«Si sieda sul water e non guardi giù, puliamo tutto noi». Così funziona l’aborto fai da te in America

«Si sieda sul water e non guardi giù, puliamo tutto noi». Così funziona l’aborto fai da te in America

di Benedetta Frigerio da www.tempi.it

Un nuovo video di Live Action svela la crudeltà delle interruzioni di gravidanza nei primi giorni di vita del bambino 

aborto fai da teIl gruppo pro life “Live Action” ha pubblicato la sesta di una serie di inchieste video che mirano a rendere noto al grande pubblico – dopo il clamoroso processo al medico abortista Kermit Gosnell, condannato per crimini orribili sui neonati e sulle donne – quello che avviene normalmente nelle cliniche abortive degli Stati Uniti.

In quest’ultimo documentario Live Action rivela la crudeltà dell’aborto quando questo è effettuato su bambini alle prime settimane di vita: il protocollo seguito dai medici in questi casi è altrettanto terribile e per di più, diversamente da quanto accade per l’aborto chirurgico, la donna è lasciata sola a vivere in piena coscienza tutto quello che avviene.

La procedura abortiva descritta nel filmato è quella basata sul ricorso a sostanze medicinali letali per il bambino. Si tratta di un metodo che comprende l’induzione del parto: con un ago inserito nel ventre della madre vengono iniettate sostanze velenose nel liquido amniotico e con altri medicinali si provocano le doglie per l’espulsione del bambino morto. Il documentario è costruito con le registrazioni di conversazioni telefoniche intercorse fra le pazienti e i medici della Southwestern Women’s Options Clinic di Albuquerque, nel New Mexico. Il video contiene immagini piuttosto forti.

Qui di seguito proponiamo una nostra traduzione dei dialoghi.

Telefonata 1
Medico: Quello che sappiamo è che lei è alla ventisettesima settimana.
Donna: Oh davvero?
Medico: Sì, quindi è a circa un mese da… sì, effettivamente, lei è un mese avanti rispetto a quanto credeva. Questo cambia i suoi sentimenti al riguardo?
Donna: È solo che non sapevo di essere così… così avanti, ma c’è differenza?
Medico: È differente la procedura… è fatta di… induciamo il parto. Così partorirà un bambino morto.

Telefonata 2
Medico: Facciamo l’iniezione che blocca il battito del feto, ok? Ha già sentito qualche movimento?
Donna: Mmmh…
Medico: Poi il secondo giorno controlliamo, ci assicuriamo che abbia funzionato, ok? Ok? Questo non è… non è qualcosa che scivola via… il terzo giorno quindi induciamo il parto… e sarà dura quell’ultimo giorno.
Donna: Sì, perché è… è come partorire un bambino.
Medico: Sì.
Donna: Ah ok…
Medico: Ma è più piccolo.
Donna: È piccolo.
Medico: Ma comunque è intenso.

Telefonata 3
Consulente: Inserire l’ago dell’iniezione, andrà dritto dentro la sacca… dentro la gravidanza, ok? Lui è a testa in giù. Si inserisce verso il dorso del bambino, ok?
Donna: Ok…
Medico: Se ha la testa in giù sarà inserito verso il cranio.
Donna: Ma lui lo sentirà?
Consulente: Uhm… sa, io non… non sono sicuro. Non so se è abbastanza sviluppato per sentire. Uhm… ma potrebbe essere… questa idea la infastidisce?
Donna: Eh un po’… sì, credo… a lei no?
Consulente (ridendo dolcemente): Beh, penso che sia, uhm, necessario che accada per completare la procedura in modo sicuro… insomma, è forse il modo più umano di farlo. Perché non possiamo far partorire un bambino vivo.
Donna: Quindi è come partorire un bambino.
Medico: Mmmh…
Donna: Un bimbo morto.

Telefonata 4
Consulente: Sente la pressione… si muove? Sta partorendo, allora non chiuda a chiave la porta della stanza d’albergo. Tenga vicino il cellulare e si sieda sul gabinetto… Non deve guardare nulla, non deve pulire nulla, stia solo al telefono con noi e, uhm… beh, noi proveremo a… stia al telefono con noi finché il dottore e l’infermiera arriveranno lì. Ok?
Donna: E cosa succede se… se esce mentre sono in bagno?
Consulente: Semplicemente non deve guardare giù, non deve fare nulla. Il medico e la dottoressa verranno a prendersi cura di lei… cioè se pensa che sia troppo guardarlo, beh, si sforzi di non guardarlo.
Donna: Ok…
Consulente: Ok? Uhm, se mai si copra con un asciugamano o con qualcosa…
Donna: Ok.

Telefonata 5
Dottore: Se lei è fra le fortunate che non provano dolore con le contrazioni, e all’improvviso lei è lì e: “Ah, qualcosa sta uscendo”, allora si sieda sul water.
Donna: Ok.
Medico: Chiami e non chiuda la porta della camera d’albergo e noi entriamo e veniamo da lei…
Donna: E se sono in bagno ed esce e finisce nel water? Cosa faccio?
Medico: Stia seduta lì, deve stare lì. E non si muova fino a quando non arriviamo.
Donna: Ok, non devo preoccuparmi di tirarlo fuori da lì?
Medico: Non deve guardare né pulire nulla…
Donna: Lei lo…
Medico: Sì.
Donna: Lo farà lei?
Medico: Faremo tutto.

Lumen Fidei. L’enciclica di papa Francesco e Benedetto XVI sarà presentata venerdì

Lumen Fidei. L’enciclica di papa Francesco e Benedetto XVI sarà presentata venerdì

da www.tempi.it

Papa Francesco ha integrato il testo scritto prima della fine del suo pontificato da Benedetto XVI. È un documento «breve e forte»

papa-francesco-benedetto-xviSi chiama “Lumen fidei”, la luce della fede, e sarà presentata venerdì prossimo in Vaticano. La prima enciclica di papa Francesco, che ha integrato un testo cominciato da Benedetto XVI è pronta, così come le traduzioni nelle diverse lingue. Secondo quanto dichiarato dal direttore della Sala stampa, padre Federico Lombardi, sarà uno scritto «non lungo nell’estensione» ma «forte». Si pensava che la pubblicazione sarebbe avvenuta in autunno, in concomitanza con la chiusura dell’Anno della Fede, il prossimo 24 novembre e invece Bergoglio ha anticipato tutti.

TRILOGIA. L’enciclica sarà presentata dal cardinale Marc Ouellet, prefetto della congregazione dei Vescovi e molto legato a Ratzinger, con cui ha condiviso l’esperienza della rivista Communio. Con lui, il prefetto della congregazione per la Dottrina della fede, il tedesco Gerhard Ludwig Müller e monsignor Rino Fisichella, presidente del Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione. “Lumen fidei” chiude la trilogia di encicliche dedicate alle virtù teologali, aperta nel 2005 con la “Deus caritas est” e proseguita due anni più tardi con la “Spe salvi”.

SCRITTA A QUATTRO MANI. Inizialmente si pensava che l’enciclica sarebbe stata pubblicata prima del 28 febbraio, quando si è chiuso il pontificato di Benedetto XVI, ma poi è filtrato che lo scritto non era ancora completato. Una volta diventato Papa, Francesco ha preso il testo incompiuto del predecessore, ne ha parlato con Ratzinger e ha deciso di completarlo, mantenendo quanto già scritto per farlo uscire il prima possibile.

Veilleurs debout, le “giovani statue” che protestano contro le nozze gay. «Piuttosto morire in piedi che vivere in ginocchio»

Veilleurs debout, le “giovani statue” che protestano contro le nozze gay. «Piuttosto morire in piedi che vivere in ginocchio»

di Irene Pasquinucci da www.tempi.it

In silenzio giorno e notte davanti ai palazzi del potere per opporsi alla legge sul matrimonio omosessuale. Solo intonando “la Strasburghese”, canto militare patriottico francese 

veilleurs-debout-1-620x340Da una settimana i veri protagonisti delle piazze di Parigi non sono i turisti americani o gli artisti di strada, ma semplici ragazzi uguali a tanti altri che stanno in piedi e in silenzio giorno e notte come delle statue. I passanti si chiedono cosa succede, ma nessun giornale e nessuna televisione francese parla di questo fatto. Invece su Facebook o su Twitter siamo bombardati da centinaia di account e di post: sono i #veilleursdebout e sono dappertutto: a Place Vendôme, davanti al Palazzo di Giustizia, sul marciapiede di fronte all’Eliseo, in Place de la République, a Lione, Tolone, Reims, in tutta la Francia e anche in Europa.
Si pongono infatti nel solco delle proteste della Manifestation pour tous contro la legge Taubira, ma manifestano anche per la condanna di uno di loro, il 23enne Nicolas punito per “ribellione e rifiuto di prelievo” da parte della polizia a quattro mesi di prigione, di cui due obbligatoriamente in carcere, e a 1000 euro di multa. Difendono Nicolas perché «non lasceremo mai che un uomo venga imprigionato per un ideale».

L’IMPOSSIBILE. I veilleurs sono sempre là, in piedi, silenziosi, immobili. Come le statue dei re sulla facciata di Notre-Dame. È il silenzio assoluto. Ogni tanto cantano. Leggono, pregano, studiano, di giorno e di notte, si danno il turno e qualche loro amico o qualche bambino porta loro da mangiare.
Sono soprattutto giovani studenti, ma sono anche madri, uomini d’affari, sono le sentinelle della libertà della Francia. Per questo vogliono stare in piedi “debout”: non si è mai vista una sentinella seduta. Vogliono vegliare: non si è mai vista una sentinella addormentata. Il loro motto è la frase di Camus: «Piuttosto morire in piedi che vivere in ginocchio».
Sembra una modalità di protesta inutile, senza cartelli, senza slogan, senza urli e violenze. Ma tutti i passanti vengono colpiti da quel che accade: tutti si chiedono cosa succede, qualcuno li insulta, qualcuno li sprona a continuare, ma nessuno ne rimane indifferente. È la potenza della presenza.
Ecco allora che citano anche Mark Twain: «Non sapevano che era impossibile e allora lo hanno fatto».

FORZA IDEALE. Un ragazzo ad esempio a place Vendôme ha vegliato in piedi per più di 11 ore, solo, davanti al ministero, imprigionato dalle barriere poste dalla polizia: se si fosse allontanato, non avrebbe potuto tornare più in quel posto. Questi ragazzi inermi vengono sempre circondati dai gendarmi in assetto da guerra perché vogliono obbligarli a ritirarsi per la paura di essere picchiati o imprigionati. Spopola in rete il video di alcuni veilleurs che alle 5 del mattino, distrutti dopo una notte in piedi, intonano a più voci “la Strasburghese” canto militare che esalta il patriottismo francese. Il canto parla della guerra franco-prussiana del 1870: una bambina è sola al freddo e al gelo. Ha appena perduto suo padre, caduto in battaglia, poi sua madre «pregando sotto questa cattedrale / mia madre è morta sotto questo portico crollato» e rifiuta l’elemosina di un soldato nemico; dice che il suo cuore resterà per sempre francese: «Avete avuto l’Alsazia e la Lorena / ma il mio piccolo cuore non l’avrete mai, / il mio piccolo cuore resterà sempre francese».
Jean, giovane dentista, ci racconta: «C’è un parallelo emozionale con quel che viviamo: non siamo in guerra, ma abbiamo un combattimento bello e buono (ideologico, lungo e difficile). Ci sentiamo talmente piccoli di fronte all’enorme macchina governativa e mediatica che ci disprezza, ci ignora, disinforma la Francia. Ci sentiamo fragili come questa piccola bambina, ma anche potenti come lei per la sua resistenza totale. Il canto è stato cantato per la prima volta quando i gendarmi hanno espulso un gruppo di veilleurs che si erano messi di fronte all’Eliseo. Ma è quando siamo più stanchi che sentiamo tutta la nostra forza ideale».

LoveIsLove? Non basta. Saggio sul paradosso della omogenitorialità

LoveIsLove? Non basta. Saggio sul paradosso della omogenitorialità

di Vittorio Cigoli – Eugenia Scabini da www.tempi.it

Anche le coppie omosessuali, allorché hanno figli, non possono che fare i conti con la differenza di genere maschile e femminile. 

vita-e-pensiero

LoveIsLove ha scritto su twitter il presidente degli Stati Uniti Barack Obama alla notizia della decisione della Corte Suprema statunitense di abrogare il Doma. Ma non è senza conseguenze un mondo in cui si accettino matrimonio e adozioni omosessuali.
Pubblichiamo di seguito uno stralcio del saggio “Sul paradosso dell’omogenitorialità”, uscito sull’ultimo numero della rivista 
Vita e Pensiero. Il breve saggio è firmato da Vittorio Cigoli, professore di Psicologia clinica delle relazioni di coppia e famiglia, e Eugenia Scabini, professore emerito di psicologia sociale. I due autori, dopo aver ricordato le ricerche dei sociologi Mark Regnerus e Loren Marks, entrano nel merito della questione psicologica.

Possiamo partire dalla posizione psicoanalitica classica, chiaramente espressa da Silvia Vegetti Finzi, che fa leva sul triangolo edipico, architrave dell’inconscio, che ritiene essenziale, per un corretto sviluppo dell’essere umano, il riferimento al padre e alla madre. L’identità si costruisce attraverso un processo di identifi cazione che coinvolge tanto la psiche quanto il corpo sessuato dei genitori e che si delinea nella differenza. Al proposito noi preferiamo parlare, con un termine forte, di “incorporazione” ancor prima che di identificazione: la persona del figlio si incorpora infatti nella storia familiare, cioè ne è parte costitutiva.

Ma anche tra gli psicoanalisti vi sono altre posizioni, come ad esempio quella espressa da Antonino Ferro; si parla in questo caso di sessualità come accoppiamento tra le menti e di funzioni paterne e materne che possono essere esercitate prescindendo da qualsiasi riferimento al corpo sessuato. Si sente qui l’infl uenza delle teorie del gender e in particolare della queer theory che, in linea con la posizione costruttivista, sostiene la tesi che il genere è una pura costruzione sociale (come ampiamente discusso nel contributo di Sylviane Agacinski sul numero scorso di «Vita e Pensiero»). Una posizione, questa, che riteniamo “riduzionista” perché denega la differenza anatomo-biologica.

barack-obama-gay

Questa posizione si inserisce in quel fenomeno che Chasseguet-Smirgel (Il corpo come specchio del mondo, 2005) ha acutamente indicato come rivolta contro l’ordine biologico caratteristica della cultura dell’Occidente che oggi assume varie forme, dalla mutilazione dei corpi e commercio degli organi, agli interventi di mutazione del sesso, alle madri in affitto, al reimpianto di embrioni congelati dopo la morte dei genitori o di un genitore. All’origine di questo drammatico disinvestimento sul corpo, che lo “depersonalizza” togliendogli il carattere di corpo vivente, sta la mancata integrazione o meglio, se si vuole, la scissione, tra l’io corporeo e l’io psichico. Ciò porta a varie forme di perversione mosse da un desiderio di onnipotenza (è del desiderio inconscio la connaturata insofferenza del limite) che vuole fare accadere ciò che è impossibile, com’è il generare con corpi “omogeneri”. Ci troviamo così di fronte all’ibrido e all’indistinto. È entro questo quadro che si situa la concezione del corpo come indifferenziato; in esso scompaiono le differenze tra i sessi e tra le generazioni (ma anche tra il bambino e l’adulto) e si preconizza una società fatta di ibridazioni, transgenere, postpadre e postmadre.

In tale contesto si evidenzia così una nuova forma di rischio generativo che oggi vive non tanto di imposizione e/o di subordinazione di un genere sull’altro o del genitore sul fi glio, ma piuttosto utilizza il diniego della differenza tra generi e generazioni e sostiene la loro confusione e indistinzione. Potremmo parlare dell’hybris dell’uomo moderno, che nega il limite e il vincolo dell’essere generato, dell’appartenere a un sesso (e perciò non a un altro) e di abbisognare dell’altro per generare.

La differenza di genere, generazione, stirpe è invece la costante e lo specifi co dei legami familiari. Tale differenza viene trattata in modo diverso dalle varie culture, ma è risaputo come le scissioni tra ordine biologico e psico-antropologico e il diniego delle differenze stiano all’origine di molti e gravi problemi relazionali. Usando una terminologia lacaniana, potremmo dire che l’immaginario (il mondo delle rappresentazioni) ha la meglio sul registro simbolico (il terzo tipico del legame che viene dalla differenza). In ogni caso l’attacco alla differenza e alla complementarietà che ne deriva, che si manifesta attraverso l’invidia, il disprezzo e l’abuso nei confronti dell’altro è un pericolo ricorrente dei legami familiari, come la storia ben insegna.

Cosa accade allora sul piano psichico-generazionale quando una coppia “omo” affronta la sfida della genitorialità?

La prima riflessione riguarda proprio il fatto della richiesta di diventare genitori. Perché? Vi possiamo leggere l’attrattiva nostalgica di un bene da cui si è esclusi per scelta e condizione di vita, ma anche una sorta di contraddizione e quasi “un tradimento” di questa scelta, come afferma certa colta cultura gay che, riconoscendosi nella sua specificità, parla in questi casi di omofobia internalizzata. Più in generale il clinico (V. Cigoli, Il viaggio iniziatico, 2012) vi legge un’angoscia a cui consegue quasi un’ossessione di normalità che può celare un profondo vissuto di inferiorità-marginalità, sentimento che non è peraltro proprietà esclusiva di coppie gay o lesbiche, dato che attraversa la vita di molte coppie e persone. In particolare, l’assillo della normalità si manifesta nella rivendicazione del diritto di ottenere legittimazione sociale. È come se il problema (cioè un ostacolo, un interrogativo profondo) trovasse una soluzione defi nitiva nella legittimazione legale e sociale. Ma il “normale”, sia esso statistico o legale, non è in grado, in sé, di rispondere alla specifi cità dell’esserci al mondo e del proprio valore.

Ma veniamo ora al travaglio psichico della coppia “omo” che inizia l’itinerario della fi liazione facendo ricorso a inseminazione eterologa o ad affi tto dell’utero.

In una delle (poche) ricerche qualitative condotte in Belgio con interviste in profondità su coppie gay e lesbiche (D. Naziri, E. Feld-Elzon, A. Ovart, Les nouvelles familles, 2010), gli autori, a proposito di queste ultime, si soffermano sul vissuto minaccioso relativo alla presenza del donatore anonimo, al quale giocoforza la coppia deve ricorrere. Il tema dell’estraneo persecutore è del resto presente anche nelle coppie che ricorrono alla fecondazione eterologa, come ha ben mostrato Marie-M. Châtel. Questa presenza intrusiva viene vissuta secondo modalità diversifi cate da quella che sarà la madre biologica e quella che invece sarà la madre sociale; in ogni caso, tale presenza rompe il “fantasma dell’identico” reintroducendo il rapporto con la differenza anatomica senza la quale non si dà fi liazione. E non che tutto questo possa essere risolto sic et simpliciter facendo uscire dall’anonimato il donatore (che in genere è prezzolato, a meno che si tratti di un amico gay), perché egli da una parte ripropone la scissione tra il biologico e il simbolico (è un produttore di seme, non certo un padre) e dall’altra, nella misura in cui “pretende” di fare da padre, attenta alla coppia omosessuale in quanto appunto “omo”, qualifi cantesi cioè per l’identico-ibrido.

Per quanto riguarda poi le coppie gay, come nota Gratton, i resoconti di cui disponiamo sono più limitati numericamente (e in effetti le coppie omogenitoriali lesbiche sono assai più numerose delle coppie omogenitoriali gay). Ciò non toglie che qualche profonda differenza balzi in tutta evidenza. Esse fondamentalmente paiono consistere nel fatto che la scelta genitoriale dei gay è molto meno di coppia e molto più del singolo e che tale scelta mette in evidente contraddizione il Sé omosessuale con il Sé genitoriale. Ciò con buona probabilità a causa del fatto che manca l’aggancio del corpo nell’esperienza della gravidanza, presente nelle donne lesbiche. Il passaggio alla genitorialità è quindi ben più trasgressivo, più sfi dante in termini di onnipotenza, più insomma al di là del limite. Ma anche in questo caso il luogo generativo (utero in affi tto) e la sua presenza terza non può in nessun modo essere ignorata. A ciò si aggiunga il dramma di chi affi tta l’utero e si tiene il bambino in grembo “obbligandosi” (attraverso potenti meccanismi di scissione) a trattare il proprio e altrui corpo come una cosa priva di senso e parola generazionale. Cosa ne facciamo allora del sofisticato dialogo madre-bambino intrauterino di cui da tempo parla la ricerca psicologica? E l’intersoggettività come presupposizione dell’umano è solo un fatto operante in presenza fisica?
In realtà anche le coppie omosessuali, allorché hanno figli, non possono che fare i conti con la differenza di genere maschile e femminile.

Ecco il paradosso.

Ma vi è di più, essere genitori fa rientrare inevitabilmente le persone nella logica dello scambio tra le generazioni. Il figlio non va confuso con il bambino, un generato che, attraverso la coppia, entra nel registro generazionale. Sarà neonato, bambino, adolescente, adulto e anziano, ma la sua iscrizione è generazionale, come ben evidenzia la clinica sistemico-relazionale. Purtroppo anche molta ricerca psicologica, in nome degli individui che fanno coppia, denega tale evidenza e confonde la coppia genitoriale con la generatività che riguarda sempre più generazioni. È come, insomma, se la coppia fosse all’origine di tutto e non fosse a sua volta generata. Così anche la coppia omosessuale, proprio come la coppia eterosessuale, nel momento in cui entra nel registro della genitorialità deve rispondere dei legami e delle storie generazionali in cui il figlio si iscrive.

In quale storia generazionale si iscrive il figlio? Da quali “antenati” ha preso e che cosa? Che posto occupa nella genealogia di ciascun membro della coppia? E come tutto questo viene vissuto dalle famiglie di origine? E che ne è della “stirpe” del donatore o della donna che ha prestato l’utero? Questo problema si ripropone inevitabilmente a livello genetico (specie quando compare qualche malattia), ma nell’umano il genetico è più propriamente il corporeo, quel corpo vivente che è da subito simbolizzato.

Qui si situa per il figlio il tema cruciale delle origini e della loro oscurità che, come sappiamo dagli studi sull’adozione, è un nodo altamente critico e problematico. Vi è però una differenza a proposito della fantasmatica sull’assente e del segreto delle origini nell’adozione e nella fecondazione eterologa. Nel primo caso, diversamente che nel secondo, la coppia eterosessuale che offre un corpo infecondo nel quale è presente la differenza non sceglie di far nascere il figlio secondo la modalità “prometeica” omogenere, ma sceglie di accogliere un figlio già nato (quindi dato) che, nel suo dramma, ha un abbandono e spesso un segreto d’origine. È quindi meno esposta alla fantasia del terzo “estraneo e persecutore”.

Il nostro “modello relazionale-simbolico” di lettura dei legami famigliari (cfr. E. Scabini, V. Cigoli, Alla ricerca del famigliare, 2012) ritiene centrale sia il tema della differenza di genere, sia quello della differenza di generazione e di stirpe, e con esso il tema delle origini.

Quest’ultimo è legato al transfert generazionale che vive di azioni tipiche quali il trasmettere e il tramandare. Partendo da questa prospettiva possiamo perciò chiederci: qual è l’eredità con la quale il figlio delle coppie “omo” deve fare i conti? Egli, per situarsi come soggetto con una sua identità, dovrà trattare il congiungimento con la differenza sessuale da cui è venuto, differenza che la coppia adulta omogenitoriale non ha affrontato o ha affrontato scindendo il biologico (seme, utero) dal simbolico, facendo evaporare dal corpo la parola che lo innerva di senso. Egli dovrà cioè integrare ciò che gli arriva scisso, dovrà dare parola, se mai lo potrà fare, all’ignoto-oscuro che grava sulla sua origine. Il compito che avrà sulle spalle è perciò assai arduo e rischioso. Inoltre, e questo è altrettanto decisivo, dovrà orientarsi nella complicazione delle genealogie per trovare il suo posto nella storia delle generazioni che rappresentano il filo rosso che consente riconoscimento. L’essere umano sa chi è non solo se è riconosciuto dagli altri signifi cativi, ma se entra in un ordine che consente riconoscimento.

La famiglia non è solo luogo di affetti, di amore e odio, ma vive anche di un ordine strutturale e simbolico, vive di una dinamica generazionale che ha le sue regole e le sue leggi. Genealogie confuse, assenti o enigmatiche, non facilitano certo il viaggio che fa del bambino un figlio. Nella clinica, specie di orientamento generazionale, ben conosciamo le patologie connesse a tali accadimenti.

Il peso della responsabilità

Ecco infine alcune e non secondarie annotazioni. Stupisce che il tema della omogenitorialità, che comporta necessariamente il destino dei generati, venga posto quasi esclusivamente nei termini dell’eguaglianza di opportunità e di diritti degli adulti, eludendo il tema della responsabilità che sempre le generazioni precedenti hanno su quelle successive, tema che non è solo della singola persona o della coppia che fa questa scelta, ma anche del corpo sociale che può favorirla o ostacolarla avvertendone il pericolo per il proprio futuro.

Non sposiamo di certo la causa del determinismo per quanto riguarda sia lo sviluppo della persona sia la trasmissione tra le generazioni. Sappiamo bene (e l’atteggiamento che ha contraddistinto tutto il nostro lavoro di ricerca, di intervento e di formazione è lì a testimoniarlo) che, anche nelle situazioni più diffi cili, gli esseri umani, anche attingendo a incontri “benefi ci”, possono trovare risorse impreviste. E questo auguriamo ai bambini che crescono in contesti di “omoparentalità” e anche agli adulti che fanno queste scelte. Ma tutto ciò non ci esime dall’evidenziare il rischio e pericolo aggiuntivo di tali situazioni che la psicoanalista Janine Chasseguet-Smirgel con espressione forte così esprime: «Solo la mancanza di immaginazione permette di veder avanzare con tranquilla stupidità l’enorme massa di problemi che tutto questo ci propone e ci aspetta».

Stupisce anche, da un punto di vista psicologico, che il dolore profondo e l’angoscia che accompagna tali itinerari di vita (sia per gli adulti sia per i fi gli) venga così raramente alla luce. È come se non fosse possibile parlare di ostacoli, problemi, drammi, invidia, bisogno di riconoscimento essendo tutto coperto dall’“amore”.

La ricerca, come abbiamo visto, è rivolta soprattutto a sottolineare gli esiti di “normalità” nello sviluppo dei fi gli. Ma, se non è compito della psicologia patologizzare, non lo è neppure “normalizzare”. Piuttosto essa è chiamata a comprendere come si articola la bilancia risorse-rischi per aiutare le persone a far fronte alle diffi coltà, specie quelle che hanno a che fare con i processi di umanizzazione. Su questi temi oggi è molto diffi cile avviare discussioni “oneste” perché il discorso viene facilmente ideologizzato. Forse il tempo ci aiuterà a vedere con più chiarezza e meno semplifi cazioni ciò che queste scelte comportano. Al proposito anche su questo punto possiamo trarre qualche indicazione dalla storia delle ricerche e degli studi sui “figli del divorzio”. Infatti, mentre nelle prime ricerche gli aspetti di problematicità e di sofferenza venivano attribuiti riduzionisticamente allo stigma sociale, ora che tale stigma non può più essere evocato (stante anche la grande diffusione del divorzio che lo rende statisticamente normale) il peso e il dolore che accompagna questi fi gli, ora adulti, viene più facilmente alla luce.

Ci auguriamo che il corpo sociale possa rendersi conto dei problemi che l’omogenitorialità porta con sé e che si ponga ora responsabilmente doverosi interrogativi. Ciò implica sia il sentire di appartenere a un corpo sociale di cui si condividono le sorti future, sia la capacità di appoggiarsi ad argomentazioni solide.

Nello spettro delle argomentazioni la psicologia occupa un posto non marginale, ma non occupa di certo l’unico posto. Essa è un sapere empirico-clinico con le limitazioni inerenti al suo statuto scientifico e poggia inevitabilmente su presupposizioni antropologiche che, in tema di filiazione, fanno riferimento alla cultura che ha forgiato l’Occidente.

E perciò, anche noi ricercatori e operatori della salute non possiamo non fare i conti con la concezione dell’umano che ci guida e con i seri interrogativi che si pongono se essa viene messa in discussione. A meno di essere servi della stupidità sulla base del pregiudizio che «la ricerca ha dimostrato» e dell’affermazione che «tanto quello che conta è l’amore».

“Nostalgia” e “curiosità” ci intrappolano nel peccato

“Nostalgia” e “curiosità” ci intrappolano nel peccato

Durante l’omelia a Santa Marta, papa Francesco esorta ad essere “coraggiosi nella nostra debolezza” per proseguire lungo la strada del Signore

da www.zenit.org di Luca Marcolivio

Fuggire dal peccato, lasciandoselo alle spalle senza “nostalgia”. Su questo non facile tema, papa Francesco ha articolato la sua omelia durante la messa mattutina a Santa Marta.

Alla funzione hanno partecipatoun gruppo di sacerdoti e collaboratori del Tribunale della Penitenzieria Apostolica, un gruppo della Pontificia Accademia Ecclesiastica e, in qualità di concelebranti, il cardinale Manuel Monteiro de Castro e monsignor Beniamino Stella.

Nelle situazioni “difficili” o “conflittuali”, ha spiegato il Papa, gli atteggiamenti ricorrenti sono quattro: il primo è quello della “lentezza” che si riscontra in Lot, protagonista della Prima Lettura di oggi (Gen 19,15-29).

Quando l’angelo gli consiglia di abbandonare la sua città distrutta, Lot lo fa ma è troppo titubante: in lui, infatti, c’è “l’incapacità del distacco dal male, dal peccato”. Per questo motivo Lot si mette perfino a negoziare con l’angelo.

Sebbene dalle situazioni peccaminose spesso sia difficile tirarsi fuori, il Signore ci dice sempre: “Fuggi! Tu non puoi lottare lì, perché il fuoco, lo zolfo ti uccideranno”.

Chi ha seguito alla lettera questo principio è stata, ad esempio, Santa Teresa del Bambino Gesù, la quale riconosceva che, in certe tentazioni “siamo deboli e dobbiamo fuggire”: si tratta, tuttavia, di una fuga “per andare avanti, nella strada di Gesù”, ha sottolineato il Santo Padre.

L’angelo, poi, dice a Lot di “non guardare indietro” e di vincere la nostalgia del peccato in cui cadde il popolo di Dio nel deserto che arrivò a provare “nostalgia delle cipolle d’Egitto”, dimenticando che quelle cipolle venivano servite “sulla tavola della schiavitù”.

Va quindi vinta la tentazione della curiosità che, nelle situazioni di peccato, “non serve” e “fa male”, ha ammonito il Pontefice.

C’è una terza tentazione da vincere ed è quella della “paura”, che ghermisce gli Apostoli durante una tempesta sul mare di Tiberiade (cfr. Mt8,23-27). In preda al terrore, esclamano: “Salvaci signore, siamo perduti!”. Anche “avere paura di andare avanti sulla strada del Signore”, è una “tentazione del demonio”. La paura, però, “non è un buon consigliere” e più volte anche Gesù lo ribadisce, ha osservato il Santo Padre.

Il quarto atteggiamento davanti al peccato è quello virtuoso ed è “la grazia dello Spirito Santo”. Cosicché, davanti al peccato, alla nostalgia, alla paura, dobbiamo rivolgerci a Dio con queste parole: “Signore, io ho questa tentazione: voglio rimanere in questa situazione di peccato; Signore, io ho la curiosità di conoscere come sono queste cose; Signore io ho paura”.

A salvarci è sempre “lo stupore del nuovo incontro con Gesù”, ha detto papa Francesco. Pur nella nostra debolezza “non siamo ingenui né cristiani tiepidi, siamo valorosi, coraggiosi”, ha osservato.

Mantenendoci “coraggiosi nella nostra debolezza”, dobbiamo tenere duro, non farci prendere da una “cattiva nostalgia”, né dalla paura, guardando sempre il Signore, ha poi concluso Francesco.

Lumen Fidei. L’enciclica di papa Francesco e Benedetto XVI sarà presentata venerdì

Il Papa buono santo entro l’anno

“Guarì una religiosa in fin di vita”. La canonizzazione sarà contemporanea a Wojtyla

ANDREA TORNIELLI
da Vatican Insider

Papa Giovanni XXIIIWojtyla «santo subito» ma insieme a Giovanni XXIII, il «papa buono». Questa mattina in Vaticano si riuniscono i cardinali e vescovi membri dell’«ordinaria» della Congregazione dei santi, per esaminare vari dossier prima dell’inizio dell’estate. Tra questi il miracolo attribuito all’intercessione del beato Giovanni Paolo II, l’istantanea guarigione di una donna. L’ultimo decisivo passo prima del sigillo finale di Francesco, che porterà alla canonizzazione, in tempi record, del Pontefice polacco beatificato due anni fa.

Ma a sorpresa, i cardinali e vescovi dovranno discutere anche di un altro dossier, aggiunto negli ultimi giorni: quello della canonizzazione di Giovanni XXIII, il Papa che ha convocato il Concilio Vaticano II, morto nel giugno di cinquant’anni fa e beatificato nel 2000. Una svolta non prevista, che attesta la volontà di celebrare insieme le due santificazioni, portando all’aureola e al culto universale sia il Pontefice bergamasco, sia Giovanni Paolo II.

La data più probabile per la cerimonia durante la quale Roncalli e Wojtyla potrebbero venire canonizzati è il prossimo dicembre, subito dopo la conclusione dell’Anno della Fede, dato che l’iniziale ipotesi di ottobre sembra sempre meno realizzabile per mancanza di tempo e problemi organizzativi. Il cardinale Angelo Amato, Prefetto della Congregazione delle cause dei santi, dopo la decisione presa questa mattina, incontrerà Francesco e nel giro di qualche giorno la notizia dei due Papi santi potrebbe essere definitivamente ufficializzata.

Era stato Wojtyla, nel settembre 2000, durante il Giubileo, a proclamare beato Giovanni XXIII, unendo nella stessa celebrazione anche la beatificazione di Pio IX, l’ultimo Papa re. In quella occasione, a portare Roncalli verso il primo gradino degli altari, era stato il miracolo della guarigione, avvenuta nel 1966, di suor Caterina  Capitani.

Com’è noto secondo le norme canoniche, per la canonizzazione è necessario il riconoscimento di un secondo miracolo, avvenuto dopo la beatificazione. Negli ultimi tredici anni sono state varie le segnalazioni di grazie e di presunti miracoli attribuiti a l’intercessione di Roncalli, ma fino a qualche tempo fa non si era saputo che uno di questi avesse passato il vaglio delle consulte mediche e dei teologi della «fabbrica dei santi» vaticana. È dunque possibile che si sia deciso di accorciare i tempi. Il Papa ha infatti la possibilità, se vuole, di derogare anche al riconoscimento del miracolo e procedere comunque a una canonizzazione dopo aver sentito il parere dei cardinali della congregazione. Erano le 19.49 del 3 giugno 1963 quando la folla presente in piazza San Pietro vedendo accendersi le luci della stanza da letto dell’appartamento papale apprendeva della morte di Giovanni XXIII. In meno di cinque anni l’anziano prelato bergamasco, eletto come Papa «di transizione», era entrano nel cuore del mondo, per la semplicità dei suoi gesti e delle sue parole. Le visite al carcere di Regina Coeli e ai piccoli ammalati del Bambin Gesù, le uscite in visita alle parrocchie, lo avevano reso popolarissimo. La storica decisione di convocare un Concilio ecumenico ha cambiato il volto della Chiesa, anche se Roncalli non ne avrebbe visto la conclusione, riuscendo a concludere soltanto la prima delle quattro sessioni conciliari.

Fu a Concilio ancora aperto che diversi vescovi proposero si proclamare Giovanni santo per acclamazione. Il suo successore, Paolo VI, preferì seguire le vie canoniche, facendo aprire un formare processo canonico e volendo affiancare a Roncalli anche il predecessore Pio XII.