Bimbo ha due mamme, l’asilo cancella  la festa del papà

Bimbo ha due mamme, l’asilo cancella la festa del papà

 Dopo il Natale, in qualche scuola messo alla porta e ridotto a “festa di stagione”, ora tocca al 19 marzo, tradizionalmente la Festà del papà. È successo alla scuola materna “Bartolomei” di Roma, dove le maestre, a causa della presenza in classe di un bimbo che a casa ha invece due “mamme” – quella naturale e la sua compagna – su consiglio di una psicologa del Comune hanno semplicemente cancellato la Festa del papà per tutti. Scontata la rivolta dei genitori degli altri scolari, che si sono rivolti al II Municipio di Roma chiedendo a gran voce il ripristino della tradizione.

Tutto ha avuto inizio un mese fa con un incontro tra genitori e maestre sulla “ricorrenza del papà e della mamma” e la proposta di abolire entrambe. L’idea era di dedicare le due giornate a una “festa della primavera”, o tutt’al più genericamente “della famiglia”. Dopo un infuocato dibattito, infine si è deciso di graziare la Festa della mamma ma non quella del papà… Probabilmente sarebbe andata al contrario se il bimbo fosse stato “figlio” di due padri, con conseguente eliminazione del giorno dedicato alle mamme. Furiose le proteste: «Per non discriminare un bimbo se ne discriminano trenta? E che pedagogia è quella che si basa sul nascondere un principio naturale come il fatto che ogni bambino è nato dall’unione di una mamma e un papà?», insorgono ora i genitori, che attendono un cambio di rotta.

«Viviamo in una società in cui le minoranze culturali hanno una supremazia su quella che è la storia, la cultura, la tradizione di un popolo – commenta lo psichiatra Bruno Renzi –. È grave che una scuola materna dimostri una così ridotta capacità di attenzione a quei bambini che hanno una famiglia composta da un padre e una madre, secondo natura, e alla realtà della famiglia in cui crescono. Inoltre al bimbo senza padre negano una visione d’insieme. Ormai è un teatro dell’assurdo».

Lucia Bellaspiga da Avvenire
«La Lego produce giocattoli sessisti» (solo perché fa i mattoncini rosa)

«La Lego produce giocattoli sessisti» (solo perché fa i mattoncini rosa)

di Elisabetta Longo da www.tempi.it

La nuova linea della Lego “Friends” è composta da set di costruzioni a tematiche femminili. Ma questi giochi, a detta di Alice Roberts (Bbc), «rafforzano gli atteggiamenti di genere in modo rischioso» 

lego rosa giustaUltimamente si discute così tanto di giocattoli politicamente corretti che i genitori devono sentirsi terrorizzati per paura di non fare la scelta giusta. In Svezia hanno creato un catalogo in cui i giochi vengono presentati in “modo asessuato”, per non indirizzare le bambine verso le mini cucine e i bambini verso le pistole. Ora una conduttrice tv della Bbc, Alice Roberts, che conduce un programma scientifico, si scaglia contro i celebri mattoncini della Lego.

DIVARIO TRA SESSI. La Roberts, ospite a un open day in una scuola di Manchester, ha preso parola contro le nuove confezioni della Lego di colore rosa, dedicati alle bambine. Nel kit, infatti, tutti i mattoncini sono rosa, e anche il soggetto da costruire riguarda l’universo infantile femminile: principesse, castelli, fornelletti e così via. «Questi Lego rosa rafforzano gli atteggiamenti di genere, in modo rischioso. Il divario tra i sessi si amplifica. Perché le bambine non dovrebbero voler giocare con il kit di ingegneria e costruzioni? Se l’idea che ci sia una grande differenza tra ragazze e ragazzi fin da piccoli, cosa succede quando questi arriveranno all’età dell’adolescenza?».

MASCHILISTI. Poveri ideatori del Lego, che pensavano di aver fatto una cosa buona a introdurre il rosa tra i colori dei loro mattoncini cult e si sono trovati a essere definiti come maschilisti. «Ho trovato vergognoso il suggerimento dato ai clienti tramite questo colore. Oggi anche le ragazze sono interessate alla scienza, alla matematica. Quel rosa riporta dritto agli anni Cinquanta». La Lego ha risposto che la linea “Friends”, le nuove confezioni dedicate a un pubblico femminile, è stata sviluppata in seguito alle richieste dei genitori, che chiedevano set per le bambine, con colori più brillanti e più scelta. «Non scriviamo né diciamo che sia per ragazze, ma è la bambina o il genitore che fa quella scelta», hanno spiegato.

«La Lego produce giocattoli sessisti» (solo perché fa i mattoncini rosa)

In Svezia non vogliono più dire “donna incinta” ma solo “persona incinta” per non offendere i trans

Ennesima proposta di legge che finisce nel grottesco. L’ideologia gender «si consegna mani e piedi al ridicolo». 

La Svezia è davvero il paese dove il politicamente corretto finisce nel grottesco. Prima Egalia, l’asilo dove non esistono più maschietti e femminucce, poi i giocattoli per bambini neutri, quindi la messa al bando dell’omino di pan di zenzero perché razzista. L’ultima, in ordine di tempo, è di qualche giorno fa e riguarda l’espressione «donna incinta».

Lo segnala oggi in un articolo il Foglio, scrivendo che è stata presentata una proposta di legge per modificare la dizione “donna incinta” con quella di “persona incinta”. La fisima linguistica si spiegherebbe col fatto che non si vogliono discriminare i transessuali che hanno cambiato sesso e che sono quindi diventati uomini dopo essere state donne. Come li dobbiamo chiamare, qualora – avendo mantenuto la capacità di procreare – un giorno rimanessero incinta?

Ecco quindi l’escamotage, in modo che nessuno si offenda. Ha ragione il Foglio a commentare: «La proposta di legge svedese è l’ennesima prova di come l’illusione di sovrapporre l’arbitrio del linguaggio e del politicamente corretto alla realtà dei fatti finisca per partorire (è il caso di dirlo) vere mostruosità logiche e linguistiche, prima ancora che giuridiche. Ogni volta che si fa appello all’ideologia gender bisognerebbe ricordarsi che si rischia di consegnarsi mani e piedi al ridicolo. Quel ridicolo che, in certi casi, è il peggior peccato del mondo».

Opporsi all’aborto Per l’Onu è tortura

Opporsi all’aborto Per l’Onu è tortura

di Lorenzo Schoepflin da www.lanuovabq.it

Si intitola «Report del relatore speciale sulla tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti». Il relatore speciale, titolo che l’Onu attribuisce a personalità operanti per conto delle stesse Nazioni Unite in specifici ambiti, risponde al nome di Juan E. Méndez e il testo fa parte dei documenti presentati durante la ventiduesima sessione del Consiglio dei diritti umani dell’Onu. 

Sin dall’introduzione il report potrebbe apparire condivisibile poiché animato da nobili intenti, tra cui in particolare quello di individuare e stigmatizzare pratiche in ambito sanitario che possano configurarsi come atti lesivi della dignità umana. E’ proprio il concetto di tortura ad essere ampliato nell’ambito del report, estendendone l’applicazione dai classici campi, come quello della detenzione e quello militare, ad uno meno usuale: tortura, si afferma ad esempio, è anche un intervento medico invasivo effettuato senza il consenso del paziente. Ma, come a volte (forse troppo spesso) accade quando si tratta di documenti ufficiali di istituzioni sovranazionali, è nei dettagli che si nasconde l’inganno. Si celano tra le righe, più o meno esplicitamente, contenuti completamente in contrasto con un’antropologia e una politica ispirate ai principi non negoziabili. Il tutto inserito in un contesto che, come detto, a prima vista potrebbe incontrare il favore di chiunque.

Il report in questione è un fulgido esempio di questa strategia.
Nella sezione B del testo, dedicata al cosiddetti «diritti riproduttivi», ecco cosa si legge al punto 46: «Enti internazionali e regionali attivi nell’ambito dei diritti umani hanno cominciato a riconoscere che l’abuso e il maltrattamento di donne che cercano servizi di salute riproduttiva possono causare tremende e durevoli sofferenze fisiche e psicologiche». Tra gli esempi di queste violazioni, si cita «il rifiuto dei servizi sanitari legalmente disponibili, come l’aborto e la cura post-aborto». Non praticare un aborto sarebbe dunque una forma di tortura inflitta ad una donna. Si pretenderebbe forse troppo se si chiedesse che un’istituzione come l’Onu – in seno alla quale alcune lobby vorrebbero che l’interruzione volontaria di gravidanza venisse catalogata tra i diritti legati appunto alla «salute riproduttiva» (ma intanto parlano come se già fosse così) -, definisca tortura ciò che lo è veramente: proprio l’aborto, che infligge dolore e morte ad un essere umano innocente ed indifeso e lascia un vuoto incolmabile e doloroso nel grembo e nel cuore materno. Ma, almeno, sarebbe auspicabile che la logica delle cose non fosse completamente sovvertita, fino ad arrivare a definire implicitamente i migliaia di obiettori di coscienza come dei perfidi torturatori.

Al punto successivo, il 47, si cita il caso di una donna polacca alla quale fu negato un test genetico sul bimbo che portava in grembo dopo che un esame ecografico aveva evidenziato anormalità del feto. Della vicenda si occupò la Corte europea dei diritti dell’uomo, stabilendo che la donna si trovava in una «situazione di grande vulnerabilità». Nel report dell’Onu si legge che, in casi come questo,  «l’accesso alle informazioni sulla salute riproduttiva è fondamentale per la capacità di una donna di esercitare l’autonomia riproduttiva e i diritti alla salute e all’integrità fisica». Non passare al setaccio la vita nascente al fine di eliminarla se non rispondente ai requisiti qualitativi attesi sarebbe dunque un’altra forma di tortura.

La sezione E del report si occupa invece dei «gruppi emarginati», tra i quali, in quarta posizione dopo sieropositivi, tossicodipendenti e prostitute, si trovano «persone lesbiche, gay, transessuali, bisessuali e intersex» (solitamente indicati con l’acronimo Lgbti). A tal proposito, tra i trattamenti classificabili come tortura, ci sarebbe la pretesa che per cambiare il proprio sesso indicato sui documenti di identità, una persona debba sottoporsi ad un intervento chirurgico. Questo tipo di intervento causa sterilità e cambiamenti irreversibili al proprio corpo, influenzando negativamente la vita familiare e riproduttiva e minando l’integrità fisica della persona. Nel documento, come esempio che dovrebbe fungere da guida per la tutela dei diritti, si cita il caso dell’Ontario, dove per cambiare il sesso sul certificato di nascita non è necessario operarsi.

Un’interpretazione perfettamente in linea con l’ideologia del gender, secondo la quale il sesso non è determinato biologicamente, ma è solo uno stato variabile autonomamente deciso dall’individuo. Perché costringere un uomo che si sente donna a cambiare sesso chirurgicamente quando si può semplicemente correggere un pezzo di carta come il certificato di nascita o la carta d’identità? Perché “torturarlo” così crudelmente? Perché impedirgli di poter tornare uomo se dovesse nuovamente sentirsi tale?
Il report si conclude con l’immancabile tentativo di obbligare gli Stati ad armonizzare le leggi a livello internazionale in senso abortista e in modo compiacente con la lobby Lgbti: si raccomanda infatti che vengano messe in atto tutte le misure necessarie – anche legislative – per prevenire tutti i tipi di tortura citati.

Non è la prima volta che il concetto di tortura viene utilizzato per questi scopi: nel 2011 la Commissione Onu contro la tortura si era occupata dell’Irlanda, dove la legge sull’aborto è molto restrittiva. Secondo la Commissione, eventuali azioni penali contro le donne che decidono di abortire si configurerebbero come violazioni della «Convenzione contro la tortura e altri trattamenti e pene crudeli, inumani o degradanti».

«Chiudere gli Opg? Per tanti malati  si aprirà l’inferno»

«Chiudere gli Opg? Per tanti malati si aprirà l’inferno»

Un annuncio che fa paura. Il prossimo 31 marzo i sei ospedali psichiatrici giudiziari italiani chiuderanno i battenti. E i malati che fine faranno? Secondo i dati della Commissione parlamentare d’inchiesta, su circa 1.400 malati, circa un terzo potrebbe essere dimesso con un progetto specifico da parte delle Asl. Ma la possibilità finora si è concretamente realizzata solo per 160 persone. E tutti gli altri? L’interrogativo che si pongono i familiari dei malati e le associazioni che li rappresentano è di quelli che non si possono ignorare, soprattutto in questo momento. «Senza una soluzione efficace le persone malate come mio figlio, già emarginate e parcheggiate ai limiti della società, non avranno più alcuna possibilità di riscatto». Poche parole secche, crude, alla fine di un lungo sfogo che mostra anni di sofferenza. Frasi che non riescono a nascondere l’amarezza di aver visto il proprio ragazzo di ventisei anni troppe volte inascoltato, «talmente sedato da non reggersi in piedi e da non riuscire nemmeno ad alzare i gomiti». Ma non c’è alcuna rassegnazione per Daniele, «che più di tutti soffre per la sua malattia».

Angelo e Franca da anni seguono il loro ragazzo negli Opg o nelle comunità di recupero. E tante ne hanno girate dal 2007, quando al loro ragazzo è stata diagnosticata «una schizofrenia paranoide tutta da verificare». Ora aspettano da alcune settimane che dalla struttura di Castiglione delle Stiviere – «la più bella d’Italia» ammettono – Daniele possa tentare per la quarta volta l’ingresso in una comunità terapeutica alla periferia di Milano. Abbastanza vicino alla famiglia che vive in provincia di Como e sufficientemente distante da rendere il suo percorso di cura autonomo.

Sembra essere arrivati a un lieto fine, ma si convive con la paura. «Nel caso nostro figlio non venga accettato, dove verrà spedito? Ancora in Opg? E quando gli Opg chiuderanno?». Daniele «poco loquace» e abituato a «reprimere le sue frustrazioni», ha peregrinato per più dipartimenti di salute mentale, dove le sue «fissazioni persecutorie, in realtà vessazioni da parte degli altri degenti», unite all’uso di stupefacenti, sono state bollate come dipendenza psicologica e curate con pesanti psicofarmaci. Da qui – a parere dei genitori – un grave peggioramento della situazione che ha aperto la strada a un gesto terribile. Daniele, durante una discussione, ha colpito con un coltello un altro paziente di cinquant’anni. Poi, in lacrime, è andato dai carabinieri e si è sfogato: «Volevo ammazzarlo». Il risultato è un’accusa di tentato omicidio aggravato. Così, dalle comunità terapeutiche leggere è stato più volte rimandato nell’ospedale psichiatrico di Castiglione. Ma anche nelle strutture migliori capita che le persone gravemente problematiche siano difficilmente tollerate – raccontano ancora Angelo e Franca – e vengano «rispedite nei servizi psichiatrici, che a loro volta fino a poco tempo usavano gli Opg come valvola di sfogo, come tappeto dove nascondere sotto la polvere».
Questi due genitori determinati e affranti non riescono a farsene una ragione. Perché ragazzi ancora non sopraffatti dalla malattia vengono semplicemente ritenuti folli, matti, pericolosi? Forse perché tutto ciò che non è «perfetto e allineato allo stile di vita ideale viene considerato da scartare o perlomeno da celare?». Una domanda dopo l’altra, come un fiume in piena. «Eppure Daniele nell’ospedale psichiatrico si è preso cura per due mesi di un internato su una sedia a rotelle – aggiungono Angelo e Franca, – com’è possibile che non si possa valorizzare quello che di buono c’è in lui? Perché si deve necessariamente, mortificarlo, considerarlo a priori uno scarto dello società?».

Del resto sono tante le famiglie di malati psichiatrici convinti che il nostro sistema di cura e assistenza per le malattie mentali abbia dimenticato la parola solidarietà. La possibilità cioè che, in alcuni casi concreti, queste persone possano avere una vita dignitosa, anche senza guarire completamente. E le associazioni insistono: esistono «storture» del sistema di salute mentale che vanno risolte al più presto. «Certo non è con la chiusura degli Opg che si risolve la questione», ripetono i familiari dei malati. La preoccupazione del dopo chiusura resta, unita al dubbio che, forse, si ascolta poco gli internati. «La parola di mio figlio è stata tenuta in considerazione quando ha confessato il suo delitto, ma – riprende Angelo – è valsa zero per difendere la sua posizione durante gli arresti domiciliari o i ricoveri». Lui è una persona pericolosa, punto e basta. E questo mamma e papà – insieme a tutti gli familiari dei malati psichiatrici che si trovano nelle loro condizioni – non possono proprio accettarlo.​

Alessia Guerrieri da Avvenire
«La Lego produce giocattoli sessisti» (solo perché fa i mattoncini rosa)

Padova, Università fondata sui diritti sessuali

di Elisabetta Frezza e Patrizia Fermani da www.lanuovabq.it

Università di Padova

Caro Direttore,

nell’Aula Magna del glorioso ateneo patavino, il primo marzo scorso, è stato solennemente inaugurato il settecentonovantunesimo anno accademico. Alla relazione del magnifico rettore Giuseppe Zaccaria sono seguite, come previsto, quelle del direttore amministrativo e del rappresentante degli studenti, signorina Chiara de Notaris, che ha fieramente ripreso il tradizionale motto accademico “Universa Universis Patavina Libertas”. Com’è noto, all’ombra di questa bandiera si consumò, l’otto febbraio del 1848, l’eroica resistenza degli studenti soffocata nel sangue dall’oppressore straniero.

Erede di questo spirito indomito, la nostra rappresentante, nonché membro del Senato Accademico, ha formulato forti proposte, di profondo contenuto morale e culturale. Anzitutto ha rivendicato una parità di diritti e di trattamento nei confronti delle donne (che notoriamente, all’interno dell’università di Padova, sia come studentesse sia come dipendenti, soffrono pesanti discriminazioni e gravi soprusi, nell’indifferenza del corpo accademico). Ma ha formulato poi un’istanza ancora più significativa: sull’esempio avanguardista dell’università di Torino, è improrogabile ammettere anche a Padova il rilascio di un doppio libretto universitario per tutti coloro che, in corso di anno accademico, avvertano l’urgenza di passare ad altro sesso (del tipo: mi immatricolo Salvatore, ma devo laurearmi Serenella).

Consapevoli dell’oggettiva rilevanza del problema e della profondità del pensiero su cui si fonda, le autorità e il pubblico presenti hanno calorosamente applaudito; il che fa ben sperare per un pieno e rapido accoglimento della “modesta proposta”. Ora, è chiaro che se questa avesse come obiettivo la soluzione di un problema marginale quale quello dell’adeguamento burocratico a una condizione limite socialmente irrilevante – problema certamente risolubile attraverso un provvedimento rettoriale ad hoc (applicativo della legge che disciplina gli adeguamenti anagrafici in caso di transessualità) – la sua proposizione in un contesto tanto solenne avrebbe esaurito ogni interesse, anche da parte nostra, nella propria evidente e un po’ ridicola sproporzione. Ma, al contrario, non si può sottovalutare il fatto che le lobbies omosessualiste e i movimenti che promuovono l’indifferentismo sessuale abbiano assunto a proprio cavallo di battaglia quella teoria del “gender” che esprime l’esaltazione dell’arbitrio individuale a dispetto di ogni limite naturale e di ogni ragionevolezza, nella possibilità di modificare ad nutum la propria identità sessuale secondo il contingente sentimento di sé. Attraverso l’apparente irrilevanza della storia del doppio libretto, cioè, è presumibile che passi ben altra realtà, quella della immissione a marce forzate e della imposizione dall’alto di una ideologia destinata a scardinare la società dalle sue basi antropologiche.

Infatti, delle due l’una: o la richiesta si esaurisce nella enfatizzazione po’ ridicola di un falso problema, e allora non se ne capisce nè l’ammissione nè il plauso generalizzato; oppure è già stato fatto proprio dalle stesse autorità accademiche, non immemori dei propri trascorsi giovanili, un ben altro obiettivo, quello dell’imposizione di un nuovo assetto ideologico, perché il male oscuro di un pensiero autodistruttivo è già penetrato in profondità nelle stanze accademiche e dintorni.

Purtroppo questo surreale episodio si inserisce infatti perfettamente nel quadro desolante del progressivo cedimento culturale delle istituzioni di fronte a una inaudita pressione ideologica, che agisce indisturbata su molti fronti, mediaticamente assistita, mirando allo sfiancamento progressivo dei principi fondanti di un’intera società, sostituiti a forza da un’etica contro natura.

Del resto, basti ricordare, tra l’altro, come già all’inizio di questo stesso anno accademico sulla cattedra di diritto costituzionale, in orario curricolare e in assenza del titolare, sia stata chiamata l’allora onorevole Anna Paola Concia a tenere un comizio pre-elettorale sul “diritto alla felicità”, che legittimerebbe dal suo punto di vista il famoso “matrimonio omosessuale” e la conseguente “omogenitorialità”.
E d’altra parte, forse, non è un caso che un recente convegno ospitato nel palazzo del Bo abbia avuto come protagonista Joan Wallach Scott, paladina della teoria del gender, che in quella sede afferma: “si è stabilito che la biologia e la natura non determinano che cosa significhi essere uomo e donna: i loro comportamenti, il loro lavoro e modo di vivere possono cambiare nel tempo” Così, nella connivenza delle autorità accademiche, l’aberrante progetto di sovversione antropologica in atto trova uno straordinario terreno di coltura e usurpa una pericolosissima legittimazione.

* Giuristi per la Vita