovo ausiliare di Milano, ora è attualmente vescovo di Novara; non sto poi a dirvi tutti i nomi dei firmatari (che potrete ritrovare nel documento che chi invio in allegato).
Si potrà certo dire “peccato di gioventù”, oppure “acqua passata”. Si potrà parlare di un’epoca oramai superata dagli eventi successivi. A dire il vero tutto questo non mi convince affatto. Ricordo ancora lo stupore, e il dolore, e, in qualche modo, lo scandalo per aver letto questo documento non su una rivista specializzata ma su un settimanale che si rivolgeva a tutto il popolo cattolico dell’Italia, in particolare alle famiglie: nella mia educazione sono stato aiutato a guardare alla Chiesa, al magistero, e in particolare al Papa con un rispetto e una devozione che compete solo a loro per il mandato divino di Cristo.
Ho sempre aspettato una ritrattazione pubblica di quello scritto. Del resto Giovanni Paolo II era stato capace di “chiedere perdono” per gli errori di tanti cristiani e di tanti esponenti della Chiesa, anche autorevoli.
E invece nulla di tutto questo, non mi risulta una presa di posizione pubblica, che abbia avuto lo stesso rilievo dello scandalo suscitato. Sono tutti maestri nel chiedere al magistero della Chiesa di saper riconoscere i propri errori, chissà perché nessuno di costoro abbia mai fatto lo stesso: sarà forse perché non credono che questi siano stati errori, ma in qualche modo sia ancora la loro posizione, che ha loro consentito di essere presenti sulla stampa, intervistati e osannati, con posti di prestigio nella Chiesa stessa? E perché alcuni di loro figurano – come per esempio Enzo Bianchi – tra gli invitati al sinodo dei vescovi (come quello sulla parola di Dio), mentre altri nomi, sicuramente più fedeli al magistero della Chiesa, non sono stati neppure invitati? Esperti nella fede o esperti nella ribellione?
Mi aspetto da membri della Chiesa che hanno responsabilità apostoliche, da uomini religiosi che pubblicano testi sulla spiritualità cristiana, un atteggiamento coerente con la fede che professano, in particolare un serio riconoscimento del valore del magistero ecclesiale, una ritrattazione che ripari il danno fatto alla coscienza del popolo cristiano.
Siamo giustamente esigenti nei confronti di chi ha commesso gravi peccati che hanno distrutto la coscienza giovanile (è ovvio qui il riferimento ai troppi casi di pedofilia all’interno delle istituzioni ecclesiastiche), siamo ugualmente esigenti nei confronti di chi ha violato e scandalizzato la coscienza del popolo di Dio.
Ne va della verità della testimonianza.
Con amicizia.
[Lettera firmata]
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* «Quanto alle novità che possiamo oggi scoprire in questo messaggio, vi è anche il fatto che non solo da fuori vengono attacchi al Papa e alla Chiesa, ma le sofferenze della Chiesa vengono proprio dall’interno della Chiesa, dal peccato che esiste nella Chiesa. Anche questo si è sempre saputo, ma oggi lo vediamo in modo realmente terrificante: che la più grande persecuzione della Chiesa non viene dai nemici fuori, ma nasce dal peccato nella Chiesa e che la Chiesa quindi ha profondo bisogno di ri-imparare la penitenza, di accettare la purificazione, di imparare da una parte il perdono, ma anche la necessità della giustizia. Il perdono non sostituisce la giustizia. Con una parola, dobbiamo ri-imparare proprio questo essenziale: la conversione, la preghiera, la penitenza e le virtù teologali. Così rispondiamo, siamo realisti nell’attenderci che sempre il male attacca, attacca dall’interno e dall’esterno, ma che sempre anche le forze del bene sono presenti e che, alla fine, il Signore è più forte del male, e la Madonna per noi è la garanzia visibile, materna della bontà di Dio, che è sempre l’ultima parola nella storia.» [Martedì, 11 maggio 2010]
«In effetti, se pensiamo ai due millenni di storia della Chiesa, possiamo osservare che – come aveva preannunciato il Signore Gesù (cfr Mt 10, 16-33) – non sono mai mancate per i cristiani le prove, che in alcuni periodi e luoghi hanno assunto il carattere di vere e proprie persecuzioni. Queste, però, malgrado le sofferenze che provocano, non costituiscono il pericolo più grave per la Chiesa. Il danno maggiore, infatti, essa lo subisce da ciò che inquina la fede e la vita cristiana dei suoi membri e delle sue comunità, intaccando l’integrità del Corpo mistico, indebolendo la sua capacità di profezia e di testimonianza, appannando la bellezza del suo volto. Questa realtà è attestata già dall’epistolario paolino. La Prima Lettera ai Corinzi, ad esempio, risponde proprio ad alcuni problemi di divisioni, di incoerenze, di infedeltà al Vangelo che minacciano seriamente la Chiesa. Ma anche la Seconda Lettera a Timoteo – di cui abbiamo ascoltato un brano – parla dei pericoli degli “ultimi tempi”, identificandoli con atteggiamenti negativi che appartengono al mondo e che possono contagiare la comunità cristiana: egoismo, vanità, orgoglio, attaccamento al denaro, eccetera (cfr 3, 1-5). La conclusione dell’Apostolo è rassicurante: gli uomini che operano il male – scrive – “non andranno molto lontano, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti” (3, 9). Vi è dunque una garanzia di libertà assicurata da Dio alla Chiesa, libertà sia dai lacci materiali che cercano di impedirne o coartarne la missione, sia dai mali spirituali e morali, che possono intaccarne l’autenticità e la credibilità» [Martedì, 29 giugno 2010].
da Baltazzar | Nov 29, 2011 | Chiesa sofferente, Islam
Lo sfogo del vescovo di Faisalabad, in Pakistan, sul crescente fanatismo musulmano
ROMA, lunedì, 28 novembre 2011 (ZENIT.org) – “In Pakistan le minoranze sono sempre state svantaggiate, ma mai come in questo momento”. Lo sfogo, raccolto dall’organizzazione Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS), è del presidente della Conferenza episcopale del Pakistan, monsignor Joseph Coutts.
Come informa un comunicato stampa pubblicato oggi dalla nota associazione, il vescovo di Faisalabad (nella provincia del Punjab) si dichiara molto preoccupato per il crescente estremismo e la maggiore intolleranza nei confronti della comunità cristiana nel suo Paese.
“Siamo sempre stati discriminati, ma la nostra condizione non è mai stata così difficile”, ha dichiarato il presule, il quale chiede al governo del Pakistan che i cristiani siano finalmente trattati come “cittadini a pieno titolo” e che sia riconosciuto anche l’immenso contributo che essi danno alla società.
Come sottolinea il comunicato di ACS, i cattolici sono appena 1,2 milioni su un totale di 180 milioni di abitanti, ma è la Chiesa a gestire gran parte dei servizi sociali, educativi e sanitari e gli aiuti allo sviluppo. La sola diocesi di Faisalabad amministra 82 scuole, “strutture di cui beneficiano tutti i pakistani, qualunque sia la loro fede”, così ha ribadito mons. Coutts.
Le discriminazioni che subiscono i cristiani, anche in ambito lavorativo o scolastico, sono numerose. Non solo gli alunni non musulmani devono studiare su libri di testo che spesso alimentano l’odio interreligioso ma neppure possono usufruire dei crediti extra offerti a chi frequenta le lezioni di Corano per migliorare il loro voto.
“Poi nelle scuole – prosegue il vescovo – i ragazzi subiscono costanti pressioni affinché si convertano all’Islam come tutti i fedeli del resto. Io stesso ho ricevuto lettere in cui mi s’invitava ad abbandonare la mia religione”.
Nel nordovest del Pakistan, l’estremismo prende di mira anche la stessa maggioranza musulmana, come dimostrano i vari istituti femminili distrutti nel corso degli ultimi mesi, con l’obiettivo di ostacolare l’istruzione delle ragazze.
“Sono disposti a tutto, ad uccidere ed essere uccisi. E anche molti musulmani che non erano d’accordo con loro sono stati assassinati”, ha sottolineato mons. Coutts.
Ma questo non impedisce al vescovo di cogliere segni di speranza. “Gli estremisti – così ha concluso il vescovo di Faisalabad – non sono che una minoranza e a dispetto delle enormi difficoltà la Chiesa cattolica continuerà a promuovere servizi per il bene della società e ad impegnarsi per favorire il dialogo attraverso le buone azioni”.
da Baltazzar | Nov 29, 2011 | Chiesa, Liturgia
Dal Vangelo secondo Luca 10,21-24.
In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: «Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così a te è piaciuto.
Ogni cosa mi è stata affidata dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare».
E volgendosi ai discepoli, in disparte, disse: «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete.
Vi dico che molti profeti e re hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, ma non lo videro, e udire ciò che voi udite, ma non l’udirono».
COMMENTO di don Antonello Iapicca
La nostra piccolezza è la gioia del Signore. Molto di più: Lui esulta per il mistero di una rivelazione riservata ai piccoli. Questo Vangelo è un’autentica bomba. Sconvolge ogni criterio, azzera la sapienza della carne. Il Padre ha voluto rivelare ai pitocchi “queste cose”, i misteri del Regno, suo Figlio stesso, la Verità unica che fonda la vita, la storia, il passato, il presente, il futuro. A quelli che scorrono anonimi nella storia, quelli di cui nessuno si accorge, gli ultimi. Ad essi è rivelato il Regno dei Cieli. La beatitudine più grande, quella posta come incipit del Discorso della montagna: Beati i poveri perchè di essi è il Regno dei Cieli. Ai piccoli è concesso di vedere e udire quello che neanche ai Profeti e ai Re è stato dato. I piccoli vedono e ascoltano Cristo. E Lui esulta di gioia perchè si può donare totalmente a loro, che nulla hanno in questa vita, nulla.
Non si tratta solo di povertà economica. E’ l’assoluta indigenza spirituale, umana, affettiva, ancor prima che quella materiale. La piccolezza che al nascere ci accomuna tutti e contro la quale, in diversi modi, lottiamo senza tregua. Non possiamo accettare di essere disprezzati, non compresi, rifiutati. Ci è impossibile accettare d’essere quel che siamo, tutto intorno e dentro di noi ci spinge a superare i nostri limiti. Nessuno che ci abbia detto che proprio nell’indigenza e nella totale precarietà che ci definisce è nascosto il segreto dell’unica beatitudine. Il risultato è sotto i nostri occhi. A livello planetario come a livello familiare, come a quello della nostra personale esistenza. Della felicità, quella vera che nulla può togliere, non vi è traccia. Ma oggi, in questo inizio di Avvento, la gioia prorompente di Gesù vuole raggiungerci e contagiarci, assorbirci nella verità che ci può rendere davvero liberi. Piccolezza infatti è sinonimo di verità. Siamo piccoli, nudi e bisognosi di tutto: ci svegliamo dal sonno ed è esattamente come quando siamo nati. Fragili, incapaci di tutto, capaci solo di piangere e strillare. Ovvio che non si tratta delle capacità umane, dell’abilità nel lavoro, in cucina o dove sia. Siamo incapaci di amare al di là della morte, di offrire senza condizioni la nostra vita, di consegnarla a chi ci vuole male. “Senza di me non potete fare nulla”, e Gesù non scherzava.
Ma se non possiamo amare sino alla fine, oltre il limite imposto dalla carne, siamo morti, il veleno della corruzione sta già infettando le nostre cellule; chi non ama rimane nella morte scrive San Giovanni. La storia concreta che viviamo è il purissimo amore con il quale il Padre provvede alla nostra felicità; sì, proprio tutto quello che sembra distruggerci è invece la fonte della gioia incorrotta. E’ questa la bomba contenuta nelle parole di Gesù. I discepoli erano appena tornati dalla missione, inviati come pecore in mezzo ai lupi, nudi e senza denaro, alla mercè del mondo. Avevano annunciato il Vangelo, avevano portato agli uomini il Regno ricevuto in dono. Un Regno che non ha confini, la cui unica legge, l’unico alimento, l’unica atmosfera è l’amore infinito di Dio. Un Regno che viene dal Cielo, il destino ultimo di ogni uomo consegnato ai più piccoli e inutili uomini della terra. Al vederli tornare Gesù esulta nello Spirito santo. Così come esulta al nostro ritorno quotidiano dalle fatiche e dai travagli del lavoro, della scuola, della famiglia. Piccoli e indifesi siamo gettati nel mondo come neonati, perchè nel mondo appaia l’impensabile: un amore senza condizioni, donato e basta. L’unica verità, l’unico approdo, l’unica beatitudine.
Piccoli. Essere quello che siamo. A questo siamo chiamati! Senza artifici, mendicanti di tutto per poter vivere. Figli. Perchè piccoli. Cultura, idee, immaginazioni, ideali. Nulla, solo una “mediocrissima quotidianità”, la nostra vita di ogni giorno, nascosta alle cineprese dell’effimero, nota solo al Padre che vede nel segreto. La vita nascosta con Cristo in Dio, la vita nostra. I sospiri, le lacrime, i dolori, le ansie, le preoccupazioni, l’apparente inutilità di cose sempre uguali, la stessa fermata dell’autobus, le stesse scartoffie, gli stessi libri, gli stessi banchi al mercato. E partorire figli, educarli sui cammini della fede, lavorare per sostenerli, o restare legati ad una missione a volte impossibile, la fedeltà nascosta di ore consumate nell’ombra. Piccoli, inutili. Cuccioli bagnati ai lati delle strade delle storia.
Se questa è oggi la nostra realtà, rallegriamoci. Sono per noi i segreti di Dio, l’intimità preparata per chi non ha nulla di cui gioire e godere, la prossimità di chi, un “nulla” per il mondo, eredita ogni istante il Regno dei Cieli. Piccoli per stare nel cuore di Cristo, mite ed umile di cuore. Piccoli per esser ricolmi di Lui. E in Lui, ogni piccolezza, ogni evento che ci fa insignificanti, che ci nasconde alla platea della storia, che ci umilia, che ci rende poveri e mendicanti, ogni istante che ci fa piccoli è pura grazia, un dono del Cielo. Una carezza del Signore che ci fa, ogni vlta, più vicini, più Suoi. Ogni istante un passi in più sui sentieri del Cielo. E beati i nostri occhi, che vedono il Suo volto, l’unico capace di saziare ogni nostro desiderio, al di là d’ogni immaginazione.
Sant’ Alfonso Maria de’ Liguori, (1696-1787), vescovo e dottore della Chiesa
3° Discorso per la novena di Natale (Biblioteca IntraText, Novena del Santo Natale, III)
“Hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli”
Oh quanto dobbiamo più noi ringraziare Dio, che ci ha fatti nascere dopo la venuta del Messia! Quanti maggiori beni abbiamo ricevuto noi dopo la Redenzione fatta da Gesù Cristo! Quanto desiderò Abramo, quanto desiderarono i profeti, i patriarchi dell’antico testamento di veder nato il Redentore! ma non lo videro. Assordarono per così dire i cieli coi loro sospiri e colle loro preghiere. Esclamavano: «Piovete, o cieli, ed inviate a noi il Giusto!… Mandate l’Agnello Signore sulla terra» (Is 45,8; 16,1 Vulg)…; e così regnerà nei cuori degli uomini, che in questa terra vivono miseramente schiavi del demonio. Mostraci, Signore, la tua misericordia e donaci la salvezza» (Sal 84,8). «Dimostrate su presto a noi, o Dio delle misericordie, la più gran misericordia che voi ci avete già promessa, cioè il nostro Salvatore». Così dunque esclamavano e sospiravano i santi, ma con tutto ciò, per lo spazio di quattromila anni non ebbero la sorte di veder nato il Messia.
Noi sì abbiamo avuta questa fortuna. Ma che facciamo? come ce ne sappiamo avvalere? Sappiamo amare quest’amabile Redentore che già è venuto, che già ci ha riscattato dalle mani dei nostri nemici, ci ha liberati colla sua morte dalla morte eterna …, ci ha aperto il paradiso, ci ha fornito tanti sacramenti e tanti aiuti per servirlo ed amarlo con pace in questa vita e per andare poi a goderlo nell’altra… Troppo saresti ingrata al tuo Dio, anima mia, se non l’amassi, dopo che ha voluto essere legato dalle fasce, affinché tu fossi liberata dai lacci dell’inferno; dopo che si è fatto povero, per far te partecipe delle sue ricchezze, dopo che si è fatto debole, per dare a te la fortezza contro i tuoi nemici; dopo che ha voluto patire e piangere affinché le sue lacrime lavassero i tuoi peccati.
Benedetto XVI. Il Vangelo rivelato ai piccoli
Cari fratelli e sorelle,
le parole del Signore, che abbiamo ascoltato poc’anzi nel brano evangelico (Luca 10, 21 24), sono una sfida per noi teologi, o forse, per meglio dire, un invito a un esame di coscienza: che cosa è la teologia? che cosa siamo noi teologi? come fare bene teologia? Abbiamo sentito che il Signore loda il Padre perché ha nascosto il grande mistero del Figlio, il mistero trinitario, il mistero cristologico, davanti ai sapienti, ai dotti — essi non l’hanno conosciuto —, ma lo ha rivelato ai piccoli, ai nèpioi, a quelli che non sono dotti, che non hanno una grande cultura. A loro è stato rivelato questo grande mistero.
Con queste parole il Signore descrive semplicemente un fatto della sua vita; un fatto che inizia già ai tempi della sua nascita, quando i Magi dell’Oriente chiedono ai competenti, agli scribi, agli esegeti il luogo della nascita del Salvatore, del Re d’Israele. Gli scribi lo sanno perché sono grandi specialisti; possono dire subito dove nasce il Messia: a Betlemme! Ma non si sentono invitati ad andare: per loro rimane una conoscenza accademica, che non tocca la loro vita; rimangono fuori. Possono dare informazioni, ma l’informazione non diventa formazione della propria vita.
Poi, durante tutta la vita pubblica del Signore troviamo la stessa cosa. È inaccessibile per i dotti comprendere che questo uomo non dotto, galileo, possa essere realmente il Figlio di Dio. Rimane inaccettabile per loro che Dio, il grande, l’unico, il Dio del cielo e della terra, possa essere presente in questo uomo. Sanno tutto, conoscono anche Isaia 53, tutte le grandi profezie, ma il mistero rimane nascosto. Viene invece rivelato ai piccoli, iniziando dalla Madonna fino ai pescatori del lago di Galilea. Essi conoscono, come pure il capitano romano sotto la croce conosce: questi è il Figlio di Dio.
I fatti essenziali della vita di Gesù non appartengono solo al passato, ma sono presenti, in modi diversi, in tutte le generazioni. E così anche nel nostro tempo, negli ultimi duecento anni, osserviamo la stessa cosa. Ci sono grandi dotti, grandi specialisti, grandi teologi, maestri della fede, che ci hanno insegnato molte cose. Sono penetrati nei dettagli della Sacra Scrittura, della storia della salvezza, ma non hanno potuto vedere il mistero stesso, il vero nucleo: che Gesù era realmente Figlio di Dio, che il Dio trinitario entra nella nostra storia, in un determinato momento storico, in un uomo come noi. L’essenziale è rimasto nascosto! Si potrebbero facilmente citare grandi nomi della storia della teologia di questi duecento anni, dai quali abbiamo imparato molto, ma non è stato aperto agli occhi del loro cuore il mistero.
Invece, ci sono anche nel nostro tempo i piccoli che hanno conosciuto tale mistero. Pensiamo a santa Bernardette Soubirous; a santa Teresa di Lisieux, con la sua nuova lettura della Bibbia « non scientifica », ma che entra nel cuore della Sacra Scrittura; fino ai santi e beati del nostro tempo: santa Giuseppina Bakhita, la beata Teresa di Calcutta, san Damiano de Veuster. Potremmo elencarne tanti!
Ma da tutto ciò nasce la questione: perché è così? È il cristianesimo la religione degli stolti, delle persone senza cultura, non formate? Si spegne la fede dove si risveglia la ragione? Come si spiega questo?
Forse dobbiamo ancora una volta guardare alla storia. Rimane vero quanto Gesù ha detto, quanto si può osservare in tutti i secoli. E tuttavia c’è una « specie » di piccoli che sono anche dotti. Sotto la croce sta la Madonna, l’umile ancella di Dio e la grande donna illuminata da Dio. E sta anche Giovanni, pescatore del lago di Galilea, ma è quel Giovanni che sarà chiamato giustamente dalla Chiesa « il teologo », perché realmente ha saputo vedere il mistero di Dio e annunciarlo: con l’occhio dell’aquila è entrato nella luce inaccessibile del mistero divino.
Così, anche dopo la sua risurrezione, il Signore, sulla strada verso Damasco, tocca il cuore di Saulo, che è uno dei dotti che non vedono. Egli stesso, nella prima Lettera a Timoteo, si definisce « ignorante » in quel tempo, nonostante la sua scienza. Ma il Risorto lo tocca: diventa cieco e, al tempo stesso, diventa realmente vedente, comincia a vedere. Il grande dotto diviene un piccolo, e proprio per questo vede la stoltezza di Dio che è saggezza, sapienza più grande di tutte le saggezze umane.
Potremmo continuare a leggere tutta la storia in questo modo. Solo un’osservazione ancora. Questi dotti sapienti, sofòi e sinetòi, nella prima lettura, appaiono in un altro modo (lsaia 11,1-10). Qui sofìa e sìnesis sono doni dello Spirito Santo che riposano sul Messia, su Cristo. Che cosa significa? Emerge che c’è un duplice uso della ragione e un duplice modo di essere sapienti o piccoli.
C’è un modo di usare la ragione che è autonomo, che si pone sopra Dio, in tutta la gamma delle scienze, cominciando da quelle naturali, dove un metodo adatto per la ricerca della materia viene universalizzato: in questo metodo Dio non entra, quindi Dio non c’è. E così, infine, anche in teologia: si pesca nelle acque della Sacra Scrittura con una rete che permette di prendere solo pesci di una certa misura e quanto va oltre questa misura non entra nella rete e quindi non può esistere. Così il grande mistero di Gesù, del Figlio fattosi uomo, si riduce a un Gesù storico: una figura tragica, un fantasma senza carne e ossa, un uomo che è rimasto nel sepolcro, si è corrotto ed è realmente un morto. Il metodo sa «captare» certi pesci, ma esclude il grande mistero, perché l’uomo si fa egli stesso la misura: ha questa superbia, che nello stesso tempo è una grande stoltezza perché assolutizza certi metodi non adatti alle realtà grandi; entra in questo spirito accademico che abbiamo visto negli scribi, i quali rispondono ai Re magi: non mi tocca; rimango chiuso nella mia esistenza, che non viene toccata. È la specializzazione che vede tutti i dettagli, ma non vede più la totalità.
E c’è l’altro modo di usare la ragione, di essere sapienti, quello dell’uomo che riconosce chi è; riconosce la propria misura e la grandezza di Dio, aprendosi nell’umiltà alla novità dell’agire di Dio. Così, proprio accettando la propria piccolezza, facendosi piccolo come realmente è, arriva alla verità. In questo modo, anche la ragione può esprimere tutte le sue possibilità, non viene spenta, ma si allarga, diviene più grande. Si tratta di un’altra sofìa e sìnesis, che non esclude dal mistero, ma è proprio comunione con il Signore nel quale riposano sapienza e saggezza, e la loro verità.
In questo momento vogliamo pregare perché il Signore ci dia la vera umiltà. Ci dia la grazia di essere piccoli per poter essere realmente saggi; ci illumini, ci faccia vedere il suo mistero della gioia dello Spirito Santo, ci aiuti a essere veri teologi, che possono annunciare il suo mistero perché toccati nella profondità del proprio cuore, della propria esistenza.
Amen.
da Baltazzar | Nov 28, 2011 | Chiesa, Cultura e Società
di Antonio. Socci
Tramite il sito Lo Straniero, il sito web ufficiale di Antonio Socci
Dove sono finiti tutti i mistici dell’euro – economisti, giornalisti, politici, intellettuali – che dieci anni fa imperversavano su tutti i pulpiti per decantare le virtù taumaturgiche della moneta unica e “le magnifiche sorti e progressive” dell’Italia nell’euro?
Sarebbe interessante pure andarsi a rileggere gli scritti dell’attuale premier e dei tecnici che compongono la sua squadra di governo chiamata a evitare il disastro.
Io spero che ce la facciano, ma non ricordo che, a quel tempo, ci abbiano messo in guardia sull’euro. Anzi…
E dov’è finito il centrosinistra dei Ciampi, dei Prodi, dei D’Alema, degli Amato che da anni rivendica come proprio merito storico “l’aver portato l’Italia nell’euro”?
I post-comunisti per far dimenticare di essere stati antieuropei col Pci, quando si doveva essere europeisti, vollero primeggiare nello zelo sulla moneta unica sulla quale invece bisognava essere dubbiosi. Riuscendo così a sbagliare due volte.
D’altra parte la “religione dell’euro” non ammetteva dissidenti. Era un’ortodossia ferrea che rendeva obbligatorio cantare nel coro.
Dogma imposto
L’anticonformismo era considerato boicottaggio. Ricordate come venivano trattati da trogloditi o da reazionari provinciali i pochissimi che avevano l’ardire di esprimere dubbi sull’operazione euro?
Antonio Martino – per esempio – veniva giudicato un bizzarro mattocchio, un isolato. Il governatore di Bankitalia Antonio Fazio, per i suoi dubbi, era considerato uno che remava contro.
Eppure c’erano fior di paesi europei – come la Gran Bretagna – che nell’euro preferirono non entrare. Quindi i dubbi erano più che fondati. Ma in Italia non avevano neanche diritto di cittadinanza.
Gli italiani non hanno nemmeno potuto esprimersi con un voto. L’euro infatti era un dogma di fede e i dogmi non si discutono.
I cittadini italiani così hanno dovuto subire senza discutere una serie di stangate finalizzate alla moneta unica, un cambio lira/euro penalizzante, un micidiale raddoppio dei prezzi che li ha impoveriti tutti, la fine della crescita dell’economia nazionale (con annessa disoccupazione giovanile), il ribaltamento dall’attivo al passivo della bilancia dei pagamenti e – come premio per questo bagno di sangue – adesso addirittura la prospettiva infernale del fallimento (quando invece era stato promesso il paradiso).
Complimenti! Chi dobbiamo ringraziare? E’ vero che l’Italia non è stata virtuosa come doveva e questo è grave. Ma ormai è chiaro che il tema non è il crollo dell’Italia, ma quello dell’Europa dell’euro.
Per questo oggi l’operazione moneta unica, la follia costruttivista di imporre dal nulla una moneta inventata ai nostri popoli, è figlia di nessuno.
Di chi la colpa?
Sugli stessi giornali su cui ieri si alzavano inni all’euro, oggi tutti ammettono che è un’assurdità il creare una moneta senza avere dietro uno Stato, senza una banca nazionale, senza un governo federale, con politiche fiscali e monetarie contrapposte e senza nemmeno una lingua comune.
In effetti i popoli europei hanno una sola cosa in comune, il cristianesimo, ma le élite che hanno creato l’euro hanno visto bene di cancellare ogni riferimento ad esso in quel delirio che è la Costituzione europea: la moneta unica doveva soppiantare superbamente anche Dio, la storia e la cultura.
Ma, dicevo, oggi a quanto pare l’euro è figlio di nessuno. Ai pochi audaci che allora chiamavano “neuro” la nuova moneta, prendendosi il disprezzo delle caste dominanti, nessuno riconosce di aver avuto ragione. E nessuno fa autocritica.
Invita a farla, invece, un leale articolo di Guido Tabellini, rettore della Bocconi, che sul Sole 24 ore ha scritto: “Bisogna ammettere che abbiamo sbagliato”. Ma i politici che dicono?
D’altronde occorre riconoscere che i politici italiani sono stati solo – come sempre – truppe di complemento. La vera causa del disastro euro è il secolare e devastante conflitto fra Francia e Germania per l’egemonia sul continente europeo.
Infatti la moneta unica nacque come condizione della Francia di Mitterrand alla Germania di Kohl, per dare l’avallo all’unificazione. Se i tedeschi rinunciavano al marco, i francesi si illudevano di egemonizzare l’area euro.
In realtà i tedeschi posero tali condizioni capestro sulla moneta unica a tutti gli altri paesi che invece di europeizzare la Germania si è germanizzata l’Europa.
Cosicché oggi il leader tedesco Volker Kauder può proclamare: “finalmente l’Europa parla tedesco”. E’ un’esultanza miope, che non vede il baratro in cui l’inflessibilità germanica ci sta portando.
E non si venga a dire – come fa la Merkel – che le virtuose formiche tedesche non vogliono pagare i debiti delle irresponsabili cicale latine.
Perché il rigore del patto di stabilità che i tedeschi pretendono di applicare agli altri (insieme ai francesi) non lo applicano a se stessi: nel 2003 infatti sono stati proprio Germania e Francia a sforare sul disavanzo. Pretendendo che nessuno eccepisse.
Così come la Bundesbank è andata a comprare i bund invenduti alla recente asta, mentre proibisce che la Bce faccia altrettanto. Per gli altri le leggi si applicano, per se stessi si interpretano.
E’ così che l’euro si è risolto in un colossale affare per la Germania e in un disastro per tutti gli altri.
Napoleone e Hitler
Il fatto è che l’operazione euro è nata male. E’ nata infatti come ennesimo braccio di ferro fra Francia e Germania, come una prosecuzione della loro guerra con altri mezzi.
E’ da secoli che i due contendenti si combattono. Si potrebbero trovare le radici più antiche addirittura nella divisione del Sacro Romano Impero, col trattato di Verdun dell’843.
Ma è soprattutto dal XVI secolo che francesi e germanici si contendono l’impero e inseguono lo stesso ambizioso sogno: trasformare l’Europa in un proprio impero.
Nei tempi moderni ci provò Napoleone e poi ci ha riprovato Hitler. L’esito è stato la devastazione dell’Europa in entrambi i casi.
A questo ciclo di guerre durato almeno 400 anni – che chiamerei “le guerre d’irreligione”, perché sono conseguenti alla distruzione della koiné cattolica europea – vollero mettere fine, dopo il 1945, tre statisti, che non a caso erano cattolici praticanti, cioè Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi e Robert Schuman.
La Chiesa è la salvezza
Da loro nacque il pacifico progetto di unificazione europea, che in nome delle radici cristiane del continente, unico vero cemento dei nostri popoli, pose fine alle guerre imperiali franco-tedesche.
L’operazione euro invece va esattamente nella direzione opposta. Nasce dal rinnegamento di questa identità cristiana dell’Europa e segna la ripresa dell’ostilità fra Francia e Germania.
Sembra addirittura una replica della storia. Infatti la guerra della Francia alla Prussia del 1870, paradossalmente portò all’unione della Germania, così la guerra monetaria della Francia al marco, di venti anni fa, ha portato a un’Europa germanizzata. Complimenti ai galletti di Parigi.
Anche oggi come allora la ripresa della guerra franco-tedesca può portare solo alla catastrofe dell’Europa. A meno di un rinsavimento generale sull’orlo dell’abisso.
Forse l’unica voce che oggi potrebbe energicamente richiamare tutte le élite di governo (a partire da quella tedesca) al senso di responsabilità è quella del Papa, vero custode dello spirito europeo.
La sua intelligenza cristiana della storia ci può salvare perché il papa è un tedesco che ha meditato sulla tragedia in cui la Germania ha trascinato l’Europa nel 1939.
Benedetto XVI sa bene e insegna da anni che a produrre il nazismo non fu l’inflazione della repubblica di Weimar, come pensano la Merkel e la Bundesbank, ma fu una malattia spirituale e culturale che aveva radici più antiche e perverse.
E’ da quelle che occorre guardarsi, non dall’inflazione. Oggi la solidarietà fra tutti i paesi è la salvezza dell’Europa.
Il grande Adenauer diceva: “Signore, tu che hai posto un limite all’intelligenza dell’uomo, ponilo anche alla sua idiozia”. Vale per tutti.
da Baltazzar | Nov 28, 2011 | Chiesa, Liturgia
dal vangelo secondo Mt 8,5-11
In quel tempo, entrato Gesù in Cafarnao, gli venne incontro un centurione che lo scongiurava: “Signore, il mio servo giace in casa paralizzato e soffre terribilmente”. Gesù gli rispose: “Io verrò e lo curerò”. Ma il centurione riprese: “Signore, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto, dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito. Perché anch’io, che sono un subalterno, ho soldati sotto di me e dico a uno: Va’, ed egli va; e a un altro: Vieni, ed egli viene; e al mio servo: Fa’ questo, ed egli lo fa”.
All’udire ciò, Gesù ne fu ammirato e disse a quelli che lo seguivano: “In verità vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande. Ora vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli”.
IL COMMENTO di don Antonello Iapicca
La fede è alle porte di questo Avvento. La certezza di un appoggio sicuro, che basta una Parola per essere salvati. Una Parola e nulla più. La luce, il mondo, l’uomo, tutto è nato dalla forza creatrice della Parola scaturita dalle labbra di Dio. Siamo stati creati in Cristo, in Colui che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la vita in riscatto per molti; ma la realtà è che, nati per servire, giaciamo distesi in un letto d’impotenza. Il nostro cuore è malato, riconosciamolo, incapace d’amare e di servire. Anche se viviamo e facciamo le solite cose d’ogni giorno, siamo come paralizzati. E soffriamo terribilmente.
Forse vorremmo servire. Forse desideriamo che la nostra vita sia quella che Dio ha pensato, ma proprio non ce la facciamo. I ricordi, le sofferenze, le angosce, i tradimenti, la solitudine, la morte incontrata appena abbiamo tentato di donare qualcosa di noi; le delusioni, le attese tramutate in cocenti delusioni, ovunque, tra gli amici, sul lavoro, perfino in famiglia e nella Chiesa. L’esperienza di sofferenza e di morte del nostro essere più profondo ci ha paralizzati. Il passato di peccato pesa come un macigno. E ci ritroviamo soli.
L’Avvento, questo Avvento, coincide con la nostra vita concreta, con queste tenebre nelle quali siamo immersi; non abbiamo bisogno di fare chissà cosa, basta viverla così come ci è data; la sapienza della Chiesa ci viene incontro per annunciarci e ricordarci la verità, introducendoci in un Tempo Forte che ci strappi alle illusioni, per collocarci esattamente dove siamo: nella notte. E’ la storia stessa infatti che attende la luce: “Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto” (Rom. 8, 22). E ciascuno di noi è, nella storia, come chiuso nell’oscurità di un utero materno. Nel buio non si distingue nulla, ci si muove e si sbatte sui mobili, si rompono le cose, ci si ferisce, si può inciampare e cadere tramortiti. Le tenebre ci nascondono la realtà, rapiscono anche quanto abbiamo di più caro. Nel buio non vi è alcuna certezza, nulla a cui appoggiarci. E’ tenebra fitta la morte del padre o della madre, la perdita del lavoro, una relazione conflittuale con un figlio o con il coniuge; è buio una malattia, la precarietà economica, il fallimento di un progetto; è notte quella che ci abbraccia dopo averle tentate tutte per salvare una persona – perchè non divorzi, non abortisca, non si droghi – senza alcun esito. Sì, la libertà dell’altro che si fa peccato, è oscurità che ci inghiotte e ci lascia mezzi morti. Come quell’uomo che, scendendo da Gerusalemme e Gerico, incappa nei briganti che lo spogliano di tutto e quasi lo ammazzano. Come il servo del centurione, come ciascuno di noi oggi, aspettando, forse inconsapevolmente, l’incontro con Cristo risorto, la Luce di una sola sua Parola.
E’ iniziato l’Avvento, liturgia viva che diviene storia perchè questa sia trasformata in liturgia. “Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una gran luce” (Is. 9,2). Tu ed io siamo parte di questo Popolo immerso nel buio gemente e sofferente in attesa della luce, come nel seno benedetto della storia; l’Avvento è la vita nostra così come oggi ci è data, è un utero contratto, in tensione verso il parto. Il senso ultimo del dolore, del soffrire terribilmente, è nascosto in questo parto misterioso. Esso è immagine del dolore di Gesù nel Getsemani, l’angoscia che trasforma il sudore in sangue, l’agonia che descrive il limite tra la propria volontà e quella del Padre; la soglia tra le tenebre e la luce, tra la vita e la morte. In quel giardino sono riassunte tutte le agonie della storia. Ma quanto durerà questo nostro “passi da me questo calice”? Una settimana, un mese, dieci anni? Non sappiamo. Il peccato ci inchioda alle tenebre, solo la vittoria di Cristo può liberarcene. Solo il suo rinunciare a se stesso e alla sua volontà per compiere quella del Padre può salvarci. Solo il suo apparire risorto e vivo nella nostra vita, più forte delle porte sprangate, della notte che ci paralizza. “Pace a voi!”: l’Avvento è il seno che ci prepara ad ascoltare questo annuncio, lo stesso che, non a caso, gli angeli hanno trasmesso ai pastori nella notte di Betlemme. Pace a te, sono Io, ho vinto la morte, davvero! Sono proprio Io, guardami, tocca le mie piaghe, sono proprio quelle della croce! Dammi da mangiare di quello che hai preparato, la tua vita di oggi, la prendo Io, la faccio mia perchè questa vita mia ormai senza limiti, sia tua.
Per questo, alle porte di questo nuovo Avvento, la Chiesa ci pone dinanzi la figura di questo centurione, nel quale possiamo vedere ciascuno di noi. Egli ha incontrato il Signore, il Kyrios che, con una parola, ordina alla morte di far posto alla vita. Il centurione non rappresenta una fede magica; egli fa presente il cammino dentro il dolore e l’angoscia e l’approdo ad una certezza: quell’Uomo che aveva lì davanti che, non a caso, riconosce essere il Kyrios, il Signore. Esperto della struttura imperiale, sapeva che l’autorità conferiva il potere di comandare e farsi obbedire; subalterno del Caesar-Kyrios partecipava del suo potere. Nell’incontro con Gesù, dal profondo dell’angoscia, si fonda sulla propria esperienza per scongiurarlo di esercitare l’autorità ed il potere che gli riconosceva. Il centurione, pagano, ha percorso un cammino di conversione nella storia, ha sperimentato la sua impossibilità di fronte al male, pur avendo autorità e potere nella società. Il percorso che lo ha condotto ad incontrare un altro Kyrios, quel Rabbì galileo, e a consegnargli la sua vita per salvare quella del servo.
“Signore, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto, dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito”: è cosciente della sua indegnità, non fa parte del Popolo eletto, e sa che, per la Legge, quel rabbino non può contaminarsi ed entrare in casa sua. Ma, e qui appare la novità della fede, non si ferma a questo. L’amore per il suo servo, l’angoscia per la sua sofferenza, lo rende audace più di quanto non sia indegno. Ha a cuore la sorte del suo servo e questo lo spinge ad oltrepassare le barriere della Legge. Egli sa che Cesare, il Kyirios di Roma, può infrangere la Legge perchè ne è lo stesso autore: una sola parola e la Legge cambia. Questa è la fede del centurione! Quell’Uomo è un Kyrios ancora più potente, la sua Parola può compiere quello che per l’uomo è impossibile, perchè quella Parola è molto più della legge, è la vita stessa più forte della morte. Con il centurione possiamo, in questo tempo, imparare l’umiltà che sorge dalla verità: sono nella notte, ma ti ho visto ora qui di fronte a me, sei il Kyrios, il Signore che ha vinto la morte. Sei Tu l’unica certezza, so che una parola della tua bocca può accendere di vita eterna la mia vita spenta. Non sono degno che tu venga nella mia notte, ho dilapidato le sostanze e ora sono prostrato accanto ai porci, e non ho da mangiare se non i miei fallimenti. Non sono degno d’essere chiamato tuo figlio, non ho nessuna credenziale da mostrarti, nessun diritto per essere salvato se non Tu stesso, la tua parola, il tuo amore gratuito unica speranza.
Sappiamo che il professare che Gesù è il Signore costituisce il nucleo primitivo del Kerygma, della professione di fede più antica della Chiesa; lo attesta San Paolo: “Nessuno può dire che Gesù è il Signore se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Cor. 12,16); “Vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore. Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza” (Rm 10, 8-10). Il centurione, sotto l’azione dello Spirito Santo che lo ha guidato durante tutto il cammino verso Gesù, è ora come dinanzi alla piscina battesimale: ciò che ha imparato a credere nel cuore per “ottenere la giustizia” – per essere purificato – lo professa con le labbra per avere la salvezza del servo.
Ecco allora il cammino del centurione, immagine del catecumenato della Chiesa primitiva: il desiderio intriso d’amore lo ha spinto verso Gesù, come quello dei tanti pagani che si avvicinavano ai cristiani nel desiderio di “vivere come loro”. Ha sperimentato l’amore che lo ha accolto offrendosi di andare Egli stesso a casa sua, in un luogo impuro, e curare il servo malato; di fronte alla risposta inaspettata che rompe ogni schema legalistico, il centurione – a differenza degli scribi e dei farisei, che sbiadivano la fede in Israele – ne riconosce la novità, la grandezza e la speranza che porta con sé: quell’Uomo è disposto a sporcarsi con lui, con le sue cose, con i suoi peccati; quell’Uomo, uscendo da se stesso e non difendendo gelosamente i suoi diritti, vuole scendere nella sua tenebra. Quell’Uomo è Kyrios perchè può andare oltre la Legge, e dimostra il suo potere in una forma radicalmente diversa da quella di tutti gli altri signori: Gesù è tanto potente da mettere da parte il suo potere, da obbedire invece di farsi obbedire, da servire invece di farsi servire. “Io verrò e lo curerò!”: in queste parole è tracciata tutta l’esperienza del centurione, quella sconvolgente di un amore mai visto che lo spinge sino alla certezza, alla fede che gli illumina il cuore; solo un Kyrios così può salvare il mio sottoposto, solo chi si è fatto servo può raggiungere, toccare e sanare il mio servo. Solo un Dio che si è fatto uomo come ciascuno di noi ci può davvero salvare, strappare dalle tenebre e dalla morte: “Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch’egli ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Eb 2,11 ss).
Per questo il centurione può professare ora che Gesù è il Signore, perchè ha sperimentato che una sua sola parola ha il potere di cambiare l’esistenza. “Io verrò”: in questa parola Gesù lo ha amato così come egli è, lo ha conosciuto e lo ha perdonato, e per questo egli lo può riconoscere come Kiryos, e credere nel potere della sua parola. La stessa fede scaturita dal cuore della Maddalena all’incontrare Gesù risorto: “Maria!”, il suo nome pronunciato come nessuno ha mai fatto, un amore che scende e consuma ogni peccato, quella voce che sa di Cielo e misericordia, accende la sua voce nella professione di fede: “Mio Signore e mio Dio!”. Per questo, nelle tenebre che sembrano ingoiarci, siamo chiamati a sederci silenziosi, ad attendere Lui, quando voglia venire. Queste tenebre che ci avvolgono sono già il nostro cammino incontro a Lui, che è già vicino, nella stessa nostra oscurità. Gesù scende nell’impurità della nostra esistenza, è accanto a noi, basta aspettare che si riveli, scongiurare “maranhatà! Vieni Signore Gesù”.
La fede del centurione infatti sorge dalle tenebre di una vita pagana, vissuta lontana da Dio, senza Legge nè promesse. Il centurione è, sulla soglia di questo Avvento, immagine di ogni pagano che si avvicina a Cristo, che vede la Luce in mezzo alle tenebre ed è accolto a mensa, ammesso ai sacramenti e alla comunione della Chiesa. Il centurione è la profezia che oggi scende come un dono alla nostra vita, l’annuncio di speranza deposto nella nostra storia. Il servo che è in noi giace malato. E’ vero, non possiamo negarlo. Ma la sofferenza è un grembo fecondo che gesta la luce, come la notte è puntata verso l’aurora, come il sepolcro si apre sulla Pasqua, perchè, in Cristo, la morte è un Avvento di Vita.
Così anche un servo malato e paralizzato in un letto può alzarsi e tornare a servire al semplice pronunciarsi di una Parola, quella di Gesù. Così per te e per me oggi, anche se l’evidenza in noi e attorno a noi ci parla di schiavitù, di incapacità, di fallimenti. Di peccati e di morte. Anche se siamo segnati da catene più forti di noi che ci impediscono d’essere liberi di amare e servire, proprio oggi vi è una certezza che squarcia le tenebre. Questo Avvento ci consegna una possibilità: scongiurare il Signore, aspettando una sola Parola di Gesù. Scongiurare, così come ne siamo capaci, un gemito, come quello di un bimbo che sta lottando per venire alla luce. Un grido, forse in mezzo a mormorazioni e incertezze, forse balbettato, ma basta una parola – il gemito inesprimibile dello Spirito in noi – per sciogliere l’unica Parola capace di salvare e trasformare il nostro cuore. Non si tratta di cambiare le coordinate della storia, degli eventi o delle situazioni. No. La Parola, una Parola di Gesù, ha oggi il potere di farci uomini nuovi. Servi nel Servo, figli nel Figlio.
Sant’Efrem Siro (circa 306-373), diacono in Siria, dottore della Chiesa
Inni sul Paradiso, no. 5 ; SC 137, 76
«Tutta la creazione geme e soffre nelle doglie del parto… anche noi gemiamo interiormente aspettando la redenzione del nostro corpo» (Rm 8, 22-23)
La contemplazione del Paradiso mi ha rapito con la sua pace e la sua bellezza. Ivi dimora la bellezza senza macchia, ivi risiede la pace senza tumulto. Beato chi meriterà di riceverlo, se non per giustizia, almeno per bontà; se non a causa delle opere, almeno per pietà… Quando il mio spirito è tornato sulle rive della terra, madre delle spine, ogni sorta di dolori e di mali mi sono venuti incontro. Così ho capito che la nostra terra è una prigione. Eppure i prigionieri che vi sono rinchiusi piangono quando ne escono. Mi ha stupito anche il fatto che i bambini piangessero quando escono dal grembo materno: piangono mentre escono dalle tenebre per andare verso la luce, da uno spazio stretto verso la vastità dell’universo. Così la morte è per gli uomini come una specie di parto: coloro che muoiono piangono al lasciare l’universo, madre dei dolori, per entrare nel Paradiso di delizie. O tu, Signore del Paradiso, abbi pietà di me! Se non è possibile entrare nel tuo Paradiso, almeno rendimi degno dei pascoli che si stendono alla sua soglia. Al centro del Paradiso c’è la mensa dei santi; ma al di fuori, i frutti di tale mensa cadono come briciole per i peccatori che, anche da lì, vivranno della tua bontà.
San Bonaventura (1221-1274), francescano, dottore della Chiesa
Del Regno evangelico
«Molti verranno da Oriente e da Occidente e prenderanno posto al banchetto del Regno»
Il regno di Dio ha la grandezza di una carità senza limiti; se contiene uomini «di ogni tribù, lingua, popolo e nazione» (Ap 5,9), nulla vi si trova costretto e limitato, al contrario può ampliarsi e la gloria di ciascuno cresce. Ciò fa dire ad Agostino: «Quando in molti si rallegrano, la gioia di ognuno è più grande, perché s’infiammano gli uni gli altri». Questa ampiezza del Regno è espressa dalle parole della Scrittura: «Chiedi a me, ti darò in possesso le genti» (Sal 2,8); «Molti verranno da Oriente e da Occidente e sederanno con Abramo, Isacco e Giacobbe nel Regno dei cieli». Né tutti quelli che lo desiderano, né quelli che ci sono, né quelli che lo possiedono, né tutti quelli che arrivano renderanno più stretto lo spazio in questo Regno e non faranno torto a nessuno. Ma perché posso aver fiducia o sperare di possedere il regno di Dio? Certamente per la magnanimità di Dio che mi invita: «Cercate prima il Regno di Dio» (Mt 6,33). Per la verità che mi conforta: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo Regno» (Lc 12,32). Per la bontà e la carità che mi hanno riscattato: «Tu sei degno, Signore, di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione. E li hai costituiti per il nostro Dio un regno di sacerdoti e regneranno sopra la terra» (Ap 5,9-10).