da Baltazzar | Mar 2, 2012 | Testimonianze
Lo aveva detto Lucio Dalla appena dieci giorni fa in un’intervista rilasciata alla tv dei vescovi
da Vatican Insider
Un Dalla che non parla di musica ma di senso dell’esistenza, di poesia e vita vissuta. E’ quello che si è aperto ai microfoni della tv dei vescovi italiani Tv2000 in una delle sue ultime interviste che risale a dieci giorni fa.
Nell’intervista, che rientrava nella serie ”A tu per tu con…”, il cantautore rileva il suo essere affascinato ”dall’esistenza nuda dell’individuo”. ”Mia madre mi ha insegnato molto. Era convinta che io ero un genietto e mi fece fare un esame psicotecnico dove invece stabilirono che ero un deficiente. Mia madre c’e’ rimasta malissimo. – ha ricordato – C’e’ un disegno che tutti noi abbiamo e devo ringraziare Dio per tutto quello che ho avuto”.
”Esiste un dovere, quello di avere la forza di essere controvento. – ha quindi detto Dalla – Di essere fuorimoda, controcorrente. Bisogna avere il coraggio di andare avanti, anche se hai tutti contro, così si impara a navigare”.
Sul suo essere artista Dalla rivelava, invece, ”mi piacerebbe sentirmi più poeta che musicista. Ma amo più la musica che la poesia. Non amo Pascoli o Carducci, perché non mi piacciono le rime”.
da Baltazzar | Mar 1, 2012 | Carismi, Chiesa, Testimonianze
Un ricordo del catechista itinerante del Cammino Neocatecumenale responsabile della Germania
di Pietro Barbini
ROMA, martedì, 28 febbraio 2012 (ZENIT.org) – Esattamente un anno fa, la sera di lunedì 28 febbraio 2011, a Monaco di Baviera, si spegneva inaspettatamente Antonio “Toni” Spandri, all’età di 67 anni.
Padre di 10 figli, 35 nipoti, catechista itinerante del Cammino Neocatecumenale, era stato responsabile dell’evangelizzazione in Germania e in Olanda. Negli ultimi anni, assieme alla moglie Bruna, seguiva con dedizione la pastorale vocazionale dei seminari Redemptoris Mater e le missio ad gentes.
Nato a Venezia nel 1943 e laureato in legge, Toni dedicò tutta la sua vita al servizio della Chiesa. Fece parte della FUCI e, proprio in quel periodo, cominciò ad interessarsi allo studio della teologia; fu tra l’altro allievo di don Germano Pattaro e, fin da subito si distinse per il suo profondo pensiero teologico.
Toni era convinto che la “battaglia” che i cattolici dovevano intraprendere non era quella dettata dalla forza, impugnando la “spada”, ma quella interiore, ossia, la cosiddetta “buona battaglia della fede”, che doveva essere affrontata attraverso un cammino di “discesa”, alla riscoperta del sacramento del battesimo, alle radici della fede cristiana.
Sentiva che nel trambusto e nella confusione di quegli anni tumultuosi, bisognava fare qualcosa; voleva servire la Chiesa, ma non capiva in che modo. Dopo essersi sposato decise, assieme alla moglie, di andare a studiare teologia a Tubinga, in Germania, con l’allora professor Joseph Ratzinger, che seguiranno poi a Regensburg, quando quest’ultimo si trasferì.
In quegli anni conobbero anche Stefano Gennarini, loro compagno di studi, attraverso il quale verranno a conoscenza dell’esperienza del Cammino Neocatecumenale. Tornati a Venezia i coniugi Spandri introdussero il Cammino nella diocesi veneziana con l’appoggio dell’allora cardinale Albino Luciani, formando la prima comunità neocatecumenale, nella parrocchia di Santa Maria Formosa, della quale Toni sarà eletto responsabile.
Successivamente Toni e Bruna, assieme a Stefano Gennarini, raccontarono la loro esperienza del Cammino al prof. Ratzinger, con il quale si tennero sempre in contatto (nel 2010 Toni e Bruna parteciparono all’incontro annuale che il Santo Padre tiene ogni anno a Castel Gandolfo, incontrando i suoi alunni per tre giorni, i quali, in quell’occasione, suggerirono il “tema” che il Papa adottò per il 2011, ossia, la “Nuova evangelizzazione”).
Nel 1974, colpiti dalla parole del Vangelo “va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”, presero la decisione di lasciare Venezia e di dedicare la loro vita all’evangelizzazione.
Lasciarono dunque tutto quanto era in loro possesso, la redditizia attività ereditata dalle facoltose famiglie e una promettente carriera di avvocato, per Toni, presso l’avviato studio legale del padre.
Abbandonati tutti i loro beni, seguirono Cristo, nella convinzione che solo così avrebbero fatto una vera esperienza di Dio, sicuri che Lui li avrebbe protetti da qualsiasi pericolo e difficoltà e che avrebbe provveduto a tutti i loro bisogni, come d’altronde è stato.
Si recarono dunque nella Germania comunista, dove evangelizzarono per le strade e per le parrocchie, aprendo il Cammino Neocatecumenale con l’appoggio del “loro” professore, Joseph Ratzinger, allora arcivescovo di Monaco.
Vissero anni difficili, patirono la fame, il freddo e numerosi disagi; attraversarono più volte il check point Charlie, rischiando spesso la vita, e passarono più di qualche nottata in cella interrogati dai Vopos, le guardie comuniste.
Nonostante le numerosissime difficoltà incontrate nel corso della loro vita, le avversità e le non poche tribolazioni patite, la loro fede non vacillò mai, niente e nessuno impedì a Toni e a Bruna di svolgere la loro missione di evangelizzazione, come testimoni dell’amore di Dio.
Proprio alla morte di Toni, la moglie scrisse in una lettera “il Signore, che gli ha donato di portare per 40 anni la Croce di Cristo nell’evangelizzazione, gli ha donato anche di trovare ristoro in Lui! Cristo è veramente risorto!”.
Attraverso la sua vita, Toni ci ha lasciato una grande testimonianza di fede: seguire Cristo non è una “fregatura”, ma Egli veramente ti restituisce cento volte tanto.
La Provvidenza Divina esiste e nella vita di Toni questo era palpabile; il Dio dei cristiani è un Dio della storia, che agisce concretamente nella vita dell’uomo, perché Cristo è Risorto e vivo in mezzo a noi.
Toni Spandri con la sua vita, prima ancora che con le parole, ci ha testimoniato quindi la veridicità delle parole del Vangelo: “Chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà”.
da Baltazzar | Feb 24, 2012 | Cultura e Società, Famiglia, Testimonianze
Sarah Palin è un segno di contraddizione. O la si ama o la si odia. Newsweek, invece, il famosissimo settimanale statunitense diffuso in tutto il mondo, fa entrambe le cose. Per tornaconto, ovvio. Ma gli è comunque che, dopo averla canzonata spesso e in malo modo sulle proprie copertine, oggi alla Palin dà spazio per parlare del suo ultimo nato, il quintogenito: il piccolo Trig, venuto alla luce nel 2008 affetto da sindrome di Down. Il fascicolo di Newsweek su cui la Palin racconta (con stile piano, gergo quotidiano, talora vocaboli al limite del dialettale) la bella storia della sua bella famiglia è lo stesso che in copertina mette l’importante denuncia della guerra che il mondo conduce contro i cristiani firmata da Ayaan Hirsi Ali. «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia», diceva William Shakespeare nell’Amleto, il quale forse oggi a quel cielo e a quella terra aggiungerebbe pure Newsweek.
Settimana scorsa, Rick Santorum e la sua famiglia ci hanno ricordato cos’è che conta davvero. Quando sua figlia, Bella, di tre anni, nata con la Trisonomia 18, è stata ricoverata in ospedale per una polmonite, Rick ha abbandonato il tour elettorale per correre al suo capezzale. Molti di noi si sono così ritrovati – nel pieno dell’attuale, caldissimo momento politico – a pregare tra le lacrime affinché la salute di Bella migliorasse, e a spendere pure qualche preghiera di ringraziamento in più per l’esempio pubblico offerto da una persona che ha scelto di sacrificarsi per i motivi giusti. Un sacrificio, peraltro, che è nelle corde di tutti i genitori e di tutti coloro che si curano dei bambini con bisogni speciali.
C’è un’esperienza che accomuna tutte le famiglie dei bimbi bisognosi di attenzioni particolari, e questa è il vivere le gioie, le sfide, le paure e le benedizioni che comporta il crescere questi nostri figli, che noi vediamo perfetti, in questo mondo imperfetto.
Durante la campagna per le elezioni presidenziali del 2008, ai cordoni di sicurezza che ci separavano dalla gente in occasione di quei numerosi raduni che chi hanno portato in giro per tutto il Paese, mio marito Todd e io ne abbiamo incontrate moltissime di famiglie e di persone che si occupano di quei bimbi particolari, e di tutte loro non potrò mai dimenticarmi. Scattava tra noi un legame immediato: una specie di riconoscimento reciproco che diceva: “Sì, questi bambini sono preziosi e sono amati. Sì, dobbiamo confrontarci con paure e con sfide nuove, ma i nostri figli sono una benedizione, e il resto del mondo si perde qualcosa a non saperlo”.
Ogni genitore fa i salti mortali per conciliare gli impegni del lavoro e le esigenze della famiglia. Le donne lo sanno particolarmente bene. Lungo gli anni ho imparato che le donne “possono fare tutto”, solo non tutto subito e assieme. A me l’ha insegnato una scuola fatta di batoste; ma mia madre mi ci aveva preparata bene quando, serenamente, un giorno mi disse che, da madre lavoratrice attiva nella nell’arena rissosa della politica, sarebbe prima o poi giunto il momento di compiere scelte difficili. Lo facciamo tutti di compiere scelte difficili. Ora, nel prendere le decisioni che hanno riguardato la mia carriera, io ho sempre messo al primo posto la mia famiglia, e non me ne sono mai pentita, benché questo abbia a volte significato mettere temporaneamente da parte alcune cose particolari.
Quando, all’inizio della gravidanza, ho scoperto che mio figlio sarebbe nato con un cromosoma in più, la sindrome di Down che gli fu diagnosticata mi spaventò così tanto che per diversi mesi non osai parlare dalla mia situazione. Quel che solo riuscii ancora a fare fu appellarmi a Dio affinché preparasse il mio cuore a ciò che mi attendeva. Ebbene, le mie preghiere sono state esaudite ben oltre la mia capacità superficiale di comprendere quale gioia autentica potesse invece essere quella maternità. Sì, crescere un bambino con necessità particolari è una sfida che non ha pari, e io temo ancora per il futuro di mio figlio Trig, viste le prove a cui la salute e la società lo sottoporranno; e, ovviamente, alcuni giorni sono ora assai più difficili da vivere che se avessi un figlio “normale”.
Molte faccende quotidiane – gli appuntamenti con i dottori, i momenti di convivialità, gli accomodamenti per i viaggi e persino i tempi dei pasti o una bella notte di sonno pieno – sono in questi casi ancora più difficili; ma alla fine di ogni giornata non scambierei queste difficoltà relative per alcun altro vantaggio o per l’assenza della paura. Dio sapeva cosa stava facendo quando ci ha benedetti con Trig. E noi siamo passati dal terrore dell’ignoto dall’ostentare orgogliosi un adesivo, che qualcuno ci aveva mandato, con su scritto: «Mio figlio ha più cromosomi del tuo!». Forse non diventerà il prossimo Wayne Gretzky (1), ma il nostro cuore è orgogliosissimo quando Trig sorride ai peluche delle sue sorelle o si dondola al ritmo dei suoi DVD della serie tivù Little Angels (2), e in quei momenti è come se quel piccolino tirasse su la Stanley Cup (3).
Sicuro, so di essere probabilmente più fortunata di molti altri perché ho amici che mi vogliono bene e una grande famiglia che mi sostiene e a cui chiedo aiuto, incluso un marito che passa molti notti insonni assieme a quell’irrequieto piccolino (del resto è Todd che prepara le pappe di Trig!). C’è insomma chi non è egualmente fortunato, e questa nostra riconoscenza fa di me una donna più compassionevole verso gli altri che hanno meno.
Spesso oggi penso: cosa faremmo senza Trig? Lui è il nostro “tutto ciò che conta davvero”.
Oggi Trig ha quasi quattro anni, e ogni mattino, quando si sveglia, si tira su, si frega via il sonno dagli occhietti, si guarda attorno e poi comincia a battere le manine! Accoglie ogni nuovo giorno con un’acclamazione fragorosa e una risata. Dà una occhiata al creato tutto intorno e applaude come per dire: “OK mondo, cos’hai in serbo per me oggi?”.
La mia famiglia sa che Trig dovrà lottare come a pochi di noi toccherà mai fare, comprese le persone che sanno essere sul serio crudeli verso coloro che la società non ritiene “perfetti”. Ma quella crudeltà è più che compensata quando qualcuno rivolge a nostro figlio anche un semplice sorriso. Nulla mi rende più orgogliosa. Come ho spiegato in un messaggio scritto per il Giorno del Ringraziamento (4), vedo che succede spesso negli aeroporti. I passeggeri che gli camminano per caso davanti, quando lo vedono buttano subito una seconda occhiata, forse curiosi per l’aria curiosa che Trig ha sul viso; o forse per un attimo mio figlio esercita un’attrazione irrefrenabile che prende di sorpresa le persone che passano di lì. Forse, come ha detto un altro bimbo candido e innocente quando ha visto Trig per la prima volta, quelle persone negli aeroporti pensano: «È goffo». Ma quando quella gente si ferma a guardare Trig la seconda volta e lui sorride, io mi riempio di orgoglio. Sono così grata per il loro buon cuore. Quelle persone rappresentano il meglio del nostro Paese, e la loro gentilezza mostra la speranza autentica di cui abbiamo bisogno oggi.
La mia famiglia comprende bene che, nel domani, alcuni giorni saranno migliori di altri. Ma sistemeremo le cose, per farlo ci inventeremo anche i modi più astrusi, e alla fine la sfangheremo. Trig applaude a ogni nuovo giorno. Questo è ciò che lui insegna a noi, e questa è la nostra priorità. E ne siamo benedetti.
Traduzione dell’articolo My Life with Trig, in Newsweek, vol. CLIX, n. 7,
New York 13-02-2012, pp. 12-13, e note di Marco Respinti per La Bussola Quotidiana
(1) Wayne Douglas Gretzky, classe 1961, prima giocatore e poi allenatore, è un “mito” dell’hockey su ghiaccio.
(2) Little Angels è un reality-show trasmesso del terzo canale della rete britannica di Stato BBC dal 2004 al 2006 che presenta casi di famiglie i cui figli hanno problemi comportamentali e che alcuni esperti aiutano a superare.
(3) La Stanley Cup è l’ambìto premio finale del campionato annuale della National Hockey League.
(4) Il Giorno del Ringraziamento è la tradizionale festa religiosa con cui in origine gli americani dei futuri Stati Uniti e Canada mostravano gratitudine per la fine della stagione del raccolto. La tradizione fu inaugurata dai pellegrini puritani giunti sulle coste del Massachusetts nel 1621 a bordo del Mayflower. L’articolo a cui si fa riferimento nel testo è stato inviato dall’ex governatrice dell’Alaska a The Brody File, il blog politico curato, sul sito della rete televisiva evangelicale Christian Broadcasting Network (CBN, di Virginia Beach, in Virginia), da David Brody, corrispondente dalla casa Bianca per la CBN, e lì pubblicato il 23 novembre 2012.
da Baltazzar | Feb 22, 2012 | Chiesa, Testimonianze
Prima parte
Intervista con il vicario del patriarcato di Gerusalemme, padre David Neuhaus, S.I., convertito dall’ebraismo
ROMA, martedì, 21 febbraio 2012 (ZENIT.org) – Padre David Neuhaus è nato in una famiglia ebrea e, ancora in giovane età, si è convertito al cristianesimo. In collaborazione con Aiuto alla Chiesa che Soffre, Mark Riedemann ha intervistato per Where God Weeps (Dove Dio piange), padre Neuhaus, vicario del patriarcato latino di Gerusalemme per i cattolici di lingua ebraica.
Padre, lei è cresciuto in una famiglia ebraica. Ha ricevuto una profonda educazione religiosa?
Padre David Neuhaus: Ho ricevuto quella che si potrebbe definire una tradizionale educazione ebraica. Mi hanno mandato ad una scuola ebraica diurna, una scuola meravigliosa. Se avessi figli, li manderei a studiare lì anche adesso. E così siamo stati educati nella tradizione ebraica a casa. I miei genitori erano molto aperti e non molto praticanti.
Come Lei percepiva il cristianesimo in quel momento?
Padre David Neuhaus: Era una questione molto complessa. I miei genitori sono rifugiati della Germania nazista e così siamo cresciuti con la consapevolezza molto forte della storia. Naturalmente, la storia è un luogo dove ebrei e cristiani si incontrano in un’interazione piuttosto traumatica. Ma allo stesso tempo i miei genitori sono molto aperti e molto cordiali e così questo messaggio dei traumi della storia è stato equilibrato con un’apertura verso i nostri vicini.
Si è convertito al cristianesimo in età giovane. Che cosa l’ha ispirata a prendere in considerazione la conversione al cristianesimo?
Padre David Neuhaus: Fu all’età di 15 anni, arrivando per la prima volta in Israele, che ho fatto conoscenza con una delle grandi figure spirituali di quel momento a Gerusalemme, una suora ortodossa russa, che era la badessa di un convento e il suo nome era Madre Barbara.
Crede che fosse persino della nobiltà russa?
Padre David Neuhaus: Sì, era una contessa, un membro dell’aristocrazia russa e attraverso di lei ho incontrato Gesù Cristo. Era una donna, che al momento che la incontrai aveva già 89 anni, paralizzata, incapace di muoversi dal suo letto, ma splendente con la gioia di Cristo ed è questo che mi ha colpito. Non sono andato ad incontrarla perché ero interessato al cristianesimo, ma piuttosto perché ero interessato alla storia russa ed incontrarla è stato veramente un incontro con Gesù Cristo. Non ero molto credente in quel momento e la religione non mi interessa affatto, ma ciò che ha attirato la mia attenzione è stata la grande gioia con la quale parlava di tutto ed era una gioia che mi ha spinto a chiederle: “Perché Lei è così gioiosa? Ha 89 anni, non può camminare, non può muoversi, vive in una minuscola squallida stanzetta. Cosa La rende così felice?”. E questo l’ha spinta a sua volta a testimoniare la sua fede. Questo mi ha semplicemente carpito, catturato. Il passo intermedio, naturalmente, è stato ritornare a casa e raccontare ai miei genitori che avevo incontrato Madre Barbara e attraverso di lei quell’uomo, Gesù.
Qual è stata la loro reazione?
Padre David Neuhaus: I miei genitori erano sotto shock. Mi avevano mandato in Israele. Non se lo aspettavano che il loro figlio ebraico, mandato ad una scuola ebraica in Israele, ritornasse parlando di Gesù e nel corso della conversazione, feci la promessa che avrei aspettato dieci anni. Avevo solo quindici anni. Dissi: “aspetterò fino ai miei 25 anni. Se questo sarà ancora vero quando avrò quell’età, voi accetterete”; e loro furono subito d’accordo. Credo che abbiano pensato: “Sta crescendo e lo supererà”. E infatti hanno accettato e ora ho un rapporto molto, molto stretto con i miei genitori. Ciò successe nel periodo intermedio fu un tentativo di patteggiare sempre più con ciò che questo implicava; credere in Gesù e poi, lentamente ma inesorabilmente, cercare di integrarsi nel suo Corpo nella Chiesa.
Che cosa implica questo?
Padre David Neuhaus: In primissimo luogo, come ebreo, implicava cercare di affrontare in qualche modo i temi molto duri e difficili delle relazioni ebraico-cristiane nella storia, essere attirato dalla Chiesa cattolica a causa del tentativo della Chiesa di affrontare questa storia, un cammino per chiedere perdono e un cammino verso la riconciliazione. La Chiesa Ortodossa, specialmente di tradizione bizantina, mi attirava enormemente, esteticamente mi piacciono molto la liturgia e i canti, è bello, ma quello che ho trovato nella Chiesa cattolica romana era un vero tentativo di assumere la nostra responsabilità come corpo storico nella storia del mondo. La persona che ha aperto la porta è stato papa Giovanni XXIII. La sua volontà di convocare il Concilio e di affrontare questi temi molto, molto difficili riguardo la nostra responsabilità per la storia del mondo, mi ha permesso di pensare che potevo essere cattolico e potevo essere ebreo, quindi ho potuto andare alla mia famiglia e dire: “non sto tradendo il popolo al quale appartengo”. Con i miei genitori, il dialogo è andato avanti per dieci anni e, come ho detto, quando sono stato battezzato all’età di 26 i miei genitori si erano un po’ riconciliati con l’idea di avere un figlio che era una vera e propria “pecora nera” e, come sto dicendo, il rapporto con loro è molto forte.
A che punto di questo processo di conversione ha sentito la vocazione?
Padre David Neuhaus: È venuto quasi subito, ad essere onesto, all’età di 15 anni, tre mesi dopo l’incontro con la Madre Barbara. I ragazzi della mia scuola si chiedevano l’un l’altro di scrivere dove saremmo stati a 30 anni, cioè quindici anni dopo. Io avevo scritto di essere un monaco in un monastero. In quel momento pensavo ancora in termini di Chiesa Ortodossa, ma credo che allora avessi già la netta sensazione dio aver vissuto la mia vita cristiana, dedicandomi al popolo di Dio e tentando di vivere una vita dedicata alla riconciliazione.
Quale è il sacramento con cui ha maggiore affinità?
Padre David Neuhaus: È stato molto chiaro fin dall’inizio della mia vita cristiana, che sono stato molto attratto dall’Eucaristia, dal contatto con il Corpo di Cristo nell’Eucaristia. E, naturalmente, lo ripeto di nuovo, per dieci anni ho assistito regolarmente all’Eucaristia senza essere in grado di parteciparvi.
(La seconda ed ultima parte verrà pubblicata venerdì 24 febbraio)
Questa intervista è stata condotta da Mark Riedemann per Where God Weeps, un programma televisivo e radiofonico settimanale, prodotto da Catholic Radio and Television Network, in collaborazione con l’organizzazione internazionale Aiuto alla Chiesa che Soffre.
In rete:
Aiuto alla Chiesa che soffre: www.acn-intl.org
Aiuto alla Chiesa che soffre Italia: www.acs-italia.glauco.it
Where God Wheeps: www.wheregodweeps.org
[Traduzione dall’inglese a cura di Paul De Maeyer]
da Baltazzar | Feb 20, 2012 | Testimonianze
di Vincenzo Andraous
Quando si parla o si scrive di una persona che non c’è più, a cui ci si è legati per un lungo tragitto di vita insieme, a dispetto di qualsiasi avversità, c’è sempre il rischio di incorrere in una idealizzazione, di appiccicare addosso medaglie e nastrini, sommando parole che non confortano il dolore di questa assenza.
Padre PierSandro Vanzan non era solamente un Gesuita senza paura, un giornalista e uno scrittore arguto e instancabile di Civiltà Cattolica, della carta stampata, è stato soprattutto un amico, un fratello, un padre, e un orizzonte a vista per tutti noi della Comunità Casa del Giovane, una “consueta” coscienza critica, a volte aspra e ammonitrice, ma sempre colma di amore, in nome dell’amicizia con don Enzo Boschetti, fondatore di questa grande casa-comunità di servizio-terapeutica.
Pochi mesi fa era tornato nuovamente tra noi per svolgere ulteriori esami clinici dal Prof. Viganò, con il quale era nato un rapporto affettivo bellissimo, basato sulla stima reciproca. Stava in mezzo a noi con il passo più lento, con l’udito meno buono, ma con la mente lucida di chi non aveva timore di sporcarsi le mani nel dolore e nelle tragedie degli uomini.
Per ogni suo amico, sono certo, ci sarà un momento di sbandamento, ma altrettanto convintamene, indipendentemente dalla fede che si professa, c’è bisogno di ricordare ciò che questo uomo diceva, scriveva, faceva, perché da questa esperienza personale e comunitaria potranno sorgere e rafforzarsi nuove energie cui fare leva, nuove forze interiori per imparare a amare con ardimento: i Santi non sono cartoline illustrate da acquistare nei giorni di festa, ma il respiro di cui non possiamo fare a meno per avere fede e credere a quella Croce dove ora Padre Vanzan sta al suo legno.
Per chi segue il solco di un Vangelo mai ripiegato su se stesso, non è difficile tradurre dalle intenzioni di tante storie tramandate, più che mai attuali, lo stile di vita, i comportamenti quotidiani, e non è irriguardoso accostare Padre Vanzan a un prosieguo della storia più antica e giovane, per continuare ad avvicinare le parole che ci ha lasciato, senza per questo disegnare una verità folgorante che gia c’è, il rischio è più palese e vicino alla terra sotto i nostri piedi, cioè di raccontare e narrare senza sosta la vita di quel legno stretto alle sue mani, facendo ulteriore prossimità con Dio, e non più a quel dubbio che ci serve a nascondere le nostre stanchezze, i nostri limiti, le nostre incapacità ad abbandonarci a ciò che è.
Nei tanti anni che ci hanno visti accanto, ho conosciuto “sottopelle” Padre Vanzan, siamo stati insieme, come lo è stata tutta la Casa del Giovane, fino a diventare la sua grande casa, non era mai un pensiero scontato, non era semplice seguire le sue tracce, le sue orme, perché a volte parevano così profonde da incutere timore, manco fossero di un orso eretto al cielo.
Sono tanti gli episodi che danno l’idea del carico di autorevolezza di questo sacerdote profeta nella santità profetica di chi lo attraversava e accompagnava come don Enzo Boschetti e le sue intuizioni, la sua vista prospettica, il coraggio delle scelte, la generosità della coerenza. Insieme hanno cresciuto un albero della vita importante, la Casa del Giovane, una radice formidabile perché affondata nel loro amore.
L’intensità della passione quando postulava Giovanni Palatucci, il famoso Questore buono, la sua capacità di raccontare quanta giustizia albergava nel cuore di questo funzionario di Polizia, di questo uomo delle istituzioni, e di quanto un uomo possa scegliere di essere giusto, mentre è schiacciato e ucciso dall’ingiustizia più inenarrabile.
C’è un bisogno sincero di onorare persone come queste, di ancorarle al cuore, alla vita spirituale di ognuno, alle fatiche dell’esistenza, per farne esempio da rileggere ogni volta che servirà.
da Baltazzar | Feb 10, 2012 | Chiesa, Testimonianze
Rinasce la passione per la Vita consacrata
di Antonio Gaspari
ROMA, giovedì, 9 febbraio 2012 (ZENIT.org).- E’ possibile nel mondo di oggi vivere con la stessa radicalità evangelica di san Francesco d’Assisi?
Può essere praticata la fratellanza dove l’utilitarismo sembra rendere meschini anche gli animi più gentili?
Può risorgere il fuoco d’amore della Vita consacrata in un contesto così materialista e riduzionista?
Come essere capaci di vivere in castità, povertà ed obbedienza, quando intorno domina la banalità del male?
Queste e altre domande le abbiamo rivolte a Sorella Chiara Del Ben della Fraternità Francescana di Betania, (FFB) (http://www.ffbetania.it/) un giovane Istituto di Vita Consacrata di diritto diocesano composto da fratelli, sia chierici che laici, e da sorelle che si consacrano a Dio.
La FFB fondata da Padre Pancrazio, al secolo Nicola Gaudioso, è una conferma evidente di quella primavera della Chiesa di cui parlava il Beato Giovanni Paolo II. Un realtà religiosa dove, gioia, canti, preghiera, lavori e opere di bene sono fraternamente condivise con tutti quelli che ci entrano in contatto.
ZENIT ha chiesto a Sorella Chiara Del Ben: Perché scegliere la vita consacrata oggi?
sorella Chiara: Oggi come ieri la motivazione è Cristo: essa regge nel tempo a tutte le attrattive possibili e ad ogni attacco che ci può venire dall’esterno. In realtà però io non ho scelto la vita consacrata ma Cristo, anzi per essere più precisa è lui che ha scelto me, è lui che mi ha fatto pregustare il suo amore immenso, che mi ha fatto girare la testa, che ha fatto passare in secondo piano ciò che avrei potuto benissimo considerare la cosa più importante: l’amore di un uomo, la maternità, il lavoro. Ed io non ho trovato di meglio che ricambiare l’amore con l’amore, il suo dono infinito con tutto quello che sono e che ho.
In che modo ha conosciuto la FFB e perchè ha deciso di seguirne le orme?
Sorella Chiara: Ho conosciuto questa fraternità prima indirettamente attraverso l’entusiasmo di quanti tornavano a casa dopo avervi trascorso alcuni giorni. Quando accennavano a quell’esperienza i toni del racconto mi sembravano persino esagerati nell’esprimere la bellezza di ciò che avevano vissuto. Poi mi sono avvicinata personalmente alla fraternità verso i 24 anni e la cosa che più mi colpiva era la meraviglia della comunione: vedere riuniti tanti consacrati, uomini e donne, per la maggior parte giovani, di varie parti d’Italia, di estrazione sociale e formazione culturale diverse, di idee politiche differenti, mi faceva toccare con mano l’opera dello Spirito. La fraternità mi appariva non come un devoto gruppo di persone che seguivano uno stesso ideale, ma come una famiglia stretta, nel nome di Cristo, da vincoli di affetto vero e di stima sincera. Nel lungo cammino di discernimento personale sulla mia vocazione ho conosciuto diverse congregazioni religiose femminili ed anche altre “miste”, cioè maschili e femminili insieme, ma quella che mi ha fatto innamorare è la Fraternità Francesca di Betania: in essa ho intravisto la possibilità di realizzare concretamente il mio sogno di seguire Cristo, radicalmente e con gioia, dando finalmente compimento al desiderio di donarmi tutta a lui, a tempo pieno e a cuore indiviso.
Come si svolge la giornata di una sorella della FFB?
Sorella Chiara: Le nostre giornate sono intessute di preghiera e lavoro, vita fraterna e accoglienza. La preghiera è la relazione personale e profonda con Gesù, è il nutrimento senza il quale tutto il resto si spegnerebbe velocemente: oltre alla preghiera personale, abbiamo circa 4 ore di preghiera comunitaria, tra il giorno e la notte. Con il nostro lavoro affrontiamo le necessità quotidiane affidandoci alla divina Provvidenza e, in spirito di solidarietà, ci facciamo vicino a quanti chiedono un aiuto materiale e spirituale nel rispetto del nostro carisma. La vita fraterna è lo sfondo di tutta la nostra vita, è il primo modo di vivere l’accoglienza e l’amore reciproco, è la forza dell’armonia esistente nelle nostre relazioni, è la scuola che ci insegna a conoscere noi stessi e gli altri in un cammino di pazienza e di misericordia, è la dimensione che ci permettere di esercitarci concretamente nelle virtù. L’incontro con Gesù ci apre poi ad accogliere quanti vengono per condividere con noi un po’ del loro tempo e del loro cammino alla ricerca di Dio. In essi incontriamo Gesù, come Marta, Maria e Lazzaro facevano a Betania.
Quali le attività più piacevoli, quali le più difficili?
Sorella Chiara: Penso che nella Fraternità non ci sia il tempo di annoiarsi: i diversi lavori sono fatti a turno un po’ da tutti, rispettando le proprie capacità e preparazioni specifiche, in spirito di semplicità francescana. Lavare i piatti, pulire le camere, lavorare in officina, fare un turno in stireria, cucina, servire alla mensa dei poveri, impegnarsi in una missione popolare, animare il canto, riparare un bagno, impegnarsi nell’apostolato con gli oblati, con i giovani o con i gruppi di preghiera: queste sono alcune delle nostre attività e personalmente faccio fatica a scegliere quelle piacevoli e a definire quelle più difficili: seguendo Gesù ho imparato ad offrire per amor suo tutto quello che faccio, e se a volte una cosa mi costa di più, ciò mi richiede più amore e allora quell’occasione diventa la più bella.
In che modo si possono sviluppare le virtù necessarie per essere sempre innamorate di Cristo e svolgere opere di infinità carità?
Sorella Chiara: Non ci si accontenta di dire alla persona amata “ti amo” una sola volta nella vita. Non si finirebbe mai di dirlo spinti dalla passione, e poi quando la passione svanisce, lo si deve continuare a dire se si vuol tener desto l’amore, quello vero fatto non solo di sentimento ma di scelte concrete, di volontà costante, di fedeltà a volte sanguinante. Nell’arco di una giornata ci sono mille occasioni per gettare una piccola pagliuzza nel fuoco della carità e da ciò dipende il nostro essere sempre innamorate. Poco importa che quella pagliuzza sia un umile gesto o un’opera eclatante: ciò che da valore a tutto è l’amore.