Novità su Pio XII che novità non sono

Secondo “L’Osservatore Romano”

CITTA’ DEL VATICANO, lunedì, 1° febbraio 2010 (ZENIT.org).- Le presunte rivelazioni di archivi britannici che accusano Pio XII di silenzio o indifferenza di fronte alla persecuzione degli ebrei non apportano novità, considera un articolo pubblicato dal quotidiano vaticano.

“L’Osservatore Romano” ribatte alle interpretazioni che molti mezzi di informazione hanno dato dei documenti resi noti dallo storico Giuseppe Casarrubea, specializzato nella ricerca negli archivi inglesi di Kew Gardens: un telegramma del 19 ottobre 1943 e una lettera del 10 novembre 1944.

Nel primo documento, l’incaricato d’affari statunitense Harold Tittmann descrive la “cautela formale di Pio XII all’indomani della deportazione degli ebrei romani”.

Il Cardinale Achille Silvestrini, prefetto emerito della Congregazione vaticana per le Chiese Orientali, entrato al servizio diplomatico di Pio XII nel 1953, considera in un’intervista pubblicata dal quotidiano “La Stampa” e citata da “L’Osservatore Romano” che il Papa “si adoperava logicamente a non incrinare il rispetto mostrato per la Santa Sede fino a quel momento dai tedeschi”.

“In quel tragico periodo”, sottolinea il Cardinal Silvestrini, “il Papa aveva la preoccupazione che i tedeschi lasciassero Roma tranquilla e ne rispettassero il carattere sacro”.

“E non si trattava di una scelta contro gli ebrei”, aggiunge il quotidiano vaticano. “Tutt’altro. Proprio quell’atteggiamento prudente avrebbe permesso di agire in modo efficace e concreto. Per gli ebrei e per tanti altri perseguitati. Ogni gesto plateale di protesta o di ribellione sarebbe stato controproducente”.

“Al tempo stesso – ha aggiunto il Cardinale -, il Papa si prodigava affinché nelle chiese e negli istituti cattolici fossero ospitati quanti più ebrei possibile (…) ma una protesta esplicita avrebbe procurato più danni che vantaggi”.

Papa Pacelli conosceva la situazione molto meglio di tanti altri, ricorda il Cardinal Silvestrini. Era stato Nunzio a Monaco e a Berlino dal 1917 al 1929, era stato favorevole alla Repubblica di Weimar e “sapeva bene che cosa fosse il nazismo”.

Nell’altro documento citato in questi giorni dai mezzi d’informazione, dell’autunno del 1944, si riferisce di un colloquio tra l’ambasciatore britannico Francis D’Arcy Osborne e Pio XII relativo ai massacri degli ebrei d’Ungheria perpetrati dai nazisti proprio nei giorni in cui giungevano alla Sede Apostolica continue richieste di denuncia dei crimini stalinisti nei Paesi baltici e in Polonia.

“Mentre l’ambasciatore caldeggiava una denuncia pubblica delle atrocità naziste, suggeriva di tacere su quelle commesse dagli alleati sovietici. Il Papa preferì invece attenersi coerentemente alla sua linea di prudenza: ‘Condannare il peccato e non il peccatore’, come ha ricordato anche lo storico Andrea Riccardi in un’intervista a ‘Il Corriere della Sera’ del 1° febbraio”, aggiunge “L’Osservatore Romano”.

Del resto, ha detto ancora il Cardinal Silvestrini, “Pio XII considerava quanto accaduto ai Vescovi olandesi un monito a non fare altrettanto. L’episcopato d’Olanda aveva scritto una lettera che condannava ‘lo spietato e ingiusto trattamento riservato agli ebrei’. Quel documento venne letto nelle chiese olandesi nel luglio del 1942”.

“Le intenzioni erano ottime, ma i risultati furono disastrosi”, dichiara il quotidiano. “Proprio nel Paese in cui i sacerdoti avevano denunciato più duramente le persecuzioni ebraiche, ci furono più deportazioni che in qualunque altro Stato dell’Europa Occidentale”, constata il porporato.

“Di fronte alla Shoah hanno taciuto gli Alleati e tutti quanti, ma ne viene chiesto conto solo a Pio XII, gli altri non vengono mai messi in discussione”, ha concluso Silvestrini.

Quando la mezzaluna abbracciò la svastica

di Andrea Tornielli
Tratto da Il Giornale del 21 gennaio 2010

I rapporti del nazismo con il mondo arabo sono poco conosciuti, così come è poco conosciuta l’influenza che l’ideologia hitleriana ebbe in alcuni partiti e organizzazioni politiche che lottarono per l’indipendenza dei paesi arabi dal dominio coloniale.

Un’influenza i cui echi si fanno ancora sentire «in alcuni settori del mondo arabo», mentre «alcuni importanti leader sia religiosi sia politici dell’islam fondamentalista se ne fanno tuttora propagatori».

Lo sostiene lo storico de La Civiltà Cattolica, il gesuita Giovanni Sale, in una ricerca che sarà pubblicata in un volume edito Jaka Book e che Il Giornale oggi anticipa.

Sale ricorda che inizialmente, la «soluzione» scelta dalla Germania hitleriana per allontanare gli ebrei dal suolo tedesco, fu quella di facilitarne in tutti i modi l’emigrazione. In particolare in Palestina, dove, credevano i tedeschi, essi sarebbero stati «liquidati» dagli arabi. L’atteggiamento tedesco mutò poco dopo, quando a Berlino si resero conto che l’immigrazione ebraica in Palestina avrebbe favorito la nascita di uno Stato ebraico. È in questo momento, spiega lo storico, che il governo di Berlino ordina a tutte le sedi diplomatiche tedesche in Medio Oriente di tenere «un atteggiamento più comprensivo verso le aspirazioni del nazionalismo arabo».

Dopo l’invasione tedesca della Cecoslovacchia nel marzo 1938, l’indirizzo filoarabo assunto dal governo del Reich per contrastare le ragioni del sionismo internazionale, viene espresso dalla propaganda nazista in modo più diretto. In questo periodo viene anche attivata dal governo tedesco una trasmissione radio di propaganda nazista in lingua araba, che avrà «ascoltatori entusiasti in tutto il Medio Oriente». E gli intellettuali arabi, in quel periodo, scrive padre Sale, «consideravano più vicine alla loro cultura e sensibilità le ragioni ideologiche del nazionalismo tedesco, definito in base alla lingua, alla cultura e alla stirpe di un popolo e di una nazione; insomma tra pangermanismo e panarabismo vi erano a quel tempo diversi punti di contatto».

Alcuni arabi tedeschi cercheranno, ma invano, di persuadere i capi nazisti a modificare la clausola razziale nello statuto del partito, restringendola ai soli ebrei. Le autorità tedesche tenteranno però in tutti i modi di correggere il tiro circa il «semitismo» delle popolazioni arabe, sostenendo che non era vero che gli arabi fossero «semiti puri» come gli ebrei, ma che, al contrario di questi, essi furono in buona parte arianizzati. «L’ideologia nazista – scrive lo storico gesuita – attraverso la sua martellante propaganda antiebraica e antidemocratica, non soltanto raggiunse la maggior parte delle popolazioni arabe, ma influì anche sulle sue élite intellettuali; in diversi Paesi furono fondati addirittura partiti politici di matrice nazista, che ebbero poco seguito a livello popolare, ma che esercitarono un forte influsso politico anche negli anni successivi alla guerra. Ricordiamo il Partito Nazionalsocialista Siriano, che esercitò una grande forza di attrazione sulla gioventù siriana e libanese di quegli anni, e il Partito Giovane Egitto, le cosiddette “camicie verdi”, formato da una gerarchia paramilitare sul modello delle SA e delle SS. Esso si distinse per un acceso antisemitismo e per l’adesione all’ideologia nazista».

All’inizio degli anni Quaranta, il Gran Muftì di Gerusalemme al Husayni, capo del supremo comitato della Palestina araba, per promuovere le ragioni dell’indipendenza dei Paesi arabi, organizzò una «missione» a Berlino per prendere contatti con i capi militari nazisti. Affermò di essere a capo di un’organizzazione nazionalista araba segreta con diramazioni in diversi Stati che, disse, erano disposti a unirsi alle forze dell’Asse nella guerra contro l’Inghilterra, «alla sola condizione che tali forze riconoscano il principio di unità, l’indipendenza e la sovranità di uno Stato arabo a carattere fascista, comprendente l’Irak, la Siria, la Palestina e la Transgiordania».

Il sentimento filo-tedesco e le simpatie verso il nazismo, furono così forti, «in questi Paesi, in particolare in Egitto e Siria – osserva Sale – che esso non svanì neppure dopo la sconfitta e la completa distruzione del Terzo Reich. Le simpatie verso il nazismo e verso Hitler, addirittura, non solo non venivano nascoste, ma venivano pubblicamente manifestate e questo fino agli anni Sessanta del secolo scorso». Lo storico ricordo uno scritto del 1953 di Anwar Sadat, futuro presidente della repubblica egiziana, il quale scrisse in un giornale del Cairo, riferendosi idealmente a un Hitler che si credeva ancora vivo e nascosto da qualche parte: «Mi congratulo con voi con tutto il cuore  perché, sebbene sembri che siate stato sconfitto, il vero vincitore siete voi. Siete riuscito a seminare la discordia tra il vecchio Churchill e i suoi alleati da una parte, e il loro alleato il diavolo, dall’altra. La Germania è vittoriosa perché è necessario, per l’equilibrio nel mondo, che essa sia di nuovo creata, qualsiasi cosa possano pensare l’Occidente o l’Oriente. Non ci sarà pace fino a quando la Germania non sarà riportata a quello che è stata».

Così, mentre in Occidente, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il nazismo veniva identificato con il «male assoluto», nel mondo arabo, scrive padre Sale, «esso continuava a raccogliere l’entusiasta simpatia di molti».

In larghi settori del mondo arabo, in particolare quelli legati al fondamentalismo islamico, il ricordo di Hitler rimane dunque ancora vivo e le sue opere vengono ancora tradotte e divulgate. Alcuni fatti recenti, inoltre, dimostrano chiaramente, secondo lo storico gesuita, «che una certa mentalità, diremmo filonazista e antisemita, è condivisa anche da alcuni leader politici e religiosi del mondo islamico». Come attestano le dichiarazioni antisemite e riduzioniste sulla Shoah più volte espresse dal presidente iraniano Ahmadinejad, o come, conclude Sale, «le farneticanti dichiarazioni di alcuni capi religiosi islamici, che ritengono che l’Europa, anziché aborrire il nazismo, dovrebbe lodarlo per il fatto di aver allontanato il pericolo ebraico dal vecchio continente».

Un prete gli salvò la famiglia ma lui c'e l'ha con Pio XII

Sergio Minerbi promosse la targa anti-Pacelli nello Yad Vashem che ricorda l’Olocausto • La lacerazione interna al mondo ebraico indebolisce i rapporti con i cattolici
di Piero Laporta
Tratto da Italia Oggi il 20 gennaio 2010

Targa e fotografia infamanti Pio XII furono affisse nel museo Yad Vashem a marzo del 2005, quando Giovanni Paolo II era ai suoi ultimi giorni. Sin dalla prima settimana del suo pontificato il papa polacco si adoperò, attraverso il suo amico di infanzia, l’ebreo Jerzy Kluger, per il reciproco riconoscimento fra Israele e Stato Vaticano, indispensabile premessa di una più ampia intesa entro la quale «tutti insieme, ebrei, cristiani e musulmani, israeliani e arabi, credenti e non credenti devono creare e consolidare la pace». Concetti fatti propri da Benedetto XVI.

La visita al Grande Tempio di Roma segue, come ha ricordato lo stesso pontefice, il cammino di Giovanni Paolo II nella sua incessante ricerca di collaborazione con «i fratelli maggiori». Non tutti amano questa prospettiva di fratellanza. La storia un giorno ci spiegherà perché Sergio Minerbi, insieme con altri personaggi romani, promosse l’affissione della foto e della targa a Yad Vashem. Se la questione Pio XII era urgente e vera, allora essa era urgente e vera anche mentre Giovanni Paolo II pregava davanti al Muro del Tempio di Gerusalemme. L’iniziativa di Sergio Minerbi ha tanto più bisogno d’una spiegazione in quanto la sua famiglia fu soccorsa da don Giancarlo  Centioni, cappellano della Milizia fascista, a sua volta operante in una rete clandestina a favore degli ebrei, voluta da Pio XII e da lui sostenuta e alimentata – in sagace silenzio – con denaro e passaporti vaticani.

La visita di Benedetto XVI, cinque anni dopo l’affissione a Yad Vashem, trova la Chiesa cattolica unita intorno al pontefice, mentre il dibattito su Pio XII lacera il mondo ebraico ma nessuno può compiacersene, almeno per due motivi. Primo. Il dibattito fra ebrei ha dato voce a quelli che, oscillando fra sionismo e socialismo, relativismo e secolarismo, cercano solo una rendita di posizione senza curarsi né dell’Italia né di Israele, tanto meno delle religioni. Secondo. La lacerazione interna al mondo ebraico indebolisce comunque i rapporti con i cattolici, se non altro per un mero dato quantitativo. Se la pace difetta fra ebrei e cattolici, è più arduo recuperare il rapporto con i mussulmani, non dimenticando che da Teheran si levano i latrati che afflissero i martiri della Shoa, mentre i martiri copti ci ammoniscono che la storia non si è fermata nel 1989 e neppure nel 1945.

Questa visita è stata una scelta saggia, di qua e di là del Tevere. Nelle ultime ore, il maligno annuncio di documenti che attesterebbero il favore di Pio XII per le leggi razziali, è stata un’altra inutile manciata di falsità negli ingranaggi della pace. È finita come le altre calunnie su Pio XII: contro chi l’aveva lanciata.

Targa e fotografia rimangano pure a Yad Vashem. Esse sono palesemente false, se non altro perché cagionano effetti opposti a quanto può prefiggersi l’oltraggio di un beneficiato a danno del suo benefattore. È più importante credere che Dio non può rimanere sordo se i suoi figli ebrei e cattolici pregano insieme e poco importa se tale eventualità atterrisce i malvagi.

La prova vivente della rete clandestina di aiuti agli ebrei di Pio XII

Intervista a uno dei suoi membri, padre Giancarlo Centioni

di Jesús Colina

ROMA, giovedì, 14 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Alcuni settori dell’opinione pubblica hanno chiesto nelle ultime settimane prove concrete degli aiuti offerti da Pio XII agli ebrei durante la persecuzione nazista. Il sacerdote italiano Giancarlo Centioni, di 97 anni, è la prova vivente, perché è l’ultimo membro in vita della rete clandestina creata da Papa Pacelli.

Dal 1940 al 1945 è stato Cappellano militare a Roma della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e ha vissuto in una casa di sacerdoti tedeschi della Società dell’Apostolato Cattolico – Padri Pallottini -, che l’hanno coinvolto nella rete di salvataggio.

“Siccome ero Cappellano fascista, era più facile aiutare gli ebrei”, ha dichiarato spiegando i motivi per i quali venne scelto per partecipare a questa rischiosa operazione.

“I miei colleghi sacerdoti pallottini, venuti da Amburgo, avevano fondato una società che si chiamava ‘Raphael’s Verein’ (società di San Raffaele), che era stata istituita per l’aiuto agli ebrei”, ha rivelato.

Uno degli obiettivi della rete consisteva nel permettere la fuga dalla Germania, attraverso l’Italia, verso la Svizzera o Lisbona (Portogallo), motivo per il quale la rete contava su alcuni uomini in ciascuno di questi quattro Paesi. Con il tempo, ne fecero parte anche alcuni ebrei.

In Germania, ricorda don Centioni, la società era guidata da padre Josef Kentenich, conosciuto in tutto il mondo come il fondatore del Movimento apostolico di Schönstatt. Questo sacerdote pallottino venne poi fatto prigionero e rinchiuso nel campo di concentramento di Dachau fino alla fine della guerra.

“A Roma, in Via Pettinari 57, il capo di tutta questa attività era padre (Anton) Weber, il quale aveva un contatto diretto con Pio XII e la Segreteria”, ha spiegato il sacerdote.

Una delle principali attività della rete consisteva nel consegnare passaporti e soldi alle famiglie ebree perché potessero fuggire.

“Il denaro e i passaporti venivano dati da padre Anton Weber e venivano consegnati alle persone. Però lui li otteneva direttamente [nel video dell’intervista si può constatare come il sacerdote sottolinei la parola ‘direttamente’] dalla Segretaria di Stato di Sua Santità, per nome e conto di Pio XII”.

“Con me hanno aiutato almeno 12 sacerdoti tedeschi a Roma”, prosegue il sacerdote, spiegando che la rete ricevette un aiuto decisivo anche da parte della Polizia italiana, in particolare dal vicequestore di Mussolini, Romeo Ferrara, che lo informava sul luogo in cui si trovavano le famiglie ebree alle quali doveva portare i passaporti, “anche di notte”.

Tra coloro che padre Centioni aiutò a Roma c’è ad esempio la famiglia Bettoja, ebrea, proprietaria di alcuni alberghi della città.

Il poliziotto lo mandò di notte a casa loro vestito da Cappellano militare italiano, perché i soldati tedeschi non lo arrestassero.

Il sacedote ricorda nitidamente la paura e la difficoltà dell’operazione, data anche la diffidenza della famiglia che doveva aiutare.

“Ho bussato, ma non volevano aprire. Alla fine dico: ‘Guardi, io sono un sacerdote, un Cappellano, vengo per aiutarvi, per portarvi un lasciapassare’”.

“’Lo giuri’, ha risposto una voce dall’altra parte della porta. ‘Lo giuro, eccomi qua, mi potete vedere attraverso l’occhiolino’”.

Il sacerdote venne ricevuto dalla signora Bettoja con i bambini.

“Ho detto: ‘Prima delle 7 andate via di casa con la vostra macchina, perché alla 7 dalla frontiera del Lazio potete andare a Genova’. Fuggirono e si salvarono. E’ una delle tante famiglie”.

Gli interventi della rete iniziarono già prima dell’invasione tedesca in Italia, ha ricordato padre Centioni, e durarono, “almeno per quanto ne so io, anche dopo il ’45, perché i rapporti di padre Weber con il Vaticano e gli ebrei erano molto vivi”.

“Tanta brava gente”, dice, pensando soprattutto alle famiglie ebree.

“Tra quelli che ci hanno poi aiutato ci sono stati due ebrei che abbiamo nascosto: un letterato, (Melchiorre) Gioia, e un grande musicista compositore di Vienna del tempo, che scriveva le canzoni e faceva le operette, Erwin Frimm”.

Il sacerdote li nascose in alcune case di Roma, soprattutto nella sua residenza religiosa di Via Pettinari 57.

“E loro ci hanno aiutato molto dando indicazioni precise”, ha riconosciuto. A volte questo lavoro comportava il rischio della propria vita, come il sacerdote ha potuto ben presto verificare.

“Ho aiutato Ivan Basilius, una spia russa, che io non sapevo fosse russo o spia; era ebreo. Purtroppo le SS lo arrestarono e nel taccuino c’era il mio nome. Allora, apriti cielo! Mi chiamò la Santa Sede, Sua Eccellenza Hudal [alto e influente prelato tedesco a Roma], e mi disse: ‘Venga qua, perché vengono le SS ad arrestarla’. ‘E che ho fatto?’, chiesi. ‘Lei ha aiutato una spia russa’. ‘Io? Che ne so? Chi è?’. Allora sono fuggito”.

Don Centioni, come Cappellano, conobbe l’ufficiale tedesco Herbert Kappler, comandante della Gestapo a Roma e autore dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, in cui furono assassinati 335 italiani, tra cui molti civili ed ebrei.

“Durante il periodo tedesco, dopo che a marzo fecero la carneficina [alle Fosse Ardeatine], dissi a Kappler, che vedevo spesso: ‘Perché non ha chiamato i Cappellani militari alle Fosse Ardeatine?’. ‘Perché li avrei eliminati e avrei eliminato anche lei’”, rispose l’ufficiale nazista.

Don Centioni assicura che le centinaia di persone che ha potuto aiutare erano a conoscenza di chi c’era dietro tutto questo, per questo motivo insiste: “Li aiutava Pio XII, attraverso noi sacerdoti, attraverso la ‘Raphael’s Verein’”.

L’intervista è stata concessa a ZENIT e all’agenzia multimediale www.h2onews.org, che l’ha pubblicata questo giovedì.

Il caso di don Centioni è stato scoperto e analizzato, comparando altre testimonianze, dalla Pave the Way Foundation (http://www.ptwf.org), creata dall’ebreo di New York Gary Krupp.

Di questa intervista ha potuto dare fede l’avvocato italiano Daniele Costi, presidente della Fondazione in Italia.

Il racconto trova riscontro documentale nella decorazione concessa dal Governo polacco in esilio a don Centioni (croce d’oro con due spade, “per la nostra e la vostra libertà”).

Il sacerdote cita inoltre le manifestazioni di gratitudine che ha ricevuto da parte di alcuni degli ebrei aitutati: i signori Zoe e Andrea Maroni, il professor Melchiorre Gioia, il professor Aroldo Di Tivoli, le famiglie Tagliacozzo e Ghiron, i cui figli poterono salvarsi, raggiungendo gli USA, con passaporti di fortuna procurati loro tramite il Vaticano.

[Per vedere l’intervista: www.h2onews.org]

Il card. Stepinac eroe della Croazia

di Enrico Miscia

L’eroica testimonianza del card. Stepinac contro il totalitarismo comunista è ricostruita da Enrico Miscia in un ampio inquadramento storico. L’apostolo della Croazia è stato beatificato da Giovanni Paolo II nel 1998.

[Da «Studi Cattolici», n. 531, maggio 2005, pp. 364-369]

Il cardinale Alojzije Stepinac è una figura relativamente poco conosciuta in Italia (1). Quando, il 3 ottobre 1998 durante la sua seconda visita in Croazia, Giovanni Paolo II lo proclamò beato, riaffiorarono le polemiche e ci fu chi contestò nuovamente il suo operato durante la seconda guerra mondiale (2). A quell’epoca, la Croszia aveva ottenuto un’effimera indipendenza e fu governata da Ante Pavelich, leader degli ustaša. La documentazione e le testimonianze prodotte per la causa di beatificazione che ora é possibile consultare, gettano nuova luce non solo su Stepinac, ma anche sull’intera vicenda dello Stato indipendente croato dal 1941 al 1945 (3).

Per orientarci un po’ fra le intricate vicende balcaniche di quegli anni, può essere utile un breve inquadramento storico. Senza andare troppo lontani nel tempo, ricordiamo che alla fine della prima guerra mondiale una delle conseguenze della scomparsa dell’impero austro-ungarico fu la creazione del «Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni» (Jugoslavia dal 1929). Favorito dalla volontà delle potenze vincitrici per poter contenere un eventuale ritorno dell’espansionismo tedesco e contrastare quello sovietico più recente, il nuovo regno fu però frutto di un affrettato accordo tra le varie nazionalità slave. Vennero presto alla luce i diversi obiettivi che si proponevano soprattutto i serbi e i croati: per questi ultimi, e anche per gli sloveni, il nuovo Stato avrebbe dovuto essere una federazione, con un ampio decentramento e nella quale ogni popolo avrebbe potuto mantenere le proprie istituzioni e le proprie tradizioni culturali. I serbi invece, che avevano pagato a caro prezzo la guerra contro l’Austria-Ungheria e si sentivano perciò moralmente autorizzati a porsi a capo del nuovo Stato, pensavano all’unione degli stati del sud con il suo centro a Belgrado e come la realizzazione della Grande Serbia.

Sparatoria in Parlamento

Questi contrasti si manifestarono ben presto e determinarono una forte instabilità politica, nella quale comunque il potere fu saldamente nelle mani dei serbi che mantennero il pieno controllo dell’esercito e dell’amministrazione pubblica. La polemica tra il regime di Belgrado e i croati raggiunse il culmine quando, il 20 giugno 1928, un deputato appartenente al partito radicale serbo, Puniša Račich, dopo un alterco in Parlamento con un deputato croato, si mise a spanare all’impazzata e uccise due deputati croati, ferendone altri tre. Tra questi c’era il leader del partito contadino croato, Stjepan Radich, che morì pochi giorni dopo.
A quel punto il re, Alessandro Karadjordjievich, pensò di risolvere ogni problema con la dittatura personale: abolì la Costituzione, mise fuori legge i partiti e diede una nuova struttura amministrativa al regno, dividendolo in nove regioni (banovine). Soprattutto cercò di fomentare un patriottismo jugoslavo, per favorire l’unità della nazione. Questo tentativo di omologazione culturale, che nascondeva in realtà un consolidamento del potere nelle mani dei serbi, provocò la reazione delle comunità minacciate e la radicalizzazione dei movimenti nazionalisti.

È in questo momento che sorge il movimento ustaša (insorti) fondato da Ante Pavelich e si sviluppa quello nazionalista macedone dell’Orim (Organizzazione rivoluzionaria interna macedone) di Vančo Mihailov. Insieme misero in atto alcuni attentati, fino ad arrivare a uccidere lo stesso re Alessandro, il 9 ottobre 1934 a Marsiglia. Pavelich (insieme ad alcuni suoi collaboratori) fu condannato in contumacia dal tribunale francese come mandante dell’assassinio. Poiché il figlio di Alessandro, Pietro II, aveva solo undici anni, le funzioni di reggente vennero esercitate dal principe Paolo. Questi cercò, con l’aiuto del primo ministro Milan Stojadinovich, di rinnovare la politica jugoslava tentando di raggiungere un compromesso con i croati. Per favorire questo avvicinamento, firmò un concordato con la Santa Sede per regolarizzare i rapporti con la Chiesa cattolica. Ma, al momento della ratifica da parte del parlamento, il vecchio establishment serbo e la Chiesa ortodossa in particolare insorsero violentemente. Ci furono manifestazioni e scontri con la polizia a Belgrado e in altre città della Serbia. Il santo Sinodo della Chiesa ortodossa scomunicò i membri della skupština (il parlamento) e del governo che avevano votato a favore della ratifica. Stojadinovich capì che la battaglia era persa e non presentò più il concordato in senato per l’ultima ratifica. Visti i risultati deludenti delle elezioni del 1938, il principe Paolo decise di sostituire il primo ministro e chiamò al governo Dragiša Cvetkovich, che cercò subito di riprendere i colloqui con il leader del partito contadino croato, Vladimir Maček. Finalmente il 26 agosto 1939, una settimana prima dello scoppio della seconda guerra mondiate, dopo estenuanti trattative si giunse a un accordo (sporazum): fu creata una banovina croata comprendente, oltre all’originario territorio croato, anche la Dalmazia e buona parte della Bosnia-Erzegovina con un’ampia autonomia. Se questo accordo fosse stato firmato due decenni prima, avrebbe probabilmente assicurato l’unità dello Stato jugoslavo; adesso, dopo vent’anni di divisioni in cui gli odi e l’insofferenza reciproci erano cresciuti, non soddisfece nessuno e attirò le critiche dei nazionalisti di entrambe le parti. Inoltre, soprattutto a causa della guerra, la situazione economica peggiorò, frustrando le aspettative di miglioramento che i croati speravano.

L’indipendenza della Croazia

Dope la sconfitta della Francia e l’adesione al Patto tripartito (Germania, Italia e Giappone) di Romania, Bulgaria e Ungheria, la Jugoslavia si trovò accerchiata e, non potendo resistere alle pressioni tedesche, il 25 marzo 1941 aderì anch’essa al Patto. La reazione interna all’accordo fu immediata: ispirati da agenti inglesi, la notte tra il 26 e il 27 marzo, i militari guidati del generale Mirkovich, rovesciarono il governo e la reggenza, mettendo sul trono il diciassettenne Pietro H. La folla in delirio festeggiò a Belgrado gli autori del colpo di Stato e le potenze occidentali interpretarono l’episodio jugoslavo come un duro colpo assestato al prestigio di Hitler. Ma il Führer, che voleva i Balcani sicuri nelle proprie mani prima di sferrare l’attacco alla Russia, ordinò l’invasione della Jugoslavia. Nel giro di pochi giorni, dal 6 al 13 aprile, la Jugoslavia fu conquistata e poi divisa tra la Germanja e i suoi alleati. Il 10 aprile fu proclamata l’indipendenza della Croazia e a capo del nuovo Stato venne insediato, con il consenso di Hitler e di Mussolini, Ante Pavelich (4), capo del movimento nazionalista ustaša. Vladko Maček, il leader del partito contadino croato che raccoglieva la grande maggioranza dei consensi tra la popolazione croata, aveva rinunciato all’invito fattogli dai tedeschi di essere lui il nuovo capo dello Stato. Il movimento ustaša aveva, ed ebbe sempre, una stretta base popolare: era un’organizzazione clandestina con caratteristiche paramilitari (5). Nonostante ciò, il popolo croato accolse con gioia l’indipendenza, a lungo aspettata e che segnava la fine dell’invadente regime serbo. Partecipe di questo giubilo fu anche la Chiesa cattolica croata, che aveva subito durante il regno jugoslavo una forte discriminazione rispetto alla Chiesa serbo-ortodossa. Discriminazione che si era manifestata in diversi modi: venivano costruite bellissime chiese ortodosse in centri storicamente e di fatto interamente cattolici; si favorivano in tutti i modi i matrimoni misti a danno della Chiesa cattolica; veniva ostacolata l’apertura di nuove scuole cattoliche e si cercava di far scomparire quelle già esistenti; era quasi impossibile per i cattolici accedere si gradi più elevati dell’amministrazione, dello Stato e dell’esercito (6). Le regioni cattoliche venivano sistematicamente colonizzate dagli ortodossi (7). Si calcola che la Chiesa cattolica, tra apostasia e matrimoni misti, abbia perso durante il regno jugoslavo circa 200.000 fedeli. Motivo di ulteriore umiliazione per i cattolici croati fu poi la mancata approvazione del concordato, di cui si è fatto cenno in precedenza. Anche l’arcivescovo di Zagabria gioì per l’indipendenza. Egli era sicuramente un sostenitore della causa autonomista del popolo croato e vedeva nell’indipendenza una maggiore libertà per la Chiesa, ma non approvò mai il nazionalismo. In un’omelia che rivolse agli studenti universitari di Zagabria il 27 marzo 1938 disse: «Se pertanto l’amore verso le nazionalità supera il confine del buonsenso, allora non è amore ma passione, non è utile e neppure di lunga durata […]. L’amore per la propria nazione non deve fare l’uomo una bestia feroce, ma nobilitarlo. Dopo essere stato ricevuto da Pavelich il 16 aprile 1941, nel suo Diario (8) è annotato: «[…] l’arcivescovo ha ricavato l’impressione che il Poglavnik [capo; ndr] sia un cattolico sincero e che la Chiesa avrà la libertà nelle sue azioni, anche se l’arcivescovo non si illude che tutto ciò possa avvenire senza difficoltà». Quindi gioia sì, ma unita a una buona dose di realismo che faceva dubitare che questa indipendenza ottenuta sotto la tutela delle potenze dell’Asse potesse essere reale. All’uscita dell’arcivescovado, quando le prime truppe tedesche entrarono a Zagabria, un gruppo di ragazzi manifestava la propria esultanza per la proclamata indipendenza. Stepinac si rivolse al sacerdote che era con lui e gli disse: «Proprio questa ragazzaglia conosce cosa sia le zoccolo prussiano! Chi più desideroso di me che ci sia una Croazia libera! Ma non me la posso aspettare dalla pagana Germania. Prima la fede, non il paganesimo e la persecuzione della religione! Oltre a questo, politicamente non credo che Hitler voglia aiutarci a conquistare l’indipendenza». Di fatto, il nuove Stato croato fu sempre sotto le dipendenze sia della Germania sia dell’Italia: a quest’ultima dovette cedere buona parte della Dalmazia, tedeschi e italiani si divisero il territorio croato in due zone di influenza, nelle quali, quasi sempre, esercito e amministrazione civile croati erano direttamente sotto il loro controllo. Ma le difficoltà vennero dallo stesso regime ustaša, che iniziò subito una campagna persecutoria contro la popolazione serba che si trovava nel territorio dello Stato indipendente croato. Deportazioni verso la Serbia, uccisioni di massa eseguite da bande più o meno comandate dal potere centrale e in più, soprattutto da settembre del 1941, una campagna di conversioni forzate alla Chiesa cattolica. Di questa persecuzione, indubbiamente, la propaganda serba prima e quella comunista poi hanno esagerato ampiamente le dimensioni, anche per nascondere così le stesse violenze che le bande cetniche (nazionalisti serbi legati al precedente regno jugoslavo) e i partigiani misero in atto durante la guerra contro la popolazionc croata cattolica e musulmana (9). Ma le persecuzionc ci fu e fu sanguinosa. Anche gli ebrei e gli zingari subirono quasi il totale annientamento delle loro comunità presenti sul territorio dell’allora Stato croato (10).

Fermezza dell’arcivescovo

L’arcivescovo Stepinac prese una posizione di ferma opposizione contro questa campagna persecutoria e si impegnò in tutti i modi per soccorrere coloro che ne vennero colpiti. L’ampia documentazione al riguardo e le numerose testimonianze le provano con sufficiente evidenza. Frequenti furono i suoi interventi presso le autorità del governo croato. Già il 14 maggio 1941, dopo aver avuto notizia del massacro di 260 serbi effettuato dagli ustaša a Glina, inviò una lettera a Pavelich, in cui scrisse: «Io so bene che i serbi hanno commesso gravi misfatti in questi venti anni di governo. Credo però mio dovere di Vescovo di alzare la mia voce e dichiarare che questo non è lecito secondo la morale cattolica; quindi, Vi prego di prendere le misure più urgenti in tutto il territorio dello Stato croato indipendente, affinché non venga ucciso nemmeno un serbo se non sia dimostrato il delitto per il quale merita la morte. Altrimenti non possiamo attendere la benedizione del Ciclo, senza la quale dobbiamo soccombere». Innumerevoli furono gli interventi a favore dei serbi. Uno dei primi fu quello per il vescovo ortodosso Dositej Vasich, che era stato arrestato dagli ustaša venne liberato a seguito dell’intervento di Stepinac. Il 16 maggio protestò contro la deportazione della popolazione serba di Kordun e si interessò della sorte dei deportati del distretto di Sisak. Il 21 luglio protestò contro il trattamento disumano riservato agli internati dei campi di concentramento e nello stesso mese riuscì a salvare 300 donne serbe catturate dagli ustaša e destinate a morte sicura. Un dato può essere significativo della grande opera di carità che svolse Stepinac durante la guerra: tra il 1942 e il l944, l’arcivescovo riuscì a salvare, facendoli ospitare in istituti religiosi o presso famiglie di Zagabria, 6.717 bambini, di cui circa 6.000 di famiglie ortodosse e partigiane, rimasti abbandonati dopo la battaglia di Kozara del 1942.I bambini arrivarono a essere circa 14.000 quando, nel 1943, se ne aggiunsero 3.000 e altri 5.000 dai campi di concentramento in Dalmazia.

A favore degli ebrei

Altrettanto numerosi furono gli interventi di Stepinac a favore degli ebrei. Già prima della guerra, l’arcivescovo aveva prestato aiuto si numerosi profughi ebrei che dalla Germania si erano rifugiati a Zagabria per sfuggire alle deportazioni ordinate da Hitler, creando un apposito «Comitato dei profughi», di cui si occupò personalmente. Contro le leggi e le disposizioni antiebraiche varate dal governo inviò, tra la primavera e l’estate del 1941, diverse lettere di protesta al ministro degli interni Artukovich e allo stesso Pavelich, riuscendo a far abrogare la norma che imponeva agli ebrei (anche quelli convertitisi al cristianesimo) di indossare sul braccio una fascia gialla con la stella di Davide e di non entrare nei luoghi pubblici. Di fronte a ulteriori rastrellamenti che si verificarono nel 1943, e sapendo che erano soprattutto le autorità tedesche a spingere in questa direzione, scrisse nuovamente al capo del governo croato: «Se c’è di mezzo qualche autorità estera che si immischia nei nostri affari interni, io non ho paura che questa parola di protesta sia portata a sua conoscenza. La Chiesa cattolica non teme davanti a nessun potere terreno, quando si tratta di difendere i più elementari diritti dell’uomo…». Tantissimi furono anche gli aiuti concreti che prestò alle persone appartenenti alla comunità ebraica e non è possibile riportarli qui. Le stesse autorità ebraiche lo attestarono. Il delegato in Turchia della commissione per l’aiuto agli ebrei europei, Dr. Weltmann, scrisse nel giugno del 1943 al delegato apostolico a Istanbul Angelo Roncalli: «Noi sappiamo che mons. Stepinac ha fatto tutto il possibile per alleviare la sorte infelice degli ebrei in Croazia» (11). Anche il grande rabbino di Zagabria Freiberger scrisse a Pio XII «per esprimerVi come grande rabbino di Zagabria e capo spirituale degli ebrei in Croazia la mia gratitudine più profonda e quella della mia congregazione per le genti che hanno mostrato i rappresentanti della Santa Sede e i capi della Chiesa verso i nostri poveri fratelli» (12).
Pavelich, soprattutto dopo i primi mesi di regime, pensò di risolvere il «problema serbo» costringendo la popolazione ortodossa a convertirsi al cattolicesimo. La motivazione era eminentemente politica: creare uno Stato unitario e omogeneo, così da sottrarre i serbi di Croazia all’influsso politico della Chiesa ortodossa. A questo scopo fu emanato dal governo una serie di decreti per regolare queste «conversioni» e impedire che passassero al cattolicesimo quegli ortodossi che appartenevano alle classi colte e più ricche, perché non si infiltrassero nel nuovo regime e continuassero a esercitare la loro influenza. Questa campagna rappresentava una vera e propria ingerenza dello Stato in un campo di esclusiva giurisdizione della Chiesa. Stepinac intervenne con decisione, sia protestando presso le autorità governative, sia inviando lettere circolari al clero per ricordare che «la fede è questione della libera coscienza e perciò nel decidersi ad abbracciarla devono essere esclusi tutti i motivi disonesti».

Niente conversioni forzate La posizione della Chiesa croata sulle «conversioni forzate» venne definita chiaramente nella riunione della Conferenza episcopale del novembre 1941, al termine della quale Stepinac inviò una lunga lettera a Pavelich contenente le risoluzioni prese dall’episcopato. In esse si ribadiva che «tutte le questioni riguardanti la conversione degli ortodossi alla religione cattolica sono esclusivamente di competenza della gerarchia della Chiesa» e che possono essere ricevuti nella Chiesa solo coloro che si convertono «senza alcuna costrizione, nella più completa libertà». Nella lettera si chiedeva che ai serbi «venissero garantiti ed effettivamente concessi tutti i diritti civili e particolarmente la libertà personale, il diritto di proprietà c si pronunciassero condanne solo dopo un processo regolare, uguale a quello degli altri cittadini. In primo luogo fosse punita con estremo rigore ogni iniziativa privata intesa a distruggere le loro chiese o cappelle o ad asportarne i loro beni». Il clima di sopraffazione e di violenza in cui si viveva costrinse Stepinac a fare un’eccezione alle leggi canoniche, quando in un’istruzione ai sacerdoti scrisse: «Quando vengono da voi persone di religione ebraica o ortodossa, che si trovano in pericolo di morte e desiderano convertirsi at cattolicesimo, accoglietele per salvare la loro vita. Non richiedete a loro nessuna particolare istruzione religiosa, perché gli ortodossi sene cristiani come noi e la religione ebraica è quella nella quale il cristianesimo ha le sue radici. L’impegno e il dovere del cristiano è in prime luogo quello di salvare la vita degli uomini. Quando sarà passato questo tempo di pazzia, resteranno nella nostra Chiesa coloro che si saranno convertiti per convinzione, mentre gli altri, passato il pericolo, ritorneranno alla loro fede». La campagna di conversioni non ebbe il successo che il governo sperava; varie furono le cause, tra queste anche l’opposizione della Chiesa.
Più volte Stepinac condannò nelle sue omelie il razzismo, sostegno ideologico delle azioni degli ustaša e degli occupanti nazisti, in un momento in cui pochi in Europa ebbero il coraggio di farlo. Particolarmente incisive furono le omelie pronunciate nelle feste di Cristo Re. In quella del 1941, dope aver condannate le «teorie e ideologie atee» che «sono riuscite ad infettare il mondo», ammonì: «Vi è il pericolo che perfino coloro che si gloriano del nome cattolico, per non dire addirittura della vocazione spirituale, divengano vittime della passione dell’odio e della dimenticanza della legge che è il tratto caratteristico e più belle del cristianesimo: la legge dell’amore». L’allusione agli ustaša e a quei sacerdoti (pochi in verità) che collaborarono con loro è chiara. Nel 1942 denunciò apertamente le leggi e le violenze dettate dell’odio razziale: «Ogni popolo è ogni razza provengono da Dio […] questa differenziazione non deve essere motivo di sterminio vicendevole […] ogni popolo e ogni razza, quale oggi esiste sulla terra, ha diritto a una vita degna dell’uomo e a un trattamento degno dell’uomo. Tutti, siano zingari o di altra razza […] hanno il diritto di dire: Padre nostro che sei nei cieli! […] Per questa ragione la Chiesa cattolica ha condannato e condanna anche oggi, ogni ingiustizia e violenza a nome della classe, della razza o della nazione». L’omelia non fu pubblicata, ma circolò clandestinamente, come altre di cui i partigiani diffondevano il testo e Radio Londra ne trasmetteva interi brani. Gli ustaša e i tedeschi iniziarono una campagna diffamatoria contro l’arcivescovo, accusandolo di essere un collaboratore dei comunisti. Nell’omelia in occasione della festa di Cristo Re, Stcpinac dichiarò: «Ora risponderemo a coloro che ci accusano di filocomunismo […] anche coloro che ci fanno un tale rimprovero, farebbero meglio, forse, a battere alla porta della propria coscienza e porsi una domanda come questa: non è grande il numero di coloro che si sono rifugiati nelle foreste, senza essere convinti della verità del comunismo, spinti invece molto spesso dalla disperazione, a causa dei metodi brutali di qualche individuo, che crede di poter fare ciò che vuole, come se non ci fosse per lui legge né umana, né divina?». La reazione delle autorità ustaša furono immediate: si vietò la pubblicazione dell’omelia e il ministro della cultura, Makanec, scrisse un articolo su Il popolo croato, nel quale attaccò I’arcivescovo «che recentemente, nelle sue prediche, ha oltrepassato i limiti della Sua vocazione per immischiarsi in affari in cui non è competente».

Un giudizio obiettivo

L’immagine di uno Stepinac collaboratore del regime di Pavelich o testimone inerte della pulizia etnica degli ustaša, che certa storiografia poco obiettiva ha voluto propinarci, non sembra quindi corrispondere a verità. Un interessante libro di uno storico americano (13) ci riporta la testimonianza di un emissario del governo jugoslavo in esilio, il tenente Rapotec, che nella prima metà del 1942 compì una missione segreta in terra croata per stabilire contatti tra l’opposizione in patria e quella all’estero. Arrivando a Zagabria, rimase stupito nel rendersi conto subito che l’arcivescovo era persona non grata al regime; le organizzazioni clandestine dei serbi e degli ebrei insistettero con lui affinché chiedesse al governo jugoslavo in esilio di fermare la compagna propagandistica contro Stepinac, perché l’arcivescovo li proteggeva. Alla domanda di Rapotec, perché non avesse rotto con il regime ustaša, l’arcivescovo rispose che se lo avesse fatto non avrebbe potuto più aiutare nessuno (i serbi, gli ebrei e gli oppositori che si trovavano nei campi di concentramento). La cosa più importante era salvare quello che poteva essere ancora salvato. I suoi contatti con le autorità erano esclusivamente formali. Esse avrebbero voluto liberarsi di lui, ma al tempo stesso volevano far vedere a tutti che le loro relazioni erano eccellenti. Lo spiavano e sapevano sempre dove andava, cosi che Pavelich, quasi per caso, appariva alla stessa cerimonia o gli capitava di passare nei pressi quando Stepinac stava per partire. Si salutavano e un’intera batteria di fotografi riprendeva il loro incontro per fini propagandistici.

L’opposizione a Tito

Alla fine della guerra, dopo la fuga di Paveich e del suo governo, Stepinac rimase al suo posto. I comunisti avevano già iniziato a perseguitare la Chiesa: nel marzo 1945, la Chiesa croata pubblicò una prima lista di sacerdoti uccisi, che comprendeva 149 nomi. Una volta preso il potere, Tito cercò di convincere l’arcivescovo a staccarsi da Roma e a fondare una Chiesa cattolica indipendente. Ma Stepinac si oppose con forza: «Nessun cattolico, anche a costo della vita, può eludere il suo foro supremo, la Santa Sede, altrimenti cessa di essere cattolico». La persecuzione si fece allora, ancora più dura: nella lettera pastorale dei vescovi cattolici jugoslavi del 21 settembre 1945, si riferiva che 243 sacerdoti erano stati uccisi, 89 erano scomparsi e 169 erano in prigione o in campi di concentramento. Il regime inscenò un processo farsa contro Stepinac, con l’accusa di aver collaborato con il regime ustaša. L’11 ottobre 1946 venne condannato a 16 anni di lavori forzati. Nel 1951 fu trasferito dalle carceri di Lepoglava al domicilio coatto presso la sua parrocchia di origine di Krašich, dove morì il 10 febbraio 1960. Sembra ormai accertato che venne ucciso con un veleno che gli veniva somministrato poco alla volta, come testimoniato da uno dei suoi carcerieri nel corso delta causa di beatificazione.
Nella difesa di fronte al tribunale jugoslavo, Stepinac disse: «Io dico questo: quando la situazione si normalizzerà e quando potranno essere pubblicati tutti i documenti, quando gli stessi potranno essere studiati in pace, quando tutti potranno esprimere liberamente la loro parola, senza paura, pienamente liberi, alla luce della pura verità, dal punto di vista sia politico sia morale, allora non si troverà nessuno che punterà il dito contro l’arcivescovo di Zagabria». È finalmente arrivato questo momento?

Enrico Miscia

(1) Sul cardinale Stepinac sono reperibili, con una certa difficoltà, le seguenti opere: F. Cavalli, Il processo dell’Arcivescovo di Zagabria, Roma 1947; R. Pattee, The case of cardinal Aloysius Stepinac, Milwaukee 1953; N. Istranin, Stepinac. Un innocente condannato, Vicenza 1982. Più recente: H. Barbour-J. Batelja, Luce lungo il sentiero della vita. Una biografa spirituale del Beato Luigi cardinale Stepinac, Zagabria 1998.

(2) Si può vedere I’articolo di Gad Lerner dal titolo Martire o protettore degli ustascia?, apparso su la Repubblica del 19 novembre 1999 che, nel suo apparente equilibrio, fornisce i contenuti di questa polemica.

(3) I brani delle lettere, del Diario e delle omelie di Stepinac citati in questo articolo, sono estratti dalla Positio della Causa di beatificazione.

(4) Durante gli anni Trenta, Pavelich e gli ustaša godettero della protezione e dell’appoggio del regime fascista. Mussolini pensò di utilizzare, soprattutto all’inizio degli anni Trenta, l’organizzazione clandestina croata per destabilizzare ii regno jugoslavo e poter estendere la sua influenza sull’altra sponda dell’Adriatico. Quando fu proclamato lo Stato indipendente croato, Pavelich si trovava in Italia.

(5) Afferma Ernst Nolte: «L’organizzazione ustaša […] appartiene fondamentalmente alle organizzazioni terroristico-segrete nazionalrivoluzionarie dei Balcani sul tipo della Mano Nera serba o della Imro macedone […]. Essendo organizzazioni segrete, esse non hanno ancora dimestichezza con l’elemento opinione pubblica, che viceversa ha costituito dovunque una radice vitale dei movimenti fascisti» (E. Nolte, La crisi dei regimi liberali e i movimenti fascisti, Bologna 1970, p. 234).

(6) Alcuni esempi: di 127 funzionari del ministero degli interni, 113 erano ortodossi serbi; di 117 generali dell’esercito, 115 erano ortodossi serbi e uno solo cattolico.

(7) Per esempio, delle terre comprese nella riforma agraria della Slavonia, il 96% venne attribuito a ortodossi e il 4% a cattolici.

(8) Questo Diario non è on giornale dell’anima, ma è piuttosto uno scritto di carattere officiale dove sono registrati tutti gli avvenimenti e le attività di Stepinac: dalle udienze alle visite, dalle cerimonie religiose a quelle civili, eccetera. È stato scritta da diverse persone: da Stepinac stesso, ma anche dai suoi segretari Salich c Lackovich, che scrivevano in base alle direttive e talvolta sotto dettatura dell’arcivescovo. Viene ampiamente citato nella Positio della Causa di beatificazione.

(9) Alcuni studi più recenti, sia serbi sia croati, hanno cercato di definire con maggiore obiettività l’entità delle perdite umane avvenute nel territorio jugoslavo dorante la seconda guerra mondiale. Si possono citare qui i lavori di V. Žerjavich, Population Losses in Yugoslavia, Zagreb 1997 e di B. Kočovich, Žrtve drugog svetskog rata u Jugoslaviji (Le vittime della seconds guena mondiale in Jugoslavia), London 1985.

(10) La legislazione antiebraica e lo sterminio degli ebrei in Croazia furono realmente soprattutto per la pressione tedesca sul governo di Pavelich. Molti ebrei riuscirono a salvarsi fuggendo nella zona sotto controllo italiano.

(11) Cfr Actes et documents du Saint Siege relatifs à la seconde guerre mondiale, 9, n. 226, p. 337.

(12) Ivi, 8, n. 441, p. 611.

(13) S. K. Pavlowitch, Unconventional perceptions of Yugoslavia 1940-1945, New York 1985.

© Studi Cattolici
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Le sciocchezze di Corrado Augias

di Francesco Agnoli

Rassegna e confutazione di alcune tesi clamorosamente false di un dilettante che si avventura in campi dov’è incompetente. Copiando anche interi brani da Internet.

[Da «il Timone» n. 86, Settembre-Ottobre 2009]

La corazzata mediatica del quotidiano Repubblica continua a sfornare, tramite i suoi giornalisti, libri e libelli contro la Chiesa. Sembra la sentano come un dovere morale irrefrenabile. Dopo la presunta inchiesta di Curzio Maltese, La questua, zeppa di imprecisioni e maldicenze, sono venuti il poderoso e inconcludente La chiesa del no, del vaticanista Marco Politi (con prefazione di Emma Bonino), ed il pamphlet ottocentesco di Claudia Rendina, La santa casta della Chiesa, incentrato su tutte le malvagità vere o presunte di uomini di Chiesa e credenti in generale.

Ma soprattutto, tra le opere più aggressive e più fortunate, quanto a pubblico, si segnalano i tre libri di Corrado Augias: Inchiesta su Gesù, Inchiesta sul Cristianesimo, e, infine, Disputa su Dio, dialogo a due voci con Vito Mancuso. Augias, è bene ricordarlo, è anche un presentatore televisivo, un volta noto al grande pubblico. Chiaramente ne approfitta, per gettarsi a capofitto anche in campi che non conosce e in cui ammette, en passant, di essere un vero dilettante. Questo non gli impedisce di proporre le sue opinioni, infondate, come verità certe e consolidate. In realtà, sempre, dietro le sue ricostruzioni, vi è l’ideologia, il pregiudizio di chi ritiene che l’uomo sia equiparabile ad un ammasso casuale di atomi, senza scopo e senza significato. Interessanti, per capire la sua visione antropologica, due dichiarazioni presenti in Disputa su Dio. Nella prima paragona l’anima ad un computer futuro, nulla più, «in grado di manifestare sentimenti e di elaborare in modo autonomo forme di autoapprendimento» (p. 123); nella seconda equipara l’uomo ad una scimmia, volendo desumerne la negazione dell’esistenza di Dio e dell’anima immortale: «Una volta, allo zoo, ho sentito fortissima la tentazione di abbracciare il povero corpo peloso, lubrico, inconsapevole di uno scimmione, e che lui abbracciasse me, annullando in tal gesto di goffa fraternità i milioni di anni che ci separano» (p. 242).

Alla luce di queste affermazioni si capisce perché, al di là della sua produzione libraria, Augias dedichi numerose sue risposte su Repubblica, nella pagina dei lettori, ai temi della bioetica, difendendo a spada tratta aborto, contraccezione, eutanasia, Ru 486 ecc. con sordo rancore, con vero astio verso le posizioni dei cattolici, che per lui, poco democraticamente, sono sempre e immancabilmente «intollerabili».

L’idea di Augias, infatti, è che in una democrazia non vi possano essere «principi non negoziabili», che non mutano, che non possono essere calpestati da chicchessia. Il perché non è dato capirlo, dal momento che tutta la storia del Novecento, con le sue guerre, i suoi lager, gulag e laogai, dimostra proprio quanto i valori intangibili siano indispensabili per impedire alla legge, all’auctoritas, di diventare tirannica, dittatoriale e prevaricatrice. Hitler, Lenin, Stalin, Mao, e Pol Pot, per intenderci, non riconoscevano valori non negoziabili, e neppure valori spirituali: il risultato si è visto.

Augias, si diceva, contrasta il pensiero cattolico soprattutto nel campo della bioetica, deciso come è ad affermare l’assoluta possibilità di ogni singolo uomo di autodeterminarsi, come fosse il padrone della vita, propria e altrui. Su Repubblica del 10 marzo 2006 ebbe a scrivere al suo direttore: «sto per acquistare il kit della “Buona morte” in vendita a Bruxelles e credo anche in Olanda. Il prezzo è contenuto, meno di cento euro. C’è nel suicidio consapevole responsabilmente esercitato una traccia della virtù romana antica. Il desiderio di restare padroni di sé, di congedarsi dalla vita senza doversi vergognare».

Tornando ai suoi libri sul cristianesimo, Augias propone le sue verità «inconfutabili»: Gesù non si sarebbe mai proclamato Dio e avrebbe creato una Chiesa, ma solo come «comunità messianica», «realtà escatologica», per il «giorno del giudizio»! Dopo simili, grottesche affermazioni, Augias — omettendo volutamente di parlare dei primi 300 anni in cui papi, sacerdoti e semplici fedeli vennero uccisi negli anfiteatri romani, bruciati nei giardini di Nerone, depredati dei loro beni e delle loro proprietà, pur di mantenere la loro fede — spiega che l’affermazione del cristianesimo fu dovuta essenzialmente all’intervento dell’imperatore Costantino. Costui, d’altra parte, si sarebbe convertito solamente per interesse, per fare della religione cattolica uno strumento di potere, trovando subito l’alleanza di una istituzione, la Chiesa appunto, sempre pronta a fare i suoi sporchi interessi politici ed economici. Come sempre Augias propone ogni sua stramberia come un dogma inconfutabile, avvalorato, a suo dire, dal giudizio unanime di non meglio precisati «storici». Da una parte cioè vi sarebbero i cattolici, sciocchi e creduloni, ancora disposti ad andare dietro alle favole delle conversioni, e dall’altra coloro che invece hanno il coraggio di guardare in faccia alla realtà.

La verità è completamente un’altra. Chi vuole può limitarsi a sfogliare la storiografia attuale, in gran parte laica, su Costantino. Vedrà come si può vendere fumo, dare per accertate tesi che non lo sono affatto, con la più grande naturalezza. A sostenere la veridicità della conversione di Costatino, il graduale cammino di avvicinamento sincero che quest’uomo fece alla religione di Cristo, sono tutti i più grandi conoscitori di quell’epoca. Cito solo Guido Clemente, titolare della cattedra di storia romana all’università di Firenze, autore di una Guida alla storia romana (Mondadori); Augusto Fraschetti, docente di storia economica e sociale del mondo antico a La Sapienza di Roma, autore di La conversione. Da Roma a Roma cristiana (Laterza); Arnaldo Marcone docente di Storia romana all’Università di Udine e autore di Pagano e cristiano. Vita e morte di Costantino (Laterza); Robin Lane Fox, docente di Storia antica al New College di Oxford, autore di Pagani e cristiani (Laterza), e tantissimi altri titolati studiosi del mondo antico, come Andrea Alfoldi, Franchi de’ Cavalieri, Norman Baynes, Marta Sordi, Klaus Bringmann… Tra costoro segnalo solo, per mancanza di spazio, il grande archeologo Paul Veyne, di formazione laica e comunista. Veyne sostiene con sicurezza l’autenticità della conversione di Costantino, ricordando, con J.B. Bury, che la sua «rivoluzione fu forse l’atto più audace mai commesso da un autocrate in spregio alla grande maggioranza dei suoi sudditi». È innegabile, infatti, che all’epoca di questo imperatore, che pose fine alle persecuzioni dei cristiani, essi non erano per nulla appetibili come forza politica e sociale: costituivano solo il 5—10 % della popolazione, mentre Senato, aristocrazia romana ed esercito erano in stragrande maggioranza pagani. Il cristianesimo, continua Veyne, si impose allora «perché offriva qualcosa di diverso e nuovo», perché era «religione dell’amore», non certo grazie alla forza ed al potere.

La stessa faciloneria e malizia con cui Augias liquida Costantino caratterizza anche la gran parte delle altre sue argomentazioni: quando afferma erroneamente che le opere di Darwin furono condannate dalla Chiesa; quando copia interi brani di E. O. Wilson, tratti dalla rete, senza citare la fonte e spacciandoli per suoi; quando definisce sbrigativamente Eluana un «cadavere vivente» quando colloca il filosofo Spinoza e Freud tra i grandi scienziati e racconta che la Chiesa li avrebbe scomunicati; quando spiega che la Chiesa, che ha creato l’istituzione ospedaliera, avrebbe ostacolato l’uso degli antidolorifici per un macabro gusto del dolore […]. Sempre, ogni sciocchezza è detta con l’aria di chi la sa lunga. E il lettore ingenuo non può che credere al volto noto e suadente…

Bibliografia

Francesco Agnoli, Perché non possiamo essere atei. Il fallimento dell’ideologia che ha rifiutato Dio, Piemme, 2009.
Paul Veyne, Quando l’Europa diventò cristiana, Garzanti, 2008.
Marco Fasol, I vangeli di Giuda, Fede & Cultura, 2007.

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