Biffi, l’altro Risorgimento

È uscito il nuovo libro del cardinale: ne riportiamo un capitolo, sul rapporto tra unità d’Italia e fede cattolica
di Giacomo Biffi *, * Arcivescovo emerito di Bologna
Tratto da Avvenire – Bologna 7 di domenica 13 febbraio 2011

L’appunto più grave però che si può muovere al movimento risorgimentale è di aver sottovalutato il radicamento nell’animo italiano della fede cattolica e la sua quasi consostanzialità con l’identità nazionale. Le «leggi eversive» Tra le due guerre di indipendenza, la classe politica sabauda si è preparata alla sua storica missione aggregatrice, elaborando tutta una serie di provvedimenti che colpivano pesantemente la realtà e la vita del cattolicesimo. E così dimostrava di non avere alcuna considerazione per il patrimonio ideale che più sostanziosamente accomunava le genti d’Italia, molto eterogenee per il resto. Possiamo intravedere in una visione complessiva il disagio e il conseguente malessere che ci sono stati inflitti. È stato un dramma politico e sociale, per esempio, la fusione precipitosa di due realtà così lontane e disparate come l’area lombardo-piemontese e l’area meridionale. È stato un dramma amministrativo l’improvvisa assimilazione centralizzata delle forme di governo degli antichi Stati. Ma soprattutto è stato un dramma spirituale e morale che a motivare e a condurre il processo unitario fosse un’ideologia deliberatamente antiecclesiale. Ci si è posti così in conflitto con i sentimenti più profondi del nostro popolo, con le sue tradizioni più radicate, con la più evidente ragione della sua specificità. In tal modo, si sono messe le premesse a una sorta di alienazione degli italiani, che difficilmente sarebbero arrivati a percepire il nuovo Stato come qualcosa di connaturale e di proprio. Privata di una scala di valori sicura e accettata ab immemorabili, la nostra gente ha dato spesso l’impressione di essere senza convinzioni e indifferente di fronte ai doveri verso la collettività. E anche le leggi civili hanno faticato a essere sentite come vincolanti.

Il «potere temporale» o la libertas Ecclesiae È un luogo comune che la causa principale della inimicizia con la Chiesa sia stato il potere temporale dei papi. Questa persuasione – che ha certamente qualche fondamento – ha dato un alibi ideologico all’azione antiecclesiale dei governi del Regno. Ma è tempo di riconoscere che il nocciolo del problema non stava qui. Il conflitto comincia – tra le due guerre di indipendenza – con le leggi eversive del Regno Sardo, dove non c’era ombra di potere temporale. Prosegue poi con l’estensione di quelle leggi all’Italia intera (1866-1867) e con le continue interferenze statali nella vita della Chiesa nel Nord, fino all’Emilia) -la gente è stata davvero educata a superare le antiche propensioni alla furbizia, alla violenza privata, alla passività, al clientelismo, e si è trovata pronta a entrare nella moderna società europea.

Difetto di realismo Si può riconoscere che gli artefici del Risorgimento siano stati animati da ideali soggettivamente nobili e meritevoli di rispetto. Ma, almeno per la questione religiosa, sono stati poco realistici: non hanno saputo o voluto tenere conto del cattolicesimo non come essi desideravano che fosse, ma come è in se stesso; vale a dire un modo originale e completo, e quindi anche sociale, di essere uomini. I più aperti e moderati tra loro erano sì disposti a fare spazio alla religione; ma a una religione che si esprimesse unicamente negli atti di culto, nelle meditazioni intimistiche e nelle opere personali di carità. Ma questo è il cattolicesimo come lo vorrebbero i non cattolici di ogni tempo. Non è la «novità», inconfutabile e rinnovatrice di tutto, che è conseguenza dell’incarnazione del Figlio di Dio. Uno «storico» un po’ disattento «L’errore del cardinale Biffi – ha scritto impavidamente Giovanni Spadolini – è di confondere il temporalismo col cattolicesimo. Il Risorgimento fu contro il potere temporale [… ]. Non fu contro la religione dei padri…». Che dire? Parrebbe che qui non ci si ricordi che le multiformi leggi antiecclesiali del 1850 e del 1855 (che nel 1866 verranno poi estese a tutto il Regno d’Italia) sono state elaborate e promulgate in Piemonte, dove non c’era ombra di «potere temporale».

L’incubo nelle notti di Pola «Mio padre gettato in foiba»

Tarticchio: il nostro 25 aprile? L’inizio delle stragi • «Quale memoria pretendere da un’Europa che nega le proprie radici cristiane e toglie i crocifissi?»
di Lucia Bellaspiga
Tratto da Avvenire del 10 febbraio 2011

Il genocidio dei giuliano-dalmati avviene a più riprese a par­tire dal 1943, con punte di ferocia alla fine della guerra, già in tempo di pace: mentre il resto d’Italia festeggia il suo 25 aprile e pone le basi della rinascita democratica, un’altra parte d’I­talia (Istria, Fiume, Dalmazia) è invece ‘liberata’ dai parti­giani di Tito. L’ordine del maresciallo è de-italianizzare quel­le regioni e per gli abitanti inizia il calvario delle foibe (cavità carsiche in cui sono gettati vivi a migliaia), dei campi di con­centramento jugoslavi, delle deportazioni e – in Dalmazia, dove le foibe non esistono – degli annegamenti di massa. Ol­tre 15mila persone sono trucidate e il 90% degli italiani af­fronta la strada dell’esilio senza distinzione di ceto sociale: in 350mila scappano lasciando a Pola, Fiume, Zara e in centi­naia di paesi e cittadine la casa, il negozio, le tombe di fami­glia. Ma spesso, giunti stremati nelle altre regioni, sono cac­ciati con l’accusa ingiusta di essere fascisti (in quanto in fu­ga da un regime comunista). In tutta Italia si allestiscono 109 campi profughi: baracche prive di servizi, ricavate in caser­me o scuole dismesse, dove più famiglie insieme convivono per anni tra fatiscenti divisori di cartone. Dopo 57 anni di si­lenzio, nel 2004 il Parlamento italiano ha istituzionalizzato all’unanimità il Giorno del Ricordo, celebrato il 10 febbraio: la data in cui nel ’47 il Trattato di Parigi cedette alla Jugosla­via le nostre regioni orientali. (L. Bell.)

«La gente spariva di notte». L’incubo è rimasto negli occhi di Piero, che allora aveva nove anni e, di notte, vide por­tar via suo padre, legato col filo di fer­ro: erano le due tra il 3 e il 4 maggio 1945, quando nella sua casa di Gal­lesano, alle porte di Pola, in Istria, fe­cero irruzione in quattro, tre in divi­sa scalcinata e berretto con la stella rossa di Tito, uno in abiti civili che parlava italiano: «Seguici in caserma, ti dobbiamo interro­gare». La guerra è appena finita, i tede­schi sono sconfitti, e mentre il resto d’Ita­lia festeggia la libe­razione dal nazifa­scismo e l’arrivo de­gli alleati anglo­americani che por­tano ventate di rina­scita, nella Venezia Giulia la ‘liberazione’ avviene per o­pera degli jugoslavi: al nazismo suc­cede il comunismo. E le foibe. «Men­tre gli altri italiani scendevano in stra­da gioiosi, noi conoscevamo i giorni dell’ira e delle vendette. E andavamo a dormire col terrore di non svegliar­ci nel nostro letto». Suo padre era ‘colpevole’ di avere un negozio di generi alimentari, altri di essere stati maestri di scuola, po­stini, messi comunali, sacerdoti, ca­rabinieri… L’ordine era di de-italia­nizzare Istria, Fiume e Dalmazia, e il genocidio fu scatenato in due onda­te: la prima dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, quando sparirono in foiba settecento persone nella sola I­stria, la seconda a guerra finita, dal maggio del 1945 in poi, quando gli jugoslavi occuparono l’intera Venezia Giulia fino a Trieste. «Nel ’43 in fami­glia avevamo avuto il primo di sette lutti – racconta oggi Piero Tarticchio, 75 anni, artista e scrittore, testimone in centinaia di scuole italiane di quanto avvenne sull’altra sponda dell’Adriatico – quando don Angelo Tarticchio, cugino di papà, venne ar­restato, torturato, mutilato orrenda­mente e poi, ancora vivo, gettato in foiba con una corona di filo spinato calcato sulla testa per dileggio. La sua salma fu recuperata dai vigili del fuo­co di Pola insieme ad altre 243…». Al funerale dello zio sacerdote Piero andò tenendo per mano suo papà: «Ricordo che me la stringeva forte. Non poteva prevedere che un anno e mezzo dopo sarebbe toccato a lui». La storia di Piero – come avviene in altri olocausti – è tragicamente ripe­titiva: nelle case gli sgherri di Tito che irrompono, il furto volgare di tutto ciò che possono arraffare, il pretesto di un interrogatorio sulla base di ac­cuse assurde, un padre o una madre trascinati via e spariti nel nulla. Co­me rivelano montagne di documen­ti, gli alleati anglo-americani sape­vano e lasciavano fare. Racconta Tar­ticchio: «Milovan Gilas, teorico del Partito comunista jugoslavo, nei suoi diari annota ‘dovevamo fare in mo­do che gli italiani se ne andassero da quella terra e così fu fatto’. Nel 1992 lo ribadì in un’intervista a Panora­ma, confermando una pulizia etnica decretata ufficialmente».

Negli occhi del pic­colo Piero, e di cen­tinaia di bambini co­me lui, l’ultima im­magine del padre spinto fuori con il calcio del fucile e mai più tornato. Nel­le orecchie il pianto delle donne: «Anco­ra oggi non riesco ad ascoltare le donne che piangono, sto male…». E in tutte le case, poi, una madre che i figli di allora, sopravvissuti alla mattanza, oggi raccontano così: «Con un co­raggio impressionante andò al co­mando della polizia segreta di Tito a Carlovac a chiedere notizie del ma­rito. Ricordo un particolare: dopo la deportazione di papà il mio solo pri­vilegio fu di dormire con la mamma nel lettone e lei, sapendo del mio trauma, mi lasciava toccare il lobo del suo orecchio…. aveva un orec­chino di oro e perla, al ritorno da Car­lovac non lo aveva più». Per qualche settimana suo padre fu recluso nel castello di Pisino, a 30 chilometri in treno da casa, e tutti i giorni madre e figlio si recavano  là sotto: «C’era un’inferriata e a uno a uno i prigio­nieri si sporgevano e salutavano. Un mattino nessuno si affacciò più». Un vecchio raccontò che erano stati ca­ricati sui camion e portati a Fiume per il processo, ma a Fiume non giun­sero mai. «Tutti gli anni, nel giorno dei Morti, mi reco in Istria – racconta Tarticchio – e porto un mazzo di fiori in un ci­mitero qualsiasi… Sono bellissimi i cimiteri istriani, andateli a vedere. Scelgo la tomba più disadorna, la tomba di uno sconosciuto, non guar­do nemmeno se è di un italiano, è il solo modo che ho per onorare mio padre. Sulle foibe però non vado, fa troppo male: i lager sono diventati veri santuari, sulle foibe nemmeno una croce».

Come tutte, anche la storia di Piero finisce con la diaspora. «La mamma, saputo che rischiavamo lei i lavori forzati, io il collegio di rieducazione comunista a Maribor, raccolse le 143 lire che ci restavano e mi portò via a piedi di notte, strisciando sotto i re­ticolati, fino a Pola, poi da lì sulla mo­tonave Trieste l’addio per sempre al­la mia amata terra che il Trattato di Parigi il 10 febbraio, oggi Giorno del Ricordo, nel ’47 cedette alla Jugosla­via: l’Italia intera aveva perso la guer­ra, ma solo noi pagavamo il suo de­bito». Iniziava così l’esodo dei 350mi­la. Per 57 anni la loro storia fu nega­ta da quell’Italia per cui avevano per­so tutto, e che anche oggi ha la me­moria corta: «Ho sfogliato 31 libri di storia per i licei, solo due racconta­no le foibe… Ma quale memoria pre­tendere da un’Europa che dimentica anche se stessa, che nega le proprie radici cristiane e stacca i crocifissi dai muri?».

Don Bosco e la persecuzione Risorgimentale

di Giampaolo Barra

Pubblichiamo il testo della conversazione che Gianpaolo Barra, direttore  de “Il Timone”, ha tenuto a Radio Maria giovedì 23 novembre 1999, durante la “Serata Sacerdotale”, condotta da don Tino Rolfi. Conserviamo lo stile colloquiale e la divisione in paragrafi numerati, utilizzata per i suoi appunti dall’ autore.

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l. Continuiamo le nostre conversazioni sul tema delle persecuzioni che i cristiani hanno subito nel corso della ormai bimillenaria storia della Chiesa. Il nostro è un tentativo di leggere la storia, di conoscere quanto è accaduto m passato, nel passato lontano e in quello vicino, per trarne insegnamenti utili in primo luogo alla nostra vita di fede e poi per capire il significato dei fatti accaduti.
2. Questo compito è importante, perchè viviamo in tempi caratterizzati dal regno quasi incontrastato della menzogna, dove si offende la Chiesa e si denigra la sua storia, e che vedono i cattolici incapaci di reagire adeguatamente.
3. Anzi, tanto più cresce la calunnia contro la storia della Chiesa, tanto più viene chiesto al Papa, che è il Pastore della Chiesa universale, di scusarsi, di domandare perdono, perchè la Chiesa sarebbe colpevole di tutte, o quasi tutte le malefatte del passato.
4 Questo è il clima che si respira oggi. Noi non ci lasciamo certo impressionare da questa calunniosa campagna propagandistica. Anzi, crediamo che verrà il tempo in cui qualcuno domanderà perdono alla Chiesa e ai cattolici per i torti, le umiliazioni e le persecuzioni che hanno subito nella loro storia.
5. Vedete bene che il nostro è un intento anche un po’ polemico – non lo si deve nascondere -, ma la polemica, quando è seria, e parte fondamentale dell’apologetica. E le nostre – lo sanno bene gli amici radioascoltatori – sono conversazioni di carattere apologetico.
6. Questa sera parleremo di una persecuzione avvenuta in casa nostra, nella nostra Italia, persecuzione della quale poco si parla e ancor più poco si conosce. E` la persecuzione scatenata contro la Chiesa cattolica dai governi liberali e massonici che, nel secolo scorso, hanno fatto il Risorgimento.

7. Studiamo il Risorgimento fin dalle scuole elementari. A scuola ci viene insegnato che, nel secolo scorso, i popoli italiani, divisi in tanti Stati, diedero vita ad un processo, sotto la guida del Regno piemontese, per liberarsi dall’occupazione straniera o dai sovrani reazionari e per conquistare l’unità della Penisola. Le famose “Guerre di indipendenza”, ci viene detto, furono volute proprio per liberare l’Italia e per unificarla politicamente e geograficamente.
8. Per verificare l’attendibilità di questa storia, ci faremo guidare da un libro documentatissimo della studiosa Angela Pellicciari, intitolato significativamente “Risorgimenlo da riscrivere”, edito da Ares e da un altro bel libro del giornalista Antonio Socci, intitolato “La società dell’allegria” edito da Sugarco, dove si parla di don Bosco, personaggio straordinariamente importante per la storia del secolo scorso e del quale parleremo anche nel corso di questa conversazione.
9. Sapete bene che la nostra Italia è l’unico Paese d’Europa che ha conquistato l’unità nazionale attraverso un duro contrasto con la propria Chiesa. Naturalmente, nel caso dell’Italia, si sta parlando della Chiesa cattolica.

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10. Perchè lo Stato sabaudo, il Regno sardo-piemontese che si dice costituzionale e liberale, che si è messo alla guida del processo che ha portato all’unità d’Italia, che ha combattuto contro lo straniero per la libertà, ha perseguitato duramente la Chiesa? Perchè, nel secolo scorso, ha voluto colpire il potere temporale del Romano Pontefice?
11. Si può rispondere, seguendo il ragionamento della Pellicciari, che la persecuzione dei cattolici nell’Italia dell’Ottocento ha origini lontane. Parte dalla Roma descritta dall’eretico Martin Lutero, che ha dato inizio nel XVI secolo alla cosiddetta Riforma Protestante.
12. Lutero definiva Roma, la città del Papa, come la “prostituta Babilonia”. Da allora, tutta la stampa moderna di impronta protestante, illuminista e liberal-massonica, ripete in modo ossessivo una serie di ritornelli, una serie di leggende contro Roma che a furia di essere raccontate finiscono per convincere i più sprovveduti.
13 Nasce cosi la leggenda della Roma cattolica, della città capitale della superstizione religiosa, della Roma papalina, dello Stato Pontificio dove, nel secolo scorso, regnava la barbarie e il potere del Papa veniva esercitato con la forza, per reprimere quel popolo che voleva liberarsi da un sovrano metà politico e meta religioso.

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14. Per unificare l’Italia sotto il Piemonte, bisognava mettere fine allo Stato della Chiesa, allo Stato Pontificio. Ma non era un’impresa facile – ricorda Angela Pellicciari – perchè lo Stato Pontificio esisteva da più di mille anni, era l’unico Stato al mondo nato grazie a donazioni e quindi non costituito con la forza, era il baluardo dei cristiani di tutto il mondo, e soprattutto era lo strumento che consentiva al Papa di essere libero di fronte al potere politico (ricordiamo che tutte le “chiese” protestanti, che hanno abbandonato Roma, anche in nome di una presunta ricerca di libertà, hanno finito miseramente per essere controllate dai poteri politici locali).
15. A partire dal l848, il Parlamento piemontese dà il via ad una formidabile campagna di denigrazione della Chiesa cattolica, getta fango sui religiosi e sullo Stato Pontificio, accusato di essere male amministrato, sanguinario, retrogrado e nemico dell’unità d’Italia.
16. Ora, che lo Stato Pontificio fosse, nel secolo scorso, il più arretrato degli Stati preunitari, insieme al Regno delle due Sicilie, dei Borboni, questo lo abbiamo sentito dire fin da quando frequentavamo le classi elementari.
17. Qui sarebbe opportuno mettere mano ai documenti e studiare bene i dati. E qualche dubbio è più che lecito, visto che i documenti narrano, per fare un solo esempio, che lo Stato Pontificio, tanto denigrato, raggiunse il pareggio di bilancio nel l859.
18. Non abbiamo tempo per approfondire, ma le stesse cose potrebbero dirsi per il Regno delle due Sicilie. Antonio Socci ci ricorda che in quel Regno c’erano in proporzione meno poveri che a Parigi e a Londra. E ancora: erano in vigore le tasse più lievi di tutta l’Europa, la prima flotta italiana, una popolazione cresciuta di un terzo dal 1800 al 1860, un debito pubblico che era un quarto di quello dello Stato piemontese.
19. Continua Antonio Socci: “E` sorprendente verificare che nei primi tre censimenti generali si ha nel Sud una percentuale di addetti nel settore industriale addirittura superiore a quella delle zone più avanzate del Nord (con un 17,4% contro un l4,8% della Lombardia” (p. l59).
20. Tutti dati che ci fanno capire come la favola di un Sud che nel secolo scorso era rozzo e arretrato rispetto al Nord progressista e avanzato, la favola di un Sud borbonico che ha ricevuto dal Nord piemontese liberal-massonico il progresso e la civiltà sia sostanzialmente – appunto – solo una favola.

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21. Torniamo alla campagna di denigrazione nei confronti della Chiesa cattolica. Non è un caso se il primo Parlamento elettivo dello Stato piemontese, nel 1848, inizia i suoi lavori con una furibonda battaglia parlamentare contro gli Ordini religiosi, e specialmente contro i Gesuiti. La dura persecuzione contro la Chiesa dal Piemonte si estenderà man mano a tutti gli Stati italiani, quando questi cadranno uno dopo l’altro sotto il dominio della dinastia sabauda.
22. I liberali, e naturalmente la Massoneria, identificano gli Ordini religiosi, che sono attivissimi in tutta Italia sia nella missione, sia nell’aiuto ai poveri e soprattutto nell’istruzione e nell’educazione, come i nemici del nuovo Stato. Liberali e massoni vogliono creare una nuova morale e una nuova Religione, vicina al Protestantesimo, a scapito della religione cattolica, professata da tutto il popolo.
23. Per realizzare il compito di eliminare gradualmente il Cattolicesimo dalla testa e dal cuore del popolo italiano, obbiettivo primario della Massoneria, lo Stato piemontese trova aiuta nelle altre potenze internazionali, specialmente nell’Inghilterra protestante.
24. E non è un caso che Garibaldi decise con i suoi Mille di sbarcare a Marsala, che allora era una sorta di feudo britannico. Sì, perchè dobbiamo sapere che fu il governo inglese, decisamente avverso alla Chiesa cattolica, a finanziare con una somma che oggi può essere stimata in molti milioni di dollari, la spedizione garibaldina (cfr. Vittorio Messori, Pensare la storia, pag. 260). E l’Inghilterra aveva come scopo colpire il papato nel suo centro temporale, cioè l’Italia, per dare vita ad uno Stato protestante e laico.
25. E non è un caso che il 20 settembre l870, giorno che vede i bersaglieri entrare da Porta Pia e che segna la fine dello Stato Pontificio preunitario, si vede anche un pastore protestante entrare a Roma con un carro carico di Bibbie protestanti, stampate dalla Società Biblica britannica. Il progetto di “de-cattolicizzare” l’Italia e di “protestantizzarla” muoveva passi molto concreti.
26. Ora, noi non abbiamo il tempo di soffermarci sugli innumerevoli episodi di questa persecuzione. Molti fatti, molti dati, li potete trovare nei testi di Antonio Socci e di Angela Pellicciari che ho citato. Ma qui non possiamo dimenticare alcuni tra i primi provvedimenti presi contro la Chiesa.
27. Dopo l’approvazione, nel l850, delle leggi Siccardi (Siccardi era un ministro) con le quali si aboliva il foro ecclesiastico, veniva diminuito il numero delle feste religiose, si stabiliva l’obbligo agli ecclesiastici di chiedere l’autorizzazione per ricevere eredità e donazioni (questa norma andava a colpire un antichissimo costume dei credenti, grazie al quale la Chiesa aveva avuto i mezzi necessari per svolgere la sua missione senza farsi ricattare dal potere politico), con l’approvazione delle leggi Siccardi – dicevo – legge approvata l’8 aprile l850 e sanzionata dal Re il giorno dopo, si scatena una feroce persecuzione.
28. L’arcivescovo di Torino, monsignor Fransoni, viene arrestato, gli vengono sequestrati tutti i beni, poi viene esiliato e morirà lontano dalla sua città. Anche l’arcivescovo di Cagliari, monsignor Marangiu-Nurra viene arrestato e deportato. Il direttore del giornale cattolico L’Armonia viene arrestato e incarcerato per avere criticato le leggi Siccardi.

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29. Dunque, vedete bene che lo Stato liberal-massonico si vantava di combattere per la “liberta”, arrestando vescovi, sacerdoti e laici che difendevano la Chiesa. Sarà opportuno ricordare tutte queste cose, specialmente quando gli eredi politici di quei signori ci vengono a dare lezioni di democrazia.
30. Proseguiamo nelle nostre considerazioni. Teniamo ben presente che quando sui libri di testo scolastici si parla di Parlamento piemontese non si deve intendere una assemblea eletta dal popolo, espressione di una sovranità popolare, come avviene nelle democrazie moderne. Tutt’altro. Infatti, quando si vota il 27 aprile del 1848 per eleggere il primo Parlamento, su un totale di 4.904.059 abitanti, il diritto di voto viene dato solo a 83.369 elettori, pari all’1,70% della popolazione.
31. Se poi teniamo presente che vanno a votare solo 53.924 cittadini, cioè poco più della meta degli aventi diritto, capite bene che le misure repressive contro la Chiesa cattolica vengono prese in un Parlamento che è tutto tranne che democratico, è tutto tranne che espressione della volontà popolare.
32. La persecuzione contro la Chiesa viene dunque decisa, non dai popoli oppressi, ma da poche èlites liberal-massoniche. E queste èlites stabiliscono, tra le altre cose, anche la soppressione della Compagnia di Gesù, cioè dei Gesuiti, l’esproprio di tutti i suoi beni (compresi libri, arredi sacri e quadri) e decretano il domicilio coatto dei Padri, per evitare che abbiano contatti (allora si usava dire “per evitare che appestassero”) con la popolazione.
33. Contemporaneamente a Roma, il triumvirato capitanato da Mazzini decreta la fine del potere temporale dei papi nell’anno 1849. Il Papa Pio IX, costretto a fuggire a Gaeta, denuncia questa aggressione ricordando come sia impedita al Pontefice ogni comunicazione con il clero, con i vescovi e con i fedeli. Roma si riempie di personaggi strani: apostati, socialisti, eretici, pieni di odio verso la Chiesa. La grande borghesia liberale si impossessa dei beni, dei redditi e delle terre della Chiesa. Gli edifici ecclesiastici sono spogliati dei loro ornamenti e vengono adibiti ad altri usi. I preti e i religiosi vengono aggrediti, imprigionati e uccisi.
34. Tutto questo, si badi bene, in nome della “libertà” dalla tirannia del Papa.

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35. L’anno l855 vede un’altra tappa della persecuzione anticattolica. Il Re firma il decreto del Parlamento che sopprime gli Ordini contemplativi e gli Ordini mendicanti, cioè Francescani e Domenicani, con la motivazioni che questi Ordini religiosi sono ormai inutili, i loro membri non lavorano, non producono. Lo Stato risorgimentale può benissimo fare a meno di loro.
36. Sono le stesse motivazioni che abbiamo sentito in questo secolo in molti paesi comunisti, motivazioni accampate per eliminare fisicamente la presenza dei cattolici.
37. Torniamo alla persecuzione. Nel 1861 si possono contare ben 70 vescovi rimossi dalla loro sede o addirittura incarcerati, centinaia di preti in prigione, 12.000 religiosi e suore che vivevano nel Sud appena annesso al Piemonte sbattuti fuori dai conventi. Antonio Socci riferisce anche di 64 sacerdoti e 22 frati fucilati, perlopiù in Meridione. Dopo la presa di Roma, si registrano ben 89 sedi vescovili vacanti in tutta Italia. I vescovi nominati dal Papa non possono prendere possesso delle loro chiese perchè lo Stato unitario lo impedisce.

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38. A questo punto, per una lettura cattolica di quanto sopra descritto, mi pare opportuno ricordare la figura di un grande santo che ha vissuto di persona quella persecuzione: don Giovanni Bosco.
39. Nel dicembre del 1854, mentre in Parlamento era in discussione la legge per la soppressione degli Ordini religiosi e l’incameramento dei loro beni, il nostro Don Bosco fa un sogno destinato a scatenare un vero terremoto nella famiglia reale. Un sogno così importante che don Bosco sente la necessità di informare immediatamente il Re.
40. Invia una lettera al Re con la quale lo informa di aver sognato un bambino che gli affidava un messaggio. Il messaggio diceva: “Una grande notizia! Annuncia: gran funerale a corte”.
41. Un messaggio inquietante, capite bene, ma evidentemente urgente e grave, secondo il santo torinese.
42. Alcuni giorni dopo, don Bosco invia un’altra lettera, visto l’atteggiamento non certo incoraggiante del Re dopo il primo avvertimento. Un altro sogno e di nuovo quel bambino che diceva: “Annunzia: non gran funerale a corte, ma grandi funerali a corte”. E don Bosco invitava espressamente il Re a schivare i castighi di Dio, cosa possibile solo impedendo a qualunque costo l’approvazione di quella legge.
43. Il Re, per la verità mal consigliato, non presta ascolto. E quanto aveva previsto don Bosco comincia inesorabilmente ad avverarsi.
44. Il 5 gennaio l855, mentre il disegno di legge è presentato ad uno dei rami del Parlamento, si diffonde la notizia di una improvvisa malattia che ha colpito Maria Teresa, la madre del Re Vittorio Emanuele IL E sette giorni dopo, a soli 54 anni di età, dunque ancor giovane, la Regina madre muore.
45. I funerali sono previsti per il giorno 16 gennaio. Mentre sta tornando dal funerale, la moglie di Vittorio Emanuele II, Maria Adelaide, che ha partorito da appena otto giorni, subisce un improvviso e gravissimo attacco di metro-gastroenterite.
46. Proprio quel giorno il Re riceve un’altra lettera di don Bosco, una lettera chiara. Ecco ciò che vi era scritto: “Persona illuminata ab alto [cioè dall’alto] ha detto: Apri l’occhio: è già morto uno. Se la legge passa, accadranno gravi disgrazie nella tua famiglia. Questo non è che il preludio dei mali. Erunt mala super mala in domo tua [saranno mali su mali in casa tua]. Se non recedi, aprirai un abisso che non potrai scandagliare”.

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47. Ora, queste cose possono anche turbare qualcuno. E turbano anche quei cattolici che non sono più capaci di leggere la storia come la leggevano don Bosco e i cattolici dell’Ottocento. E quella lettura della storia dice che Dio è Re e Signore della storia e che l’uomo non può sfidarlo impunemente.
48. Sarebbe opportuno ed estremamente utile riflettere e meditare su questo punto.
49. Quattro giorni dopo quest’ultima lettera, la giovane moglie del Re, la regina Maria Adelaide, a soli 33 anni, muore. Era il 20 gennaio l855.
50 Non è finita. Quella stessa sera del 20 gennaio, il fratello del Re, Ferdinando, duca di Genova, riceve il sacramento dei morenti e muore l’11 febbraio. Aveva anche lui, come la Regina, solo 33 anni.
51. Nonostante questi avvertimenti, nonostante l’avverarsi di tutte le previsioni di don Bosco, il Re non si muove. La legge viene approvata il 2 marzo, con 117 voti a favore contro 36. In maggio la legge passa al Senato per la definitiva approvazione. Ma il giorno 17, a un passo dall’approvazione, si verifica una nuova sconcertante morte nella famiglia reale: muore il piccolo Vittorio Emanuele Leopoldo, il figlio più giovane del Re.
52. Il Re firmò e con quella legge ben 334 case religiose venivano soppresse per un totale di 5456 religiosi (cfr. Renato Cirelli, La Questione romana, Mimep-Docete, p. 31). Era il 29 maggio del 1855. Da Roma arrivo la “scomunica maggiore” (che può essere annullata solo dal Papa) per tutti “gli autori, i fautori, gli esecutori della legge”. La scomunica andava a colpire un Re che si diceva cattolico.

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53. Pio IX, nonostante le offese, le umiliazioni e le persecuzioni subite personalmente e dalla Chiesa di cui Lui era pastore, nel 1859, su richiesta di Vittorio Emanuele, accorderà il perdono pieno e senza condizioni al Re. Fatto, questo, che ci fa comprendere la grandezza di un Pontefice che la storiografia ha purtroppo denigrato.
54. Sempre intorno a questa legge, Messori ci ricorda, nel suo bel libro “Pensare la storia” un altro fatto straordinario, che riguarda ancora don Bosco.
55. Nel 1855, in piena lotta della Chiesa contro la legge Rattazzi, don Bosco pubblica un opuscolo. Dapprima, il governo liberale piemontese ne decide il sequestro, che poi non viene eseguito per paura di fare pubblicità al prete di Valdocco.
56. In quell’opuscolo don Bosco ammoniva Vittorio Emanuele II, rifacendosi a qualcuno dei suoi sogni e alle sue abituali e straordinarie intuizioni, perchè non firmasse quella legge. Scriveva testualmente don Bosco: “la famiglia di chi ruba a Dio è tribolata e non giunge alla quarta generazione”.
57 Un avvertimento grave e inquietante, ma pur sempre una profezia che oggi è facilmente verificabile, solo facendo un po’ di conti.
58. Vittorio Emanuele II muore a soli 58 anni, a quanto pare di malaria, cioè di quella febbre presa proprio a Roma dove i suoi bersaglieri erano entrati otto anni prima.
59. Il suo primo successore, Umberto I muore 56enne a Monza, sotto i colpi di pistola dell’anarchico Bresci.
60. II secondo successore, Vittorio Emanuele III, scappa di notte, di nascosto, dal Quirinale, l’8 settembre del 1943 e tre anni dopo sarà costretto ad abdicare.
61. Come non ricordare – a questo punto – l’enorme smacco per quel mondo laicista che aveva soppresso lo Stato Pontificio. Infatti, in quel tragico 8 settembre del 1943, il popolo romano, visto che il governo si era dissolto e dissolto era anche quello Stato che si era costituito con le cannonate di Porta Pia, si stringe di nuovo intorno al Papa Pio XII, ridandogli spontaneamente l’antica autorità. E quando i tedeschi lasciano la città, la popolazione di Roma si riversa in Piazza San Pietro per acclamare Pio Xll con il titolo di “difensore della città”.
62. Come non ricordare a chi si esercita nella denigrazione del Papa e della Chiesa che Pio XII era l’unico dei potenti che non aveva abbandonato Roma nel momento del pericolo. tutti gli altri erano scappati.

* * *

63. Torniamo alla profezia di don Bosco. Il terzo successore, Umberto II, fu un re “provvisorio”, per meno di un mese e, perduto il referendum popolare, deve accettare un esilio senza ritorno.
64. Come si vede facilmente, alla quarta successione, alla “quarta generazione” come scriveva don Bosco, i Savoia non sono giunti.
65. Che lezione possiamo trarre da questi fatti, lezione che risulti utile – come dicevo in apertura di conversazione – alla nostra fede?
66. Propongo una riflessione. Possiamo ricordare che i cattolici alla don Bosco, che tutti i cattolici del secolo scorso, come i cattolici di sempre, leggevano la storia sub specie aeternitatis, cioè con gli occhi rivolti a Dio, con uno sguardo alla vita eterna.
67. Per loro Dio era veramente il Signore della storia, della storia dei singoli e delle nazioni, il Signore dei sudditi ma anche dei Re. Per loro la Chiesa era veramente la Chiesa di Gesù Cristo e attaccare la Chiesa, perseguitarla, umiliarla, opprimerla, era lo stesso che perseguitare Gesù Cristo.
68. E per quanto possa sembrare un po’ duro, soprattutto in tempi di buonismo imperante, la storia insegna che offendere Dio non è un gesto che resta impunito, se ovviamente non ci si pente.

* * *

69. Allora l’invito che emerge da questa conversazione è duplice. Da un lato: preghiamo per quelli che ancora oggi perseguitano la Chiesa, perché Dio usi loro misericordia; ma rallegriamoci per il dono della fede e per l’appartenenza alla Chiesa cattolica. Ce ne rallegriamo e non ci vergogniamo.
70. Naturalmente, operiamo anche perché queste persecuzioni non si abbiano a ripetere.
71. Questo è tutto. Ci risentiamo, a Dio piacendo, fra quindici giorni.

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Bibliografia

Angela Pellicciari, Risorgimento da riscrivere. Liberali e massoni contro la Chiesa, Ares, Milano l998
Antonio Socci, La società dell’allegria. Il partito piemontese contro la Chiesa di don Bosco, Sugarco, Milano l989
Vittorio Messori, Un italiano serio. Il beato Francesco Faà di Bruno, Paoline, CiniseIlo B.mo (MI) 1990
Renato Cirelli, La Questione Romana. Il compimento dell’unificazione che ha diviso l’Italia, Mimep-Docete, Pessano (MI) l997

da www.fattisentire.org

Qualche idea per capire se i 150 anni dell’Unità d’Italia sono davvero da festeggiare

Controriforme di Francesco Agnoli
Tratto da Il Foglio del 20 gennaio 2011

Sono un figlio dell’Italia unita: un nonno di Genova, ex regno di Sardegna, due nonni siciliani, ex regno delle Due Sicilie, e una nonna romagnola, del fu stato pontificio.

Vivo da sempre a Trento, città che fu asburgica, ultimo acquisto dell’Italia unita. Impossibile non sentirsi italiano. Ma italiano, penso, mi sarei sentito anche se fossi nato prima della data fatidica del cosiddetto Risorgimento. L’Italia, per me culla dell’impero romano e della cristianità; sede dei Papi, di innumerevoli santi come Tommaso e Francesco, patria dei comuni, delle università, degli ospedali, di Dante, Petrarca, Giotto, Michelangelo, dell’arte e della musica: senza bisogno né di Cavour, né di Garibaldi, né di alcun “risorgimento”. Mi sembra dunque inevitabile, in questo centocinquantesimo anniversario dell’unità politica d’Italia, reagire alla retorica ufficiale, più blanda, certamente di un tempo, chè le rughe non si possono tener nascoste per sempre, ma ciononostante fastidiosa e petulante.

Se il Risorgimento non piacque ai cattolici, ma neppure ai comunisti come Gramsci; se Gobetti scrisse sul “Risorgimento senza eroi” e Tomasi di Lampedusa parlò dell’Italia degli sciacalli e delle iene… mi sarà permesso, sulla scia di altri, e non per puro gusto della polemica, intraprendere un piccolo viaggio, a puntate, sull’“altro Risorgimento”. Non quello ufficiale, appunto, tutto eroi di cartapesta, magniloquenza romantica e ideologia, ma quello vero, con i suoi immensi difetti. Così immensi che 150 anni dopo un grande partito italiano del nord, propone una revisione della storia, mentre un astro della politica del sud, solo di nome Lombardo, toglie dalle strade della sua Sicilia i nomi degli eroi patri, che compaiono ancora, ossessivi, assillanti, dovunque. Come se la storia della Sicilia iniziasse nel 1861 e fosse fatta solo da un Nizzardo o da qualche piemontese che parlava meglio il francese dell’italiano.

Non avrò altro intento che dare un’altra visione della storia, non per dividere, come direbbe qualcuno: sia perché sono, come ripeto, italianissimo, e desidero rimanerlo, sia perché le divisioni che vi sono tutt’oggi non le produce chi le ricorda, ma le ha create, appunto, in buona parte, proprio il cosiddetto Risorgimento.

Per parlare di questo periodo è giocoforza cominciar dalla Restaurazione, cioè da quell’avvenimento che, nella storia ufficiale, viene descritto a tinte fosche, perché funga da contraltare per le presunte grandezze successive.

I limiti della Restaurazione
Cosa fu la Restaurazione? Oggi ne conosciamo i limiti. Il più clamoroso dei quali fu forse che i restauratori violarono i loro stessi principi, “dimenticandosi”, su pressioni dell’Inghilterra, di restaurare due antichissime repubbliche: quella di Genova, regalata ai Savoia, e quella di Venezia, presa dagli austriaci. Errore gravissimo che costò all’Austria da una parte il rafforzamento di quello che sarebbe stato il suo principale nemico, il Piemonte sabaudo, dall’altra una occupazione che seppur ricca di buoni frutti, portò agli Asburgo l’odio di tanti italiani. Chissà se il Risorgimento ci sarebbe mai stato, se la Restaurazione non avesse fatto tali errori; se avesse limitato il potere della borghesia illuminista che aveva fatto man bassa di beni comuni e della chiesa nell’epoca di Napoleone; se l’élite militare filo napoleonica, assetata di guerra e nutrita della “fraternità” delle baionette, fosse stata messa all’angolo…

Fatto sta che la Restaurazione venne dopo gli orrori della rivoluzione francese, il genocidio vandeano, le migliaia e migliaia di ghigliottinati in nome della fraternité rivoluzionaria. Venne dopo ben diciannove anni di guerre napoleoniche e dopo i suoi saccheggi – soprattutto, ma non solo, in Italia – di opere d’arte, ricchezze, uomini. Ricordiamo almeno i 500. 000 morti, mai strage simile si era vista prima, sacrificati nella campagna di Russia da quell’uomo che era stato giacobino e repubblicano e che si era poi messo in testa la corona, da solo, a significare che non vi era altro autore della legge che lui stesso: Napoleone, colui che, come aveva capito Dostoevskij, annunciava le dittature atee del Novecento…

Il tanto vituperato Congresso di Vienna, dicevo, ebbe il grande merito di non umiliare la Francia, colpevole e vinta, e di permettere così numerosi anni di pace. Come ricorda Massimo de Leonardis infatti non vi fu “nessuna guerra tra stati europei fino al 1853, quando scoppiò la guerra cosiddetta di Crimea, nessun conflitto su scala continentale per un secolo, fino al 1914”. Ma la Restaurazione sarebbe stata battuta dal principio di nazionalità, anticamera del nazionalismo, dalla santa “sovranità popolare” e dall’idea dello stato centralizzato, giacobino e, appunto, nazionalista, tutte idee cavalcate dal Risorgimento, che avrebbero generato le dittature (proprio nei due paesi di più tardo “risorgimento”) e ben due guerre mondiali. Quanto superiore, il Congresso di Vienna, ai trattati iniqui, cent’anni più tardi, di Versailles, che, sancendo la morte dell’impero multinazionale asburgico, segnarono la vittoria definitiva del Risorgimento e del nazionalismo e favorirono, vent’anni dopo, lo scoppio del secondo conflitto mondiale!
(1. continua)

Risorgimento: non ho cambiato idea

di Vittorio Messori
Tratto da La Bussola Quotidiana il 13 gennaio 2011
Tramite il sito di Vittorio Messori

Il giorno 10, lunedì scorso, a questo “aperitivo” è stato messo il titolo Elogio dell’unità d’Italia.

È stato messo, dico, perché – come avviene in tutti i giornali – i titoli sono fatti dalla redazione e non dall’autore del pezzo. Inoltre, questi miei sono piccoli “sfoghi“ telefonici, senza la mia revisione, con dunque la possibilità di qualche fraintendimento od equivoco.

Alcuni lettori mi hanno detto la loro perplessità, pensando che io abbia cambiato parere rispetto ai tempi in cui, scrivendo la biografia del beato Faà di Bruno e presentandola al Meeting Rimini (provocando così uno scandalo che fu in prima pagina e nei titoli dei telegiornali per alcuni giorni) denunciavo i miti e leggende su quello che fu detto “Risorgimento” e il nascondimento fazioso dei suoi errori se non degli orrori. Come, ad esempio, la cosiddetta “guerra al brigantaggio“ che in realtà fu una campagna militare contro la resistenza del Sud e che provocò molti più morti che tutte le guerre di “liberazione nazionale“.

Sono poi tornato sul tema in qualche articolo per la rubrica “Vivaio“, ora ospitata da Il Timone, ma allora su Avvenire. Ebbene, sia ben chiaro: riscriverei le stesse cose, di cui non mi sono affatto pentito. Ma, mentre allora fui isolato (anche dai cattolici, a cominciare dall’Osservatore romano di Agnes che mi attaccò duramente) ora, vent’anni dopo, la demitizzazione è talmente dilagata che il conformismo attuale è quello anti-risorgimentale.

Come dicevo nel pezzo di lunedì, ho orrore del politicamente corretto, delle idee di maggioranza, e credo dunque che sia necessario distinguere tra unità italiana e mezzi impiegati per raggiungerla. Ricordavo la frase di Sturzo, secondo il quale per raggiungere quell’unità, che in sé era un bene, fu fatto anche molto male. La nazione italiana è tra le più antiche d’Europa, rimontando addirittura al tardo impero romano, mentre lo stato italiano è tra i più recenti.

Un po’ come avvenne per la Germania, la Polonia, in parte l’Irlanda. Nelle catalogazioni medievali, non appariva la “nazione francese“, “inglese“ o “spagnola“, ma quella “italiana” sì. Anche se scritta solo da dotti, la lingua univa tutte le regioni, tanto che non è certo abusivo parlare di una letteratura nazionale che comincia ancora prima di Dante e proprio al Sud, la “scuola siciliana“.

Tutti – papato compreso e Pio IX tra tutti – avevano coscienza di questa antica appartenenza nazionale e auspicavano qualche forma di unione tra le varie parti della Penisola. Dante, Petrarca, Alfieri poi Leopardi scrivevano infiammate “odi all’Italia“. Il problema non è dunque quello dell’unità, che non è seriamente discutibile, ma il modo per raggiungerla: e quello scelto – o subìto? – nel XIX secolo merita, documenti alla mano, tutte le cose che ho detto e che tuttora ribadisco, senza attenuanti.

Oddìo, da storico di quel periodo, sin dai tempi universitari, so che ci sono cose che vanno al di là delle intenzioni dei singoli. Ad esempio: quelli che lamentano che sia stato scelto il centralismo di scuola giacobina, dimenticano che proprio nel 1861, alla morte di Cavour, scoppia la terribile guerra americana di Secessione, gettando discredito sulla forma federalista. Un altro stato federale, la Svizzera aveva visto un’altra guerra civile, quella del Sonderbund., che non scherzò quanto a ferocia.

Solo da noi, poi, la Questione Romana complicava tanto le cose che soltanto nel 1929 si giungerà a scioglierla. Malgrado queste “ attenuanti“, molti errori furono compiuti, molte faziosità – soprattutto contro i cattolici – furono praticate, molte menzogne furono spacciate: sia allora che nei tempi successivi, fino a noi.

Questo dissi ai tempi in cui fui trasformato nel “mostro di Rimini“ da una canea conformista che unì destra, centro, sinistra. E questo ribadisco ora, senza sconti. Anche se, da cattolico, sono d’accordo con i Papi, a partire da Paolo VI (ma in fondo anche da prima) che hanno riconosciuto che pure in quello che fu il dramma per giungere all’unità, Dio – come al solito – ha saputo scrivere dritto su righe che, spesso, furono molto storte.

E proprio il patriota e beato Francesco Faà di Bruno, che fu perseguitato da quella Patria che sempre servì da “ italiano serio“ (e la cui storia che avevo raccontato mi meritò una lapidazione mediatica) mi sembrò, e tuttora mi sembra, una icona esemplare di questa parabola contraddittoria.

Cancelli d’Europa: l’epopea della Reconquista

di Domenico Bonvegna

Sto presentando per voi lettori Cancelli d’Europa, di Giorgio Zauli, edito da Ares.

La V scheda racconta l’epopea della Reconquista, dalla prima battaglia di Covadonga (722) alla resa di Granada (1492), quasi otto secoli per liberare la Spagna dal dominio islamico. Da quando Alfonso II il Casto, fondò  il santuario dedicato a Santjago, venne invocato dai combattenti, il matamoros, fu sempre al loro fianco sui campi di battaglia contro i musulmani. Mentre oggi è preoccupante che alcuni prelati spagnoli rimuovano le immagini di San Giacomo in veste di guerriero, per paura di eventuali attentati da parte di islamici fondamentalisti, o solo per un malinteso ecumenismo che non dovrebbe mai diventare cancellazione della propria storia o della propria identità.

Per la verità è anche vero che i musulmani non potevano durare così a lungo a occupare il suolo spagnolo se non c’erano le divisioni tra gli stessi cristiani, Zauli non manca di ricordare il grande contributo alla reconquista del leggendario Rodrigo Diaz, detto el Cid Campeador, l’eroe del poema epico il cantare del mio Cid, colui che conquistò nel 1094 Valencia.

In pratica per quasi otto secoli il popolo spagnolo visse in perenne mobilitazione guidati dai loro sovrani, in evidenza furono i Ferdinando, nome fatale per l’intera storia della guerra contro i mori. Ferdinando III fu addirittura canonizzato nel 1671, fino alla grande Isabella, detta la Cattolica, che tanto volle la scoperta dell’America, riconoscendo per prima l’umanità degli indios.

Alla fine della scheda Zauli, si chiede: Senza la conquista della Penisola Iberica e la conseguente nascita della potenza spagnola sarebbe riuscita l’Europa a fermare l’avanzata turca sui fronti meridionale e orientale? Saremmo qui a ricordare le vittorie di Lepanto e di Vienna?

Ma prima di raccontare i grandi eventi delle due straordinarie vittorie dei cristiani sugli ottomani, il libro Cancelli d’Europa punta l’attenzione sul cosiddetto Medioevo. Cominciando con l’eresia Catara, che negava non solo i dogmi e le gerarchie religiose ma tutte le fondamenta della convivenza civile e dello Stato, mettendo in pericolo il futuro stesso della società, quindi della cultura europea. Basti pensare che per il cataro tutto quanto concerne il corpo doveva essere rigettato: il suicidio era la più grande e alta rappresentazione; il matrimonio, la procreazione erano da evitare, poiché generando altri corpi, si crea altro male; andavano rifiutate la proprietà privata, l’autorità civile e religiosa, il giuramento di fedeltà, le imposte, il servizio militare, la giustizia. Ce n’era abbastanza per gettare a catafascio tutti i valori su cui si basava la società medievale e minare le fondamenta degli Stati, per cui non c’è da stupirsi che i primi a preoccuparsi furono i sovrani. A questo proposito il testo affronta il tema scabroso delle inquisizioni, che intanto furono tre in campo cattolico, ma non bisogna dimenticare quelle delle riforme protestanti, come la famigerata “caccia alle streghe”, che riguardò soprattutto il Nord protestante in epoca moderna.

Comunque sia Zauli raccomanda al lettore che bisogna sempre tenere presente che non è possibile giudicare il passato secondo categorie del presente: per noi oggi – continua Zauli – è inaccettabile condannare qualcuno per le proprie convinzioni religiose o politiche (anche se certi Stati prevedono, per esempio, pene severe per i negazionisti dell’Olocausto, in contraddizione con la libertà di opinione, che viene da questi stessi Stati sbandierata in altri casi.

Infine il testo sottolinea l’opera degli Ordini mendicanti francescani e domenicani che attraverso la pratica della povertà, hanno sconfitto i presupposti su cui si basavano i movimenti ereticali. Così Zauli può concludere che senza di loro, senza la Crociata, senza l’Inquisizione, il messaggio distruttivo dei Catari avrebbe fermato ogni ulteriore crescita culturale ed economica in Europa, determinando un regresso e un indebolimento che l’avrebbero messa alla mercè dei popoli e delle civiltà orientali. Che l’assediavano.