A parole, l’Europa difende i cristiani perseguitati. Nei fatti, li perseguita. Ecco come

A parole, l’Europa difende i cristiani perseguitati. Nei fatti, li perseguita. Ecco come

Lorenzo Fontana, deputato al Parlamento Europeo, spiega come la risouluzione contro l’obiezione di coscienza e per l’educazione Lgbti può diventare vincolante
di Benedetta Frigerio da www.tempi.it 

Il 10 ottobre scorso il Parlamento europeo ha condannato la persecuzione dei cristiani in Siria, Pakistan e Iran, approvando una risoluzione votata durante la seduta plenaria in corso a Strasburgo. Solo un mese prima, la commissione parlamentare dei Diritti delle donne e dell’uguaglianza di genere aveva approvato un’altra risoluzione che spingeva gli Stati a limitare l’obiezione di coscienza per garantire il diritto all’aborto. Una contraddizione evidente: da una parte si condannano i cristiani perseguitati per le loro idee e, dall’altra, si chiede di limitare un diritto fondamentale che li riguarda.

DIRITTI UMANI ALL’ABORTO E ALLA FECONDAZIONE LGBT.
 Com’è possibile? «La prima risoluzione è passata perché cadrà nel vuoto, la seconda invece sarà approvata dal Parlamento e poi tradotta in un’azione concreta dalla Commissione Europea. Sanno bene che accade sempre così». Lorenzo Fontana (foto), deputato del gruppo Europa della Libertà e della Democrazia al Parlamento Europeo, spiega che a prendere le decisioni vincolanti per gli Stati dell’Unione Europea non è il Parlamento ma la Commissione, che ha il compito di stabilire quali risoluzioni trasformare in leggi. «Tutte le condanne ai cristiani perseguitati sono state snobbate dai commissari. Mentre le risoluzioni relative a temi legati alla vita, alla salute e all’educazione sono sempre ben accette».
Fontana pensa a quando una minoranza di parlamentari chiese alla Commissione di indire una giornata contro la cristianofobia: «Ci fu risposto che la materia non era di competenza della Commissione». Anche la salute, la vita e l’educazione non lo sono. «Per questo, come si legge nella bozza contro l’obiezione di coscienza, si parla di diritto umano all’aborto, per far rientrare la questione in un ambito in cui l’Europa possa legiferare. Questo è lo stratagemma che viene utilizzato».
Significa che l’invito a «regolare e monitorare l’obiezione di coscienza» potrà diventare legge, che «l’accesso all’aborto sicuro» non sarà più ostacolato «dall’abuso dell’obiezione di coscienza» o che  sarà garantito «l’accesso ai trattamenti per la fertilità e alla procreazione medicalmente assistita anche per le donne senza un partner e le lesbiche»? «Sì – risponde Fontana – se la risoluzione sarà oggetto dell’azione legislativa della Commissione Europea». Non solo, perché nel testo si parla anche di assicurare «un’educazione obbligatoria, sensibile al tema delle relazioni e della sessualità di genere», che deve «includere la lotta contro gli stereotipi, i pregiudizi, far luce sull’orientamento “gender” e sulle barriere per rendere sostanziale l’uguaglianza».

DUE PESI E DUE MISURE. Il deputato ride ricordando l’ipersensibilità del Parlamento Europeo verso le minoranze: «Ogni volta che si parla di un gruppo, in Europa il sentimento prevale sul giudizio giuridico-filosofico. Ogni istanza, presentata come la difesa di una minoranza, deve essere votata per forza a prescindere dal merito». Anche in difesa dei cristiani quindi: «Ecco, questo è l’unico caso in cui avviene il contrario. Chi difende il credo di un cristiano e la sua libertà è un oscurantista da combattere. Prevale anche in questo caso il sentimento, ma al contrario. Così tutti possono essere liberi, tranne i cristiani. Questo avviene in Europa».
«Sono i paradossi dell’emotività irrazionale – prosegue Fontana. Per difendere la campagna contro il tabacco, ad esempio, i Verdi stanno facendo di tutto. Hanno parlato persino del diritto del bambino in grembo a non respirare il fumo. Quando sentii quella frase, chiesi come mai, visto che prevaleva la sua vita al volere della madre, lei poteva scegliere di ucciderlo. Mi hanno risposto dicendomi che sono retrogrado».
Rischiano anche i minorenni a cui si vuole imporre l’educazione sessuale: «In nome dell’uguaglianza degli omosessuali ogni aspetto della vita dei bambini viene sessualizzato con corsi e lezioni apposite». E chi si oppone? «È un reazionario, appunto».

Giovedì della XXVIII settimana del T.O.

Giovedì della XXVIII settimana del T.O.

dal vangelo secondo Lc 11,47-54

In quel tempo, il Signore disse: «Guai a voi, che costruite i sepolcri dei profeti, e i vostri padri li hanno uccisi. Così voi date la testimonianza e approvazione alle opere dei vostri padri: essi li uccisero e voi costruite loro i sepolcri.
Per questo la sapienza di Dio ha detto: Manderò a loro profeti e apostoli ed essi li uccideranno e perseguiteranno; perché sia chiesto conto a questa generazione del sangue di tutti i profeti, versato fin dall’inizio del mondo, dal sangue di Abele fino al sangue di Zaccarìa, che fu ucciso tra l’altare e il santuario. Sì, vi dico, ne sarà chiesto conto a questa generazione.
Guai a voi, dottori della legge, che avete tolto la chiave della scienza. Voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare l’avete impedito».
Quando fu uscito di là, gli scribi e i farisei cominciarono a trattarlo ostilmente e a farlo parlare su molti argomenti, tendendogli insidie, per sorprenderlo in qualche parola uscita dalla sua stessa bocca.

Il commento di don Antonello Iapicca
 
A noi, a me e a te che siamo figli di questa generazione, figli della Chiesa di questo tempo concreto, “sarà chiesto conto del sangue di tutti i profeti, versato fin dall’inizio del mondo, dal sangue di Abele fino al sangue di Zaccarìa, che fu ucciso tra l’altare e il santuario”. Quanti profeti ci sono stati inviati? Quante persone ci hanno annunciato il Vangelo? Quante occasioni per ascoltare e convertirci? E’ bene fare memoria della storia d’amore intessuta dal Signore per noi. E perché noi? Perché Israele e non l’Egitto? Perché tu e non tua cugina? Perché nel mistero del’elezione, tu ed io fossimo il segno di Dio deposto dinanzi agli occhi di chi ci è accanto; un segno di contraddizione capace di annunciare la novità radicale del Vangelo, l’amore impensabile che vuole raggiungere ogni uomo. “Per questo la sapienza di Dio ha detto: Manderò a loro profeti e apostoli ed essi li uccideranno e perseguiteranno”: per chiedere conto a noi di tutta la storia che ci ha preceduti. Che ingiustizia potremmo pensare, vero? Che c’entriamo noi? E invece c’entriamo eccome! Innanzi tutto perché, come gli scribi e i farisei contemporanei di Gesù, ci crediamo anche noi migliori di molti, forse di tutti. Certamente dei pedofili e degli assassini che riempiono i telegiornali. Anche dei profeti ai quali non abbiamo creduto e che abbiamo perseguitato… Ed erano incarnati in nostra moglie, o in un fratello… E poi, proprio perché siamo figli di una lunga storia di salvezza, e i nostri occhi hanno visto miracoli che i profeti e i re avrebbero voluto contemplare e non hanno potuto, una grande responsabilità grava su di noi. Solo un moralista può pensarla come un peso. Un cuore innamorato e grato a Dio per il suo amore immeritato la vive come l’occasione per dare compimento alla propria vita, nella gratuità e nella gratitudine, fragranze soavi che accompagnano sempre un annuncio credibile del Vangelo. Non è dunque una profezia di sventura quella che oggi il Signore ci annuncia. E’ una chiamata a conversione, seria e decisiva. Giunge il momento favorevole della resa dei conti, dove lasciare a Cristo i fallimenti dell’egoismo perché, finalmente, possiamo vivere con amore la missione che ci è stata affidata. Gli scribi e i farisei si erano appropriati della storia di salvezza e delle Grazie ricevute dal Popolo. Avevano rubato la “chiave della scienza” per saccheggiarne i tesori, escludendo perversamente i “poveri” e i “piccoli”. Per questo Gesù rivela la sua missione come quella del Servo che viene a predicare la salvezza proprio agli esclusi, ai peccatori pubblici, agli “affaticati e oppressi”. Offre loro il suo giogo, la Sapienza della Croce, e così fa luce e chiede conto di ogni abuso. E’ Lui stesso la Sapienza crocifissa che chiede conto dell’elezione.
E lo chiede oggi a noi. Ma è amore, è la gelosia che cerca ogni pecora perduta per la negligenza di pastori autoreferenziali, mercenari che hanno usato delle cose sante per saziare le proprie concupiscenze. E qui ci siamo tutti: vescovi, preti, religiosi e suore, padri e madri, catechisti e semplici cristiani. Tutti incatenati all’egoismo figlio della paura di morire; tutti speriamo di scamparla arraffando la Scienza, come un talismano dal quale ottenere prestigio e autorità, visibilità e gratificazione. Tutti come gli scribi e i farisei, ma anche come gli apostoli, sempre in cerca dei primi posti, di sedere alla destra e alla sinistra del Re Messia. Tutti dimenticando che la “scienza” vera è quella della Croce, vergata dal sangue dell’amore che sacrifica se stesso sino alla morte; nessuno cerca questa “scienza”, nessuno sa neanche dove siano le sue “chiavi”. Per questo Gesù viene a chiedere conto a ciascuno di noi della grande menzogna alla quale abbiamo creduto, e con la quale abbiamo ingannato i fratelli. La “scienza” che abbiamo è falsa, è una volgare imitazione, ci gonfia per poi farci scoppiare miseramente. E’ la “scienza” della superbia; con le sue “chiavi” abbiamo “chiuso” la porta del Regno in faccia ai piccoli che ci erano stati affidati. Abbiamo ingannato moglie e marito spacciando per “scienza” d’amore quello che era solo concupiscenza: sacrifici, parole, regali, tutto falso! Tutto per offrire a noi stessi l’affetto dell’altro. E, di fronte alla prima vera difficoltà, abbiamo “chiuso” la porta allo Spirito Santo, perché troppo pericoloso… E abbiamo così impedito a noi e al prossimo di “entrare” nella “casa della conoscenza” (la traduzione esatta dell’originale reso con “scienza”), ovvero la casa dello studio, la yeshiwà dove gli ebrei scrutano la Torah. In essa avremmo sperimentato la comunione autentica che annuncia il Paradiso, e invece sono due mesi che non parliamo. Ed è quello che accade alla Chiesa quando “chiude” le sue porte alle irruzioni dello Spirito, scacciando i carismi che Dio le dona. I farisei e i dottori avevano le “chiavi” di questa casa, “le chiavi della scienza” appunto. Come i vescovi, i presbiteri, i genitori, tu ed io, inviati in ufficio, a scuola o in un ospedale. Che ne facciamo? Ci lasciamo sorprendere dallo Spirito Santo o ci “chiudiamo” impauriti? Lasciamo che l’amore di Dio giunga a chi ci è accanto nelle forme e nei tempi che non avevamo previsto, o “chiudiamo” con superbia la saracinesca perché lo Spirito non è arrivato in orario? Riconosciamolo, quanti “sepolcri” abbiamo aperto alla profezia e ai profeti, che ci hanno annunciato inaspettatamente l’amore vero, quello che non fa sconti al peccato ma ha misericordia del peccatore; quello che annuncia Papa Francesco, e del quale continuiamo a scandalizzarci. Forse anche ieri abbiamo seppellito un profeta. Forse era proprio “Abele”, nostro fratello; forse era nostro figlio, ferito e peccatore, che, in quella sua infinita debolezza, era una profezia del miracolo che l’amore di Dio voleva compiere. E invece abbiamo “chiuso” ogni possibilità, “chiusi” nell’orgoglio di padre ferito… Ma non è finita! Oggi, ora possiamo aprirci alla Grazia, ai carismi che rinnovano la Chiesa e ciascuno di noi, i doni che si nascondono nelle persone e negli eventi più impensati; soprattutto nella Croce, la “chiave” che apre il cuore indurito e chiuso nell’orgoglio. La chiave consegnata a Pietro, per aprire e chiudere, legare e sciogliere, in terra e in Cielo. La chiave consegnata alla Chiesa perché, mossa dallo Spirito, conduca le generazioni ad entrare nella casa eterna di Dio.
 
QUI IL COMMENTO APPROFONDITO
Le parole del Vangelo di oggi chiudono il discorso tenuto nella casa del fariseo e che ha avuto origine dalla sua meraviglia di fronte alla novità di Gesù. Il non lavarsi le mani è stato un atto profetico nella linea di tutti i profeti dell’Antico Testamento. Con quel segno non ha voluto condannare il precetto, ma si è offerto come uno specchio nel quale farisei e dottori della Legge potevano guardare la propria immagine autentica: sono loro quelli che, in realtà, non si lavano le mani; Gesù non fa altro che mostrare e annunciare profeticamente la verità che si nasconde nella realtà che appare. Il precetto compiuto non esprime un contenuto adeguato: si purifica l’esterno mentre il cuore resta pieno di impurità; si pagano le decime di tutti gli ortaggi e si trascurano giustizia e amore. Soprattutto, si disprezza e respinge il profeta che annuncia la verità capace di aprire la strada alla conversione. Così facendo, scribi e farisei si frapponevano tra Gesù ed il Popolo. Il continuo interrogare, mettere a prova, tendere trappole iniettava veleno e mirava a screditare Gesù. Questione di potere e prestigio certamente, ma, soprattutto, rifiuto di Gesù quale Messia. Al punto che, proprio a partire dal discorso in casa del fariseo, si mettono alla caccia di Gesù, che si concluderà nell’uccisione del Profeta.
Si comprendono allora le parole durissime del Signore: la generazione che rifiuta Gesù è quella cui verrà chiesto conto del sangue di ogni profeta e di ogni giusto, perchè ha rifiutato il Profeta annunciato da Mosè; con Lui è giunta la pienezza dei tempi, il compimento di ogni profezia, il culmine della storia d’amore di Dio con il suo popolo. E’ la generazione della quale tutti siamo figli, perchè tutti siamo contemporanei di Gesù. Le sue parole giungono oggi alla nostra vita, scuotono la Chiesa, ci chiamano a conversione. I farisei e i dottori della Legge godevano di grande prestigio, erano le guide spirituali del popolo, detenevano il potere. Insegnavano nella “casa della conoscenza”, la casa dello studio, dove erano chiamati a dare sapore alla Torah, ad attualizzarla perchè Israele potesse accoglierla e vivere alla sua luce. “Entrare nella conoscenza” era sinonimo di entrare nel Regno di Dio: esso si realizzava ovunque si fosse compiuta la volontà di Dio.   Farisei e dottori avevano le chiavi di questa casa – le chiavi della scienza – ma se ne erano appropriati chiudendo la porta della conoscenza e quindi del regno di Dio a se stessi e a quanti la desideravano. Avevano chiuso la porta alla profezia e al Profeta.
La Chiesa che smarrisce o rifiuta la profezia è come il sale che ha perduto il sapore: “I discepoli del Signore sono chiamati a donare nuovo “sapore” al mondo, e a preservarlo dalla corruzione” (Benedetto XVI, Angelus del 6 febbraio 2011). Ma quando il sale perde il sapore è il mondo a dare il suo veleno alla Chiesa corrompendola. E’ quello che succede quando l’Istituzione si chiude in se stessa e non lascia varchi all’irrompere dello Spirito. Come i farisei e i dottori hanno fatto con Gesù. “La Chiesa è fondata sugli apostoli e sui profeti. I profeti della Chiesa primitiva si organizzavano come membri di un collegio. Più tardi il collegio dei profeti si dissolse, e questo certamente non a caso, poiché l’Antico Testamento ci dimostra che la funzione del profeta non può essere istituzionalizzata, dato che la critica dei profeti non è diretta solo contro i preti, si dirige anche contro i profeti istituzionalizzati, perché Dio trova, per così dire, più margine di manovra e più ampio spazio per agire presso i primi, presso i quali può intervenire e prendere iniziative liberamente, cosa che non potrebbe fare invece con una forma di profezia di tipo istituzionalizzato. Come gli stessi apostoli erano a loro modo anche profeti, così bisogna riconoscere che nel collegio apostolico istituzionalizzato esiste pur sempre un carattere profetico. Così la Chiesa affronta le sfide che le sono proprie grazie allo Spirito Santo che, nei momenti cruciali, apre le una porta per intervenirePotremmo citare i nomi di grandi personaggi della Chiesa che sono stati anche figure profetiche in quanto hanno saputo tenere aperta la porta allo Spirito Santo. Solo agendo così essi hanno saputo esercitare il potere in modo profetico. Per quanto riguarda i profeti indipendenti, cioè non istituzionalizzati, occorre ricordare che Dio si riserva la libertà, attraverso i carismi, di intervenire direttamente nella sua Chiesa per risvegliarla, avvertirla, promuoverla e santificarla. Essi sorgono sempre nei momenti più critici e decisivi nella storia della Chiesa. Così facendo hanno ridato alla Chiesa il suo vero aspetto, quello di una Chiesa animata dallo Spirito Santo e condotta dal Cristo stesso” (J. Ratzinger).
Chiudere la porta alla profezia, all’interno dell’Istituzione come all’esterno, rifiutare i carismi, significa chiudere la porta della salvezza e della felicità a noi stessi e a quanti, piccoli, poveri e peccatori, attendono fuori della casa della Conoscenza, la Chiesa eletta da Dio perché accolga come una madre anche il più grande peccatore. Peggio, significa rifiutare Cristo: così la Chiesa cessa di essere quello che è riducendosi ad un’istituzione umana governata da criteri mondani, che si specchia in se stessa nel timore di guardarsi nel suo Sposo e convertirsi. Ed è quello che succede alla nostra vita, non lontana da quella dei  farisei e dei dottori della Legge: la perversione di appropriarci del tesoro che ci è affidato e sul quale abbiamo autorità: i figli, il matrimonio, il lavoro, gli affetti, e la Grazia. Guai a voi ci dice dunque il Signore, che rifiutate il soffio dello Spirito, i profeti e gli apostoli inviati per strapparci dalla menzogna. Quanti sepolcri abbiamo aperto alla profezia che è sempre amore vero, quello che non fa sconti al peccato ma ha misericordia del peccatore.
Ma è Lui, il Signore Gesù, che ha cercato e raccolto la chiave. In Lui la chiave della Scienza è divenuta la Croce, la profezia rigettata perché la menzogna non può accogliere la verità. In Lui e’ svelata ogni scienza, quella sublime dell’amore che riscatta e trasforma una vita schiacciata nell’egoismo e nella ricerca di sé, in un dono totale. La Croce è la chiave che apre il cuore indurito e chiuso nell’orgoglio, che scioglie le catene della paura e della menzogna. La chiave consegnata a Pietro, per aprire e chiudere, legare e sciogliere, in terra ed in Cielo. La chiave consegnata alla Chiesa perché, mossa dallo Spirito profetico, conduca le generazioni ad entrare nella casa eterna di Dio: la Croce gloriosa di Cristo che penetra tutto e indica il cammino alla Verità.
Giovedì della XXVIII settimana del T.O.

Mercoledì della XXVIII settimana del T.O.

Dal Vangelo secondo Luca 11,42-46.

Ma guai a voi, farisei, che pagate la decima della menta, della ruta e di ogni erbaggio, e poi trasgredite la giustizia e l’amore di Dio. Queste cose bisognava curare senza trascurare le altre. Guai a voi, farisei, che avete cari i primi posti nelle sinagoghe e i saluti sulle piazze. Guai a voi perché siete come quei sepolcri che non si vedono e la gente vi passa sopra senza saperlo». Uno dei dottori della legge intervenne: «Maestro, dicendo questo, offendi anche noi». Egli rispose: «Guai anche a voi, dottori della legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito!


Il commento di don Antonello Iapicca

“Innalzate una siepe per la Torah” avevano insegnato i Padri al tempo dell’esilio. Essi credevano che sul Sinai, accanto alla Torah scritta, Dio avesse rivelato a Mosè anche la Torah orale; una serie di precetti che raggiungevano ogni aspetto della vita – le “altre cose” che Gesù stesso invita a “non trascurare” – perché in tutto fosse protetta la fedeltà all’Alleanza, la santità (separazione) del Popolo Eletto, il segno di Dio deposto nella Babilonia pagana. E’ cura dei figli pagare la decima della menta, della ruta e di ogni erbaggio per ricordare che tutto è dono del Padre e di nulla ci si può appropriare. Per questo i “guai” severi di Gesù non si riferiscono all’osservanza dei precetti, ma sono fendenti che mirano al cuore: “Guai a voi!”, guai al vostro cuore che “trascura la giustizia e l’amore gratuito di Dio!”. Chi trascura, infatti, non ama, è un ipocrita infedele. Quante volte abbiamo tras-curato, siamo passati oltre la cura dovuta alla moglie, al marito, ai genitori, presi dai nostri inderogabili impegni? Quanti “no” sbrigativi sbattuti in faccia ai figli invece di curare con calma in loro il “si” a Cristo? Come Pietro che passava oltre le parole di Gesù e voleva fermarlo nella sua salita a Gerusalemme: “Questo non ti accadrà mai!”. Pietro, il primo Papa, tu ed io, quando ci mettiamo di traverso e siamo di scandalo ai piccoli nel loro cammino verso il compimento della volontà di Dio. Sì, “guai” a te e a me oggi, che ci lasciamo ispirare pensieri, giudizi e parole da satana.
“Guai a te satana” che inganni tua moglie e tuo marito, i tuoi figli, i fratelli e i fedeli affidati alle tue cure di presbitero, “caricando” sulle loro povere spalle “pesi insopportabili”: sono i moralismi dei quali la nostra concupiscenza scatenata dal fallimento vorrebbe nutrirsi. Siamo, infatti, scandalizzati della nostra e dell’altrui debolezza e impauriti dalla precarietà; come i farisei ci illudiamo di “separarci” dal male che ci circonda scalando “i primi posti nelle sinagoghe” e comprando “i saluti nelle piazze”. Siamo come squali affamati: incapaci di compiere il bene, di amare e “giudicare” cosa sia bene e cosa sia male, secondo il senso originale del termine tradotto con “giustizia”, restiamo vuoti e senza gratificazione. Per questo ci aggiriamo in cerca di cibo capace di saziare la fame dell’uomo vecchio: il successo e il prestigio da una parte, l’obbedienza ai nostri criteri, alle nostre idee e alle nostre imposizioni dall’altra. Tutto per sentirci vivi, mentre tutto ci ripete che siamo morti. Il primeggiare, infatti, è sempre una corsa verso il “sepolcro” dell’irrilevanza. Più cerchiamo di sfuggirla più essa ci risucchia come in una tomba della quale nessuno si accorge, come quelle vecchie che troviamo nelle chiese, sulle quali non si legge più neanche il nome del defunto. Più cerchiamo di “passare avanti” alla volontà di Dio, costruendocene una nostra che vorremmo far passare per sua, più restiamo frustrati. Non siamo noi i creatori di noi stessi, solo Dio può sapere che cosa ci fa bene; Lui sa che la nostra felicità e la nostra realizzazione sta nel seguirlo sui sentieri della misericordia, dell’amore disinteressato che giunge sino al nemico. Quando, invece, ingannati dal demonio, ci fabbrichiamo una legge, essa sarà sempre così inumana e “insopportabile” da schiacciarci. Ma l’abbiamo confezionata, e, ormai scivolati sul piano inclinato della concupiscenza, dobbiamo vederla compiersi in qualcuno, per non morire sotto le macerie del fallimento. Per questo,proporzionalmente ai nostri fallimenti e alle nostre frustrazioni, all’irrilevanza e all’oblio che sperimentiamo, carichiamo sugli altri i “pesi che non abbiamo saputo portare”. Assolutamente fuori misura, figli di un’illusione e di un delirio di onnipotenza tale e quale a quello del demonio, sono pesi che uccidono. E così neanche l’aver oppresso chiunque ci stia accanto ci sazia, perché tra i lacci dei moralismi esigiti e caricati su coniugi, figli e nipoti, le relazioni esplodono e radono al suolo ogni sentimento. La verità è che non amiamo altri che noi stessi; corriamo per raggiungere i primi posti, lasciando indietro le persone che Dio ci ha messo accanto, andando al di là del loro passo, che è l’unica misura dell’amore autentico. Chi ama sa decelerare, sa anche fermarsi, sa addirittura lasciarsi passare avanti da chi ha accanto. Sa aspettare, sa restare in silenzio e dire la parola giusta al momento giusto. Chi ama il figlio non lo sorpassa mai, ma lo guida con l’esempio di chi si fa tutto a tutti per amore; e lo aiuta facendosi ultimo per poterlo sospingere con la misericordia. Così ci ha amati il Signore, servo che ha lasciato passare tutti avanti, rinunciando a se stesso, per farci entrare nel Cielo. Senza la cura attenta del Tu restiamo imprigionati nella solitudine superba dell’Io, sepolcro che ci chiude nella stessa trascuratezza e irrilevanza che abbiamo riservato agli altri. Il Signore ci chiama oggi a conversione, a ritornare sui passi della nostra storia e ricordare i memoriali del suo amore; a tornare indietro laddove abbiamo trascurato il fratello per prendere insieme il giogo soave e leggero di Cristo.
Le parole di Gesù del Vangelo di oggi sono lampi di un cuore che arde d’amore. Sgorgano dalle viscere commosse di chi vede i fratelli del suo Popolo affaticati e oppressi sotto un giogo insopportabile. Dietro di esse si scorge l’episodio delle nozze di Cana, nozze senza vino, senza gioia. Secondo il Talmud, iI kiddush – il matrimonio vero e proprio che consente la coabitazione – avviene solo quando si studia la Torah. Le due persone che ogni anno concludono ed inaugurano il ciclo dello studio della Torà ricevono il titolo di “hatan“, sposo. La Torah è la sposa che Dio ha consegnato a Israele sul Sinai. Per questo il Decalogo è chiamato il Cammino della Vita: come in un matrimonio i due non saranno più due ma una sola carne, così ogni figlio di Israele è chiamato ad essere, istante dopo istante, legato alla Torah; nel compimento di ogni precetto egli vive l’intimità e l’amore con Dio nella realtà concreta della propria vita. “L’adempimento di un precetto non è il piegarsi sotto la frusta del legislatore, ma, strettamente inteso, è la felice possibilità di dare un valore eterno a ciò che è transitorio” (N. Oswald).

“Innalzate una siepe per la Torah” (Av. 1,1) era un principio che muoveva dalla storia e dalla realtà: “Si trattava di adattare a tempi nuovi, a nuovi problemi e a mutati stili di vita le molte direttive, imposizioni, comandamenti ed esortazioni dell’Antico Testamento” (C. Thomas,Teologia cristiana dell’ebraismo). L’occupazione romana, la prossimità con i popoli pagani e le relazioni necessarie che ne derivavano, la cultura ellenistica incipiente, tutto ciò, insieme ad altri elementi, costituiva l’acqua nella quale l’Israele contemporaneo di Gesù si trovava a nuotare. Era il problema di sempre: come mantenersi puri, ossia fedelmente uniti a Dio nell’Alleanza, in mezzo al paganesimo. Di qui il bisogno di assicurare il compimento della Torah attraverso una serie di precetti che raggiungessero ogni aspetto della vita, perché nulla fosse esposto al pericolo della contaminazione. Per i farisei e i dottori della Legge, “una singola prescrizione, una Halachah, era un’illustrazione particolare della volontà divina, applicata ad un singolo caso, e in quanto tale essa era vincolante per tutti coloro che riconoscevano la Torah come somma autorità e si impegnavano a camminare lungo la via da essa prescritta” (C. Thomas, ibid.). L’autorità di tali insegnamenti scaturiva dall’idea teologica secondo la quale accanto alla Torah scritta, Dio avrebbe rivelato a Mosè sul Sinai anche la Torah orale, la siepe innalzata a protezione. E Gesù sembra accettarlo quando afferma “… senza trascurare le altre“: è bene pagare la decima su tutti gli ortaggi, come è importante benedire Dio per ogni attività intrapresa: tutto è suo dono e di nulla possiamo appropriarci. Le decime erano una siepe che proteggeva dall’oblio di questa verità fondamentale; dimenticando di essere creatura si finisce con il credersi Dio. Ma una siepe circonda il giardino, non cresce al centro di esso: è da stolti curare una siepe e dimenticare la casa che essa protegge. Il Signore ha fatto l’interno e l’esterno, la siepe e la casa, la Torah e la Tradizione orale! La sapienza consiste nel curare la Torah senza dimenticare la “siepe”: i precetti sono per difendere la purezza del cuore, la sua intimità con Dio. Solo così l’attenzione meticolosa che non dimentica nessuno dei 613 precetti includendo anche i minimi – che Gesù loda – è segno della cura per la giustizia e l’amore di Dio, l’amicizia con Lui, la primogenitura che definisce il senso della nostra vita. Diversamente, esagerando e mettendo la siepe al posto che non le spetta, essa si converte in un moralismo senza anima: “La lettera uccide, lo Spirito dà la vita” (2 Cor 3, 6).

Per questo i “guai” non si riferiscono nè alla “siepe” nè all’osservanza dei suoi precetti. I “guai” sono fendenti che mirano al cuore. “Guai a voi! Guai al vostro cuore che dimentica e trascura!”: “Guardati e guardati bene dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno visto : non ti sfuggano dal cuore, per tutto il tempo della tua vita. Guardatevi dal dimenticare l’Alleanza che il Signore vostro Dio ha stabilita con voi…” (Deut. 4,9.23). Quante volte ci lasciamo assillare dai problemi contingenti dimenticando quanto i nostri occhi hanno visto. Erigiamo una siepe per proteggerci dal paganesimo che ci assedia: la scuola che troppo spesso insidia i nostri figli, le loro amicizie, la televisione, internet e i social networks; ma dimentichiamo il potere di Colui che ci ha posti in mezzo a Babilonia come un candelabro. Come già Israele al tempo di Gesù anche noi viviamo in un’acqua torbida capace di inquinare senza rendercene conto. Cerchiamo di seguire la volontà di Dio, ma la paura e l’ansia che ci assediano ci impediscono di alzare lo sguardo per avere una visione di fede autentica sugli eventi e nevrotizziamo le situazioni per sganciarle dalla precarietà. Dimentichiamo lo Spirito per fermarci alla lettera: quando parliamo e cerchiamo di aiutare i figli, o i fratelli nella fede, spesso fissiamo regole e ci adiriamo, imponiamo pesi che noi non portiamo neanche con un dito. Diciamo e non facciamo, non tanto perché trasgrediamo i precetti anzi, come i dottori della Legge, le regole le rispettiamo meticolosamente; quanto piuttosto perché non carichiamo insieme con gli altri lo stesso giogo, non facciamo nostra la loro debolezza e stanchezza, non abbiamo compassione. Così ogni precetto, valido e importante per non farsi del male, diviene un peso insopportabile, un moralismo asfissiante, che allontana dal cuore il desiderio stesso del bene da difendere. Quanti moralismi in giro, in televisione come nelle nostre famiglie… E’ in fondo questo il senso dell’amore ai primi posti: la recondita superbia che nasce dall’oblio della propria realtà.Chi cerca affetto, saluti e primi posti, è sempre o un moralista o un lassista, vanità che scaturiscono dall’inganno. L’equilibrio e l’autenticità dell’esistenza – la giustizia e l’amore di Dio – sgorgano sempre dall’umiltà di chi si conosce e per questo parla sempre cuore a cuore, indicando all’altro l’Unico che davvero può riscattare e proteggere e dare gioia alla vita. “Quando il Signore tuo Dio avrà scacciato i popoli dinanzi a te, non pensare: A causa della mia giustizia, il Signore mi ha fatto entrare in possesso di questo paese; mentre per la malvagità di queste nazioni il Signore le scaccia dinanzi a te. No, tu non entri in possesso del loro paese a causa della tua giustizia, né a causa della rettitudine del tuo cuore; ma il Signore tuo Dio scaccia quelle nazioni dinanzi a te per la loro malvagità e per mantenere la parola che il Signore ha giurato ai tuoi padri, ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe. Sappi dunque che non a causa della tua giustizia il Signore tuo Dio ti dà il possesso di questo fertile paese; anzi tu sei un popolo di dura cervice” (Deut. 9,3ss). Si entra nella Terra promessa, nella vita santa e giusta per la pura misericordia di Dio, per la sua fedeltà alla promessa, all’elezione con la quale ci ha raggiunti. L’infrazione della Legge è sempre frutto dell’oblio della primogenitura, della superbia che dimentica la debolezza, si fa forte della propria presunta giustizia, e impedisce di abbandonarsi alla fedeltà di Dio.

Invece, proprio per paura della precarietà spirituale, ci convinciamo paradossalmente di potercela fare e ci stringiamo in una corazza di regole che impediscano l’errore, e ci rendiamo schiavi di un pericoloso pelagianesimo; Sant’Agostino osservava come l’eretico Pelagio accoglieva solo il dono minore, cioè l’insegnamento, l’esempio da seguire, negando però quello maggiore, il dono dell’”inspiratio dilectionis”, l’attrattiva della carità. Secondo l’allora Card. Ratzinger, i pelagiani “vogliono essere in ordine, non perdono ma giusta ricompensa. Non speranza ma sicurezza. Con un duro rigorismo… vogliono procurarsi un diritto alla beatitudine. Manca loro l’umiltà essenziale per ogni amore, l’umiltà di ricevere doni al di là del nostro agire e meritare… questo pelagianesimo è un’apostasia dall’amore e della speranza, ma in profondità anche dalla fede. Il cuore dell’uomo diventa allora duro verso se stesso, verso gli altri e infine verso Dio. Il nucleo di questo pelagianesimo è una religione senza amore” (J. Ratzinger, Guardare Cristo). Una religione senza gioia, senza l’attrattiva della carità, le nozze di Cana senza vino. Come educare, trasmettere la fede, annunciare il Vangelo in simili condizioni? Non è l’amore ma la paura a erigere una siepe di no che spesso umiliano il si che solo muove la vita verso il suo compimento nell’amore. Circondiamo la vita di sterili no figli della paura che trasforma la speranza in angoscia “e questa a sua volta partorisce quella ricerca di sicurezza in cui non può esserci alcuna incertezza” (J. Ratzinger, ibid.). Tentiamo allora di sottrarre i nostri figli alla precarietà che, sola, genera il santo timore di Dio – “la paura di offendere l’amato, di distruggere le basi dell’amore” – sul quale stende le sue radici la siepe eretta a difesa dell’amore. Ci comportiamo come quei farisei e dottori della Legge che, per sfuggire alla debolezza, avevano reso superfluo l’amore paziente di Dio pronto ad aiutare, a perdonare, a ricreare. E non ci rendiamo conto che, rifiutando la debolezza e la precarietà che ci costituiscono, lasciamo fuori dalla nostra vita Colui che, solo, può riscattarci dai fallimenti inevitabili che feriscono le nostre storie. Il compito dell’educazione cristiana “deve essere quello di purificare la paura, di collocarla nel suo giusto punto e di integrarla nella speranza e nell’amore, così da diventare una protezione e un aiuto per essi…  Chi ama Dio sa che esiste solo una reale minaccia per l’uomo, il pericolo di perdere Dio” (J. Ratzinger, Ibid.). Il cristianesimo è la religione del , dell’accoglienza di una volontà d’amore manifestata innanzi tutto come misericordia: il  di Dio all’uomo, il  di Maria a Dio, il  di Cristo alla consegna di se stesso. E in questo grande fiume di sì affluiscono i torrenti dei nostri  quotidiani, di quelli dei nostri figli, come il consenso nuziale che vincola nell’amore gli sposi. Sì colmi di gioia nell’accoglienza stupita e grata della Torah, della Legge che incarna, istante dopo istante, l’amore.  che sgorgano dall’esperienza che Dio è autore della storia, che vi è Lui dietro ogni evento, che la sua fedeltà ci conduce al mare della felicità autentica e ci difenderà sempre.

La radice del problema è nel cuore, al centro del giardino, nelle fondamenta della casa. Le siepi che erigiamo, in se stesse buone, non servono a nulla sino a che la casa da proteggere è un sepolcro chiuso sulla morte; un sepolcro con le sembianze di una casa e così chiunque si avvicina non si avvede di contaminarsi! Pensiamo di aiutare e invece scandalizziamo e ci giochiamo autorità e confidenza. Perché abbiamo dimenticato l’Alleanza, la storia di salvezza che Dio ha fatto con noi: il giudizio di misericordia con il quale ci ha amati e ci ha tratti dal sepolcro. E’ questo il cuore della Torah che irrora la vita di giustizia e amore, i frutti dello Spirito. Il Signore ci chiama oggi a conversione, a ritornare sui passi della nostra storia e ricordare i memoriali del suo amore; fare memoria di come Lui ci ha salvati e protetti, rincorrendoci mille volte sui sentieri del paganesimo. E così riconoscere nella “siepe” l’amore di Dio, geloso e pieno di compassione. Esso ci libera dal carcere grigio e frustrante di leggi incompiute, di desideri inappagati, di ideali spezzati. Il suo amore compie ogni legge, perché ogni Legge trova compimento nel suo amore. Accettare ogni giorno la precarietà, nell’attesa, colma di speranza e timore, del suo aiuto, della sua misericordia, del suo amore capace di fare del fallimento più cocente un successo strepitoso.

 
 
 

Un altro commento

E’ vero, ammettiamolo: siamo sempre alla ricerca di chi possa darci ragione, di chi, al nostro passare, si sbracci nei saluti. Desideriamo essere riconosciuti, stimati, apprezzati. Il sindacato del nostro Io lavora ventiquattro ore su ventiquattro. E quanti scioperi e manifestazioni se restiamo senza il “meritato” e “giusto” salario affettivo. Quante mogli la sera guardano in cagnesco i propri mariti appena rientrati in grave ritardo. E quanti mariti si chiudono in un abbraccio con il TG pur di non spiccicare una parola. Quanti pesi caricati sulle spalle di chi ci è vicino, moralismi e leggi che vorremmo poter compiere ma che, sperimentandone l’impossibilità, intristiti nella frustrazione, esigiamo veder compiuti dagli altri. “Guai a voi!” grida oggi il Signore a ciascuno di noi; guai, perchè cerchiamo male il bene che ci spetta, cerchiamo nella carne e nel mondo, cisterne screpolate, quello che proprio non possono darci. Cerchiamo sicurezze che diano sostanza alla nostra esistenza, leggi e regole che garantiscano stabilità agli affetti, alla famiglia, all’amicizia, all’amore. Stendiamo una rete di ideali e di sogni, scriviamo e riscriviamo la Costituzione della nostra vita, elemosinando a quattro regolette il segreto della felicità e di una vita senza problemi. Cerchiamo di dare il paradiso alla nostra vita e lo riduciamo a qualcosa di grigio ed insapore intrappolato tra codici e regolamenti che la carne e la sua debolezza smentiscono in ogni istante. Fuggiamo la precarietà terrorizzati, e facciamo della nostra vita una caricatura, ed un sepolcro imbiancato. Come i farisei e i dottori della Legge che hanno fatto della Scrittura e della Tradizione una corazza opprimente e umiliante, che, invece di difendere dal peccato, ha finito per sbarrare la strada all’amore e alla misericordia. Per sfuggire alla debolezza, la Legge ha reso superfluo l’amore paziente di Dio pronto ad aiutare, a perdonare, a ricreare.

Così per le nostre vite. Per sfuggire la precarietà spirituale ancor prima di quella economica o fisica, stabiliamo una ragnatela di regole e di principi ideali con i quali crediamo di assicurarci giornate tranquille, famiglie più o meno normali. E non ci rendiamo conto che, rifiutando la debolezza e la precarietà che ci costituiscono, lasciamo fuori dalla nostra vita Colui che, solo, può riscattarci dai fallimenti che, inevitabili, feriscono le nostre storie. “Perchè spendete per ciò che non è pane”? Venite a me dice il Signore, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Perchè il Suo giogo d’amore, la sua croce che schiude le porte al Paradiso, è per noi sempre, anche e soprattutto quando di nulla siamo meritevoli. Il suo amore colora e dà sapore alle nostre vite, liberandole dal carcere grigio e frustrante di leggi incompiute, di desideri inappagati, di ideali spezzati. Il suo amore compie ogni legge, perchè ogni Legge trova compimento nel suo amore. Accettare ogni giorno la precarietà nell’attesa, colma di speranza, del suo aiuto, della sua misericordia, del suo amore capace di fare del fallimento più cocente un successo strepitoso.

Lefebvriani e Santa Sede: fine del dialogo

Lefebvriani e Santa Sede: fine del dialogo

di Matteo Matzuzzi da www.lanuovabq.it

Negoziato

Arriva da Kansas City, Stati Uniti, quella che con ogni probabilità sarà la conclusione negativa della lunga trattativa per riportare la Fraternità San Pio X (i lefebvriani) in piena comunione con Roma. È lì che, intervenendo nel corso di un’assemblea che si è tenuta nello scorso fine settimana, il superiore Bernard Fellay ha chiuso lo spiraglio del negoziato: «Abbiamo davanti a noi un vero modernista», ha detto riferendosi a Papa Francesco. È Bergoglio, infatti, l’oggetto della riflessione del successore di monsignor Marcel Lefebvre. Con lui, il gesuita “preso quasi alla fine del mondo”, non ci potrà essere dialogo. E i motivi sono tanti, troppi anche per i più ottimisti e fiduciosi sul fatto che il cammino intrapreso da Benedetto XVI possa concludersi con successo. «La situazione della Chiesa è un vero e proprio disastro, e questo Papa la sta rendendo diecimila volte peggio», ha tuonato Fellay. Rispetto a Ratzinger, il cambiamento è netto: «All’inizio del pontificato di Benedetto XVI avevo detto che la crisi della Chiesa sarebbe continuata, ma che il Papa stava cercando di metterci un freno. Francesco – dice il superiore della Fraternità lefebvriana, ha tagliato le corde del paracadute che il teologo bavarese aveva applicato alla Chiesa». Il futuro non può che essere nero, per Fellay: «Stiamo vivendo tempi spaventosi, se l’attuale Papa continuerà ad agire nel modo in cui ha iniziato, dividerà la chiesa. Sta esplodendo tutto. A quel punto, la gente dirà che è impossibile che lui sia il Papa, lo rifiuterà». Viene evocato, in modo esplicito, il rischio di uno scisma.

Oltre alle frasi di Francesco sul “Summorum Pontificum” (il motu proprio del 2007 con cui Benedetto XVI regolava la corretta celebrazione della messa tridentina secondo il messale di Giovanni XXIII), che risponderebbe solo all’esigenza di «aiutare alcune persone che hanno questa sensibilità», a finire nel mirino dei lefebvriani sono le frasi del Papa sulla coscienza contenute nell’intervista concessa a Eugenio Scalfari: «La coscienza deve essere sempre formata secondo la legge di Dio, il resto è spazzatura», ha chiarito Fellay, precisando che nelle parole di Jorge Mario Bergoglio si scorge solo “un relativismo assoluto”. È il suo adattamento al mondo a non piacere, l’uso che fa dell’accomodatio ignaziana. «Riflettendo su ciò che accade, ringraziamo Dio che lo scorso anno ci ha preservato da ogni tipo di accordo». Viene fatta risalire al settembre 2012, infatti, la vera interruzione dei contatti con Roma. In quelle settimane arrivava a Econe la lettera preparata dal Vaticano e sottoposta alla firma di Fellay. Un testo in cui Ratzinger poneva come condizione per la riconciliazione il pieno riconoscimento del Concilio Vaticano II. Una clausola irricevibile, per gli eredi di Marcel Lefebvre: «Quel giorno dissi che era impossibile sottoscrivere l’ermeneutica della continuità. Il Concilio non è in continuità con la Tradizione, è una cosa fuori dalla realtà».

Nei mesi scorsi, da più parti si segnalava come la mancata firma da parte della Fraternità scismatica fosse stata un’occasione mancata, probabilmente irripetibile alla luce del cambio della guardia sul Soglio di Pietro. Mai (si diceva) ci sarebbe stato un altro Pontefice così disponibile verso una ricomposizione come lo era stato Benedetto XVI, il quale si era spinto a garantire ampie concessioni alla piccola comunità tradizionalista pur di sanare la ferita, compresa la controversa remissione della scomunica ai quattro vescovi consacrati nel 1988 da Lefebvre senza l’autorizzazione della Santa Sede. Con Francesco, infatti, le distanze sembrarono ampie già dalla sera stessa dell’elezione. Il Papa neoeletto che rifiutava gli orpelli della Tradizione (a partire dalla mozzetta di velluto rosso, la croce pettorale d’oro e le scarpe rosse) e che si definiva semplicemente vescovo di Roma, capo della diocesi che presiede nella carità le altre chiese. Una vocazione all’ecumenismo destinata a diventare cifra saliente del pontificato, si disse allora. Proprio di quell’ecumenismo che secondo Bernard Fellay «tanti disastri ha arrecato alla chiesa».

Un segno di distensione poteva essere letto nella scelta di Bergoglio di nominare monsignor Guido Pozzo segretario della Pontificia commissione “Ecclesia Dei”, l’organismo creato da Giovanni Paolo II nel 1988 volto a favorire il rientro nella Chiesa cattolica dei lefebvriani. Pozzo, d’orientamento conservatore, era già stato segretario di quella commissione dal 2009 al 2012, quando Benedetto XVI lo aveva promosso Elemosiniere. Lo scorso agosto, però, il ritorno alle origini (seppur da arcivescovo titolare di Bagnoregio): dopo solo otto mesi, Francesco cambia l’Elemosiniere e rimanda mons. Pozzo all’Ecclesia Dei. Basta con gli elemosinieri “che firmano pergamene tutto il giorno” – così ha detto Francesco incontrando i familiari di Konrad Krajewski, il successore di Pozzo. Ma dopo un anno in cui tutto è rimasto fermo, la ricomposizione pare improbabile. Lo stesso Guido Pozzo ha sempre ricordato che l’elemento fondamentale per tornare a sedersi attorno a un tavolo è il pieno riconoscimento del Magistero dei papi dal Concilio in poi. Senza quel , ogni accordo è impossibile.

Bagnasco: «L’aggressione alla famiglia non è casuale, ma strategica e voluta da lobby e istituzioni»

Bagnasco: «L’aggressione alla famiglia non è casuale, ma strategica e voluta da lobby e istituzioni»

«Se la famiglia è più debole la società è più fragile e si domina meglio sul piano politico, economico e ideologico». E sulla Bossi-Fini: «Accoglienza ordinata»
da www.Tempi.it 

bagnasco-cei-prolusionePer il presidente della Cei Angelo Bagnasco «c’è un’aggressione alla famiglia strategica e non casuale. Se la famiglia è più debole la società è più fragile e si domina meglio sul piano politico, economico e ideologico. La storia lo insegna. Perché qualcuno più forte e furbo c’è sempre e per qualcuno non intendo solo le persone, ma lobby o istituzioni».

NON CASUALE. Bagnasco ne ha parlato al seminario sulla famiglia organizzato a Genova dal Forum delle associazioni familiari. «Secondo me – ha detto il cardinale – l’aggressione alla famiglia non è assolutamente casuale, ma è strategica perché si è capito che essendo la famiglia il grembo della vita e prima e fondamentale palestra di umanità e di fede, indebolirla o dissolverla nella sua responsabilità educativa. Significa distruggere la persona. Viene a mancare quella maturità interiore che è sinonimo di capacità critica, di fortezza, quindi un punto solido per cui la società da popolo di relazioni e di solidarietà diventa una moltitudine di punti individuali, una folla non un popolo».

DISTRUGGERE LA RADICE. «Una società più fragile si domina meglio», ha spiegato Bagnasco. Di fronte a questo, «capite che il fronte della famiglia – ha aggiunto – è un fronte sul quale la Chiesa, la comunità cristiana, gli uomini e le persone di buona volontà non possono essere assenti perché la famiglia è l’ultima e la prima frontiera dell’umano e quindi – ha concluso – distruggendo quella in realtà si va alla radice».

ACCOGLIERE IMMIGRATI IN MANIERA ORDINATA. Bagnasco ha parlato anche dei recenti drammi accaduti a Lampedusa. L’accoglienza degli immigrati «non si può negare, ma va coniugata con la situazione concreta» e va «ordinata». Interpellato sulla cancellazione della legge Bossi-Fini, il cardinale ha così risposto: «La posizione della Chiesa sull’immigrazione è sempre stata molto chiara e trasparente, nel segno del Vangelo, accoglienza di chi, essendo disperato, cerca una via di salvezza, di speranza, cerca un futuro migliore. Naturalmente la speranza va sempre coniugata con la situazione concreta, nel senso dell’ordine pubblico, di una accoglienza ordinata».
Per Bagnasco «fa pensare» la contraddizione che porta a celebrare i funerali di Stato per degli immigrati che se fossero riusciti ad arrivare in Italia vivi sarebbero stati considerati dei clandestini: «Questo doppio registro in un certo senso esprime una difficoltà anche oggettiva. Allora ancora una volta si chiama in causa l’Europa, perché l’Italia è la porta d’Europa, non può essere lasciata sola».

Papa: rinnova atto di affidamento alla Madonna di Fatima

Papa: rinnova atto di affidamento alla Madonna di Fatima

Le tre “realtà” che si vedono “guardando a Maria”. “Dio ci sorprende, Dio ci chiede fedeltà, Dio è la nostra forza”. “Lascio veramente entrare Dio nella mia vita? Come gli rispondo?”, “Sono un cristiano ‘a singhiozzo’, o sono un cristiano sempre”, di fronte a una “cultura del provvisorio, del relativo” e, infine, so “ringraziare, lodare per quanto il Signore fa per noi”, perché “tutto è suo dono; Lui è la nostra forza!”. 

Città del Vaticano (AsiaNews) – Dinanzi all’immagine della Madonna portata in piazza san Pietro da Fatima, papa Francesco ha rinnovato l’Atto di affidamento a Maria. “Atto che facciamo con fiducia, siamo certi che ognuno di noi è prezioso ai tuoi occhi e che nulla ti è estraneo”

“Celebriamo in te – ha detto – le grandi opere di Dio, che mai si stanca di chinarsi con misericordia sull’umanità, afflitta dal male e ferita dal peccato, per guarirla e per salvarla. Accogli con benevolenza di Madre l’atto di affidamento che oggi facciamo con fiducia, dinanzi a questa tua immagine a noi tanto cara. Siamo certi che ognuno di noi è prezioso ai tuoi occhi e che nulla ti è estraneo di tutto ciò che abita nei nostri cuori.
Ci lasciamo raggiungere dal tuo dolcissimo sguardo e riceviamo la consolante carezza del tuo sorriso. Custodisci la nostra vita fra le tue braccia: benedici e rafforza ogni desiderio di bene; ravviva e alimenta la fede; sostieni e illumina la speranza; suscita e anima la carità; guida tutti noi nel cammino della santità. Insegnaci il tuo stesso amore di predilezione per i piccoli e i poveri, per gli esclusi e i sofferenti, per i peccatori e gli smarriti di cuore: raduna tutti sotto la tua protezione e tutti consegna al tuo diletto Figlio, il Signore nostro Gesù”.

L’Atto è giunto al termine della messa celebrata per la “Giornata Mariana”, in occasione dell’Anno della fede. Una Giornata cominciata ieri, quando è arrivata a Roma la statua della Vergine di Fatima e che anche oggi ha visto in piazza san Pietro oltre 100mila persone.

A loro, nel corso della messa, il Papa ha parlato delle tre “realtà” che si vedono “guardando a Maria”, “una delle meraviglie del Signore”. “Dio ci sorprende, Dio ci chiede fedeltà, Dio è la nostra forza”. “Realtà” che hanno portato Francesco a invitare a riflettere se “lascio veramente entrare Dio nella mia vita? Come gli rispondo?”, se “Sono un cristiano ‘a singhiozzo’, o sono un cristiano sempre”, di fronte a una “cultura del provvisorio, del relativo”, che “entra anche nel vivere la fede” e se, infine, so “ringraziare, lodare per quanto il Signore fa per noi”, perché “tutto è suo dono; Lui è la nostra forza!”.

La prima “realtà”, dunque, è che “Dio ci sorprende”. “Dio ci sorprende; è proprio nella povertà, nella debolezza, nell’umiltà che si manifesta e ci dona il suo amore che ci salva, ci guarisce e ci dà forza. Chiede solo che seguiamo la sua parola e ci fidiamo di Lui. Questa è l’esperienza della Vergine Maria: davanti all’annuncio dell’Angelo, non nasconde la sua meraviglia. E’ lo stupore di vedere che Dio, per farsi uomo, ha scelto proprio lei, una semplice ragazza di Nazaret, che non vive nei palazzi del potere e della ricchezza, che non ha compiuto imprese straordinarie, ma che è aperta a Dio, sa fidarsi di Lui, anche se non comprende tutto: ‘Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola’ (Lc 1,38). Dio ci sorprende sempre, rompe i nostri schemi, mette in crisi i nostri progetti, e ci dice: fidati di me, non avere paura, lasciati sorprendere, esci da te stesso e seguimi!”.

“Oggi chiediamoci tutti se abbiamo paura di quello che Dio potrebbe chiederci o di quello che ci chiede. Mi lascio sorprendere da Dio, come ha fatto Maria, o mi chiudo nelle mie sicurezze, nei miei progetti? Lascio veramente entrare Dio nella mia vita? Come gli rispondo?”.

“Il secondo punto è “ricordarsi sempre di Cristo, perseverare nella fede; Dio ci sorprende con il suo amore, ma chiede fedeltà nel seguirlo. Pensiamo a quante volte ci siamo entusiasmati per qualcosa, per qualche iniziativa, per qualche impegno, ma poi, di fronte ai primi problemi, abbiamo gettato la spugna. E questo purtroppo, avviene anche nelle scelte fondamentali, come quella del matrimonio. La difficoltà di essere costanti, di essere fedeli alle decisioni prese, agli impegni assunti. Spesso è facile dire ‘sì’, ma poi non si riesce a ripetere questo ‘sì’ ogni giorno”.

“Maria ha detto il suo ‘sì’ a Dio, un ‘sì’ che ha sconvolto la sua umile esistenza di Nazaret, ma non è stato l’unico, anzi è stato solo il primo di tanti ‘sì’ pronunciati nel suo cuore nei momenti gioiosi, come pure in quelli di dolore, tanti ‘sì’ culminati in quello sotto la Croce. Oggi, qui ci sono tante mamme; pensate fino a che punto è arrivata la fedeltà di Maria a Dio: vedere il suo unico Figlio sulla Croce”. “Distrutta dal dolore, ma fedele e forte”.

“Sono un cristiano “a singhiozzo”, o sono un cristiano sempre? La cultura del provvisorio, del relativo entra anche nel vivere la fede. Dio ci chiede di essergli fedeli, ogni giorno, nelle azioni quotidiane e aggiunge che, anche se a volte non gli siamo fedeli, Lui è sempre fedele e con la sua misericordia non si stanca di tenderci la mano per risollevarci, di incoraggiarci a riprendere il cammino, di ritornare a Lui e dirgli la nostra debolezza perché ci doni la sua forza”. “Questo è un cammino definitivo, sempre col Signore, anche con le nostre debolezze, col peccato, mai andare sulle strade del provvisorio, questo uccide, la fede è definitiva, come quella di Maria”

“L’ultimo punto: Dio è la nostra forza. Penso ai dieci lebbrosi del Vangelo guariti da Gesù: gli vanno incontro, si fermano a distanza e gridano: ‘Gesù, maestro, abbi pietà di noi!’ (Lc 17,13). Sono malati, bisognosi di essere amati, di avere forza e cercano qualcuno che li guarisca. E Gesù risponde liberandoli tutti dalla loro malattia. Fa impressione, però, vedere che uno solo torna indietro per lodare Dio a gran voce e ringraziarlo. Gesù stesso lo nota: dieci hanno gridato per ottenere la guarigione e solo uno è ritornato per gridare a voce alta il suo grazie a Dio e riconoscere che Lui è la nostra forza. Saper ringraziare, saper lodare per quanto il Signore fa per noi”.

“Guardiamo a Maria: dopo l’Annunciazione, il primo gesto che compie è di carità verso l’anziana parente Elisabetta; e le prime parole che pronuncia sono: ‘L’anima mia magnifica il Signore’, il Magnificat, un canto di lode e di ringraziamento a Dio non solo per quello che ha operato in lei, ma per la sua azione in tutta la storia della salvezza. Tutto è suo dono; se possiamo capire che tutto è dono di Dio quanta felicità nel nostro cuore. Lui è la nostra forza! Dire grazie è così facile, eppure così difficile! Quante volte ci diciamo grazie in famiglia?”. “E’ una delle parole chiave della convivenza: permesso, scusami, grazie, se in una famiglia di dicono queste tre parole, la famiglia va avanti”. “Quante volte diciamo grazie a chi ci aiuta, ci è vicino, ci accompagna nella vita? Spesso diamo tutto per scontato! E questo avviene anche con Dio”.

“Invochiamo l’intercessione di Maria, perché ci aiuti a lasciarci sorprendere da Dio senza resistenze, ad essergli fedeli ogni giorno, a lodarlo e ringraziarlo perché è Lui la nostra forza”.

L’atto di affidamento compiuto oggi da papa Francesco segue quelli compiuti da Giovanni Paolo II. Il primo era stato programmato per il 7 giugno 1981, in Santa Maria Maggiore. Assente il Papa per le conseguenze dell’attentato del 13 maggio, fu trasmessa la preghiera che egli aveva composto per l’occasione. L’atto fu rinnovato a Fatima il 13 maggio 1982 e ripetuto il 25 marzo 1984 a Roma in piazza San Pietro, in unione spirituale con tutti i vescovi del mondo, compresi i vescovi ortodossi russi.