Rigato: “Nazareno? No, Gesù era Nazoreo”

di Mariaelena Finessi

ROMA, martedì, 19 aprile 2011 (ZENIT.org).- Nelle rappresentazioni artistiche della crocifissione tradizionalmente campeggia sul capo del Cristo una targhetta su cui è riportato un acronimo di quattro lettere – INRI – iniziali dell’espressione latina «Jesus Nazarenus Rex Iudaeorum» che traduce il testo greco del Vangelo di Giovanni, Gesù Nazareno Re dei Giudei, così tradotto da san Girolamo nella Vulgata.

E la questione del “Titulus” è il tema su cui si concentra Maria Luisa Rigato nel suo libro “I.N.R.I. Il titolo della Croce” (Edizioni Dehoniane Bologna), presentato a Roma lo scorso 15 aprile presso la Libreria Editrice Vaticana nell’ambito dell’iniziativa “I venerdì di Propaganda”.

Avvalendosi della filologia dei testi evangelici, dell’apporto della trazione rabbinica, delle fonti epigrafiche e letterarie extrabibliche, l’autrice documenta la possibile origine del cartiglio apposto sulla croce del Cristo, che riportava il motivo della condanna a morte comminatagli da Pilato durante il processo, riferita alla pretesa regalità di Gesù e corrispondente al reato di lesa maestà verso l’imperatore romano.

Da Giovanni sappiamo che la ragione della crocifissione era stata scritta in ebraico, latino e greco. Lo stesso narra anche che i capi dei Giudei, letto il cartiglio, chiesero a Ponzio Pilato la correzione della tavoletta, dal momento che, secondo loro, Gesù non era il re dei giudei, ma che si era proclamato tale. La lapidaria risposta di Pilato fu negativa ed è diventata proverbiale: «Ciò che ho scritto ho scritto».

Custodita nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme a Roma, in una teca d’argento e cristallo, la reliquia del “Titulus Crucis” – una tavoletta in legno di noce che, all’origine, doveva pesare forse un chilo – è sopravvissuta a vicissitudini d’ogni sorta che hanno contribuito ad ammantarla di mistero.

«Iniziai ad interessarmi al “Titulus Crucis” nel 1993 in occasione di un viaggio ad Efeso per un simposio su Giovanni Evangelista», racconta Rigato, prima donna ad aver studiato al Pontificio Istituto Biblico. «Ero convinta che si trattasse di un reperto dei crociati, una cosa talmente insignificante da risultarmi paradossalmente interessante. Così iniziai la mia avventura alla ricerca dell’origine della Tavoletta, studiata da ogni punto di vista». Si trattava di vedere se quanto si leggeva sulla stessa fosse compatibile con i dati dei quattro Vangeli, «come in effetti – sintetizza la Rigato – lo è».

Interessante indagine, che mette a fuoco diversi aspetti della questione, quella intrapresa dall’autrice intende, tra le altre cose, dare risposta al perché Giovanni abbia scritto “Gesù il Nazoreo” e non “Gesù il Nazareno”, «più corrispondente – spiega – alla realtà storica, come peraltro si trova sulla tavoletta di Santa Croce».

«In realtà – è la ragione che ne dà la biblista -, al tempo della redazione dei Vangeli era già in atto una cristologizzazione e una teologizzazione del nome di Gesù e dei suoi appellativi. I sinottici omettono l’appellativo “Nazareno” sulla croce perché, in fondo, non corrispondente al vero: Gesù era originario, per nascita, di Betlemme. Tuttavia “Gesù il Nazareno” viene recuperato all’annuncio della resurrezione da Marco e Luca, si direbbe per non rinunciare alla verità storica del suo appellativo “romano”».

«Giovanni, geniale come sempre, non vuole rinunciare neppure lui alla verità storica e riferisce non la forma greca Nazarenous, ma quella ebraica grecizzata Nazoraios. Mantenendo intatte le consonanti e cambiando leggermente la vocalizzazione, da Nazar-i o Nazaret-i (originario di Nazar-a/-ret) in Nazor-ai, ottiene il titolo cristologico ormai noto: l’osservante amoroso della volontà del Padre».

Non solo il titolo, cioè la motivazione della sentenza di morte, ma anche il tessuto usato per avvolgere il corpo di Gesù era insolito a quei tempi. Cristo fu avvolto nel lino, fibra non sepolcrale, e alla sua tomba furono portati successivamente gli aromi, alquanto costosi (non si trattò dunque di una sepoltura definitiva, come invece lo fu ad esempio per Lazzaro, le cui mani e i cui piedi vennero legati: Gesù sarebbe invece risorto il terzo giorno).

I suoi compagni ritrovano il coraggio, «non hanno potuto fare nulla per salvare a Gesù la vita  da una morte così ignominiosa e terrificante, ora si prendono una piccola rivincita per il suo corpo martoriato. È stato ufficialmente condannato come re? Ebbene, abbia un funerale regale».

La ricerca della Rigato, che non è nata per confermare o meno l’autenticità della Sindone, di fatto offre man forte ai sindonologi. «Le coincidenze, specie con la sadin shel buz, sindone di bisso – praticamente il telo da bagno del gran sacerdote in carica per la liturgia del Kippur – sono impressionanti».

Quanto al “Titulus Crucis”, la Rigato sente «di non poter dimostrare che il supporto ligneo sia di duemila anni fa», ma è «tuttavia convinta che la tavoletta-reliquia sia di Ponzio Pilato. Nella peggiore delle ipotesi – sintetizza -, il Titolo è una perfetta copia conforme all’originale e ha subito la stessa sorte della Sindone trovandosi nelle sue vicinanze».

L’autrice è per ora l’unica a sostenere la tesi – documentata nel suo studio meticoloso e scientifico – che il titolo è intero così come si presenta e che la divisione del Titolo in due, o peggio in tre parti, sia pura congettura. Quindi prova a ricostruire il percorso della reliquia, interrogandosi se esso sia verosimile.

«Il suo primo ritrovamento – racconta – avviene nel 320-325 a Gerusalemme da parte di Elena, madre dell’imperatore Costantino. Un secondo risalirebbe al XII secolo mentre un terzo, fortuito, ci sarebbe stato nel gennaio 1492». Leonardo di Sarzana riporta notizia di operai che nel rifare il sottotetto, sentono un rumore sordo sull’arco trionfale della Basilica Eleniana e nel foro, ostruito dalla mattonella, trovano la tavoletta con la scritta rivolta verso l’interno.

Due ragioni, per la Rigato, starebbero dietro il nascondimento della tavoletta nel muro: «L’oggetto murato rappresentava un patrimonio, da non ostentare affinché non venisse rubato ed essendo un oggetto di pura devozione, non facesse gola agli invasori, attratti da un potenziale valore venale».

Soprattutto, «come sugli archi di trionfo romani campeggiava il nome dell’imperatore a cui era dedicato, così nel punto più alto dell’arco della basilica campeggiava il Titolo, anche se murato, quasi a rappresentare plasticamente – conclude la Rigato – il vero titolare della basilica stessa, ossia il Signore Gesù».