da Baltazzar | Dic 1, 2011 | Chiesa, Liturgia
dal vangelo secondo Mt 7,21.24-27
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli.
Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia.
Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e la sua rovina fu grande”.
IL COMMENTO di don Antonello Iapicca
E’ vero. Ci piace, normalmente, parlarci addosso. E annegare chi ci sta intorno con fiumi di parole. Ci sembra che i nostri discorsi scolpiscano la nostra figura nella vita degli altri, ogni parola un colpo di scalpello nella memoria del prossimo, per essere considerati e amati. Nelle parole trasferiamo i sentimenti, le nostre idee, e ne facciamo gli ambasciatori del nostro io. Più spesso, riconosciamolo, le parole sono armi puntate alla tempia di chi ci si mette contro, o si risolvono in semplici contenitori di bugie, frottole gonfiate per difenderci o affermarci.
I Padri mettevano in guardia circa la possibilità molto concreta che gli annunciatori della Parola possano divenire megafoni di se stessi e delle proprie fobie. Cembali che tintinnano. E’ vero, la parola è uno strumento indifeso, è facilmente strumentalizzabile, gli usi possibili sono infiniti. Ma di fronte alla storia, alla cruda realtà della vita, ogni parola è costretta a rivelarsi per quello che è: menzogna o verità. Non basta dire, occorre che il detto abbia un contenuto, e che sia vero. Non basta gridare e affermare, occorre che le parole abbiano un fondamento nella vita vissuta, che siano “ragionevoli”, “sagge”, che si possano comprendere perchè dimostrabili. Che siano un annuncio o una testimonianza che sgorgano da un’esperienza. A tale proposito, parlando ai teologi, Benedetto XVI cita “una bellissima parola della Prima Lettera di San Pietro. In latino suona così: «Castificantes animas nostras in oboedentia veritatis». L’obbedienza alla verità dovrebbe “castificare” la nostra anima, e così guidare alla retta parola e alla retta azione. In altri termini, parlare per trovare applausi, parlare orientandosi a quanto gli uomini vogliono sentire, parlare in obbedienza alla dittatura delle opinione comuni, è considerato come una specie di prostituzione della parola e dell’anima. La “castità” a cui allude l’apostolo Pietro è non sottomettersi a questi standard, non cercare gli applausi, ma cercare l’obbedienza alla verità. E penso che questa sia la virtù fondamentale del teologo, questa disciplina anche dura dell’obbedienza alla verità che ci fa collaboratori della verità, bocca della verità, perché non parliamo noi in questo fiume di parole di oggi, ma realmente purificati e resi casti dall’obbedienza alla verità, la verità parli in noi. E possiamo così essere veramente portatori della verità” (Benedetto XVI, Omelia del 6 ottobre 2006).
Di fronte alla storia, alla cruda realtà della vita, ogni parola è costretta a rivelarsi per quello che è: menzogna o verità. Non basta dire, occorre che il detto abbia un contenuto, e che sia vero. Non basta gridare e affermare, occorre che le parole abbiano un fondamento nella vita vissuta, che siano “ragionevoli”, “sagge”, che si possano comprendere perchè dimostrabili. Che siano un annuncio o una testimonianza che sgorgano da un’esperienza. Quanto Benedetto XVI ha detto ai teologi, viene oggi annunciato a ciascuno di noi. Castificare l’anima per non cadere in una prostituzione della parola, per non venderci attraverso le parole. E, nel contesto del Vangelo di oggi, la questione si fa ancora più seria: si tratta di purificare il nostro essere per non cadere in un rapporto falso con il Signore. All’orizzonte si staglia il Giudizio, cui tutti siamo sottoposti giorno dopo giorno, momento dopo momento, sino a quello che ci attende l’ultimo giorno. Esiste la possibilità di vivere e parlare a Dio con un cuore di prostituta: venderci a Lui senza un briciolo d’amore. Pregare, compiere riti, spendere la vita nella missione, fare tutto nell’illusione di esserci consegnati a Lui, mentre ogni pensiero, ogni moto del cuore, ogni azione è un continuo difendersi per affermare se stessi. Non a caso le parole di Gesù giungono al termine del Discorso della Montagna: tutto quanto vi è in esso annunciato può divenire un terribile moralismo, impossibile da compiersi se non in un’ipocrita apparenza. Ogni parola pronunciata dal Signore esprime invece il contenuto del suo compimento: Gesù parla perchè ha obbedito, compiuto quanto afferma. Lui può dire “Abbà, Padre” perchè ha vissuto ogni istante nella sua intimità, obbedendo di cuore alla sua volontà. Gesù è Figlio perchè ama. Non ha ingannato, ha vissuto sempre la Verità di una vita consegnata, totalmente, a suo Padre. Per questo, nel Discorso della Montagna, si può vedere in filigrana la vita e l’essere stesso di Gesù: fondato sulla Roccia, pur investito dalla tempesta della morte, non è crollato, ma è risorto dalla tomba. Gesù è stato casto nell’anima e nella parola, non ha bluffato davanti al Padre, e dinanzi a ciascuno di noi. Non si è sottomesso agli standard del mondo, all’ipocrisia del dire e non fare per ottenere successo. “Ha fatto” e per questo “ha detto”.
Il liquido di contrasto d’ogni parola è infatti la volontà di Dio. Compiuta o non compiuta. Le menzogne hanno le gambe corte, non reggono il passo della storia. Una casa o è costruita sulla Roccia, sull’ascolto della Parola fatta carne che ha il potere di realizzarsi, o è costruita sulla sabbia, sui “vorrei ma ho tanto da fare, i buoi, il lavoro, lo studio, l’attività pastorale, la famiglia….”. La sofferenza, le difficoltà, la Croce, rivelano il valore delle nostre parole. E appare la nostra stoltezza. Nella storia si spogliano i nostri discorsi e si svelano le nudità. Carne o fumo. Se è Parola fatta carne, si entra nella storia, magari sbuffando, ma si entra. E si rimane lì, crocifissi, perchè è lì che c’è la vita e perchè è sulla croce che sta Cristo, vivo, e noi con Lui. Oppure è fumo, e un po’ di vento, la corrente d’aria d’un rimprovero, qualcosa che non va per il verso giusto, o un torrente in piena, una malattia, un fallimento e tutta l’impalcatura della nostra vita così soavemente pubblicizzata dalle nostre parole svanisce senza lasciar traccia, se non quelle della disperazione. Una rovina grande e le false certezze, le vuote speranze crollano senza rimedio.
La saggezza è fare la volontà di Dio. La parola “volontà” – in greco Thelema – è la traduzione di due termini ebraici: hapetz e ratzah. Sorprendentemente scopriamo che le due radici non rimandano a verbi quali “comandare imporre ordinare”, ma significano invece “compiacersi – provare gioia – desiderare ardentemente”. Compiere la volontà di Dio è allora l’incontro tra la gioia, il compiacersi e il desiderare ardentemente di Dio e dell’uomo. La volontà di Dio è il luogo dove si uniscono fecondamente la gioia del Padre e quella del Figlio. Si comprendono allora tante parole della Scrittura che assimilano la Torah e il suo compiersi alla gioia del pio israelita. E le parole di Gesù nelle quali esprime il suo ardente desiderio di mangiare la Pasqua con i discepoli, e la gioia esultante di fronte alla rivelazione dei misteri del Regno ai suoi piccoli discepoli. E’ la volontà del Padre che plana e si fa carne, e produce gioia, compiacimento, quello del Padre alla vita del Figlio che emerge dalle acque del battesimo, profezia del suo mistero pasquale culmine del compimento della sua volontà. Il Signore ha progetti di pace, non di sventura. Il Padre desidera ardentemente la gioia dei suoi figli! Castificare l’anima significa dunque immergersi nella gioia di Cristo, nella nostra piccolezza che ne è la ragione più pura. Non si tratta di gonfiare i polmoni e gridare “Signore, Signore!”; si tratta piuttosto di riconoscere la nostra impotenza, la debolezza e l’orgoglio che ci ferisce. Accettare la piccolezza indigente che ci consegna alla castità perfetta di Cristo. Entrare con Lui nel Getsemani di ogni giorno, casa, scuola, lavoro, e lasciarci “trascinare” nelle sue caste e obbedienti parole rivolte al Padre. Vivere ogni istante come dentro l’obbedienza di Cristo: ogni aspetto della nostra storia e del nostro essere è una parola di Gesù purificata e consegnata al Padre. Per questo Egli dice: ““Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno” (Gv 6,38-39). Ogni istante ci è dato come un frammento attraverso il quale Gesù ci possa custodire e deporre nell’eternità, senza tralasciare nulla. Tutto è santo, e contribuisce al bene, alla gioia, al compimento della nostra vita.
Ma è difficile. Impossibile agli uomini. I libri sapienziali abbondano di sentenze sulle vuote parole non accompagnate dai fatti. Ma è così naturale per noi, parlare è quasi già un agire, sembra che per aver detto qualcosa sia già come avere cominciato a realizzarlo. Ma non è vero. Ci illudiamo e basta. Per questo oggi appare un angelo nella nostra vita, lo stesso che visitò Maria nella casa di Nazaret: “Non temere, nulla è impossibile a Dio!”. E’ sufficiente sostituire la preghiera alle parole. Inginocchiarsi, come Maria, e rimettere la propria incapacità, la propria debolezza nelle mani del Padre. Come Gesù nell’orto degli ulivi. Siamo deboli, non possiamo, abbiamo altre volontà e altri desideri. Abbiamo paura. Ma Gesù ha pregato per tutti noi, perchè anche noi possiamo approfittare della Sua preghiera, delle Sue Parole. “Amici miei, non abbiate paura di puntare su Cristo! Abbiate nostalgia di Cristo, come fondamento della vita! Accendete in voi il desiderio di costruire la vostra vita con Lui e per Lui! Perché non può perdere colui che punta tutto sull’amore crocifisso del Verbo incarnato” (Benedetto XVI).
La parola di Gesù si compie oggi in noi. In Lui, che è stato solo sì al Padre, possiamo dire “amen”, e fondare la vita sulla Roccia del suo amore che ci attira e consegna a Dio come in un’offerta di soave odore: “Se non riesci a “osservare i comandamenti” non considerarti mai perso, non ti inacidire in modo moralistico o volontaristico. Più a fondo, più in basso della tua vergogna o della tua caduta c’è Cristo. Volgiti a lui, lascia che ti ami, che ti comunichi la sua forza. E’ inutile che ti accanisci in superficie: è il cuore che deve capovolgersi. Non devi cercare nemmeno innanzitutto di amare Dio, ti basta capire che Dio ti ama (O. Clèment). Oggi. Con Gesù e Sua Madre oggi possiamo prostrarci e implorare che si compia in noi secondo le Parole che Dio ha detto per noi. Che si realizzi la Sua volontà in noi. Si tratta solo di abbandonarsi al Signore attraverso Maria, nella Chiesa, in un cammino di pace, quella di chi fa la volontà di Dio. Gratuitamente, come un dono del Padre. Ai piedi di Gesù, castificati nella sua castità, obbedienti nella sua obbedienza, proseguiamo il nostro Avvento. Guardare al Padre con gli occhi di Cristo nella nostra anima e ripetere, senza timore, Sia fatta la tua volontà: “una preghiera di tal genere potrà liberarla dal profondo del cuore colui che crede aver Dio disposto tutte le cose di questo mondo per il nostro bene: gioie e dolori. Chi prega così deve credere che la Provvidenza divina ha più sollecitudini per la salvezza e il bene di coloro che ad essa si affidano, di quel che
non siamo solleciti noi per noi stessi (Agostino, Confessioni, 9.20).
Beato John Henry Newman (1801-1890), sacerdote, fondatore di una comunità religiosa, teologo
PPS, vol. IV, n° 22
« Per entrare nel regno dei cieli, bisogna fare la volontà del Padre mio »
Anno dopo anno, il tempo trascorre in silenzio ; la venuta di Cristo si fa sempre più vicina. Se soltanto potessimo avvicinarci a lui, come egli si avvicina alla terra ! O fratelli miei, pregatelo affinché vi dia il coraggio di cercarlo in tutta sincerità. Pregatelo perché vi renda ardenti… Pregatelo affinché vi dia ciò che la Scrittura chiama « un cuore buono e onesto », o « un cuore perfetto » (Lc 8, 15), e, senza aspettare, cominciate subito ad obbedirgli con il cuore disposto al meglio. L’obbedienza foss’anche minima vale più del non obbedire…
Dovete cercare il suo volto (Sal 27, 8) ; l’obbedienza è l’unico modo di cercarlo. Tutti i nostri doveri sono obbedienza… Fare ciò che egli domanda, questo è obbedirgli. E obbedirgli è avvicinarsi a lui. Ogni atto di obbedienza ci avvicina a lui che, malgrado le apparenze, non è lontano bensì vicinissimo dietro la realtà materiale nella quale viviamo ; la terra e il cielo sono soltanto un velo fra lui e noi ; verrà il giorno in cui egli strapperà questo velo e si mostrerà a noi. E allora a seconda del modo in cui l’abbiamo aspettato, ci ricompenserà. Se l’abbiamo dimenticato, non ci riconoscerà ; invece, « beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli » (Lc 12, 37). Tale sia la sorte di ognuno di noi ! È difficile giungere a questo, ma non giungervi è affliggente. La vita è breve, la morte è certa, e il mondo che viene è eterno.
da Baltazzar | Dic 1, 2011 | Benedetto XVI, Chiesa
Il messaggio di Benedetto XVI al patriarca di Costantinopoli, in occasione della festa di Sant’Andrea
CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 30 novembre 2011 (ZENIT.org) – A un mese di distanza dall’incontro ecumenico di Assisi, in occasione della festa liturgica di Sant’Andrea, papa Benedetto XVI ha inviato all’arcivescovo di Costantinopoli, Bartolomeo I, uno speciale messaggio di auguri.
Sant’Andrea è infatti il patrono del Patriarcato di Costantinopoli, e la consuetudine vuole che, sia nel giorno della festa di questo apostolo che in quella dei Santi Pietro e Paolo, la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli, inviino dei propri delegati nelle rispettive sedi a rendere i propri omaggi.
Oggi a Costantinopoli – dove ricorre anche il XX anniversario dell’elezione di Bartolomeo I ad arcivescovo e a patriarca ecumenico – la delegazione vaticana era guidata dal cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.
Il porporato era accompagnato da monsignor Brian Farrell, Segretario del Dicastero, e dal rev.do Andrea Palmieri, officiale della Sezione Orientale del medesimo Dicastero. Ad Istanbul, si è unito alla delegazione il Nunzio Apostolico in Turchia, monsignor Antonio Lucibello.
La Delegazione della Santa Sede ha preso parte alla solenne Divina Liturgia presieduta da Bartolomeo I nella chiesa patriarcale del Fanar, ed ha avuto un incontro con il Patriarca e conversazioni con la Commissione sinodale incaricata delle relazioni con la Chiesa cattolica.
Il cardinale Koch ha consegnato al Patriarca Ecumenico il messaggio autografo del Santo Padre, di cui ha dato pubblica lettura alla conclusione della Divina Liturgia, accompagnato da un dono. Il cardinale ha inoltre incontrato i rappresentanti della comunità cattolica locale e si è intrattenuto in una conversazione sull’ecumenismo con i religiosi e le religiose presenti in quella città.
“Continuo ad avere ben vivo nel cuore – ha scritto il Papa nel suo messaggio – il ricordo nel nostro ultimo incontro, quando ci siamo radunati insieme come pellegrini di pace nella città di Assisi, per riflettere sul profondo rapporto che unisce la sincera ricerca di Dio e della verità e quello della pace e della giustizia nel mondo”.
Le considerazioni del Santo Padre hanno toccato anche temi di stretta attualità. Le circostanze attuali di ordine politico, economico, sociale e culturale, ha dichiarato Benedetto XVI, “pongono di fronte cattolici ed ortodossi esattamente nella stessa sfida”, ovvero quella di annunciare il Vangelo, in special modo in quelle regioni “che oggi soffrono gli effetti di una secolarizzazione che impoverisce l’uomo nella sua dimensione più profonda”.
Cattolici ed ortodossi, dunque, devono dimostrare di aver conseguito una “maturità della fede” capace di unire “attraverso la ricerca comune della verità, nella consapevolezza che il futuro dell’evangelizzazione dipende dalla testimonianza di unità data dalla Chiesa e dalla qualità della carità”, ha proseguito il Papa.
Con riferimento al ventennale di patriarcato di Bartolomeo I, il Vescovo di Roma ha espresso “grande conforto” che la massima carica ecclesiale di Costantinopoli, nel corso di questo ventennio abbia “sempre avuto a cuore la questione della testimonianza del Chiesa e della sua santità nel mondo contemporaneo”.
Assicurando le proprie preghiere e quelle di tutta la Chiesa di Roma in particolare per “la pace nel mondo, la prosperità per la Chiesa e l’unità di tutti i credenti in Cristo”, Benedetto XVI ha auspicato che il Signore “ci doni di progredire sulla via della pace e della riconciliazione”.
da Baltazzar | Nov 30, 2011 | Chiesa, Liturgia
Dal Vangelo secondo Mt 4,18-22
In quel tempo, mentre camminava lungo il mare di Galilea, Gesù vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in mare, poiché erano pescatori. E disse loro: “Seguitemi, vi farò pescatori di uomini”. Ed essi subito, lasciate le reti, lo seguirono.
Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello, che nella barca insieme con Zebedeo, loro padre, riassettavano le reti; e li chiamò. Ed essi subito, lasciata la barca e il padre, lo seguirono.
IL COMMENTO di don Antonello Iapicca
Che cosa ha spinto Andrea, di cui oggi ricorre la festa, e Pietro, e Giacomo e Giovanni a lasciare barca, reti e padre e seguire subito il Signore, senza indugio alcuno? Subito. Non v’è stato tempo per riordinare le idee, per fare due calcoli, neanche per soppesare pro e contro di una scelta. Lasciare e partire. Lasciare e seguire. Che magnetismo negli occhi di Gesù. Poche parole, quelle giuste.
Gesù. Forse non c’è molto da pensare, da scandagliare per cercare di capire come realmente sia andata. C’era Gesù. E questo basta. Lui passava quel giorno lungo il mare di Galilea. Lui vide quegli uomini, quei ragazzi. Lui li chiamò. La Sua voce, il Suo sguardo. Per questo lasciarono tutto e lo seguirono. Perchè era Lui, il Signore Gesù. Solo Lui ha questo potere, solo nelle Sue parole c’è una forza così dirompente da esser capace di cambiare la vita nello spazio un istante. Solo Lui ama sino al più intimo d’ogni uomo. Solo Lui ha dato la vita per i Suoi carnefici. Solo nei Suoi occhi vi è la Misericordia infinita. L’amore senza condizioni. Gratuito.
E’ solo Lui che il nostro cuore attende davvero. Come il cuore di Andrea e dei suoi compagni. Sono tantissime le reti con le quali ogni giorno cerchiamo di sfangarla. Le gettiamo a carpire un affetto, un po’ di considerazione, a guadagnare un posto di lavoro e a difenderlo. Irretiamo e siamo presi nella rete. E reti di contatti, telefoni cellulari pieni di sms, brevi messaggi come reti gettate dal vuoto profondo delle nostre esistenze e dei nostri cuori.
La rete, non si chiama così quel pozzo senza fondo che, attraverso lo schermo di un computer, ci afferra sino a precipitarci nell’illusione d’essere in contatto col mondo intero? Internet, la rete, metafora della nostra vita, una piroetta virtuale che sfiora la realtà senza viverla realmente. Social networks, links, chat, maglie di una rete che ci rapisce il cuore, sottrae il tempo, evapora i profili, scolora le relazioni in una menzogna travestita di vuota pienezza. Giovani e meno giovani come pesci indifesi, pescati irrimediabilmente e sottratti all’acqua autentica della volontà divina. Sempre connessi, la rete ci insegue ovunque, e ne cadiamo vittime inconsapevolmente, tra computer di casa, e poi portatili, e poi tablet, e poi smartphone, sempre più piccoli, sempre più veloci, sempre con noi. Sempre connessi per dimenticare d’essere disconnessi dall’essenziale, dal vero, dal bello, dal buono. Sempre connessi eppure soli, ed il cuore lontano dall’unico link autentico, come tralci staccati dalla vite, dalla fonte della vita vera. L’illusione che basti un click per parlare, relazionarsi, forse anche amare; un secondo e i desideri si realizzano, ma solo si tratta di qualcosa di virtuale, non vi sono volti, mani, voci, storie. Tutto in un clik, dimenticando la fatica e il sudore dell’amore autentico, il sacrificio del donarsi, i chiodi che trafiggono il link eterno, l’amore che non può essere che crocifisso.
Irretiti ci sforziamo di irretire, esattamente come quando buttiamo ore ed energie a sporcare occhi, cuore e mente davanti ad un PC. Ma in fondo, in tutto questo gettar reti e riassettarle, si cela un unico desiderio, un grido come strozzato in gola da giornate di pesca quasi sempre grame. Sempre più soli con le nostre debolezze, con i nostri peccati, insopportabili alla società e a chi ci sta intorno. E nostro padre, come il padre di Andrea, sempre lì accanto a noi, immagine e segno della nostra storia, del nostro passato, spesso un peso che ci distrugge.
E, su tutto, lo sguardo di Gesù. Sui nostri fallimenti. Sulle nostre sofferenze. Sul nostro cuore e sulle nostre mani che ancora stringono una rete, la nostra unica speranza di vita. Le Sue Parole, quelle che abbiamo aspettato da sempre. “Seguimi, ti farò pescatore di uomini”. Come dire: “Ti conosco, non temere, sono qui per farti libero, per dare senso alla tua vita, per rimettere ordine, per farti essere ciò per cui ti ho creato. Ti amo, infinitamente”. Gesù passa nella nostra vita, dove oggi ci troviamo. E ci ama. Infinitamente. Esattamente dove siamo. Di un amore che ci trasforma, che ci fa capaci di amare, di perdere la vita per gli uomini, di gettare tutto di noi per “pescare” anche un solo uomo. Gesù passa e la sua voce spegne ogni altra voce; il suo sguardo spegne il computer, e ci attira irresistibilmente staccandoci dalle maglie maligne della rete che ci ruba l’anima. Lui passa e riscatta la nostra esistenza, ci ama e ci fa uomini veri. Ci ridona dignità, ci fa liberi. Ci fa felici. Ci colma di quello che abbiamo sempre desiderato, di ciò che, pur facendo di tutto, non abbiamo mai ottenuto.
Lui è l’atteso del nostro cuore; la barca, le reti, nostro padre, seppur importanti, ci hanno preparato all’incontro con Lui. Ogni vita è santa e meravigliosa, ma è data per preparare ogni uomo all’Incontro con il Signore. Quando appare Lui non resta altro che seguirlo. Sono state fin troppo lunghe le giornate, gli anni lontani da Lui. Sulla Parola di Gesù gettare oggi la nostra vita. Senza guardarsi indietro, senza ripensamenti, con una gioia infinita che ti accompagna tutti i giorni che verranno, anche quelli più duri, a Gerusalemme, sulla Croce. Lui ci ama e ci fa sentire amati, perdonati. Realmente, profondamente. Il suo amore fa nuove tutte le cose. Senza disprezzare nulla di ciò che siamo, come Andrea, pescatore, ha continuato ad essere un pescatore, ma ormai trasfigurato, un’altra qualità, un altro senso, la sua natura al servizio di qualcosa di più grande. Così noi, tutto quello che siamo, carattere, parole, debolezze, capacità, nella sua chiamata tutto si trasfigura, acquisisce un senso che colma e sazia; tutto quello che è stato messo al servizio della nostra povera carne offerto per qualcosa di più grande, l’amore che cerca la felicità dell’altro. La sua chiamata porta a perfezione tutto quello che ci appartiene facendo di ogni istante della nostra vita un angolo di eternità. Anche oggi, anche ora. E le reti lasciate sulla barca, come un computer abbandonato e disconnesso, per entrare nella vita vera.
Basilio di Seleucia ( ?-circa 468), vescovo
Discorso a lode di Sant’Andrea, 2-3 ; PG 28, 1103 ; attrib. a Sant’Atanasio
Il primo discepolo del Signore
Andrea è stato il primo a riconoscere il Signore come suo maestro… Il suo sguardo ha percepito la venuta del Signore, e ha lasciato l’insegnamento di Giovanni Battista per farsi discepolo di Cristo… Giovanni Battista aveva detto : « Ecco l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo » (Gv 1,29). Ecco colui che libera dalla morte ; ecco colui che distrugge il peccato. Io sono stato inviato non come lo Sposo, bensì come colui che lo accompagna (Gv 3,29). Sono venuto come servo e non come maestro.
Spinto da queste parole, Andrea lascia il suo maestro di prima e corre verso colui che gli era stato annunciato…, trascinando con sè Giovanni l’evangelista. Tutti e due lasciano la lampada (Gv 5,35) e camminano verso il Sole… Riconosciuto il profeta di cui parlava Mosè dicendo : « A lui darete ascolto » (Dt 18,15), Andrea conduce a lui suo fratello Pietro. Mostra a Pietro il suo tesoro : « Abbiamo trovato il Messia (Gv 1,41), colui che desideravamo ; vieni ora a gustare la sua presenza ». Non ancora apostolo, egli conduce suo fratello a Cristo… Questo è stato il suo primo miracolo.
Riconoscere Cristo. Luigi Giussani
Da una meditazione tenuta durante gli Esercizi spirituali degli universitari di CL nel dicembre del 1994.
Ma quei due, i primi due, Giovanni e Andrea – Andrea era molto probabilmente sposato con figli – come hanno fatto a essere così conquisi subito e a riconoscerlo (non c’è un’altra parola da dire, diversa da riconoscerlo)? Dirò che, se questo fatto è accaduto, riconoscere quell’uomo, chi era quell’uomo, non chi era fino in fondo e dettagliatamente, ma riconoscere che quell’uomo era qualcosa di eccezionale, di non comune – era assolutamente non comune –, irriducibile ad ogni analisi, riconoscere questo doveva essere facile. Se Dio diventasse uomo, venisse tra di noi, se venisse ora, se si fosse intrufolato nella nostra folla, fosse qui tra noi, riconoscerlo, a priori dico, dovrebbe essere facile: facile riconoscerlo nel suo valore divino. Perché è facile riconoscerlo? Per una eccezionalità, per una eccezionalità senza paragone. Io ho davanti una eccezionalità, un uomo eccezionale, senza paragone. Cosa vuol dire eccezionale? Cosa vorrà dire? Perché ti fa colpo l’eccezionale? Perché senti «eccezionale» una cosa eccezionale? Perché corrisponde alle attese del cuore tuo, per quanto confuse e nebulose possano essere. Corrisponde d’improvviso – d’improvviso! –, alle esigenze del tuo animo, del tuo cuore, alle esigenze irresistibili, innegabili del tuo cuore come mai avresti potuto immaginare, prevedere, perché non c’è nessuno come quell’uomo. L’eccezionale, cioè, è, paradossalmente, l’apparire di ciò che è più naturale per noi.
Che cos’è naturale per me? Che quello che desidero avvenga. Più naturale di questo! Che quello che più desidero più avvenga: questo è naturale. Scontrarsi con qualcosa di assolutamente e profondamente naturale, perché corrispondente alle esigenze del cuore che la natura ci ha dato, è una cosa assolutamente eccezionale. È come una strana contraddizione: ciò che accade non è mai eccezionale, veramente eccezionale, perché non riesce a rispondere adeguatamente alle esigenze del cuore. S’accenna alla eccezionalità quando qualcosa fa battere il cuore per una corrispondenza che si crede di un certo valore e che il giorno dopo sconfesserà, che l’anno dopo annullerà.
È l’eccezionalità con cui appare la figura di Cristo ciò che rende facile il riconoscerlo. Bisogna immaginarsi, l’ho detto, occorre immedesimarsi in questi avvenimenti. Se si pretende di giudicarli, se si vuole giudicarli, non dico capirli, ma giudicarli sostanzialmente, se veri o falsi, è la sincerità della tua immedesimazione che rende vero il vero e non falso, e non rende dubitoso il tuo cuore del vero. È facile riconoscerlo come ontologia divina perché è eccezionale: corrisponde al cuore, e uno ci sta e non andrebbe mai via – che è il segno della corrispondenza col cuore –. Non andrebbe mai via, e lo seguirebbe tutta la vita. E infatti lo seguirono gli altri tre anni che lui visse.
Ma immaginate quei due che lo stanno a sentire alcune ore e poi dopo devono andare a casa. Lui li congeda e se ne tornano zitti, zitti perché invasi dall’impressione avuta del mistero sentito, presentito, sentito. E poi si dividono. Ognuno dei due va a casa sua. Non si salutano, non perché non si salutino, ma si salutano in un altro modo, si salutano senza salutarsi, perché sono pieni della stessa cosa, sono una cosa sola loro due, tanto sono pieni della stessa cosa. E Andrea entra in casa sua e mette giù il mantello, e la moglie gli dice: «Ma, Andrea, che hai? Sei diverso, che ti è successo?». Immaginate lui che scoppiasse in pianto abbracciandola, e lei che, sconvolta da questo, continuasse a domandargli: «Ma che hai?». E lui a stringere sua moglie, che non si è mai sentita stretta così in vita sua: era un altro. Era un altro! Era lui, ma era un altro. Se gli avessero domandato: «Chi sei?», avrebbe detto: «Capisco che son diventato un altro… dopo aver sentito quell’individuo, quell’uomo, io sono diventato un altro». Ragazzi, questo, senza troppe sottigliezze, è accaduto.
Non solo è facile riconoscerlo, fu facile riconoscerlo nella sua eccezionalità – perché «se non credo a quest’uomo non credo più neanche ai miei occhi» –, ma fu facile anche comprendere che tipo di moralità, cioè che tipo di rapporto da Lui nascesse; perché la moralità è il rapporto con la realtà in quanto creata dal mistero che l’ha fatta, è il rapporto giusto, ordinato con la realtà. Fu facile, fu a loro facile comprendere quanto fosse facile il rapporto con Lui, il seguirlo, l’esser coerenti con Lui, l’esser coerenti alla sua presenza – coerenti alla sua presenza –.
Sant’Andrea, l’apostolo dei Greci. Benedetto XVI
14 giugno 2006
Cari fratelli e sorelle, nelle ultime due catechesi abbiamo parlato della figura di san Pietro. Adesso vogliamo, per quanto le fonti permettono, conoscere un po’ più da vicino anche gli altri undici apostoli.
Pertanto parliamo oggi del fratello di Simon Pietro, sant’Andrea, anch’egli uno dei Dodici. La prima caratteristica che colpisce in Andrea è il nome: non è ebraico, come ci si sarebbe aspettato, ma greco, segno non trascurabile di una certa apertura culturale della sua famiglia. Siamo in Galilea, dove la lingua e la cultura greche sono abbastanza presenti. Nelle liste dei Dodici, Andrea occupa il secondo posto, come in Matteo (10,1-4) e in Luca (6,13-16), oppure il quarto posto come in Marco (3,13-18) e negli Atti (1,13-14). In ogni caso, egli godeva sicuramente di grande prestigio all’interno delle prime comunità cristiane.
Il legame di sangue tra Pietro e Andrea, come anche la comune chiamata rivolta loro da Gesù, emergono esplicitamente nei Vangeli. Vi si legge: “Mentre Gesù camminava lungo il mare di Galilea vide due fratelli, Simone chiamato Pietro e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in mare, perché erano pescatori. E disse loro: ‘Seguitemi, vi farò pescatori di uomini'” (Matteo 4,18-19; Marco 1,16-17).
Dal Quarto Vangelo raccogliamo un altro particolare importante: in un primo momento, Andrea era discepolo di Giovanni Battista; e questo ci mostra che era un uomo che cercava, che condivideva la speranza d’Israele, che voleva conoscere più da vicino la parola del Signore, la realtà del Signore presente. Era veramente un uomo di fede e di speranza; e da Giovanni Battista un giorno sentì proclamare Gesù come “l’agnello di Dio” (Giovanni 1,36); egli allora si mosse e, insieme a un altro discepolo innominato, seguì Gesù, colui che era chiamato da Giovanni “agnello di Dio”. L’evangelista riferisce: essi “videro dove dimorava e quel giorno dimorarono presso di lui” (Giovanni 1,37-39). Andrea quindi godette di preziosi momenti d’intimità con Gesù.
Il racconto prosegue con un’annotazione significativa: “Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: ‘Abbiamo trovato il Messia, che significa il Cristo’, e lo condusse a Gesù” (Giovanni 1,40-43), dimostrando subito un non comune spirito apostolico.
Andrea, dunque, fu il primo degli apostoli ad essere chiamato a seguire Gesù. Proprio su questa base la liturgia della Chiesa Bizantina lo onora con l’appellativo di Protóklitos, che significa appunto “primo chiamato”. Ed è certo che anche per il rapporto fraterno tra Pietro e Andrea la Chiesa di Roma e la Chiesa di Costantinopoli si sentono tra loro in modo speciale Chiese sorelle. Per sottolineare questo rapporto, il mio predecessore papa Paolo VI, nel 1964, restituì l’insigne reliquia di sant’Andrea, fino ad allora custodita nella Basilica Vaticana, al vescovo metropolita ortodosso della città di Patrasso in Grecia, dove secondo la tradizione l’aapostolo fu crocifisso.
Le tradizioni evangeliche rammentano particolarmente il nome di Andrea in altre tre occasioni che ci fanno conoscere un po’ di più quest’uomo.
La prima è quella della moltiplicazione dei pani in Galilea. In quel frangente, fu Andrea a segnalare a Gesù la presenza di un ragazzo che aveva con sé cinque pani d’orzo e due pesci: ben poca cosa – egli rilevò – per tutta la gente convenuta in quel luogo (cfr Giovanni 6,8-9). Merita di essere sottolineato, nel caso, il realismo di Andrea: egli notò il ragazzo – quindi aveva già posto la domanda: “Ma che cos’è questo per tanta gente?” (ivi) – e si rese conto della insufficienza delle sue poche risorse. Gesù tuttavia seppe farle bastare per la moltitudine di persone venute ad ascoltarlo.
La seconda occasione fu a Gerusalemme. Uscendo dalla città, un discepolo fece notare a Gesù lo spettacolo delle poderose mura che sorreggevano il Tempio. La risposta del Maestro fu sorprendente: disse che di quelle mura non sarebbe rimasta pietra su pietra. Andrea allora, insieme a Pietro, Giacomo e Giovanni, lo interrogò: “Dicci quando accadrà questo e quale sarà il segno che tutte queste cose staranno per compiersi” (Marco 13,1-4). Per rispondere a questa domanda Gesù pronunciò un importante discorso sulla distruzione di Gerusalemme e sulla fine del mondo, invitando i suoi discepoli a leggere con accortezza i segni del tempo e a restare sempre vigilanti. Dalla vicenda possiamo dedurre che non dobbiamo temere di porre domande a Gesù, ma al tempo stesso dobbiamo essere pronti ad accogliere gli insegnamenti, anche sorprendenti e difficili, che Egli ci offre.
Nei Vangeli è, infine, registrata una terza iniziativa di Andrea. Lo scenario è ancora Gerusalemme, poco prima della Passione. Per la festa di Pasqua – racconta Giovanni – erano venuti nella città santa anche alcuni Greci, probabilmente proseliti o timorati di Dio, venuti per adorare il Dio di Israele nella festa della Pasqua. Andrea e Filippo, i due apostoli con nomi greci, servono come interpreti e mediatori di questo piccolo gruppo di Greci presso Gesù. La risposta del Signore alla loro domanda appare – come spesso nel Vangelo di Giovanni – enigmatica, ma proprio così si rivela ricca di significato. Gesù dice ai due discepoli e, per loro tramite, al mondo greco: “È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’Uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (12,23-24).
Che cosa significano queste parole in questo contesto? Gesù vuole dire: Sì, l’incontro tra me ed i Greci avrà luogo, ma non come semplice e breve colloquio tra me ed alcune persone, spinte soprattutto dalla curiosità. Con la mia morte, paragonabile alla caduta in terra di un chicco di grano, giungerà l’ora della mia glorificazione. Dalla mia morte sulla croce verrà la grande fecondità: il “chicco di grano morto” – simbolo di me crocifisso – diventerà nella risurrezione pane di vita per il mondo; sarà luce per i popoli e le culture. Sì, l’incontro con l’anima greca, col mondo greco, si realizzerà a quella profondità a cui allude la vicenda del chicco di grano che attira a sé le forze della terra e del cielo e diventa pane. In altre parole, Gesù profetizza la Chiesa dei greci, la Chiesa dei pagani, la Chiesa del mondo come frutto della sua Pasqua.
Tradizioni molto antiche vedono in Andrea, il quale ha trasmesso ai greci questa parola, non solo l’interprete di alcuni Greci nell’incontro con Gesù ora ricordato, ma lo considerano come apostolo dei Greci negli anni che succedettero alla Pentecoste; ci fanno sapere che nel resto della sua vita egli fu annunciatore e interprete di Gesù per il mondo greco. Pietro, suo fratello, da Gerusalemme attraverso Antiochia giunse a Roma per esercitarvi la sua missione universale; Andrea fu invece l’apostolo del mondo greco: essi appaiono così in vita e in morte come veri fratelli – una fratellanza che si esprime simbolicamente nello speciale rapporto delle Sedi di Roma e di Costantinopoli, Chiese veramente sorelle.
Una tradizione successiva, come si è accennato, racconta della morte di Andrea a Patrasso, ove anch’egli subì il supplizio della crocifissione. In quel momento supremo, però, in modo analogo al fratello Pietro, egli chiese di essere posto sopra una croce diversa da quella di Gesù. Nel suo caso si trattò di una croce decussata, cioè a incrocio trasversale inclinato, che perciò venne detta “croce di sant’Andrea”. Ecco ciò che l’Apostolo avrebbe detto in quell’occasione, secondo un antico racconto (inizi del secolo VI) intitolato “Passione di Andrea”: “Salve, o Croce, inaugurata per mezzo del corpo di Cristo e divenuta adorna delle sue membra, come fossero perle preziose. Prima che il Signore salisse su di te, tu incutevi un timore terreno. Ora invece, dotata di un amore celeste, sei ricevuta come un dono. I credenti sanno, a tuo riguardo, quanta gioia tu possiedi, quanti regali tu tieni preparati. Sicuro dunque e pieno di gioia io vengo a te, perché anche tu mi riceva esultante come discepolo di colui che fu sospeso a te. O Croce beata, che ricevesti la maestà e la bellezza delle membra del Signore! Prendimi e portami lontano dagli uomini e rendimi al mio Maestro, affinché per mezzo tuo mi riceva chi per te mi ha redento. Salve, o Croce; sì, salve davvero!”.
Come si vede, c’è qui una profondissima spiritualità cristiana, che vede nella Croce non tanto uno strumento di tortura quanto piuttosto il mezzo incomparabile di una piena assimilazione al Redentore, al chicco di grano caduto in terra. Noi dobbiamo imparare di qui una lezione molto importante: le nostre croci acquistano valore se considerate e accolte come parte della croce di Cristo, se raggiunte dal riverbero della sua luce. Soltanto da quella Croce anche le nostre sofferenze vengono nobilitate e acquistano il loro vero senso.
L’apostolo Andrea, dunque, ci insegni a seguire Gesù con prontezza (cfr Matteo 4,20; Marco 1,18), a parlare con entusiasmo di Lui a quanti incontriamo, e soprattutto a coltivare con Lui un rapporto di vera familiarità, ben coscienti che solo in Lui possiamo trovare il senso ultimo della nostra vita e della nostra morte.
da Baltazzar | Nov 30, 2011 | Chiesa sofferente, Testimonianze
L’arcivescovo di Bombay rende omaggio alla religiosa uccisa lo scorso 15 novembre
ROMA, martedì, 29 novembre 2011 (ZENIT.org) – Suor Valsa John, la missionaria uccisa in India due settimane fa (leggi articolo correlato: http://www.zenit.org/article-28686?l=italian) è stata omaggiata dall’arcivescovo di Bombay.
Il Cardinale Oswald Gracias, che è anche presidente della Conferenza Episcopale Indiana, ha descritto suor Valsa come una persona “senza paura”, dotata di “coraggio e fede, che ha donato la propria vita al servizio del Vangelo”.
La cinquantaduenne Valsa John, appartenente all’ordine delle suore della Carità di Gesù e Maria, è stata assassinata lo scorso 15 novembre, quando circa 50 persone hanno fatto irruzione nella sua abitazione nel villaggio di Pachruwara, nello stato di Jharkhand, tirandola letteralmente giù dal letto ed aggredendola con una falce e altri strumenti acuminati.
Suor Valsa difendeva i diritti delle popolazioni tribali residenti nel distretto di Pakur, facendo campagna contro la requisizione delle loro terre e la loro cessione alle compagnie del carbone operative nella zona.
In un’intervista all’agenzia di stampa dell’associazione Aiuto alla Chiesa che Soffre il cardinale Gracias ha affermato: “Siamo molto fieri di suor Valsa”.
Parlando dopo la sua visita nello stato di Kerala, nel sud-ovest dell’India, dove ha incontrato gli amici e la famiglia di suor Valsa, il porporato ha detto che la religiosa appariva “del tutto prova di paura” e che “aveva detto alla famiglia delle minacce contro di lei ma non per questo lei si era scoraggiata”.
Parlando del suo forte impegno nella chiesa cattolica siro-malabrese, il cardinale ha aggiunto: “Suor Valsa aveva fede in Nostro Signore e nella gente”.
Pochi giorni dopo l’assassinio della religiosa, la polizia ha arrestato sette persone, presumibilmente legate a gruppi di estremisti maoisti attivi nella regione.
Tuttavia, alcuni ambienti cattolici dello Jharkhand nutrono il sospetto che i leader del business del carbone siano implicati nell’omicidio, nonostante a presenza dei suddetti maoisti nella scena del delitto.
Alcuni notabili dell’industria del carbone si erano scontrati con suor Valsa che aveva vigorosamente difeso le popolazioni locali.
A tal proposito il cardinale Gracias ha detto ad ACS: “Pare che i maoisti siano stati accusati ma ci sono altri indizi che suggeriscono che l’industria di carbone locale sia coinvolta”.
Ciononostante “non dobbiamo fare considerazioni affrettate – ha proseguito il cardinale -. Dobbiamo dare alla polizia il tempo e lo spazio necessari per portare avanti le indagini. Speriamo che la situazione sia chiarita nel giro di pochi giorni”.
L’arcivescovo di Bombay ha affermato che ci sono “punti interrogativi” sulla gestione del caso da parte delle forze dell’ordine, aggiungendo però, che “in nessun modo condanniamo l’operato della polizia: è troppo importante che si arrivi con rapidità alla risoluzione del caso e si faccia giustizia”.
Suor Valsa che viveva a Pachuwara per 15 anni, era impegnata in modo particolare nella causa delle tribù Santhali che erano state allontanate dalla zona dalle imprese del settore del carbone.
Nel 2007 la religiosa era stata arrestata con l’accusa di aver bloccato la circolazione stradale durante la protesta contro le imprese minerarie intenzionate ad acquisire le terre tribali.
L’alto clero della regione ha raccontato di come suor Valsa era riuscita ad ottenere sussidi, lavoro, istruzione e assistenza medica per le famiglie allontanate dalla zona.
da Baltazzar | Nov 30, 2011 | Chiesa, Famiglia
A 10 anni dalla beatificazione, un convegno su Luigi e Maria Beltrame Quattrocchi
di Salvatore Cernuzio
ROMA, martedì 29 novembre 2011 (ZENIT.org) – “Quando un uomo e una donna
diventano uno nel matrimonio
non appaiono più come creature terrestri
, ma sono l’immagine stessa di Dio”. Mai ci fu un’incarnazione più vera di queste parole di San Giovanni Crisostomo, della coppia di coniugi Luigi e Maria Beltrame Quattrocchi, i primi sposi proclamati beati nella storia della Chiesa.
Beati non “malgrado” il matrimonio, ma proprio in virtù di esso. La coppia, infatti, fu elevata agli onori degli altari non perché fondò congregazioni o partì missionaria, ma semplicemente perché visse il matrimonio nella concretezza di un cammino verso la santità e verso Dio.
La loro data di culto per la Diocesi di Roma è il 25 novembre, anniversario del matrimonio celebrato in Santa Maria Maggiore nel 1905. Nel febbraio 1994, si diede inizio, presso il Tribunale per le Cause dei Santi del Vicariato di Roma, alla causa di canonizzazione. Giovanni Paolo II li beatificò il 21 ottobre 2011, ventesimo anniversario della Familiaris Consortio.
Proprio nei giorni in cui in Vaticano si svolge l’Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per la Famiglia, sul tema del 30° anniversario dell’esortazione e della fondazione del dicastero, si è tenuto in Campidoglio, venerdì 25 novembre, il convegno Cittadini autentici: sulle orme di Maria e Luigi.
L’incontro, svoltosi a dieci anni dalla beatificazione, ha voluto porre l’attenzione sull’aspetto non solo cristiano e educativo della coppia, ma soprattutto su quello etico e civile; mettendo in risalto il contributo da “cittadini autentici”, come recita appunto il titolo, che Luigi e Maria hanno dato alla città di Roma e all’Italia.
«Quando si parla dei miei genitori, si parla spesso del matrimonio, della famiglia, dell’educazione ai figli – ha dichiarato Enrichetta Beltrame Quattrocchi, quarta ed ultima figlia dei due coniugi, ospite d’eccezione del convegno – mai però di quella che è stata la loro vita cittadina, altrettanto intensa».
«Il motivo per cui è stato scelto il Campidoglio – ha continuato Enrichetta, instancabile nonostante i suoi 97 anni di età – è per il suo profondo valore istituzionale e significativo legame con la cittadinanza; ma soprattutto perché mi commosse quando, il 9 marzo 2009, papa Benedetto XVI, nel salutare i romani, mettendo in evidenza le glorie di Roma, nominò i Santi che hanno lavorato per questa città e tra questi anche i miei genitori».
Illustri e numerosi gli ospiti presenti all’incontro. Tra questi: S.E. monsignor Luciano Suriani, delegato delle Rappresentazioni Pontificie; monsignor Paolo Mancini, vicario per la Pastorale familiare della Diocesi di Roma; l’onorevole Marco Pomarici, presidente dell’Assemblea Capitolina; Salvatore Martinez, presidente del Rinnovamento dello Spirito; Maria Voce–Emmaus, presidente del movimento dei Focolari e molti altri.
«Maria e Luigi sono stati esempi viventi di come nella vita di tutti i giorni si può realizzare la vocazione alla santità, che è la misura alta della vita cristiana quotidiana – ha affermato monsignor Suriani -. 50 anni fa il Concilio Vaticano II lanciava un appello alla santità della famiglia e questo si è realizzato grazie ai due beati. È necessario, però, che, sulla loro scia, tutte le famiglie del nostro tempo “riprendano quota”, in modo da diventare piccole chiese, vere scuole di preghiera».
Una missione che i Beltrame hanno concretizzato appieno nella loro esistenza di sposi e genitori, come dimostrato, d’altronde, dal fatto che tutti e quattro i figli crescendo si siano sentiti chiamati dal Signore alla vita religiosa: Filippo (don Tarcisio), sacerdote diocesano; Stefania (suor Maria Cecilia), monaca benedettina; Cesare (padre Paolino), monaco trappista, e la già citata Enrichetta, l’ultima nata, consacrata secolare.
Ma è anche una missione che si è concretizzata nel loro impegno civile, nel rispetto per la democrazia, per le istituzioni, per la città, nello svolgimento del proprio lavoro (di avvocato per Luigi e di educatrice, all’occasione crocerossina, per Maria) a favore della società, dei poveri, afflitti e malati in modo particolare.
Proprio su quest’ultimo punto è intervenuto Antonio Conte, presidente dell’Ordine degli Avvocati di Roma, dicendo: «Luigi Beltrame Quattrocchi ci propone un’immagine dell’avvocato forse poco comune oggi,ma fondamentale per capire la funzione di chi è ad-vocatus, cioè “chiamato con”, “chiamato a fianco” di coloro che hanno bisogno di assistenza. Questa bellissima professione diventa servizio puro, umanità – santità per la Chiesa! – se accompagnato dal chinarsi sull’uomo per condividere, portare i pesi insieme a chi è schiacciato, saper gioire con chi è in festa. Questo essere “umano”, fa dell’avvocato un soggetto che ha una missione nella società civile. Direi che questi elementi hanno fatto dell’avvocato Beltrame Quattrocchi una persona che ha veramente vissuto il carisma della sua professione, infondendo l’anima cristiana nell’attività svolta».
Presentata, nell’ambito del Convegno, inoltre, l’Associazione A.Mar.Lui, nata per desiderio dalla figlia Enrichetta, e presieduta da Attilio Danise e Giulia Paola di Nicola, rivolta soprattutto a sposi e fidanzati, ma aperta anche a singoli, sacerdoti, religiosi e tutti coloro «intendono alimentare uno spirito di famiglia nella Chiesa e nella società, stare vicini alle famiglie e alle loro necessità» come hanno spiegato gli stessi presidenti.
A suggellare la giornata ricca di ricordi ed emozioni: il recital “Un’aureola per due” dedicato alla vita dei beati, svoltosi la stessa sera, alla Domus Mariae di Roma, che ha riunito tutti i presenti del convegno – tra cui numerose famiglie provenienti da varie regioni italiane, membri di A.mar.Lui. o del movimento dei Focolari – con i partecipanti al convegno CEI sui 30 anni della Familiaris consortio.