da Baltazzar | Set 19, 2013 | Benedetto XVI, Chiesa, Cultura e Società
di Lorenzo Bertocchi da www.lanuovabq.it

Nella lectio magistralis del Cardinale Carlo Caffarra, tenuta a Bologna all’apertura dell’anno formativo di educazione cattolica per insegnanti, c’è un passaggio chiave. I commentatori si sono soffermati sul passo mediaticamente più forte, vale a dire la netta contrarietà dell’Arcivescovo di Bologna alla sostituzione delle parole “padre” e “madre” con “genitore 1” e “genitore 2”, ma c’è un concetto che davvero merita molta attenzione. Anche rispetto alla recente polemica nata intorno alla lettera che Papa Francesco ha inviato al quotidiano Repubblica.
«Avete notato che mi sono ben guardato dall’usare la parola ‘amore’ – dice Caffarra – come mai? Perché è avvenuto come uno scippo. Una delle parole chiavi della proposta cristiana, appunto ‘amore’, è stata presa dalla cultura moderna ed è diventata un termine vuoto, una specie di recipiente dove ciascuno vi mette ciò che sente». Così – conclude il Cardinale – «la verità dell’amore è oggi difficilmente condivisibile».
L’affondo è di grande rilevanza, qui il Cardinale ricorda a tutti noi, in particolare a quelli che vorrebbero una verità liquida, che anche l’amore, la misericordia, ha una sua realtà ineludibile, una sua verità. Il riferimento era legato all’affettività umana, ma il Cardinale, per rafforzare ulteriormente il concetto, ha citato un passo dell’enciclica Caritas in Veritate di Benedetto XVI, un passo molto chiaro: «Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo, l’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità».
Questa è la dottrina cattolica, quella stessa che il Santo Padre ha voluto arrischiare nel tentativo di dialogo con il non-credente Scalfari, un tentativo che, tra l’altro, ricorda all’interlocutore che la verità non è né variabile, né soggettiva. “Tutt’altro”, scrive Francesco.
Caffarra, che fu il primo preside dell’istituto Giovanni Paolo II per gli studi su matrimonio e famiglia, era già intervenuto sul tema delle unioni omosessuali lo scorso luglio, per rispondere ad una dichiarazione del sindaco di Bologna. In quell’occasione aveva espresso in modo efficace il rammarico di molti: «Affermare che omo ed etero sono coppie equivalenti, che per la società e per i figli non fa differenza, è negare un’evidenza che a doverla spiegare vien da piangere. Siamo giunti a un tale oscuramento della ragione, da pensare che siano le leggi a stabilire la verità delle cose».
Oggi riprende quel suo ragionamento e lo fa con una considerazione che, appunto, vien da piangere a doverla porre: il matrimonio omosessuale – riconosce lapalissianamente Caffarra – «è incapace di porre le condizioni del sorgere di una nuova vita umana». Eppure, aggiunge, diverse legislazioni che hanno riconosciuto una coniugalità omosessuale «hanno riconosciuto alla medesima il diritto all’adozione o al ricorso alla procreazione artificiale». Siamo già alla netta separazione tra coniugalità e procreazione, ormai è indifferente che la nuova vita sia generata o prodotta. Il tema dell’utero in affitto qui è sotto traccia, ma evidente.
Ma allora, conclude Caffarra, «che ne è della persona umana che entra nel mondo? (…) Ritenere che la coniugalità sia un termine vuoto di senso, al quale il consenso sociale può dare il significato che decide, è la devastazione del tessuto fondamentale del sociale umano: la genealogia della persona».
La via intrapresa, quella che fa dell’amore un concetto vuoto di verità e pieno solo di sensazioni soggettive, ci conduce verso questo baratro in cui anche la dimensione biologica come elemento costitutivo della genealogia scompare.
da Baltazzar | Set 19, 2013 | Cultura e Società, Papa Francesco
Dopo la lettera a Repubblica, nei suoi scritti e in tv il fondatore attribuisce al pontefice frasi che non ha mai detto su relativismo, panteismo e rottura con Wojtyla e Ratzinger
Ma Eugenio Scalfari cosa ha capito della lettera che papa Francesco gli ha inviato? A leggere e a vedere certi suoi interventi in tv viene il sospetto che il fondatore di Repubblica si spinga in interpretazioni che offendono il buon senso. Ci è o ci fa? Già nella sua prima risposta al Pontefice aveva cercato di contrapporre papa Francesco ai suoi predecessori, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI («Queste parole sono al tempo stesso una rottura e un’apertura; rottura con una tradizione del passato, già effettuata dal Vaticano II voluto da papa Giovanni, ma poi trascurata se non addirittura contrastata dai due pontefici che precedono quello attuale; e apertura ad un dialogo senza più steccati»).
Oggi, poi, un lettore di Avvenire in una lettera al quotidiano nota giustamente: «Non è grave che Scalfari non abbia capito, è grave che abbia cercato di attribuire al Papa ciò che non ha detto».
Il lettore racconta di aver assistito alla puntata di Otto e Mezzo andata in onda venerdì 11 settembre su La7, in cui la conduttrice Lilly Gruber ha intervistato Scalfari. Questi, parlando della lettera del Papa, ha detto testualmente: «Il Papa dice: la verità non è assoluta, è una verità di relazione, ciò vuol dire che i cattolici giudicano dal loro punto di vista… papa Francesco accetta che la verità anche per i credenti è sempre un verità in relazione al loro giudizio; per i non credenti la verità è la propria coscienza e quindi l’autonomia. Il suo predecessore disse che il relativismo è il nemico principale della fede, lui (Francesco) non dice questo, dice il contrario».
E ancora: «Gli ho anche detto che quando la nostra specie finirà non ci sarà più nessuno che potrà pensare a Dio e quindi Dio sarà morto. Lui mi ha risposto dicendo… che quando la nostra specie finirà a quel punto la luce di Dio entrerà tutta in tutti, il che vuol dire che Dio non diventa più trascendente ma immanente. Vuol dire che Dio si identifica con le anime. E questa è l’immanenza, non è più la trascendenza».
Ora, il Papa ha detto ben altro. E cioè questo: «Mi chiede se il pensiero secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, sia un errore o un peccato. Per cominciare, io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: “Io sono la via, la verità, la vita”? In altri termini, la verità essendo in definitiva tutt’uno con l’amore, richiede l’umiltà e l’apertura per essere cercata, accolta ed espressa».
E questo: «Nell’ultima domanda mi chiede se, con la scomparsa dell’uomo sulla terra, scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio. Certo, la grandezza dell’uomo sta nel poter pensare Dio. E cioè nel poter vivere un rapporto consapevole e responsabile con Lui. Ma il rapporto è tra due realtà. Dio – questo è il mio pensiero e questa la mia esperienza, ma quanti, ieri e oggi, li condividono! – non è un’idea, sia pure altissima, frutto del pensiero dell’uomo. Dio è realtà con la “R” maiuscola. Gesù ce lo rivela – e vive il rapporto con Lui – come un Padre di bontà e misericordia infinita. Dio non dipende, dunque, dal nostro pensiero. Del resto, anche quando venisse a finire la vita dell’uomo sulla terra – e per la fede cristiana, in ogni caso, questo mondo così come lo conosciamo è destinato a venir meno -, l’uomo non terminerà di esistere e, in un modo che non sappiamo, anche l’universo creato con lui. La Scrittura parla di “cieli nuovi e terra nuova” e afferma che, alla fine, nel dove e nel quando che è al di là di noi, ma verso il quale, nella fede, tendiamo con desiderio e attesa, Dio sarà “tutto in tutti”».
Quindi, nota giustamente il lettore Brizio, «papa Francesco ha detto e scritto che la Verità è una relazione (tra un io e un tu: Quid est veritas? Vir qui adest) e non che è relativa come suggerisce Scalfari. Il papa rimanda ancora al concetto di relazione-rapporto per rispondere all’altro punto sulla scomparsa dell’uomo sulla terra e in nessun modo scade in una visione panteistica di una luce di Dio che si stempera nelle anime. Dire che Dio sarà “tutto in tutti” non è la stessa cosa che dire che la luce di Dio sarà tutta in tutti e che si identifica con le anime».
da www.tempi.it
da Baltazzar | Set 19, 2013 | Chiesa, Papa Francesco
Durante l’Udienza Generale, papa Francesco ricorda che i dieci Comandamenti non sono un “insieme di no” ed invita a “pensarli in positivo”
da www.zenit.org di Luca Marcolivio
Nel corso dell’Udienza Generale odierna, tenutasi stamattina in piazza San Pietro, continuando il ciclo di catechesi sul Mistero della Chiesa, papa Francesco si è riallacciato all’immagine della “Chiesa-mamma”, già evocata nell’omelia di ieri mattina a Santa Marta.
“A me piace molto questa immagine – ha spiegato il Santo Padre – perché mi sembra che ci dica non solo come è la Chiesa, ma anche quale volto dovrebbe avere sempre di più la Chiesa”.
Il Pontefice ha quindi sottolineato alcuni principi che dovrebbero animare l’educazione di una madre verso i propri figli. In primo luogo, essa “insegna a camminare nella vita”, indicando la “strada giusta” e lo fa “con tenerezza, con affetto, con amore, sempre anche quando cerca di raddrizzare il nostro cammino perché sbandiamo un poco nella vita o prendiamo strade che portano verso un burrone”.
Ogni mamma, inoltre, sa cosa è importante per un figlio, non perché l’ha “imparato dai libri” ma perché l’ha “imparato dal proprio cuore”.
Anche la Chiesa, come una madre, orienta i suoi figli nella vita, attraverso insegnamenti la cui base sono i dieci Comandamenti, anch’essi “frutto della tenerezza, dell’amore stesso di Dio che ce li ha donati”. Sebbene qualcuno possa obiettare si tratti semplicemente di “comandi” o un “insieme di no”, papa Francesco ha invitato a “leggerli” e a “pensarli in positivo”.
Tra le altre cose, i Comandamenti, ha sottolineato il Papa, ci invitano “a non farci idoli materiali che poi ci rendono schiavi, a ricordarci di Dio, ad avere rispetto per i genitori, ad essere onesti, a rispettare l’altro”: tutti insegnamenti che una mamma normalmente trasmette e “una mamma non insegna mai ciò che è male, vuole solo il bene dei figli, e così fa la Chiesa”, ha aggiunto il Santo Padre.
Anche quando un figlio “diventa adulto” e “si assume la sua responsabilità”, una mamma continua a seguirlo “con discrezione” e, quando sbaglia, “trova sempre il modo per comprendere, per essere vicina, per aiutare”.
Una mamma per i suoi figli sa “metterci la faccia” – ha detto Bergoglio, usando un’espressione tipica della sua terra – cioè è “spinta a difenderli” anche nelle situazioni più controverse: ad esempio, se finiscono in carcere, le mamme “non si domandano se siano colpevoli o no, continuano ad amarli e spesso subiscono umiliazioni, ma non hanno paura, non smettono di donarsi”.
Allo stesso modo, la Chiesa si dimostra una “mamma misericordiosa” con i figli che “hanno sbagliato e che sbagliano” e, senza giudicare, offre loro il “perdono di Dio”. La Chiesa non ha paura di entrare nella nostra “notte”, ovvero “nel buio dell’anima e della coscienza” e lo fa sempre “per darci speranza”.
La Chiesa, infine, come tutte le mamme, “sa anche chiedere, bussare ad ogni porta per i propri figli, senza calcolare, lo fa con amore”, in particolare pregando Dio, specie per i figli “più deboli” o che hanno preso “vie pericolose e sbagliate”.
A tal proposito, papa Francesco ha citato l’esempio di Santa Monica e delle sue tante preghiere e lacrime versate per il figlio Agostino, fino a farlo diventare anch’egli santo.
“Penso a voi, care mamme: quanto pregate per i vostri figli, senza stancarvi! Continuate a pregare, ad affidare i vostri figli a Dio; Lui ha un cuore grande! Bussate alla porta del cuore di Dio con la preghiera per i figli”, ha esortato il Pontefice.
Anche la Chiesa, quindi, prega per i propri figli in difficoltà: in essa vediamo “una buona mamma che ci indica la strada da percorrere nella vita, che sa essere sempre paziente, misericordiosa, comprensiva, e che sa metterci nelle mani di Dio”, ha poi concluso il Papa.
da Baltazzar | Set 19, 2013 | Chiesa, Liturgia
Dal Vangelo secondo Luca 7,36-50.In quel tempo, uno dei farisei invitò Gesù a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. Ed ecco una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, venne con un vasetto di olio profumato; e fermatasi dietro si rannicchiò piangendo ai piedi di lui e cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato. A quella vista il fariseo che l’aveva invitato pensò tra sé. «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice». Gesù allora gli disse: «Simone, ho una cosa da dirti». Ed egli: «Maestro, dì pure». «Un creditore aveva due debitori: l’uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta. Non avendo essi da restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi dunque di loro lo amerà di più?». Simone rispose: «Suppongo quello a cui ha condonato di più». Gli disse Gesù: «Hai giudicato bene». E volgendosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non m’hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco». Poi disse a lei: «Ti sono perdonati i tuoi peccati». Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: «Chi è quest’uomo che perdona anche i peccati?». Ma egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va in pace!».
Il commento di don Antonello Iapicca
Come al fariseo Simone il Signore oggi “ha qualcosa da dirci”. Ci vuol parlare dell’amore. E, invece di dissertare e proporre slogan, racconta fatti, gesti e atteggiamenti che i suoi occhi hanno appena visto. Soprattutto ci mostra le lacrime. In poche parole, e una donna tra le peggiori, Gesù ci dice che cosa è l’amore. Quello autentico, reale, e, soprattutto, possibile all’uomo. Non c’entra nulla la passione, il sentimento narrato e cantato, filmato e postato sui social networks. Lo diceva San paolo, tutto quello che sembra amore, e di quello magnifico e sorprendente come gettarsi nelle fiamme o donare tutti i beni, è pura vanità se non ha il timbro della carità… Per questo, con l’amore c’entra invece il peccato, e la carità di Cristo che è l’unica che può perdonarlo. Con l’amore c’entra il peccato originale del quale ci si è sbarazzati troppo presto, ingessati come siamo nella stessa ipocrita certezza di impeccabilità di Simone. Invece il peccato esiste, eccome. La “peccatrice di quella città” è immagine di ogni abitante di quella città; narra il Libro della Genesi che gli uomini, “emigrando dall’oriente capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono… Si dissero l’un l’altro: «Venite,
costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra» (Gen. 11,2-4). Allontanandosi da Dio Oriente di luce perché gli uomini possano orientarsi nelle vicende della vita, gli uomini si “stabiliscono” e si “costruiscono una città e una torre”. Lasciano di essere nomadi e itineranti, ovvero abbandonati all’amore provvidente di Dio, e con le proprie forze cercano di farsi un nome senza Dio. Anzi, costruendo una città ben installata smettono di camminare e cercano di assaltare il Cielo, di innalzarsi e diventare come Dio. E’ il peccato di Adamo ed Eva, la superbia che sostituisce l’io a Dio. La peccatrice di quella città” altri non era che tu ed io, ogni uomo installatosi nei beni e seduto sulla propria anima. Era nota, famosa, e molti ne avevano approfittato: era un segno, come uno specchio nel quale tutti potevano vedere il proprio orgoglio e il proprio cuore adultero e idolatra. Ebbene questa donna diventa l’immagine più fedele dell’amore, perché esso può sgorgare solo dalla verità che si fa umiltà distillata in lacrime di pentimento.
Questa donna è immagine dell’anima che non si illude, sa che non può amare perché “peccatrice”. E’ come l’emoroissa che non può far nulla per fermare l’emorragia, come il figlio prodigo che non ha nulla e sente fame e rammenta l’abbondanza di casa. Questa donna sa che solo inginocchiata ai piedi di Gesù e piangendo i propri peccati può sperimentare la carità che è mancata alla sua vita e al suo amore adultero e di prostituta; sa che solo in essa può ritrovare la dignità e l’identità perdute. Esiste il peccato, nessuno può amare superando la carne. Abbiamo solo le lacrime con le quali abbandonarci alla misericordia di Dio perché le trasformi in dono. Le lacrime sono l’unico linguaggio possibile per uscire dal nostro orgoglio ed egoismo, e dire a Gesù che lo amiamo, così come siamo e possiamo, con quello che abbiamo, il pentimento e le sue lacrime. Come quelle di Pietro, traditore e apostata, con la carne peccatrice trapassata e perdonata dallo sguardo misericordioso di Gesù. Chissà, forse questa donna avrà incrociato lo stesso sguardo, da dietro la folla, nascosta e tremante. E ora era ai suoi piedi, sperando che le sue lacrime scivolate sui piedi di Gesù possano introdurla nel suo cuore, essere liberata e “andare in pace”. L’amore vero e reale e possibile a te e a me oggi non può che essere bagnato dalle lacrime. Di nessun altro nel Vangelo il Signore ha mostrato l’amore – ponendolo addirittura come esempio – se non quello della donna del Vangelo di oggi. Così anche noi oggi possiamo versare le lacrime su Gesù supplicando la carità che può trasformare il nostro amore limitato al pentimento in dono e perdono che oltrepassa la soglia della morte e del peccato.
I fatti con i quali oggi il Signore ci parla dimostrano inequivocabilmente le due possibili relazioni con Lui. Una supponente, che lo cerca sì, e lo invita a pranzo, addirittura pregandolo di condividere la mensa, ma con il cuore lontano. L’atteggiamento di Simone, che si ferma sulla soglia dell’intimità, che resta imprigionato nella sua pretesa giustizia di fariseo, in quella sottile e subdola certezza che la visita in fondo gli sia dovuta, quasi un tributo. Il suo cuore non si stacca dal suo io, nessuna lacrima solca il suo viso, crede di conoscersi ed invece è prigioniero della menzogna. E giudica, appoggiandosi sulla propria conoscenza delle Scritture, guidato solo dai propri criteri, quelli fondati su regole e “precetti di uomini” buoni solo ad ingrassare l’uomo vecchio, accecato nell’orgoglio. Simone è con Gesù a mensa, ma è puro formalismo, ed il suo ego lo catapulta in una posizione di superiorità e sufficienza che gli fa dimenticare anche le regole elementari dell’accoglienza. Crede di compiere la Legge e i precetti, ma tralascia l’essenziale. Parla con parole carnali, pensa con pensieri mondani, e il suo rapporto con Cristo rimane superficiale.
E vi sono le lacrime di questa donna, una peccatrice. Immonda e indegna, che il solo toccarla infetta e rende impuri. Lei lo sa, conosce la propria assoluta indegnità, i peccati sono lì, tra le sue mani, evidenti. Ed un dolore acuto a percuoterle il petto, un’angoscia mortale. Questa donna ha toccato la morte. “Cinquecento denari di debito”, non basterebbe una vita a restituirli. Lei sa che non ha amore a sufficienza per riparare al non amore che ha seminato morte nella sua vita e in quella di tanti altri. Non basterebbero lavoro e fatica, neanche sfiancarsi tutti i giorni che le rimangono sarebbe sufficiente a rifondere il debito. Non ha altro che le lacrime, e proprio quelle sono, per Gesù nostro “creditore”, il debito che possiamo restituire. E’ inutile cercare di rabberciare le situazioni e di restituire quello che ormai abbiamo sottratto. Certe situazioni sono passate, certe occasioni di amare non tornano più. Però possiamo piangere ai piedi di Gesù, implorando che sia Lui a perdonare e donare la “pace” laddove abbiamo innescato guerre, e ripiani Lui per noi il debito contratto con i nostri “creditori”.
Per questo la donna non resiste, e, nonostante sappia di non potersi avvicinare a Gesù, “si avvicinò dunque non al capo, ma ai piedi del Signore; lei che aveva a lungo battuto la strada del vizio, cercava di seguire le orme segnate dai piedi santi del Signore. Cominciò a versare lacrime, che sono come il sangue del cuore, quindi lavò i piedi del Signore con l’umile confessione dei propri peccati” (S. Agostino). E dal fondo del dolore e del pentimento, la “fede”, ovvero la certezza che solo Gesù poteva perdonarla e riscattarla, la spinge ad inginocchiarsi dinanzi a Lui. A differenza degli altri “commensali” che “cominciarono a dire tra sé: «Chi è quest’uomo che perdona anche i peccati?»” lei non si chiede chi sia. Lei non ha tempo per pensare, deve inginocchiarsi, piangere e spandere la sua vita su quei piedi che hanno condotto Dio così vicino ai suoi peccati. Gli occhi della sua anima guardano Gesù, e lo vedono adagiato a mensa e ne intuiscono il destino, il sepolcro nel quale sarebbe adagiato, la tomba nella quale ella stessa giace a causa dei propri peccati. Gli occhi di questa donna vedono oltre, e, come la Maddalena al mattino di Pasqua, contemplano la vittoria sulla morte di Gesù, la pietra rovesciata e il suo sorgere dal sepolcro. Lei conosce quel sepolcro, per questo, con l’audacia figlia dell’amore, cerca Colui che, solo, può spalancare la sua tomba e ridonarle la libertà. E, ai piedi di Gesù, sperimenterà il perdono, “la pace” nella quale “andare”, il frutto squisito del Regno dei Cieli donato agli apostoli da Cristo risorto. Le sue lacrime hanno toccato il cuore di Gesù di un amore puro, e, scese sui suoi piedi, li hanno mossi ad entrare nel suo sepolcro e a dischiuderle le porte alla libertà e alla vita.
La compunzione, quella trafittura che prende il cuore e lo lacera nel pentimento è la fonte dell’amore. La verità che si fa umiltà e mendicanza di misericordia schiude il cuore all’intimità. E’ paradossale ma è così. L’amore vero sorge sempre da un cuore che mendica misericordia nella consapevolezza della propria indegnità. Un cuore umile incapace di esigere, chinato a ricevere le briciole come la Cananea, certa che un solo frammento di quell’amore è capace di colmare ogni fame. E’ il cuore che sa di non avere altra possibilità, che riconosce in Cristo l’unico che non si scandalizza, Dio fatto carne perché la carne più corrotta possa essere trasformata in Dio. “
Ama di più” chi ha più bisogno d’amore, e per questo piange e si fa audace e spende tutto se stesso e ogni suo bene pur di conoscerlo e riceverlo. “Ama di più” chi ha compreso di non avere neanche un frammento d’amore e si inginocchia piangendo per supplicare dall’Amore fatto carne quel frammento con cui potrebbe amare.
Cosa ci manca per avere questo cuore? Perché siamo ancora così stolti da ritenerci giusti? Ancora non abbiamo compreso che, in molti, forse in tutti i casi, sono le lacrime ad avere partite vinta. Lacrime di moglie a scorrere sui piedi del marito, e lacrime di marito a scorrere sui piedi della moglie. Oggi, nel bel mezzo di una lite che si protrae da settimane, prender su e inginocchiarsi, senza parole, di fronte al fratello, coniuge, genitore o figlio che sia, e cominciare a piangere nel ricordo struggente dei nostri peccati. Solo la memoria che non fa sconti sulla verità sul nostro passato e sulla debolezza del nostro cuore può far sgorgare lacrime di pentimento autentico. Saranno queste lacrime a cancellare il ricordo dei peccati del prossimo, e a purificare ogni relazione. E accanto alle lacrime l’olio prezioso e profumato, i nostri beni – tutti perché no? – e quanto abbiamo di più importante, forse il tempo, i criteri, i progetti… noi stessi finalmente offerti al fratello. La conversione, infatti, spazza via idolatria e avarizia, e ci fa liberi per amare d’amor puro che non cerca contraccambio, e ci fa consegnare all’altro gratuitamente e senza misura.
Non dimentichiamolo mai, di fronte a noi vi è Cristo, adagiato nella carne e nella vita del fratello. Anche quando l’altro ci è nemico, in lui vi è Cristo fatto peccato nei suoi peccati, così come nei nostri. Allora, come la “peccatrice di quella città”, anche noi peccatori delle nostre città possiamo con fiducia prostrarci ai piedi di Cristo che viene a visitarci attraverso il fratello, nel luogo e nel momento che non ci aspetteremo. Non temiamo nulla se non la superbia, e gettiamoci ai piedi del fratello: incontreremo lo sguardo d’amore e di perdono di Gesù. Impareremo così che la comunione autentica tra marito e moglie, tra genitori e figli, tra fratelli, nasce solo dalla comune debolezza accolta e amata da Cristo.
Siamo alle fonti del cristianesimo. Non esiste vita spirituale laddove non è scoccata la scintilla di un incontro tra le lacrime e il perdono. La coscienza del proprio peccato e la consapevolezza dell’indegnità ha condotto, misteriosamente, questa donna ad inginocchiarsi dinanzi a Gesù. L’inganno della superbia di Simone invece, lo allontana e lo fa precipitare in un abisso ben più grave dei peccati commessi da questa peccatrice. L’orgoglio infatti getta nell’abisso del non-amore, dell’ipocrisia che sbarra la strada alla misericordia, e dove non c’è amore a Cristo regna la morte. Tra Dio e l’uomo, tra Gesù e ciascuno di noi vi è una sola relazione possibile: l’amore. Amore che si fa lacrime di compunzione nell’uomo e Parole di perdono in Dio.
da Baltazzar | Set 18, 2013 | Chiesa, Liturgia
dal Vangelo secondo Luca 7,31-35.
A chi dunque paragonerò gli uomini di questa generazione, a chi sono simili?
Sono simili a quei bambini che stando in piazza gridano gli uni agli altri: Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato; vi abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!
E’ venuto infatti Giovanni il Battista che non mangia pane e non beve vino, e voi dite: Ha un demonio.
E’ venuto il Figlio dell’uomo che mangia e beve, e voi dite: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori.
Ma alla sapienza è stata resa giustizia da tutti i suoi figli».
Il commento di don Antonello Iapicca
Stolti o sapienti, non si può restare nel mezzo. O siamo “figli” della Sapienza rinati nella misericordia di Dio, o figli eternamente bambini che non sanno far altro che giocare e passare il tempo tra capricci e mormorazioni. Allora, siamo i figli di “questa generazione”, o siamo ifigli di una “nuova generazione”, che non procede da carne e sangue ma dalla Sapienza della Croce? In essa è rivelato l’amore di Dio, la sua infinita pazienza e lo zelo pieno di compassione con il quale cerca ogni uomo. Il suo amore non resta invischiato negli schemi. Pur di salvare una persona si fa musica da ballare o lamento da piangere.
Non lo abbiamo sperimentato nella nostra vita? Quante volte il Signore ci ha raggiunto sui cammini nei quali ci eravamo perduti. Dio è così! Dio entra nelle discoteche pur di salvare un ragazzo che, ballando si sballa e butta la sua vita. Dio non lo ferma niente e nessuno! Vengono in mente le parole ripetute dagli ultimi tre Pontefici: di fronte alle sfide della Nuova Evangelizzazione essi hanno insistito sulla necessità di una “creatività pastorale”, perché anche la Chiesa non si fermi dinanzi alle difficoltà. Incontrando i presbiteri della Diocesi di Roma Papa Francesco sottolineava che bisogna “cercare la strada perché il Vangelo sia annunciato, anche se questo non è facile”. La creatività, infatti, “non è soltanto cambiare le cose. Essa viene dallo Spirito e si fa con la preghiera e si fa parlando con i fedeli, con la gente”. Non bisogna dunque aver paura, ma uscire proprio nelle “piazze” dove si raduna una generazione bambina, che ha bisogno di essere raggiunta laddove si trova, fosse anche, e spessissimo lo è, impigliata nei capricci.
Scriveva S. Ireneo che “Cristo, nella sua venuta, ha portato con sé tutta la novità” (S. Ireneo, Adversus haereses, IV, 34, 1). Ma come far giungere “tutta la novità” al collega, al cugino, forse anche ai figli che, incapaci di assumersi responsabilità, galleggiano sulla vita seguendo gli istinti e le concupiscenze? Innanzi tutto facendo memoria della nostra stessa esperienza. Dove ci è venuto a cercare il Signore? Come ci ha parlato? Come ha vinto la nostra durezza e la nostra superficialità? Con amore infinito e pazienza smisurata. E’ entrato nella nostra vita, si è fatto nostro compagno sul cammino, si è sporcato, è venuto con noi, anche laddove abbiamo deciso di peccare. Sì, non è restato fuori dalle bettole e dalle discoteche, non ci ha lasciati soli mentre ci dimenticavamo di Lui. Si è fatto peccato! Ah, ma questo è scandaloso! Sì, lo è, perché scandaloso è stato il nostro cuore, scandalosi i nostri peccati. Scandaloso l’esito della nostra vita lontana da Lui.
Per questo, come Davide quando, nella gioia immensa di aver recuperato l’Arca, danza mezzo nudo senza vergogna davanti al Popolo, Dio non ha avuto remore nel farsi giudicare come un “mangione e un beone” o come un “indemoniato”. Lo ha fatto per noi, per te e per me, bambini capricciosi, sempre attaccati alla carne dalla quale abbiamo creduto di mungere la vita. Sesso, oggetti, vacanze, denaro, potere e prestigio, successo e visibilità, ecco i prodotti acquistati nelle nostre “piazze”. E in mezzo al commercio che non ci ha mai arricchiti è giunta la sua Parola: quella seria e dura della verità che illumina i peccati, come “un lamento” nel quale avremmo potuto deporre le nostre lacrime. E quella dolce e compassionevole della misericordia, come di “un flauto” sulle cui note avremmo potuto danzare di gioia e gratitudine. Giovanni e Gesù: la Legge e la profezia che illumina la realtà e mette in ordine ciò che è disordinato; e la compassione che si siede accanto ai peccatori che hanno infranto la Legge, per scriverla nei loro cuori risanati. Ma forse non abbiamo accolto né l’una né l’altra, schiavi del nostro orgoglio capriccioso.
E allora ecco la Croce, la Sapienza che spazza via ogni tentativo della carne di saziare e dare ragioni che non può dare. Ecco Cristo crocifisso, eccolo farsi peccato nell’amore sino alla fine che l’ha unito al Padre. Ecco la Sapienza crocifissa, ecco lo Spirito Santo, dolce soffio che ci ha consegnato il perdono e la rigenerazione. Non a caso lo Spirito Santo è stato raffigurato dalla Tradizione come una colomba, quasi una figura femminile e materna. In ebraico il termine “ruah” è femminile. La Sapienza è una madre che rigenera e dà alla luce i suoi figli che ne testimonieranno la “giustizia”. Ecco il culmine inaspettato della “creatività coraggiosa” di Dio, quella alla quale Papa Francesco ha chiamato i suoi preti e la Chiesa. Sposa e Madre crocifissa con il suo Sposo e Figlio, è lei che annunciando il Vangelo genera “figli” alla Sapienza perché le rendano testimonianza. Tutti noi, raggiunti dalla sua predicazione, abbiamo potuto sperimentare la liberazione e la salvezza. Dopo esserci induriti tante volte è giunto per noi l’annuncio decisivo, e lo Spirito Santo ha sigillato nel nostro cuore l’amore infinito di Dio. Ora lo vediamo chiaramente, quante volte ci ha cercato, perdonato, ripescato nelle pozzanghere inquinate. Quante volte, sino a che non ci siamo abbandonati alla sua Sapienza crocifissa.
E ora siamo chiamati a rendere testimonianza alla “Sapienza”: siamo i suoi figli, non possiamo perdere neanche un’occasione. Il mondo capriccioso ci attende ovunque la storia ci conduca. E’ necessario aprire le parrocchie e i cuori, scendere sino alle periferie esistenziali, quelle fisiche e quelle spirituali, senza temere che lo Spirito Santo ci avvinca e ci conduca nella sua “creatività”: “bisogna cercare strade nuove, come una missione nel quartiere promossa dai laici” diceva Papa Francesco. E auspicava per la Chiesa e per ciascuno di noi “la conversione pastorale, perché anche il Codice di diritto canonico ci dà tante, tante possibilità, tanta libertà per cercare queste cose”. Esattamente come ripeteva Giovanni Paolo II, invitando i Vescovi a lasciare le forme vecchie e atrofizzate per aprirsi ai carismi che suscita lo Spirito Santo. E’ la sua creatività che ci ha salvato, è lei che dobbiamo seguire, senza paura…
Parole nuove, gesti nuovi e unici per tutte le uniche e irripetibili persone e situazioni che incontreremo: i piccoli, i poveri, i divorziati e i loro figli, le mamme che hanno abortito, i giovani che convivono, quelli che sporcano la vita con droghe e sesso, tutti quelli imprigionati nella rete del mondo e dei suoi messaggi virtuali; tutti ci attendono proprio nelle “piazze” dove si sono “seduti” lasciandosi vivere per morire. Ci aspettano per ascoltare la musica dello Spirito, le note dell’amore che si fa “danza o lamento”, di certo melodia crocifissa. Forse oggi con nostro figlio dovremo digiunare per annunciargli che non di solo pane vive l’uomo ma di ogni Parola che esce dalla bocca di Dio; per questo dovremo proibire ciò che sazia la carne, senza paura di “cantare un lamento” per l’uomo vecchio che muore senza l’ossigeno delle concupiscenze. O forse dovremo, al contrario, sederci a mensa con nostra figlia, laddove ella sta gettando alle ortiche la propria vita; “mangiare e bere” il veleno che lei ingerisce ogni giorno per deporvi l’antidoto della tenerezza e della compassione che nulla giudica e niente esige; senza il timore di “suonare il flauto” della misericordia gioiosa perché possa “ballare” con noi la danza del banchetto autentico che sazia spirito e anima.
Ecco, il Signore ci manda oggi crocifissi con Lui a rendere testimonianza della Vita che nasce dalla morte, Sapienza nascosta al mondo. Ci manda come “madri” di figli capricciosi, perché, nell’incontro con la Sapienza misteriosa che incarna lo Spirito d’amore di Dio, possano ritrovare pace e maturità. Come Maria, nella Chiesa, in comunione con il Padre e il Figlio e sospinti dal soffio e dall’ardore dello Spirito, anche oggi siamo inviati a tutti per accoglierli nel grembo misericordioso nel quale anche noi abbiamo sperimentato la salvezza e la gioia. Nella libertà che non esige nulla per soddisfare il desiderio di successo. Anche oggi ci attendono “bambini” ostinati che non accoglieranno né Giovanni né Gesù. Ma proprio per questo saremo lì di fronte a loro, come Gesù fu accanto a Giuda. Le parole di Gesù non offrono spazio a sentimentalismi: quando il mondo rifiuta l’annuncio serio e misericordioso del Vangelo resta solo la testimonianza-martirio dei “figli della Sapienza”. Di fronte alla marea di insulti e persecuzioni non vi è che lo scoglio della Croce dove infrangersi. Forse in certe persone, forse addirittura in nostro figlio, non vedremo con gli occhi della carne nessun cambiamento, nessuna conversione; forse moriremo e lasceremo la persona cara schiava della droga o sull’orlo del divorzio. Ma in noi sarà incrollabile la certezza della fedeltà di Dio che, pur di salvare a ogni costo qualcuno, continua ad offrire suo Figlio nei “figli della Sapienza”. Proprio la nostra Croce, segno visibile di quella di Gesù, è il pegno della Grazia per chi ci rifiuta.
Quando tutto fallisce significa, infatti, che è giunto il momento della “creatività” che neanche il demonio poteva immaginare: la Croce sulla quale distendere le braccia e amare, caricandosi dei peccati dell’altro come un agnello muto di fronte ai suoi tosatori. Forse in ufficio, forse con quel parente, saremo chiamati oggi a offrire la nostra vita senza dire una parola e senza opporre resistenza polemica alle ingiustizie, alle calunnie, alle malvagità. Gesù è morto solo come un fallito, ma la sua Croce ha reso giustizia alla Sapienza: con essa stava salvando ogni uomo. Per questo il Signore ci chiama alla libertà che non spera nulla per sé, neanche di vedere la conversione; la Sapienza celeste attraversa la carne e il tempo e sa sperare oltre ogni apparenza. Quando ci lasceremo crocifiggere, i nostri occhi di fede giungeranno a vedere l’incontro della misericordia di Dio con chi ci sta togliendo la vita: collega, amico, figlio o nemico, tutti attendono di incontrare in noi i testimoni di una “giustizia” più grande di quella umana che apra loro le porte del Cielo.
da Baltazzar | Set 18, 2013 | Chiesa, Controstoria
A Gerusalemme, nella mostra dedicata ai 50 anni dei “Giusti” tra le nazioni, continua il percorso iniziato con la revisione del pannello su Pio XII
GIORGIO BERNARDELLI
da Vatican Insider
In una mostra in corso a Gerusalemme, lo Yad Vashem (il Museo dell’Olocausto), torna ad affrontare il tema del rapporto tra il Vaticano e la Shoah. E – confermando il risultato del dibattito storiografico che ha portato nel 2012 alla riformulazione del contestato pannello dedicato a Pio XII nel percorso museale – il Museo della Shoah afferma espressamente che il Vaticano era a conoscenza del fatto che conventi e monasteri aprirono le porte agli ebrei. La mostra in questione è quella allestita in occasione dei cinquant’anni dall’istituzione dei Giusti tra le nazioni – il riconoscimento che a Gerusalemme viene assegnato a quanti durante la Shoah misero a rischio la propria vita per salvare quella di alcuni ebrei – avvenuta nel 1953. Inaugurata qualche settimana fa si intitola «Sono io il custode di mio fratello», con un chiaro riferimento biblico (ma volutamente senza il punto di domanda che accompagna la domanda di Caino).La mostra ripercorre alcuni nodi e alcune storie emblematiche tra quelle degli ormai quasi 25 mila Giusti riconosciuti dallo Yad Vashem. E una delle sue sezioni è dedicata specificamente agli uomini delle Chiese cristiane (di tutte le confessioni) che compirono questo gesto eroico.
Intitolata «Sotto le ali della Chiesa», questa parte della mostra, pur ribadendo in maniera chiara il punto di vista della storiografia ebraica, tiene comunque presente le obiezioni suscitate dalle polemiche sul pannello dedicato a Pio XII. «Il comportamento dei cristiani durante l’Olocausto continua a rappresentare una sfida per il mondo cristiano anche nel XXI secolo – si legge nell’introduzione della versione on line -. Di fronte allo sterminio degli ebrei, molti leader delle Chiese e sacerdoti rimasero in silenzio e alcuni persino collaborarono. Alcuni – di tutte le confessioni cristiane – rischiarono la propria vita per salvare gli ebrei ed alzarono la voce contro il loro sterminio». Sul tema del rapporto tra i pregiudizi antiebraici e l’antisemitismo nazista, la mostra sostiene che «anche se l’antisemitismo razzista dei nazisti fu un fenomeno diverso rispetto al tradizionale antigiudaismo cristiano, si fondò comunque sui pregiudizi esistenti». Quanto infine all’atteggiamento specifico della Chiesa cattolica si dice che «la mancanza di una presa di posizione aperta e inequivocabile da parte del Vaticano lasciò ai responsabili delle istituzioni cattoliche la decisione di intraprendere il salvataggio degli ebrei. Alcuni superiori di conventi e monasteri – continua il testo – aprirono le porte ai fuggitivi ebrei e talvolta il Vaticano ne era informato. In alcuni casi i vescovi e altri leader cattolici chiesero al loro clero e ai fedeli di aiutare gli ebrei».
Infine si specifica che «alcuni Giusti tra le nazioni manifestarono un rispetto profondo per la fede dei loro protetti; non salvarono solo le loro vite, ma li aiutarono anche ad aderire ai loro precetti religiosi – celebrando le festività, pregando e seguendo le regole religiose ebraiche – mentre erano nascosti». Nel complesso, dunque, pur trasparendo la diversità di giudizio sull’operato di Pio XII (peraltro in questo caso non citato espressamente), la mostra sui Giusti offre comunque al visitatore dello Yad Vashem alcuni elementi nuovi che possono aiutare a comprendere i termini di un dibattito che – nel pannello rivisto nel 2012 – per forze di cose resta solamente enunciato.