Orissa, si convertono i carnefici indù

di Anto Akkara da La Bussola Quotidiana

Tiangia, India – All’alba di questo 2012 Hippolitus Nayak, funzionario del governo oggi in pensione, cattolico, ha ricevuto gli  auguri per l’anno nuovo più belle di sempre. Il mattino del 1° gennaio, Lakhno Pradhan, uno dei capi dei fondamentalisti indù che aveva guidato gli attacchi di massa contro i cristiani e le loro chiese nei dintorni del villaggio di Tiangia, si è presentato alla sua porta offrendogli un fiore. «Ha chiesto scusa per quel che le bande indù avevano fatto contro i cristiani. Dio sta sciogliendo i cuori induriti del Kandhamal» (distretto dello Stato federato indiano dell’Orissa), ha commentato Nayak la cui casa è stata distrutta nel corso di uno dei peggiori episodi di persecuzione anticristiana dell’intera storia dell’India.

Accadde infatti che, dopo l’assassinio del leader nazionalista Swami Lakshmanananda Saraswati, avvenuto il 23 agosto 2008, i fondamentalisti indù cominciarono a gridare al “complotto cristiano”. E così, malgrado i ribelli maoisti avessero rivendicato l’omicidio, masse di indù presero a scatenare indiscriminatamente la rabbia contro i cristiani di quella regione spersa nella giungla. Nello scenario di violenza selvaggia che si protrasse indisturbatamente per settimane, furono dunque ammazzati più di 100 cristiani, e 300 chiese e quasi 6mila case abitate da cristiani vennero saccheggiate e incendiate, finendo per mettere in mezzo alla strada più di 54mila persone.

Nayak sottolinea che oggi parecchi ex persecutori frequentano invece regolarmente la Messa domenicale in quella medesima chiesa cattolica di Tiangia dove sono stati brutalmente assassinati una mezza dozzina di credenti che si erano rifiutati di rinnegare la fede. «Entrare in questa chiesa mi rasserena lo spirito. Nulla può farsi cambiare decisione», ha aggiunto Jamboti Digal, una vedova, partecipando alla liturgia del primo dell’anno celebrata in quella martoriata parrocchia.
Proprio così. In tutto il Kandhamal stanno oggi abbracciando le fede cristiana centinaia di indù, e addirittura alcuni di coloro che hanno cercato di costringere con la forza i cattolici della regione all’abiura si scusano ora delle brutalità commesse.

Don Prasanna Kumar Singh, vicario della parrocchia di Pobingia, ha riferito all’agenzia di stampa cattolica tedesca KNA, Katholische Nachrichten-Agentur, che uno dei capi dei fondamentalisti indù della regione si era del resto già per tempo “scusato” di avere severamente danneggiato una chiesa che poi è stata restaurata e riconsacrata solo nel 2011. «Ha persino preso parte alla liturgia Natale, mettendosi a servizio per portare i doni all’offertorio».

Don Prabodh Kumar Pradhan, vicario della parrocchia di Raikia, che, servendo 750 famiglie, è la maggiore del Kandhamal, conferma il desiderio espresso da molti indù di convertirsi al cristianesimo. Ma, dice il sacerdote, «dobbiamo fare attenzione giacché potremmo avere guai con la legge».
In base allo Statuto sulla libertà religiosa dell’Orissa, infatti, coloro che cambiano fede e i capi religiosi che si convertono debbono prima ottenere il permesso dal funzionario governativo di più alto rango della zona. Don Pradhan, ex retore del seminario minore di san Paolo di Balliguda, commenta diretto: «Il Kandhamal sta di fatto dimostrando che Tertulliano aveva ragione». L’apologeta latino e storico della Chiesa Quinto Settimio Fiorente Tertulliano scrisse infatti che «il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani».

La sublime testimonianza di fede e di fedeltà offerta dai cristiani perseguitati del Kandhamal, dove le scene di perdono dei persecutori si moltiplicano, ha infatti toccato, riferisce don Pradhan, il cuore di numerosi indù.
Certo, malgrado questi segnali positivi, il Kandhamal è ancora lontano dall’essere completamente pacificato. Due pastori, Saulo Pradhan e Minoketon (Michael) Nayak, sono stati uccisi nel 2011 in circostanze ancora misteriose ma riconducibili comunque al fondamentalismo indù.
E a Natale, di ritorno dalla Messa della mezzanotte cui aveva partecipato assieme alla moglie e al fratello minore, Dilip Mallick, un indù recentemente convertitosi al cattolicesimo, ha trovato la propria casa, costruita secondo tradizione con il legno, nel villaggio di Madinato, vicino a Balliguda, ridotta in cenere.

«Questo dimostra che diventare cristiano oggi nel Kandhamal è pericoloso», commenta il padre monfortano K. J. Markose, già padrino di un convertito dall’induismo. Ma Mallick non si è fatto intimorire: «Resterò cristiano qualsiasi cosa succeda», ha riferito alla KNA.
«Posso solo dire che sono gente di Dio», ha detto di questi convertiti mons. John Barwa, arcivescovo Cuttack Bhubaneswar, durante la sua recente visita pastorale nella regione. «I piani dell’Altissimo stanno oltre la nostra comprensione. Ciò che è avvenuto nel Kandhamal è stato molto doloroso. Ma non è stata una maledizione. Anzi, adesso si sta rivelando una benedizione».

Traduzione di Marco Respinti

“Vergine a 30 anni” il best seller 2011

di Raffaella Frullone
da La Bussola Quotidiana

Uno dei best sellers dell’anno appena concluso in Venezuela, parla di castità. Nel paese caraibico, dove l’età del primo rapporto sessuale è scesa a 10 anni e dove le giovanissime vendono al miglior offerente “la prima volta”, a fare successo è un libro che riscopre il valore desueto della verginità.
Edito dal gruppo Planeta e al momento disponibile solo in spagnolo, “Virgen a los 30” ovvero “Vergine a 30 anni” è scritto da una giornalista dal fisico mozzafiato. Con il suo 90-60-90 e il suo metro e 75 centimetri di altezza, Vivian Sleiman lavorava come modella, una carriera decisamente promettente che la portò, nel 2001 ad un passo dal concorso di Miss Venezuela, che a sua volta le avrebbe aperto le porte allo scintillante mondo della moda e dello spettacolo.

In quel giorno di 11 anni fa che per la prima volta Vivian si sente svilita, quando un giurato le propone “una scorciatoia” per vincere la gara di bellezza, un compromesso grazie al quale la giovane modella avrebbe potuto ottenere facilmente la corona del concorso, se avesse rinunciato alla cosa più intima che poteva donare. Rifiutando ha detto addio al mondo delle miss.

Ultima di quattro fratelli, Vivian Sleiman racconta che quella di arrivare casta a 30 anni non era un’idea a cui aveva pensato da bambina, ma che si era fatta strada dentro di lei nel tempo. Mamma musulmana e padre cristiano, entrambi libanesi, i suoi genitori hanno divorziato durante gli anni dell’adolescenza, eppure l’ex modella afferma che è stato proprio lo stile di vita della madre ad ispirarla.

«Mio padre è l’unico uomo che mamma abbia mai baciato, è lei il mio modello da seguire. Non ho fatto nulla di straordinario, ma confesso che ad un certo punto della mia vita ho sentito la necessità di gridare al mondo quanto fosse necessario, soprattutto per noi donne, recuperare i valori perduti».
Vivian dichiara che la sua religione è quella dell’amore, sottolinea che la decisione di rimanere vergine non è stata un obbligo, ma che sente come naturale aspettare l’uomo giusto, quello della vita. «Se arriva, naturalmente – sottolinea. – Sono una donna appassionata che vive le emozioni con molta intensità, se ho deciso di non unirmi ad alcun uomo è proprio perché credo all’amore. Quello autentico, che va oltre il fisico, quello che diventa l’incontro di due anime». Nel volume la Sleiman parla anche del diritto della donna di farsi “aspettare” e del dovere dell’uomo di “attendere” il momento giusto.

E il tema deve aver toccato corde particolarmente sensibili se il libro ha venduto in pochi mesi 8000 copie. Un esempio di come la  modernità possa sposarsi col rispetto della dignità della donna, un esempio che racconta come l’anelito al dono totale sia scritto nel cuore di ogni donna.


«Nel pieno del XXI secolo mi chiedo se sta sbagliando il mondo che ho attorno, oppure se sto sbagliando io
, non lo so. So che come donna mi sono sentita frustrata in molte occasioni e oggi mi sento fortificata, mi sento bene perché non ho rinunciato ad essere me stessa».

«Il carcere, un recinto per morti viventi»

di Vincenzo Andraous


Al di là delle tante parole e delle cifre che si sentono nel dibattito sul problema delle carceri italiane, abbiamo chiesto una testimonianza a Vincenzo Andraous, che da anni vive sulla propria pelle la difficile situazione dei luoghi di detenzione.

Rimangono ancora tanti problemi e non di poco conto sul carcere italiano: troppi extracomunitari da riconsegnare ai propri paesi, la miriade di tossicodipendenti abbandonati dentro le celle in attesa del prossimo buco, l’esercito di persone miserevoli con le tasche vuote, tanti rumori nella testa, la sofferenza nel cuore da curare, da accompagnare fuori da un carcere che non si piega a nessuna utilità, scopo e prevenzione sociale.

Chi scrive vi è ristretto da quarant’anni e ha visto chi muore strozzato e disperato in una cella o chi ci entra come cittadino adulto e ne esce come un adulto bambino. In carcere ci si va e come, si resta in un angolo dimenticato, non per pensare al male fatto agli altri ed a se stessi, ma perché schiacciati nella violenza del nulla. Oggi si è arrivati al punto da accettare passivamente la tesi di un recinto dove ognuno è potenzialmente un morto che cammina.

Non si tratta di emanare un atto di clemenza, occorre ripensare davvero ai tetti spropositati delle condanne, alle celle anguste che devastano ciò che è già sufficientemente ammaccato, ai benefici carcerari ridotti al lumicino. E’ necessario pensare ai programmi, ai progetti fattibili perchè chi esce non abbia a ritornarvi. Quel che è sotto gli occhi di tutti induce a richiedere subito questo balzo in avanti, perché nelle carceri le persone muoiono, esse non scontano soltanto una condanna, ma un sovrappiù che consiste nelle sofferenze fisiche e psicologiche, negli abbandoni e nelle rese di una sconfitta che non esprime alcuna pietà.

Ci sono situazioni devastanti, degradanti: alcune assolutamente non scelte, né mai totalmente descritte dalla cronaca o dalla romanzata fiction televisiva, permane il parassitismo strutturale che non consente responsabilizzazione nell’irresponsabile, ma altera e compromette ogni processo cognitivo, creando un arretramento culturale galoppante e una sorda commiserazione. Allora è davvero urgente una riforma che sottenda un valore in sé e trascini con sé la volontà a progettare e organizzare percorsi alternativi al carcere, per evitare inutili effetti spostamento-trascinamento.

Posso assicurare che in carcere non si sta bene, è un luogo di afflizione, ma il sopravvivere abbruttendosi non ha alcun valore di interesse collettivo. Fino a quando non si comprenderà che in carcere si va perché puniti e non per essere puniti, questa dicotomia spingerà il detenuto privato della libertà a sedersi a tavola con la morte, decidendo di guardarla in faccia e sfidarla. Senza però tenere in considerazione che la morte quasi sempre vince. E’ una prova questa, che indica la paura del potere della morte, ma ugualmente il carcere continua a rimanere un luogo non autorizzato a fare nascere vita nè speranza, non rammentando che l’uomo privato della speranza è un uomo già morto. Momento dopo momento, giorno dopo giorno, anno dopo anno, in compagnia del solo passato che ricompone la sua trama, e passato, presente e futuro sono lì, in un presente che è attimo dove non esiste futuro. Quando il sentimento dell’amore è segregato, sei ancorato a una stanchezza che ti fa sentire perduto; hai in comune con il tuo simile solo un dolore sordo, che evita di guardare all’indietro nè di pensare al domani, e allora riconoscere i propri errori è un’impresa ardua.

Le analisi sistematiche a questo punto servono poco, per rendere più umano l’inumano: sono più propenso a credere che dobbiamo convincerci noi, quelli dentro, della possibilità di raggiungere dei traguardi e degli obiettivi, per ritornare a volerci un po’ bene, per riuscire a essere persone e non solo numeri usati per la statistica. Quando l’investimento (non mi riferisco esclusivamente a quello finanziario) copre quasi interamente il comparto della sicurezza, riservando poca attenzione-volontà, quella vera per la prevenzione-ricostruzione individuale, si produce una torsione che ammutolisce la coscienza.

Sicurezza, rieducazione, risocializzazione, riparazione, appaiono sempre meno come il collante che può tenere insieme una società e farla crescere, politica e stili di vita si travestono di ideologie d’accatto, gli obiettivi a tutela delle persone divengono esigenze contrapposte, una didattica inversa a una pedagogia in costante affanno, come se ognuna di queste facce della stessa medaglia fossero improvvisamente vissute come aut aut al fare sicurezza: mettere in salvo il benessere delle persone, eliminando la parte di interventi che riguardano un preciso interesse collettivo, quella ricomposizione della frattura sociale, da attuare attraverso pratiche, funzioni, trattamenti che rimandando a una giustizia che rispetta la dignità delle persone, di quanti sono detenuti e stanno scontando la propria condanna, e intendono ritornare parte attiva del consorzio sociale, non certamente come soggetti antagonisti, perché ancora delinquenti.

Le parole tentano di nascondere assenze e mancanze politiche, giungendo a fare di qualche certezza il terreno fertile della dubitosità, al punto da raccontare che sulla giustizia, sulla pena, sul carcere, le modalità da registrare sono quelle che vorrebbero la prigione come un albero senza radici, una città senza storia, un luogo di castigo sommerso indicibile, una sopravvivenza-negazione di una reale possibilità di riscatto da parte di chi paga il proprio debito alla collettività. Quest’ultima pretende giustamente sanzioni efficaci a ripristinare l’ordine violato, ma deve evitare che l’esclusione del reo diventi una mera conseguenza di un sonno intellettivo, rimandando a tempo indeterminato la rielaborazione del reato, soprattutto dell’atteggiamento criminale, diventato nel frattempo uno status quo per lo più miserabile, ma non per questo meno pericoloso.

Forse la condicio sine qua non per una carcerazione meno brutale sta nel non indulgere in umanitarismi falsificanti le responsabilità, ritornando a consegnare al carcere la sua funzione, che non può essere basata su un versante prettamente retributivo, in quanto ciò non combatte efficacemente la recidiva, anzi la aumenta spaventosamente.

Non abbiate paura delle nuove vite

Non abbiate paura delle nuove vite

Un papà racconta la storia di un bambino che non sarebbe dovuto nascere

di Gianni Lavopa

ROMA, domenica, 1°gennaio 2012 (ZENIT.org).In questi giorni si parla tanto di previsioni astrali per il 2012, come se la nostra vita dipendesse, non dal nostro Creatore e Signore, ma dalla posizione degli astri da Lui creati. Per questo motivo vorrei raccontarvi la mia esperienza con il mio ultimo figlio Daniele.

Nel 2005 la mia famiglia era così composta: io avevo 48 anni, mia moglie Angela 42, mio figlio Gianluca 16 e Cristina 10 anni. Con Cristina, l’ultima, non pensavamo di avere altri figli, invece mia moglie scoprì di essere incinta. Per lei non fu una dolce sorpresa, un pò perché a 42 anni aveva sentito dire che le gravidanze sono più a rischio rispetto alla norma, e poi perché trattandosi del terzo figlio aveva paura di seguire la sorte di sua madre. Mia suocera infatti ha il terzo figlio portatore di un handicap mentale. A questi timori si aggiunse la presenza di un mioma di 2 cm nel liquido amniotico (riscontrato nell’ecografia). Cominciarono così le discussioni tra me (da sempre contrario all’aborto) e mia moglie (incoraggiata da mia suocera) che voleva interrompere la gravidanza (secondo loro) a rischio. Accompagnai mia moglie dal ginecologo del consultorio famigliare, per consigliarci e far vedere l’ecografia con il mioma.

Quel sabato mattina la dottoressa del consultorio vide gli esami fatti da mia moglie e rivolgendosi a lei, disse queste testuali parole: “Signora questo mioma con il passare del tempo si ingrandirà e creerà dei grossi problemi sia a lei che al bambino, inoltre c’è il rischio che il bambino subisca malformazioni fisiche o mentali. Lei passerà tutto il tempo della gravidanza a letto (potrebbe avere delle forti perdite di sangue) e ogni giorno potrebbe aver bisogno di una persona che l’accudisca. Se oltre a suo marito non c’è nessun’altro in famiglia come farà? Se suo marito è al lavoro come farà a cavarsela da sola? Signora mi creda quello a cui lei va incontro se prosegue questa gravidanza non lo auguro nemmeno al mio peggior nemico, ne va di mezzo anche la sua salute”. Mi permisi di interrompere il suo discorso, ma mi fu subito replicato: “Lei caro signore non centra niente, chi deve decidere se continuare la gravidanza oppure no è sua moglie non lei!”, rivolgendosi a mia moglie riprese a dire: “Signora oggi è sabato, lunedì mattina vada in clinica e abortisca, non aspetti neanche un minuto in più!”.

Mentre andavamo via Angela ebbe un capogiro, la feci sedere e chiesi a una signora che stava nel consultorio un bicchiere d’acqua (per lei fu un duro colpo nonostante era propensa ad abortire). La domenica mattina andammo a messa, io avevo esaurito tutti i miei argomenti per convincere mia moglie a non abortire, ci recammo alla chiesa di S. Antonio (il nostro santo protettore fin dai tempi del nostro fidanzamento). Mi misi in fila per comunicarmi e col cuore in mano chiesi al Signore di liberarmi da quell’angoscia, e gli offrii la mia vita se sarebbe intervenuto in nostro aiuto. Quando giunsi quasi vicino all’altare voltai lo sguardo su un manifesto di Papa Giovanni Paolo II, che attirò la mia attenzione, con scritto “Non abbiate paura”. Subito dopo mi comunicai e tornai al mio posto con la convinzione che quella frase era rivolta a me, non dovevo temere perché sarebbe andato tutto bene. Dopo la messa io e mia moglie ci confessammo da un sacerdote chiedendogli consiglio. Padre Teofilo ci disse: “Avete sentito una campana ora sentitene un’altra, rivolgetevi a un altro ginecologo e fategli vedere tutti gli esami clinici, poi fatemi sapere”. Mia moglie vedendo la mia insistenza: “Va bene facciamo quest’ultimo tentativo”.

La mattina del lunedì prima di andare in clinica ci recammo da un ginecologo (trovato a caso un’ora prima sull’elenco telefonico), vide tutte le cartelle e disse: “E allora? Qual è il problema? Volete far nascere questo bambino oppure no? A quel punto raccontammo quello che ci aveva detto la ginecologa del consultorio, ma lui rispose: ”Non c’è nessun problema per il mioma, ho fatto partorire donne con un mioma grosse quanto un’arancia e in l’età più avanza della sua, inoltre ci tengo a dirle che non sono obbiettore di coscienza e quindi non avrei nessun interesse a mentirle. Lo ringraziammo per la cordiale disponibilità nel consultare la situazione di mia moglie, in cuor mio ringrazia Gesù perché vidi chiaramente l’intervento della sua mano Misericordiosa. Tornammo quella stessa mattina in chiesa da padre Teofilo e gli dicemmo tutto, lui seguì mia moglie nei mesi successivi incoraggiandola a portare avanti la gravidanza dicendole che Dio non l’avrebbe abbandonata.

Accadde proprio così, Angela non solo portò avanti la gravidanza senza problemi, ma si recò a casa di sua madre per aiutarla perché in quel periodo non stava bene. Successe esattamente il contrario di quello che la ginecologa le aveva pronosticato. In più Angela verso gli ultimi mesi della sua gravidanza voleva partorire con l’epidurale (perché temeva che dopo dieci anni avrebbe sofferto molto durante il parto), per vari motivi non le fu possibile portare avanti questo tipo di gravidanza indolore. E invece partorì molto più velocemente degli altri 2 figli e quasi senza dolore, nacque così Daniele che oggi ha 6 anni, un bambino molto vivace e così intelligente che spesso dice cose che ci fanno ridere, perché più grandi della sua età.

Benedico il Signore perché con la Sua Misericordia ci apre altre porte, quando ci troviamo bloccati davanti a una che non riusciamo ad aprire con le nostre sole forze.

Jenni, l’adolescente che si è sacrificata per salvare il figlio

La storia di Jenni Lake, ragazza americana dell’Idaho, aspirante artista di tattoo, che malata di tumore, a 17 anni ha sospeso le cure per permettere al figlio Chad di nascere. «Ho fatto quello che dovevo fare, il mio bambino ora crescerà sano», ha detto prima di morire dopo aver partorito il piccolo
di Benedetta Frigerio
Tratto da Tempi

«Ho fatto quello che dovevo fare, il mio bambino ora crescerà sano». Sono le ultime parole di Jenni Lake, la diciassettenne americana che ha interrotto le cure per un tumore per salvaguardare la vita del figlio che portava in grembo. La sua storia ha raggiunto, sotto Natale, le cronache internazionali. Jenni scopre nell’ottobre del 2010 di avere un tumore. Da quel momento inizia la sua battaglia per la vita, che la vede «impaurita, ma senza darlo troppo a vedere. Alternava momenti di tristezza ad altri di gioia. Ha pianto solo quando le hanno detto che le cure avrebbero potuto renderla sterile», racconta il padre, un camionista dell’Idaho.

Nonostante la malattia, quella di Jenni resta la tipica vita di un’adolescente moderna. «Aveva una vena ribelle», ricorda la madre. Lo si vede anche dai primi video, che posta su Youtube, in cui racconta la sua determinazione contro il cancro: Jenni si mostra tutta piercing e tatuaggi, con i capelli tinti di due colori e il sogno di diventare un’artista di tattoo. Durante la malattia si fidanza con Nathan, un anno più grande di lei, e rimane incinta. Inaspettatamente, «perché ci avevano detto che la cura poteva renderla sterile, perciò non ci siamo preoccupati di nulla», spiega il ragazzo.

Jenni decide di sospendere la chemioterapia per salvaguardare la vita del figlio, che è nato il mese scorso e che lei ha potuto tenere al suo fianco per 12 giorni prima di morire. La madre, ai giornalisti che le hanno chiesto i motivi della scelta della figlia, ha risposto con la stessa naturalezza con cui la figlia ha partorito il piccolo: «Non ci siamo nemmeno posti il problema, il bambino sarebbe nato e Jenni avrebbe ripreso le cure nella speranza di guarire».

Una storia diversa da quella della beata Gianna Beretta Molla, che dotata di una fede granitica ha sacrificato la sua vita per salvare quella del figlio. Una vita non proprio casa e chiesa, quella di Jenni, che ha affrontato la malattia con gli alti e bassi di un’adolescente che vede tutti i suoi sogni andare in fumo. Eccetto il più grande, quello di diventare madre. Ma l’eredità che ci lascia, hanno detto familiari e amici, «non è una tragedia, piuttosto il frutto vivo del suo sacrificio». Un sacrificio – compiuto senza clamori da una ragazza normale e che nel dolore ha reso Jenni una donna bellissima e felice – che ha portato agli onori delle cronache di tutto il mondo la sua storia.

Gli Erodi di oggi

«Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande. Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più!»
di Pierluigi Vajra
Tratto da La Bussola Quotidiana

L’ordine a cui appartengo celebra il 28 dicembre la propria “giornata mondiale”. Abbiamo una lunga tradizione di servizio a bambini e ragazzi, e la festa dei Santi Innocenti ricorda a noi e ai nostri amici che anche oggi le forme di sopruso ed abbandono dei minori sono molteplici.

Per questo tutti noi, religiosi e laici, ci adoperiamo in diversi Paesi del mondo. Non ci occupiamo solo di orfanotrofi, l’espressione forse più antica e conosciuta, ma anche di istruzione, liberazione dal lavoro minorile, riabilitazione dei detenuti delle carceri minorili, dipendenza da sostanze chimiche come droghe o solventi, vari tipi di sfruttamento, integrazione dei Rom, giusto per citare alcune forse odierne di presenza dell’antico Erode, che aveva sacrificato i bambini alla propria sete di potere, alla propria sicurezza personale e politica. Ogni anno si promuovono iniziative per creare consapevolezza circa l’una o l’altra forma di oppressione dei piccoli.

Pochi giorni fa ho conosciuto I., un piccolo di sei anni, ospite di una nostra comunità per minori dove vari di loro non hanno più alcun familiare. La loro famiglia ora siamo noi.

I. è un bambino vivace ma ben educato, intelligente, sveglio, amichevole, affettuoso ma per nulla appiccicoso, pieno di vita, in buona salute, bello e promettente. Sprizza gioia di vivere da tutti i pori, e non lo fa per posa: è proprio così. Appena ti vede ti salta al collo, ma mica ci resta per molto: ti coinvolge in una vorticosa conversazione che spazia ampiamente oltre i confini dei pensieri che occupavano la tua mente un minuto prima.

Ma è la sua storia che mi ha fatto pensare. I. è nato da uno stupro. Può darsi che la sua giovane mamma avesse qualche responsabilità; può darsi che non tutte le persone che frequentava fossero delle più raccomandabili. Abbiamo esempi, anche recenti, in cui situazioni del genere vengono risolte sommariamente con il ricorso all’aborto. Appare persino ragionevole, per quanto sia mostruoso. I. avrebbe potuto morire prima di nascere, e non avremmo mai avuto la gioia di conoscere questo gioiello di bambino.

Qualunque fosse la sua reputazione, alla mamma di I. si dovrebbe fare un monumento. Decise di tenere il bambino, di volergli bene, di crescerlo. Questo, nonostante fosse isolata dalla famiglia ed il disgraziato che le aveva fatto violenza non avesse alcuna intenzione di prendersi le proprie responsabilità.

Pur con tutte le difficoltà del caso, I. è nato. Non solo: è evidente dall’intera sua persona che è stato profondamente amato. È decisamente un bambino al di sopra della media, in ogni senso.

Ed allora che cosa ci fa nella nostra comunità? Varie settimane fa, durante una notte mentre I. dormiva, qualcuno ha ucciso sua mamma. È stato lui ad accorgersene ed a dare l’allarme. E di punto in bianco non ha avuto più nessuno al mondo.

Tuttavia era diventato il beniamino del vicinato, e si è immediatamente iniziato a cercare una soluzione. Le autorità competenti lo hanno poi portato da noi, dove si è inserito subito benissimo ed è diventato l’anima del gruppo.

Per questo dico che alla sua giovane mamma bisognerebbe fare un monumento: contro ogni buon senso e ragionevolezza mortifera, così comune anche tra i benpensanti, ebbe il coraggio di decidere per la vita. Benedetta incosciente! Che Dio l’abbia in gloria, anche solo per questo atto.

Sappiamo invece quanti stupendi e promettenti I. muoiono ogni momento, anche ora che sto scrivendo, anche ora che qualcuno mi sta leggendo.

Erode è ancora all’opera, per liberarsi di tutto ciò che può disturbare la sua sicurezza, il suo potere, la sua apparente libertà d’azione, la sua comodità, la sua carriera. Il 28 dicembre arriva ogni anno a ricordarcelo, come un improvviso salutare schiaffo che ci risveglia dal nostro torpore.