da Baltazzar | Giu 4, 2010 | Controstoria, Cultura e Società
Sapete quanti diritti umani e progressi sociali ci saremmo persi senza Gesù Cristo e i suoi incoerenti seguaci? Un manuale di Francesco Agnoli – Stando agli input che quotidianamente riceviamo, dovremmo attribuire al cristianesimo la maggior parte delle sventure e delle calamità che hanno contraddistinto gli ultimi due millenni della storia occidentale: dall’Inquisizione alle Crociate, dalla compravendita della salvezza con le indulgenze alla lotta della Chiesa per il potere temporale. Chi va contro questa vulgata (al bar, al cinema sotto il cartellone di Ipazia, alla Feltrinelli, all’intervallo a scuola) fa la figura del fanatico, del mal informato, di quello che non si è mai soffermato “sul perché delle cose”. Alzatine di spalle e di sopracciglia, raffica di domande di rito, dal tono vagamente sarcastico, sull’otto per mille e il male del mondo. Ma il conformismo nasce dalla pigrizia e dalla fatica di dover dare le ragioni delle proprie …
… posizioni, specie se impopolari, specie se contrarie al mainstream. Per questo Francesco Agnoli, giornalista e studioso, ha scritto la sua Indagine sul cristianesimo (Piemme): per saper rispondere senza passare per bigotti indottrinati. Agnoli confuta luoghi comuni e menzogne di comodo e mostra ai cattolici vacillanti che la loro Chiesa è una madre cara e buona, con le braccia aperte a tutti. Ma soprattutto offre ai detrattori gli strumenti per conoscere, a fondo, il nemico. Senza arroccarsi sulla consueta controsequela di citazioni storiche e letterarie, ma attraverso una narrazione pacata, scorrevole e scientificamente rigorosa, il libro offre al lettore la sorpresa della scoperta. Mettendo in fila la genesi di alcune grandi, umanissime, conquiste civili, permesse e promosse dal rivoluzionario messaggio di Gesù Cristo.
Tutto ciò che diamo per scontato
Se si accetta di farsi condurre da Agnoli nella sua indagine, non si può non riconoscere che quel messaggio ha avuto il merito di far fiorire i valori più originali ed essenziali della nostra civiltà. Dalla protezione dell’infanzia all’abolizione della schiavitù, dalla lotta contro la magia alla valorizzazione della donna, dall’impegno per la giustizia sociale alle lotte per i diritti di libertà e rappresentanza politica, dalla promozione dell’istruzione alla fondazione degli ospedali e delle opere sociali. Princìpi ormai sedimentati per noi occidentali, tanto che il rischio di darli per scontati, e puntare invece il dito contro i limiti, le incoerenze, le debolezze, la malizia, la fallibilità degli uomini di Chiesa, così apparentemente lontani dal mondo reale, è dietro l’angolo. Basta fare andare lo sguardo lungo gli scaffali di una qualsiasi libreria. Il codice Da Vinci (oggi sappiamo, per ammissione dello stesso autore, che l’avversione di Dan Brown alla Chiesa va di pari passo con la sua simpatia per la massoneria, quella sì una società segreta) per numero di copie vendute e risonanza mediatica è entrato nella storia dell’editoria dell’ultimo decennio. Chiarelettere lo scorso anno ha pubblicato Vaticano S.p.A, saggio firmato dal giornalista di Libero Gianluigi Nuzzi che svela “la verità sugli scandali finanziari e politici della Chiesa”. Mentre Il libro che la tua Chiesa non ti farebbe mai leggere è esposto in bella vista persino nei supermercati. Giunto all’ennesima ristampa, il volume di Tim C. Leedom e Maria Murdy, impegnato a portare alla luce i “crimini” della religione, cristiana in particolare, ha raccolto dati di vendita da premio Strega.
La propaganda e la malafede
Sono numeri che fanno riflettere, visto che le pseudoinchieste dei vari Augias che vanno per la maggiore tendono tutte a ridurre il cristianesimo a un’abile mistificazione, un’accozzaglia di racconti folcloristici che avrebbe tenuto l’umanità nelle tenebre della superstizione per secoli, causando discriminazioni, persecuzioni e delitti. Una Chiesa dipinta sempre come retrograda, reazionaria, oscurantista. Come si spiega allora – domanda Agnoli – che l’Europa cristiana è stata il luogo d’origine della scuola per tutti e di tutti, dell’università, della scienza, della medicina moderna oltre che dell’istituzione ospedaliera? Perché tutti questi “diritti” non sono stati inventati in Asia, o in America, o in Australia? Non si contano le menzogne e le omissioni escogitate nei secoli da storici, teologi e funzionari al soldo dei re inglesi allo scopo di gettare discredito sugli spagnoli e la “loro” Chiesa cattolica. Per non parlare degli illuministi materialisti (magari convinti sostenitori del razzismo, come Voltaire) che nel Settecento riuscirono a distruggere l’ordine dei gesuiti e non solo. E quante ne hanno raccontate i tanti socialisti e comunisti che quasi per senso del dovere si fanno fautori nel mondo di una ideologia atea e mortalmente nemica della fede?
Il riscatto della costola di Adamo
Una delle “invenzioni cristiane” più interessanti analizzate da Agnoli è il principio della dignità della donna. Secondaria e marginale nel mondo greco antico, che la relegava nelle stanze private; sotto perpetua tutela dell’uomo (padre e marito) nella Roma imperiale; ostaggio della forza maschile presso i popoli germanici. Ancora oggi vittima di infiniti abusi e violenze, compreso l’infanticidio, in Cina e India. Donne sono invece alcune delle figure più importanti del cristianesimo dei primi secoli: fondatrici di monasteri, ordini religiosi, ospedali, scuole… Tanto che un avversario come Porfirio, vissuto a Roma nel III secolo, accusava i cristiani di lasciare troppo spazio alle sciocche chiacchiere delle «donnicciuole». E 1.500 anni dopo, mentre i cristiani difendevano la dignità delle donne sterili, «l’illuminista Diderot le considerava degne di essere allontanate dal consorzio civile». In una pagine pressoché sconosciuta di Charles Darwin, la misoginia diventa addirittura verità scientifica: «L’uomo giunge più avanti della donna, qualunque azione intraprenda, sia che essa richieda un pensiero profondo, o ragione, immaginazione, o semplicemente l’uso delle mani e dei sensi… In questo modo l’uomo è divenuto superiore alla donna». Comunque la si pensi sulla Chiesa, Agnoli aiuta a non dare per scontata nessuna opinione, per quanto dominante e consolidata. Sulla scia dello storico e archeologo Paul Veyne, di formazione laica e comunista, che ha scritto un libro sul cristianesimo «contro me stesso. Fra tutte le religioni è quella che sopporto meno». Veyne sostiene l’autenticità della conversione di Costantino, ricordando che la sua «rivoluzione (…) fu forse l’atto più audace mai commesso da un autocrate in spregio alla grande maggioranza dei suoi sudditi». E il cristianesimo si impose allora non certo grazie alla forza e al potere. Ma «perché offriva qualcosa di diverso e nuovo. Era la religione dell’amore».
Chiara Sirianni (Tempi)
da Baltazzar | Mag 29, 2010 | Chiesa, Controstoria, Cultura e Società
Documenti e testimonianze evidenziano gli sforzi di Pio XII
di Gary S. Krupp
NEW YORK, venerdì, 28 maggio 2010 (ZENIT.org).- La Pave the Way Foundation ha avviato un progetto di recupero di documenti per mostrare tutte le informazioni e le testimonianze possibili sul pontificato di Pio XII, il Papa della Seconda Guerra Mondiale, così da porre fine all’“impasse” accademica provocata dalla mancanza di informazioni pubbliche.
Nuove scoperte hanno portato alla luce documenti e testimonianze che mostrano chiaramente che il 16 ottobre 1943 fu la scelta del Papa di non denunciare pubblicamente l’arresto degli ebrei romani a salvare la vita di molti membri della comunità ebraica di Roma.
Esiste una dichiarazione giurata del 1972 del generale Karl Wolff, comandante delle SS per l’Italia e vice di Heinrich Himmler, che afferma che nel settembre 1943 Adolf Hitler ordinò di predisporre un piano per invadere il Vaticano, sequestrare il Papa, incamerare i beni vaticani e uccidere la Curia Romana. Il piano sarebbe stato messo in pratica tempestivamente.
Il generale Wolff sapeva che se l’invasione fosse stata attuata si sarebbero verificati gravi disordini in tutta Europa, il che avrebbe rappresentato un disastro militare per lo sforzo bellico tedesco. Il generale dichiarò di essere riuscito a convincere Hitler a rinviare l’invasione. Qusto punto di vista di un potenziale disastro militare era condiviso dal governatore militare di Roma, il generale comandante Rainer Stahel, e dall’ambasciatore tedesco presso la Santa Sede, Ernst von Weizsacker.
Pio XII era a conoscenza del piano di invasione ed era conscio che la sua esecuzione avrebbe portato a grandi disordini, che avrebbero potuto provocare migliaia di vittime innocenti. Inoltre la neutralità vaticana sarebbe stata violata, permettendo così alle forze tedesche di entrare in tutte le proprietà del Vaticano. Esistono atti manoscritti secondo cui il 6 settembre 1943 Pio XII riunì segretamente i Cardinali per comunicare loro che il Vaticano avrebbe potuto essere invaso, e che egli sarebbe stato portato al nord e probabilmente assassinato. I Cardinali dovevano prepararsi a fuggire subito in un Paese neutrale, non appena il territorio del Vaticano fosse stato invaso.
Firmò anche una lettera di rinuncia e la pose sulla sua scrivania. Diede istruzioni ai Cardinali perché, una volta in salvo, formassero un Governo in esilio e scegliessero un nuovo Papa. C’è una lettera manoscritta del Segretario di Stato che ordinava alle Guardie Svizzere di non resistere alle forze d’invasione tedesche con la forza delle armi, e molti documenti spiegano come avrebbero dovuto proteggere la Biblioteca Vaticana e il contenuto del museo.
Durante questo periodo, von Weizsäcker inviò a Berlino messaggi positivi ingannevoli sul Papa per calmare Hitler, per non giustificare un ordine di invasione. Alcuni critici di Pio XII hanno basato erroneamente le proprie teorie relative alla complicità e alla collaborazione del Papa su questi cablogrammi, che l’assistente di von Weizsäcker, Albrecht von Kessel, definì in seguito “bugie tattiche”.
Esiste una testimonianza del tenente Nikolaus Kunkel, un ufficiale tedesco della sede del governatore militare di Roma, che corrobora le prove documentate e le testimonianze su come Pio XII abbia salvato direttamente la comunità ebraica romana, e che rivela come si attendesse da un giorno all’altro l’ordine di invasione da Berlino.
Quando iniziarono gli arresti la mattina del 16 ottobre 1943, Pio XII venne avvertito dalla principessa Enza Pignatelli Aragona Cortes. Si mise subito in azione per costringere i tedeschi a fermare le detenzioni. Chiamò il Segretario di Stato vaticano, il Cardinal Maglione, e gli diede istruzioni per lanciare una decisa protesta contro gli arresti. Il porporato avvertì von Weizsäcker quella mattina stessa del fatto che il Papa non poteva restare in silenzio, visto che gli ebrei venivano arrestati proprio sotto le sue finestre, nella sua Diocesi. Pio XII inviò allora suo nipote, Carlo Pacelli, a incontrare un simpatizzante della Germania, il Vescovo Alois Hudal, ordinandogli di scrivere una lettera ai suoi contatti tedeschi per fermare immediatamente gli arresti.
Anche questa mossa risultò priva di efficacia. L’ultimo sforzo di Pio XII, quello che ebbe maggior successo, fu inviare il suo confidente, il Superiore Generale dei Salvatoriani, padre Pankratius Pfeiffer, perché incontrasse direttamente il governatore militare di Roma, il generale Stahel. Padre Pfeiffer avvertì Stahel che il Papa avrebbe lanciato una protesta forte e pubblica contro questi arresti se non si fossero fermati. Il timore che la protesta pubblica provocasse l’ordine di Hitler di invadere la Santa Sede spinse Stahel ad agire.
Il generale telefonò subito a Heinrich Himmler e inventò delle ragioni militari per fermare gli arresti. Confidando nelle valutazioni di Stahel, Himmler avvisò Hitler di bloccare le detenzioni. L’ordine di fermare gli arresti venne comunicato a mezzogiorno del 16 ottobre, e divenne effettivo alle 14.00 di quello stesso giorno.
Questa sequenza di fatti è stata confermata in modo indipendente dal generale Dietrich Beelitz, ufficiale di collegamento con l’ufficio del maresciallo da campo Albert Kesselring e il comando di Hitler. Beelitz ascoltò personalmente la conversazione tra Stahel e Himmler. Quando emerse l’inganno di Stahel, Himmler punì il generale inviandolo sul fronte orientale.
Si sa che in Vaticano c’erano delle spie infiltrate. Il Papa poteva inviare solo sacerdoti di fiducia e confidenti per Roma e l’Italia, con ordini verbali e scritti del Papa di permettere a uomini e donne di entrare nei conventi e nei monasteri cattolici, e ordinando che tutte le istituzioni ecclesiastiche nascondessero gli ebrei dove potevano.
Secondo il celebre storico britannico sir Martin Gilbert, il Vaticano nascose migliaia di ebrei letteralmente in un giorno. Dopo averli nascosti, continuò a nutrire e a mantenere i suoi “ospiti” fino alla liberazione di Roma, il 4 giugno 1944.
Documenti di Berlino e del processo ad Eichmann in Israele mostrano anche che gli 8.000 ebrei romani che dovevano essere arrestati non sarebbero stati spediti ad Auschwitz ma nel campo di lavoro di Mauthausen, dove sarebbero rimasti come ostaggi. Quest’ordine venne tuttavia revocato in seguito da persone sconosciute, e 1.007 ebrei vennero mandati a morire ad Auschwitz. Ne sopravvissero solo 17. Ci sono persone che criticano Pio XII per non aver salvato quelle 1.007 persone, ma tacciono sulle sue azioni dirette, che portarono al salvataggio di una comunità ebraica, quella romana, vecchia di oltre 2.000 anni.
Di recente è stato scoperto negli archivi nordamericani che gli Alleati avevano decifrato i codici tedeschi e sapevano con una settimana d’anticipo dell’intenzione di arrestare gli ebrei di Roma. Decisero di non avvisare i romani perché questo avrebbe potuto mettere in guardia i tedeschi su questa falla nel loro servizio di intelligence. Qusta “decisione militare” lasciò Pio XII solo, senza avvisi previ, a cercare di porre fine agli arresti.
Parlando di Papa Pio XII, il maggiore esperto ebreo sull’Olocausto in Ungheria, Jeno Levai, ha dichiarato che è “particolarmente deplorevole il fatto che l’unica persona in tutta l’Europa occupata che agì più di tutti gli altri per frenare il terribile crimine e mitigarne le conseguenze sia diventata oggi il capro espiatorio degli insuccessi altrui”.
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*Gary Krupp è il fondatore della Pave the Way Foundation (PTWF), un’organizzazione la cui missione è quella di individuare e cercare di eliminare gli ostacoli tra le religioni e di avviare azioni positive per migliorare le relazioni interreligiose.
da Baltazzar | Mag 10, 2010 | Controstoria, Cultura e Società
Moreno Morani da ilSussidiario.net
Ipazia, singolare figura di donna che si occupa di filosofia e di scienze, tenendo testa in modo autorevole ai leader culturali del suo tempo, e che incontra una morte tragica e cruenta a motivo delle sue idee e per avere osato, lei donna, mettersi sullo stesso piano degli uomini. Vi sono tutti gli elementi per fare di un personaggio del genere un simbolo, e non a caso a Ipazia sono stati dedicati libri, racconti, opere teatrali, anche da nomi illustri (come Mario Luzi col suo Libro di Ipazia). Ma qual è in realtà il rapporto tra l’Ipazia della storia e questa Ipazia idealizzata dalla letteratura e divulgata dai media?
Precisiamo innanzitutto che le notizie su Ipazia sono scarsissime. Abbiamo un’unica fonte storica contemporanea, Socrate Scolastico, e pochi altri riferimenti giungono da autori contemporanei o di poco posteriori. Ne emerge una figura di donna sicuramente dotata di grande cultura e di carisma, affascinante e ricca di temperamento, single per scelta. Figlia di un grande scienziato di Alessandria, Teone, nacque attorno al 370. Fu versata nella scienza dell’astronomia e della geometria e scrisse vari libri di commenti (tutti perduti) ad alcuni trattati fondamentali di quelle discipline e si occupò di filosofia, con insegnamenti pubblici e privati che attiravano un pubblico numeroso. Fu probabilmente seguace delle dottrine neoplatoniche allora molto diffuse, ma non può essere definita un filosofo nel senso stretto del termine. Rispetto a un filosofo suo contemporaneo, Isidoro di Pelusio, Ipazia era differente non «come un uomo è differente da una donna, ma come un matematico è differente da un vero filosofo», dice un autore antico (Damascio) negandole la qualifica di “filosofo”.
La sua vita ebbe una fine cruenta e crudele nel 415. L’episodio è descritto da Socrate Scolastico (Storia Ecclesiastica VII 15), la cui narrazione vale la pena riportare per esteso: «C’era una donna in Alessandria, di nome Ipazia: era la figlia del filosofo Teone. Questa progredì a un livello così elevato di cultura, da misurarsi coi filosofi del suo tempo e da poter essere considerata l’erede della filosofia platonica dopo Plotino e da spiegare tutte le scienze filosofiche a chi lo desiderava: perciò tutti quelli che amavano la filosofia convenivano da lei. Per la splendida capacità di parlare che le proveniva dalla sua cultura si presentava in modo assennato anche alle autorità, e non aveva alcuna remora a stare anche in mezzo a uomini: tutti la rispettavano per la sua scienza superiore e ne erano colpiti. Questo fece sorgere la gelosia. Poiché infatti era in confidenza con Oreste [il prefetto di Alessandria], si produsse nella gente della Chiesa contro di lei una calunnia, che fosse lei la causa per cui Oreste non poteva avere buoni rapporti col vescovo. E allora concordemente degli uomini esaltati, guidati da un certo Pietro il lettore, un giorno aspettarono la donna mentre tornava a casa e, tiratala giù dal carro, la trascinarono nella chiesa detta Cesareo, e strappatele le vesti la uccisero con dei cocci: e dopo averla fatta a pezzi presero le membra, le portarono al cosiddetto Cinarone e le bruciarono».
Le motivazioni dell’omicidio non sono chiare. Un filosofo vissuto un secolo dopo, Damascio, che aveva tutti i suoi buoni motivi per avere risentimenti verso il cristianesimo (era stato l’ultimo rettore dell’Accademia, la scuola filosofica di Atene quando questa era stata chiusa dall’imperatore Giustiniano, e aveva dovuto riparare in Persia), afferma che l’uccisione era stata ordinata dal vescovo della città, Cirillo: «Accadde che il vescovo Cirillo, passando davanti alla casa di Ipazia, vide che c’era molta folla presso la porta, con gente che entrava e usciva e alcuni che si fermavano. Chiese che cosa fosse quella folla e il motivo della confusione intorno alla casa, e venne a sapere dal suo séguito che c’era un discorso della filosofa Ipazia e che quella era la sua casa. Appreso questo il suo animo fu così contrariato, da ordire immediatamente la sua uccisione, più orrenda di tutte le uccisioni».
Il motivo del coinvolgimento del vescovo viene poi ripetuto acriticamente in tutte le riprese successive. Ma se si esaminano i fatti storici reali, basandoci unicamente sui documenti, si conclude che non vi è nessuna prova di questa affermazione. La morte di Ipazia si colloca nel quadro di un’età e di una zona in cui la confusione e le turbolenze sono al massimo grado e investono tanto l’autorità civile quanto la comunità cristiana. È un mondo di grandi contrasti l’Egitto di quell’epoca. Un mondo in cui si hanno documenti di sincretismo religioso quasi impensabili per noi e tensioni al limite dell’esplosione, fra ortodossi ed eretici, fra cristiani e pagani, fra cristiani e gnostici (lo gnosticismo aveva molti adepti in questa fase: e poiché gli gnostici amavano celebrare le loro festività nei giorni dedicati alle festività cristiane, i Cristiani intervennero perché si ponesse fine a questa indebita appropriazione). Più ancora che i testi degli storici, sono gli atti delle vita quotidiana (iscrizioni, papiri) a darci un quadro realistico di questa confusione. A ciò si aggiunga, come ricordano le fonti antiche, il temperamento naturalmente appassionato e veemente della popolazione in quel microcosmo multietnico e multiculturale che era la Alessandria dell’epoca.
Quando Ipazia fu uccisa, era vescovo da tre anni Cirillo, un personaggio di grande cultura ma di condotta tutt’altro che accorta nel reggere la sede vescovile, tanto da venire in contrasto con l’autorità civile (il prefetto Oreste), col Papa Celestino I, con altri vescovi e personalità dell’Oriente cristiano. Il racconto di Damascio è in ogni caso inverosimile quando presuppone che Cirillo non conoscesse la fama di Ipazia e fosse spinto da un impulso improvviso di gelosia. Neppure l’argomento femminista è ragionevole: anche nella comunità cristiana vi erano donne di elevata cultura e di grande operosità, quindi la condotta di Ipazia non era scandalosa da questo punto di vista. Anche il motivo religioso è da respingere. Per quel poco che sappiamo, Ipazia aderiva alle tesi neoplatoniche, che affascinarono molti pensatori cristiani e diedero un’ispirazione positiva a loro opere. Il suo discepolo Sinesio poté essere vescovo di Cirene e manifestare nelle sue lettere simpatia e devozione per la sua venerata maestra, definita theophilés, “amata da Dio”.
Più probabile il motivo politico: Ipazia venne identificata (a ragione o torto) come la causa principale dell’attrito tra autorità religiosa e autorità politica, e dei fanatici pensarono di eliminare alla radice la causa del dissidio: alcuni moderni chiamano in causa i parabolani, una confraternita di infermieri-becchini che anche in altre occasioni si era arrogata il compito di intervenire in controversie ecclesiastiche in modo rozzo e violento. Una loro responsabilità peraltro non risulta da alcuna fonte. Un anno dopo l’uccisione di Ipazia un decreto imperiale limitava il numero dei parabolani a 500 in tutta Alessandria. Mancano tuttavia connessioni esplicite fra l’uccisione di Ipazia e questo decreto. Un altro motivo appare in una Cronaca tarda scritta da Giovanni di Nicea (VII secolo): Ipazia è presentata come una incantatrice che aveva affascinato con le sue arti magiche Oreste e lo aveva allontanato dalla Chiesa. Sullo sfondo di questa narrazione stanno gli interessi astronomici di Ipazia: astronomia e astrologia avevano allora confini non bene definiti e la scienza degli astri era utilizzata per ricavare oroscopi e predizioni che creavano scandalo ai fedeli cristiani.
Comunque stessero le cose, l’uccisione crudele ed efferata di una donna è comunque evento da condannare, e questa condanna fu espressa chiaramente dalla comunità cristiana, come c’informa ancora lo storico Socrate bizantino: «Questo evento recò non poco biasimo a Cirillo e alla Chiesa di Alessandria: infatti sono atti del tutto estranei a chi professa i principi cristiani le uccisioni e le battaglie e azioni del genere».
La beatificazione laica di Ipazia comincia nel XVIII secolo, quando il filosofo razionalista irlandese John Toland pubblica un libello anticristiano intitolato Ipazia, e prosegue incessantemente fino ad oggi, annoverando titoli come quello di A. Agabiti (Ipazia: La prima martire della libertà di Pensiero, 1914). Ovvero, come fare passare per storia quello che storia non è.
da Baltazzar | Apr 26, 2010 | Controstoria, Cultura e Società
di Rino Cammilleri
Tratto da Il Giornale del 25 aprile 2010
Ricordate il film Le crociate di Ridley Scott? L’autore dichiarò di aver voluto fare un’opera contro tutti i fondamentalismi ma, guarda caso, nella trama solo i cristiani erano cattivi e infidi, mentre i musulmani erano buoni e generosi. Ora è il turno di Alejandro Amenábar, che – testuale – col suo film Agorà ha voluto denunciare, anche lui, i fondamentalismi.
Ma, vedi un po’, anche qui i cattivi sono i cristiani. Naturalmente è vero che anche il cristianesimo ha avuto i suoi supporters a mano armata, ma Scott ha dovuto cercarli nel XII secolo e Amenábar nel V. Sì, perché a far problema oggi non è certo il cristianesimo, bensì altre religioni i cui fanatici la mano armata ce l’hanno ancora, e certi registi olandesi ne sanno qualcosa. Così, è più comodo «denunciare» chi non si difende, per cose avvenute mille e rotti anni fa, e pazienza se oggi non è certo la «scienza» ad essere perseguitata bensì il cristianesimo.
Ipazia, scienziata bella e giovine, trucidata dai cristiani su ordine del vescovo Cirillo ad Alessandria nell’anno 415: questo il mito politicamente corretto. Intanto avvertiamo che prima di Voltaire (1736) Ipazia non se la filava nessuno; sono i philosophes a trarla dall’armadio dei secoli per metterla in quello degli «scheletri» della Chiesa. Nel secolo dei romantici Ipazia diventa la rappresentante del mondo pagano (visto come dorato e tollerante, dove si viveva in armonia con la natura e i suoi dèi) uccisa dal fanatismo monoteista. Nel Novecento eccola proto-femminista contro la «misoginia» cattolica. La verità? Innanzitutto, della sua beltà niente sappiamo: aveva sui sessant’anni quando morì. Scienziata? Suo padre, Teone, si dava da fare coi misteri ermetici e orfici. Lei era neoplatonica e la sua «scuola» era in realtà un cenacolo ristretto in cui si insegnavano «misteri» da non divulgare ai «profani» (infatti, non rimane alcuna sua opera, quel poco che si sa lo si deve ai discepoli). Come neoplatonica era molto vicina al cristianesimo di cui apprezzava le virtù stoiche, tant’è che Sinesio di Cirene, suo alunno e ammiratore, finì vescovo. Come quel Cirillo (santo e Padre della Chiesa) che, secondo alcuni, avrebbe ordinato il linciaggio di Ipazia per odio al paganesimo, alle donne e alla scienza. Macché. Cirillo non temeva affatto i pagani, ormai innocua minoranza, bensì gli eretici (cristiani), che non cessava di contrastare. Suo antagonista politico era il governatore (cristiano) Oreste, il quale, da buon funzionario bizantino e, dunque, cesaropapista, riteneva che la Chiesa dovesse essere sottomessa alla Stato. Il contrasto (ripetiamo: politico) tra i due aveva creato in città partiti contrapposti, fazioni politiche che nell’età bizantina erano la regola.
Ebbene, in Alessandria tutti sapevano che eminenza grigia di Oreste era la vecchia Ipazia. Nel partito favorevole a Cirillo c’era un gruppo che il santo a stento riusciva a tenere a bada, i famigerati «parabolani», così chiamati dal nome dei gladiatori contra leones aboliti molto tempo prima da Teodosio. Si aggiunga che nella testa del popolino – e nelle dicerie – gli insegnamenti misterici di Ipazia, di cui nulla trapelava, erano diventati chissà quali pratiche di magia nera. Finì che la lettiga con cui gli schiavi portavano Ipazia a spasso venne assalita e lei linciata. Cirillo e Oreste, che non pensavano che le cose sarebbero trascese a tal punto, rimasero così impressionati da affrettarsi a far pace. Oreste, cui l’ordine pubblico era sfuggito di mano, lasciò la città. Rimase san Cirillo con la patata bollente in mano. Morale: se qualcuno si scandalizza del fanatismo di certi cristiani d’antan ricordi che anche Robespierre, Hitler e Stalin erano battezzati cristiani. Hitler era addirittura cattolico.
da Baltazzar | Apr 24, 2010 | Controstoria
di Raffaele Alessandrini
L’antica favola del lupo e dell’agnello insegna che quando il forte si lagna lanciando accuse al più debole, magari strepitando di aver subito da lui improbabili torti, sta preparandosi a divorarlo. Le corrispondenze storiche sono numerose sia pure con le debite varianti: talvolta i lupi sono più di uno. Per di più alla scena cruenta possono esservi altri testimoni diversamente cointeressati. Questi ultimi, pur essendo consapevoli che il debole, ormai privato brutalmente dei propri diritti, sta soccombendo alle brame fameliche del prepotente, restano a guardarne il sacrificio con calcolata inerzia. E dire che avrebbero argomenti e mezzi per impedire o limitare lo scempio. Quando poi il precipitare degli eventi li costringe a intervenire – poiché la fame del predatore non si placa – si trovano a loro volta prigionieri della logica pragmatica della violenza e della sopraffazione per la quale vi saranno moltissimi altri deboli e innocenti a pagare il prezzo più alto e atroce. L’invasione nazista della Polonia del 1° settembre 1939 che diede l’avvio alla seconda guerra mondiale è certo un esempio evidente di questo. Ma lo sono anche il disinteresse per gli ebrei e il loro consapevole abbandono da parte degli Alleati nonostante fossero pienamente al corrente dei piani hitleriani di “soluzione finale”. Lo ha ricordato anche un ampio servizio di Claude Weill su “Le Nouvel Observateur” del 4-10 marzo 2010 (pp.16-28) nel quale risalta la polemica tra il regista e intellettuale parigino Claude Lanzmann, l’autore del famoso lungometraggio-fiume – nove ore – Shoah (1985) e il romanziere Yannik Haenel che nel settembre 2009 ha pubblicato il volume Jan Karski (Gallimard) dedicato a un eroe della resistenza polacca al nazismo che – infiltratosi in un campo di sterminio (e non sarebbe stato il solo polacco a farlo) – mise sull’avviso il presidente Franklin D. Roosevelt alla Casa Bianca degli orrori in atto.
Haenel sostiene pertanto che “nel 1945 non ci furono vincitori né vinti, ma solo dei complici e dei mentitori”. Lanzmann ribatte dal canto suo che gli ebrei durante il conflitto non erano il “centro del mondo””. Ora è indubbio che gli Alleati conoscessero da tempo la mostruosa realtà della Shoah come pure la sua entità. Come è stato ricordato a suo tempo anche dal nostro giornale (14 agosto 2009), Henry Morgenthau junior, ministro del Tesoro statunitense durante la guerra, disponeva di prove sufficienti per dire che fin dall’agosto del 1942 a Washington si sapeva che i nazisti avevano progettato di sterminare tutti gli ebrei dall’Europa e che “solo l’incapacità, l’indolenza e gli indugi burocratici dell’America impedirono la salvezza di migliaia di vittime di Hitler” mentre, oltre Atlantico, “il Ministero degli Esteri inglese si preoccupava di più di politica che di carità umana”.
Vi è inoltre da considerare come la cattiva coscienza storiografica, o parastoriografica, al servizio delle potenze, tenda a celare talune responsabilità e coperture dettate dal più gelido e spregiudicato pragmatismo politico, sviando per quanto possibile l’attenzione pubblica su più indifesi capri espiatori.
Le maggiori potenze d’Europa, Inghilterra e Francia, che avevano tenuto un contegno inerte e perfino acquiescente di fronte all’Anschluss (l’annessione dell’Austria del marzo 1938) e all’invasione della Cecoslovacchia – prima la conquista dei Sudeti, poi, nel marzo 1939, fu la volta della Boemia e della Moravia – non si discostarono dalla loro condotta passiva. Ora l’intesa Molotov-Ribbentrop conteneva anche clausole segrete in base alle quali di lì a poco i due lupi si sarebbero ferocemente spartiti le spoglie sanguinanti della Polonia oltreché i territori della Finlandia, dell’Estonia, della Lettonia, della Lituania e della Bessarabia rumena. E tuttavia il pretesto per aggredire la Polonia era evidente e consisteva com’è noto, nel rifiuto polacco di subire un torto lasciando includere nella Germania la città di Danzica con l’autostrada extraterritoriale e la linea ferroviaria che univa la Germania e la Prussia Orientale.
Il 24 agosto 1939 vi fu solo un’unica autorità mondiale a levare alta la voce e a incitare gli uomini di buona volontà alla riconciliazione e al dialogo: “Nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra!”. Ma più che parlare alle coscienze e a spendersi in una articolata e intensissima azione diplomatica, protrattasi perfino nel crepuscolo stesso delle speranze, il Papa Pio XII e i suoi più stretti collaboratori non potevano fare, e rimasero inascoltati.
Il Vaticano – come Stalin avrebbe un giorno sarcasticamente osservato – non ha divisioni da mettere in campo. Invece il 1° settembre 1939 la Germania aggredì la Polonia senza preavviso e il 17 settembre, da est, scattò l’aggressione sovietica. I tedeschi forti di un milione e mezzo di soldati misero in campo 2800 carri armati, 2000 aerei e 11000 cannoni; i sovietici attaccarono con cinquecentomila uomini, 5000 carri armati, 3000 aerei e 13.500 cannoni. I polacchi potevano opporre un milione di uomini, 800 carri armati, 400 aerei e 4500 cannoni. E tuttavia resistettero per 35 giorni a fronteggiare da soli forze tanto soverchianti.
Vale la pena ripercorrere alcuni momenti anticipatori dello scoppio della seconda guerra mondiale alla luce dei documenti. Nel recente volume Polish documents on Foreign Policy curato da Wlodzmierz Borodziej e Slawomir Debski (Warsaw, The Polish Institute of International Affairs, 2009) è trascritto in data 2 agosto 1939 il rapporto dell’ambasciatore di Polonia presso la Santa Sede Kaziermiez Papée al ministro degli Affari esteri dell’udienza avuta con Pio XII il 24 luglio precedente in occasione della presentazione delle sue credenziali. Dopo il discorso ufficiale il Papa si era trattenuto con l’ambasciatore per un’altra mezz’ora a parlare in termini informali della situazione internazionale illustrando gli sforzi di mediazione della Santa Sede in favore della pace benché fosse “molto difficile fare qualcosa a Berlino”. Ma il Papa diceva di più. Egli non manifestava alcuna fiducia ricordando – sono parole dell’ambasciatore – come l’anno precedente, alla fine di settembre, il cancelliere Hitler dopo l’annessione dei Sudeti avesse detto che la Germania non avrebbe avanzato altre rivendicazioni sui territori europei. Ma che cosa resta di tutto questo oggi? si chiedeva Pio XII. “Al momento è Danzica, ma domani sarà altro”.
Le rassicurazioni verbali sulle quali Hitler diceva di basare la propria politica erano infatti state regolarmente smentite per ben due volte: prima con l’occupazione della Boemia e della Moravia e poi riguardo all’atteggiamento tenuto nei confronti del Sud Tirolo dove il cancelliere Hitler si stava mostrando pronto a strumentalizzare a proprio favore il concetto della purezza razziale germanica della popolazione. La Chiesa in Germania e soprattutto l’Azione cattolica – lamentava Pio XII – dovevano fare i conti con ostacoli continui: ci si poteva esprimere solo in ambito religioso e “neppure tanto”. Ma ciò che veramente risulta al vertice delle preoccupazioni di Papa Pacelli è la sorte della Polonia che tanto dall’est come dall’ovest egli vedeva ormai stretta tra due blocchi: l’uno anticristiano e l’altro acristiano. In poche parole egli temeva che un avvicinamento germano-sovietico avrebbe portato non solo alla guerra in Europa. ma che, in caso di uno scontro portato dalla Germania alle altre potenze del continente, vi sarebbe stato alla fine il bolscevismo a rivestire le parti del tertius gaudens che, tenutosi inizialmente ai margini del conflitto, avrebbe potuto godere dei vantaggi della situazione intervenendo al momento opportuno ai danni degli altri due contendenti sfiancati dalla lotta per imporsi definitivamente sull’Europa (cfr. pp. 335-338).
In una nota in data 16 agosto 1939 il cardinale Luigi Maglione, segretario di Stato di Pio XII, riferisce di un colloquio con l’ambasciatore di Polonia che lo ha messo al corrente dello scambio di note di protesta tra il suo Paese e la Germania e si ribadisce che la questione di Danzica non è altro che un pretesto per attaccare la Polonia. “La Polonia è calma, attende con tranquillità l’attacco ed è sicura di essere soccorsa dalle Potenze occidentali. L’ambasciatore non teme complicazioni da parte della Russia”. Poi la nota del cardinale Maglione prosegue: “Notizie d’altra fonte mi confermano che la questione di Danzica è un pretesto per la Germania e che questa si propone di fare una guerra di sterminio alla Polonia. Si pensa che è d’intesa con la Russia per una spartizione della povera Polonia.
Si illudono a Berlino che né l’Inghilterra, né la Francia interverranno per la Polonia” (cfr. Actes et documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1970, ristampa corretta e ampliata, i, pp.214-215). In realtà Berlino non s’illudeva affatto, poiché sapeva di poter agire senza disturbi esterni.
Nel suo intervento agli ufficiali della Wehrmacht del 22 agosto 1939, Hitler così aveva presentato gli obbiettivi da realizzare in Polonia: “La nostra forza è la nostra rapidità e la nostra brutalità (…) mi è indifferente quali voci farà circolare su di me la debole civilizzazione occidentale. Ho dato l’ordine e farò sparare a chiunque vorrà, anche con una sola parola, criticare l’affermazione che l’obbiettivo della guerra non sia raggiungere determinate linee, ma la distruzione fisica del nemico. A questo fine ho predisposto, per ora solo all’est, le mie truppe Totenkopf, ordinando loro di uccidere senza pietà e senza misericordia uomini, donne e bambini di origine polacca e di lingua polacca. Solo in questo modo acquisteremo lo spazio vitale di cui abbiamo bisogno. Chi oggi parla ancora della strage degli armeni?” (cfr. Robert Szuchta, Campi tedeschi dei nazisti sulla terra polacca occupata durante la ii Guerra mondiale, Ministero degli Affari Esteri di Polonia, Dipartimento di promozione, senza data, p. 9).
I territori polacchi incorporati dal Reich furono sottoposti a un’intensa germanizzazione sin dall’inizio della guerra. E bisogna ricordare che gli ebrei polacchi erano prima del conflitto tre milioni e quattrocentomila: ne sopravvisse solo il dieci per cento. Com’è noto i campi di concentramento e di sterminio in Polonia furono otto a cominciare da Auschwitz-Birkenau.
Anche la Chiesa cattolica polacca fu sottoposta a dure persecuzioni: numerosi sacerdoti cattolici furono arrestati e deportati in campi di concentramento tedeschi, per lo più a Dachau. Molti di essi furono uccisi: in alcune diocesi quasi la metà. (cfr. Robert Szuchta, cit., pp. 7-9). I prigionieri arrivati ad Auschwitz-Birkenau durante il primo appello così venivano salutati dal capo del campo Karl Fritzsch: “Vi avverto che qui siete arrivati non in una casa di cura, ma in un campo di concentramento dal quale si esce solo dal camino del forno crematorio. Se a qualcuno non piace può buttarsi subito sul filo ad alta tensione. Se nel gruppo ci sono ebrei quelli non hanno diritto di rimanere in vita per più di due settimane, i preti per un mese, gli altri per tre mesi” (ivi, p. 23).
In questi giorni la cronaca internazionale ci ha costretto – dolorosamente – a ricordare i massacri di Katyn perpetrati dai sovietici nel marzo del 1940: ventiduemila ufficiali polacchi furono trucidati per ordine di Stalin su consiglio del suo duro braccio destro Lavrentij Berija e gettati in fosse comuni. Per lungo tempo il crimine, scoperto nel 1943, fu scaricato sui nazisti. E neppure Joseph Goebbels il capo della propaganda nazionalsocialista riuscì a inchiodare Stalin grazie anche al silenzio complice di Churchill e Roosevelt che non vollero rischiare di incrinare l’alleanza antihitleriana formatasi dopo il 1941. Le responsabilità comuniste furono ammesse ufficialmente solo nel 1990, in piena glasnost gorbaceviana.
Indicativo per opposte ragioni lo spietato processo mediatico a cui è stato esposto Pio XII per i suoi silenzi, dai tempi di Der Stellvertreter di Rolf Hochhuth (1963) ai nostri giorni. Il Papa non aveva difese se non quelle fornitegli dalla fragile sovranità acquisita nel 1929 con i Patti Lateranensi e – in una Roma occupata da un nemico che stava attendendo solo il momento più opportuno per schiacciare la Chiesa “come un rospo”, per usare un espressione dello stesso Hitler – doveva ottemperare a due imperativi categorici. L’uno di ordine spirituale derivante dal mandato petrino, l’altro di ordine morale e umanitario. Il Vicario di Cristo, in ogni caso, non può fare distinzioni o preferenze tra gli uomini, può solo battersi per la giustizia e la pace; senonché tutta la storia del Novecento pone di fronte nazioni e popoli ferocemente in lotta gli uni contro gli altri. Dovrebbe essere ormai chiaro che Papa Pacelli e la Santa Sede furono tenuti a mantenere sostanzialmente un contegno diplomatico prudente – nondimeno il radiomessaggio natalizio del 24 dicembre 1942 contiene esplicite e intense allusioni alle persecuzioni razziali – poiché anche da questo dipendeva la fragile sovranità di un piccolo Stato, unica garanzia di quel minimo di libertà di azione e di movimento che per altri versi permise di recare soccorso e protezione al maggior numero possibile di perseguitati, tra cui moltissimi ebrei.
Eppure ancora oggi, incredibilmente, sono molti quanti levano l’indice accusatore su Pio XII. Incappa nell’errore pure “Le Nouvel Observateur”. Anche in tal senso la guerra è il trionfo dell’ingiustizia.
Non per nulla appena salito sul Soglio di Pietro proprio Papa Pacelli aveva assunto un motto eloquente: Opus iustitiae pax (“la pace è opera della giustizia”). Un concetto non casuale poiché da decenni ormai la Chiesa si stava battendo per la pace nel mondo. Pio x (1903-1914) che a suo tempo, aveva scelto il motto Instaurare omnia in Christo, contemplando il volgere degli eventi internazionali nella prima decade del secolo xx, aveva presagito il funesto incombere del “guerrone” – il primo conflitto mondiale – morendo poi di dolore alla vigilia delle ormai inevitabili ostilità. Il suo successore Benedetto xv (1914-1922) – che tanto si sarebbe prodigato per le vittime e per i prigionieri di ogni nazionalità, dopo la Nota ai Paesi belligeranti del 1° agosto 1917 in cui egli condannò l'”inutile strage” e tratteggiò i presupposti di fondo, anticipando in qualche modo i famosi “quattordici punti” del presidente statunitense Woodrow Wilson, per una pace basata su una sincera riconciliazione senza vincitori né vinti, nonché per un nuovo, e più giusto, ordine tra le nazioni – fu ripagato con l’incomprensione, l’offesa e il dileggio delle varie parti in lotta.
Venne poi Pio xi. Anch’egli nel suo motto volle ribadire il programma di pace della Chiesa di Dio: Pax Christi in regno Christi. Papa Ratti dopo aver seguito con sofferta trepidazione nei diciassette anni del suo pontificato l’evoluzione della questione sociale – con il dilagante sviluppo del capitalismo selvaggio e la diffusione delle visioni materialistiche dialettiche e pratiche che minavano l’integrità interiore dell’uomo, della famiglia e dei popoli – avendo considerato con occhio profetico il minaccioso imporsi dei sistemi totalitari sulla scena mondiale e sentendosi venir meno, offriva a Dio la propria vita affinché l’umanità fosse risparmiata dalla guerra. Gli succedette il suo più diretto e fedele collaboratore: il cardinale Eugenio Pacelli che significativamente volle anch’egli assumere il nome di Pio. Ma quel 23 agosto 1939 in cui la Germania di Hitler e l’Unione Sovietica di Stalin siglarono il loro famigerato patto di non aggressione le sorti del mondo erano già segnate.
(©L’Osservatore Romano – 23 aprile 2010)
da Baltazzar | Apr 17, 2010 | Chiesa, Controstoria
È stato presentato il volume, curato da Cosimo Semeraro, La sollecitudine ecclesiale di Pio XI. Alla luce delle nuove fonti archivistiche (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2010, pagine 490, euro 40). Pubblichiamo la sintesi di uno degli interventi.
di Rita Tolomeo
Non è facile delineare con pochi tratti tutta la complessità di un pontificato (6 febbraio 1922 – 10 febbraio 1939) che coincise pressoché totalmente con il periodo tra le due guerre mondiali. In un mondo fortemente segnato dalle decisioni prese a Versailles, caratterizzato da derive nazionaliste e da opposti totalitarismi, Pio XI scelse come motto del suo pontificato Pax Christi in Regno Christi. Era il segno della sua volontà di improntare alla pace ogni decisione; a tale fiducia non erano certo estranee le sue origini brianzole di cui conservava gelosamente i caratteri, una religiosità antica e profonda assorbita attraverso la figura materna. A tali insegnamenti avrebbe ispirato tutto il suo operato: dagli incarichi ricoperti prima nella Biblioteca Ambrosiana di Milano e poi in quella Vaticana, alla inaspettata missione in Polonia e Lituania affidatagli da Benedetto xv al termine della prima guerra mondiale, fino al magistero pontificio.
Oggi gli studi su Pio xi hanno conosciuto un nuovo slancio e l’apertura nel 2006 degli Archivi Vaticani alla consultazione dei fondi del pontificato di Achille Ratti ha offerto ai ricercatori gli strumenti necessari per meglio ricostruire gli eventi e l’ambiente religioso e sociale del ventennio tra le due guerre. Si tratta di fatti per molti aspetti già noti attraverso l’esame di materiali coevi, che ora possono essere arricchiti grazie all’analisi del “ragionamento interno” che li ha determinati. È possibile insomma per usare le parole dello studioso francese Jean-Dominique Durand “definire lo stile e il metodo di governo di un Pontefice costretto a confrontarsi con problemi senza precedenti”. Un valido e importante risultato in tal senso è il volume La sollecitudine ecclesiale di Pio XI. Alla luce delle nuove fonti archivistiche (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2010, pagine 490, euro 40) curato da Cosimo Semeraro, segretario del Pontificio Comitato di Scienze Storiche. Il volume raccoglie gli atti del convegno internazionale di studi organizzato dallo stesso Pontificio Comitato nella Sala del Collegio teutonico (Città del Vaticano) dal 26 al 28 febbraio 2009. Si tratta della presentazione dei primi esiti delle ricerche sul pontificato di Pio XI condotte dopo il 2006 negli Archivi Vaticani il cui patrimonio documentario relativo al solo pontificato rattiano è di tale rilevanza da aver richiesto un decennio di lavoro per essere preparato alla consultazione degli studiosi. Il volume è aperto da una prolusione del cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone sul pastore di una Chiesa che, lasciandosi alle spalle forme di organizzazione legate a un modello temporale ottocentesco, si muove da protagonista sul piano internazionale. Sul piano pastorale tale azione doveva tradursi nella promozione del clero e degli episcopati indigeni, in una rinnovata attenzione verso la Russia e l’Oriente cristiano, in uno sguardo attento ai mutamenti sociali.
Monsignor Sergio Pagano, prefetto dell’Archivio Vaticano, offre agli studiosi una importante ricostruzione relativa al funzionamento dei dicasteri e uffici curiali di Pio xi ma anche del metodo di lavoro del Pontefice. Il ricco archivio della Sacra Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari, invece, ha consentito a Roberto Regoli di rintracciare il funzionamento interno e l’evoluzione della sua struttura voluta dallo stesso Papa Ratti in rapporto con la Segreteria di Stato. Dai verbali della Congregazione è possibile ricavare il pensiero del Pontefice, rilevare il suo costante “interventismo”, ma anche il coinvolgimento dei suoi collaboratori, dai segretari di Stato Gasparri e Pacelli, agli altri cardinali la cui scelta risponde non solo a un sentimento di fiducia e di certezza della loro lealtà ma anche di competenza e di esperienza. I taccuini su cui l’allora segretario di Stato Pacelli a partire dal 10 agosto 1930 andò prendendo nota delle udienze quasi quotidiane del Papa hanno suscitato grande interesse e la loro prossima pubblicazione costituirà un ulteriore e importante strumento di comprensione delle pratiche pontificie e dell’atteggiamento verso realtà che Papa Ratti aveva avuto modo di conoscere di persona nella breve ma intensa esperienza di delegato apostolico e poi nunzio a Varsavia. Gli erano ben noti i difficili rapporti tra polacchi, lituani e bielorussi in Lituania e all’avversione nei confronti del comunismo si dice che non fosse del tutto estranea l’avanzata dei bolscevichi fermata sulla Vistola alle porte di una Varsavia abbandonata da tutti ma non da lui, unico “rappresentante diplomatico” che si era rifiutato nella sua fermezza e dignità brianzola di abbandonare la città in un momento così grave. È importante ricordare anche che Pio xi appoggia moralmente e finanziariamente la fondazione dell’Università Cattolica di Milano voluta da Agostino Gemelli, un’istituzione che rispondeva a pieno al suo disegno di “ricomposizione, attorno a Roma, della cattolicità” e dà vita nel 1936 all’Accademia Pontificia delle scienze, un passo verso l’apertura pratica e teorica alle scienze profane in anni di grandi dibattiti scientifici, tema questo trattato da Régis Ladous. È utile ricordare che, in anni in cui radio e cinema erano ancora percepiti come strumenti di diffusione di una visione pagana dell’esistenza, Papa Ratti aveva voluto la Radio Vaticana, inaugurata il 12 febbraio 1931 alla presenza di Guglielmo Marconi e al cinema aveva consacrato un’enciclica, la Vigilanti cura.
La ricerca condotta sulle nuove fonti archivistiche certamente non poteva non toccare temi caldi su cui la storiografia ha offerto interpretazioni diverse. Sono le questioni relative ai rapporti con il fascismo, alla liquidazione del partito popolare analizzate da Francesco Malgeri che riportarono, “forzatamente ad un livello prepolitico l’impegno dei cattolici” secondo una linea che agli occhi della storiografia italiana è conservatrice, ma che secondo Philippe Levillain è stata invece letta in modo totalmente opposto dalla storiografia grazie alla condanna dell’Action Française e alla rinascita del cattolicesimo in Francia.
(©L’Osservatore Romano – 17 aprile 2010)