Giovedì della VIII settimana del T.O.

Giovedì della VIII settimana del T.O.

Dal Vangelo secondo Marco 10,46-52.

E giunsero a Gerico. E mentre partiva da Gerico insieme ai discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Costui, al sentire che c’era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Allora Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». E chiamarono il cieco dicendogli: «Coraggio! Alzati, ti chiama!». Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che vuoi che io ti faccia?». E il cieco a lui: «Rabbunì, che io riabbia la vista!». E Gesù gli disse: «Và, la tua fede ti ha salvato». E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada. 

Il commento di don Antonello Iapicca

La nostra vita è racchiusa in quella di questo cieco ai bordi di una via, mendicando qualcosa per vivere. Ci avviciniamo agli altri, parliamo, lavoriamo, facciamo amicizia, siamo mariti, mogli, preti, religiosi, figli e genitori, ma sempre mendicanti. Allunghiamo le mani delle parole, degli sguardi, dei compromessi, delle paure, del detto e non detto, degli ammiccamenti, dei regali e dagli aiuti. Facciamo perfino salti mortali di splendida carità, pur di raggranellare un po’ d’affetto che ci permetta sfangare un’altra giornata al riparo dalla solitudine. E passa Gesù. La sua Pasqua, il suo passaggio, scuote la vita. Ora sta passando, accanto a me, a te. E’ Lui che accende la fede, i suoi passi scuotono il cuore dal torpore, ed è già fedeè già certezza che Lui può cambiare la nostra vita. Il suo incedere scioglie la nostra lingua muta e orgogliosa, impaurita e schiava, in un grido di supplica grondante speranza, forse l’ultima, l’unica, la vera. Possiamo recuperare la vista, alzare lo sguardo e ritrovare il cielo aperto, e vedere dischiuse le porte del Paradiso, ora. Il Signore ci “chiama”, ha ascoltato il nostro grido di vera umiltà, “abbi pietà, sono morto nei miei peccati, sono schiavo e cieco, tutto mi sembra buio e assurdo, Signore pietà”. Innescato dai suoi passi, destato dalla sua presenza misteriosamente ricolma d’amore e misericordia deposta appena un centimetro dalla propria tristezza, il cuore contrito e umiliato di quel povero relitto gettato in strada, ha fatto breccia nel cuore di Cristo, ha bloccato il Signore nel bel mezzo della sua Pasqua, del suo passaggio. Ed ecco, allo stesso modo, ci chiama, ci attira fin dentro al suo cammino dalla morte alla vita: “Che cosa desideri, che cosa vuoi?“. La fede è tutta qui, gridare sapendo, per la luce della Grazia, a Chi chiedere e che cosa chiedere. La fede che salva è vedere prima con il cuore e la mente che con gli occhi. E’ un dono celeste che scioglie le labbra ad esprimere il grido del cuore. E’ desiderare il bene supremo, ovvero occhi aperti per vedere l’amore di Dio in Cristo Gesù, il discernimento che legge la volontà buona del Padre in ogni evento e relazione. La mancanza di questa sapienza è la vera cecità, che atterrisce e obbliga a mendicare, a fare compromessi, seduti e incapaci di muoversi, e quindi a peccare e a morire. Per questo il grido del cieco non può che scaturire dal cuore di un risuscitato”, come il cieco che, “chiamato” come Lazzaro dalla sua tomba, “getta via il mantello” come le bende che avvolgono un cadavere, il segno del suo io prigioniero dell’egoismo e dell’orgoglio, e “balza in piedi” come chi leva dal sepolcro. E’ nel cuore, infatti, che si comincia a guardare, ma è anche dove inizia ad aggredire la cecità iniettata dall’inganno del demonio. E’ nel cuore che si deposita l’incredulità, il glaucoma che brucia la retina del cuore dove Dio riflette il suo amore incarnato nella storia perché si creda a Lui per abbandonarsi alla sua volontà. Se il demonio riesce a offuscare l’evidenza come una nube che avvolge una montagna, iniziamo a dubitare, sino a finire col credere alla menzogna che Dio non ci ama, perché altrimenti la nostra vita sarebbe diversa. Ormai non ci rendiamo più conto che quello che guardiamo non è più la nostra vita, gli eventi e le persone sono confusi, nascosti, avvolti nella menzogna: la moglie è ormai solo un’isterica, il marito un egoista inguaribile, i genitori dei fossili lontani anni luce dai problemi dei figli, i figli dei capricciosi imbelli, gli amici sono approfittatori, i colleghi subdoli nemici, e tutto sembra coalizzarsi contro di noi. Non resta allora che accucciarsi e rinchiudersi nella sconfitta, deposti sulla strada come un sacco della spazzatura, allungando la mano alla ricerca di una briciola di generosità e di affetto per non morire del tutto.

La cecità, dunque, è sempre legata all’incredulità, e sorge dal cuore, dove il demonio punta e aggredisce. Il passaggio di Gesù è un terremoto nel cuore di Bartimeo, e ridesta il seme incorruttibile che lo ha fatto immagine e somiglianza di Dio: quell’Uomo ridà forza all’uomo che è in lui. Egli “sente” che Gesù passa con i suoi discepoli e comincia a gridare. La Chiesa infatti ha questa missione, accompagnare Gesù, passare con Lui nella storia, fare in modo che la sua Pasqua giunga al cuore di ogni uomo cieco e senza speranza, per risvegliarlo, e risuscitare la fede, lo sguardo rinnovato sulla vita e la storia. Essa non può star chiusa nei templi, negli uffici e nelle sacrestie, se Gesù e i suoi discepoli non fossero passati di lì, Bartimeo sarebbe rimasto cieco a mendicare. Bartimeo, invece, ha cominciato a credere proprio al passaggio di Gesù: nel cuore ha iniziato a vedere in Lui la salvezza che si incarnava nella sua vita, il riscatto e la misericordia che giungevano proprio accanto al suo dolore e al suo fallimento. In quel momento ha riaperto gli occhi del cuore perchè la stessa storia sulla quale i suoi occhi si erano chiusi divenendo così per lui un’oscura notte di solitudine, per il passaggio e la presenza di Gesù, ridiviene luminosa di speranza, albergo di forze e gioia che sembravano perdute. Per questo nel suo grido appare già “la fede che lo salva”. In fondo, tra i tanti, Bartimeo era l’unico pronto ad incontrare Gesù. La storia lo aveva preparato ad accogliere la fede che il Signore e la sua Chiesa gli avrebbero annunciato passando accanto a lui. Bartimeo era l’unico che sapeva cosa voleva, perchè era l’unico che, nonostante il tempo buttato a mendicare, riconosceva la sua cecità. Bartimeo è anche immagine del catecumeno che percorre un cammino di illuminazione, sino alla fede adulta e alle acque del battesimo; il tempo precedente l’incontro con Gesù è quello nel quale, tra le vicende della vita, il seme della fede deposto dalla predicazione, lavora nell’ombra, preparando misteriosamente il miracolo della vista; esso rende consapevoli della propria realtà, rivela i peccati che si annidano nel cuore e si fanno mantello di orgoglio e superbia, parla al cuore diradando a poco la menzogna dell’ipocrisia. Ciò significa che anche il tempo che ci sembra scorrere inutile e grigio, senza vedere soluzioni ai problemi, senza incontrare la persona con cui condividere la vita, senza lavoro, senza apparente via di sbocco per figli o amici, anche il lungo tempo di cecità può essere il seno fecondo che prepara l’incontro con il Signore. Anche il grigio dei giorni può ricevere il seme della fede. Per Bartimeo è stato così, come per ogni uomo, come per noi. E oggi, come ogni giorno pensato dal Signore per ciascun uomo, passa Gesù, mentre il dono immenso dei suoi passi di misericordia danno forza e vigore al desiderio di luce e gratitudine di una fede “liberata” dalle catene della menzogna, senza mantelli e con le gambe robuste per correre incontro a Cristo. Anche oggi giunge al nostro cuore l’annuncio della Chiesa, il santo trambusto dei suoi figli, delle sue famiglie che lottano e si perdonano, degli apostoli che fanno strada al Signore perché le onde benefiche della sua Pasqua lambiscano la morte di ogni generazione. E così, “riacquistata la vista”, finalmente riconciliati con Dio e la nostra storia, come Bartimeo possiamo “passare” dall’essere mendicanti a dispensatori, gratuitamente, esattamente come tutto riceviamo da Lui, sempre. La fede che purifica il cuore perché possa vedere Dio in tutto e tutti, muove i passi nella sequela del Signore, ci fa guardare avanti senza tornare al passato, lasciare i morti seppellire i propri morti e “seguire” l’agnello ovunque vada. La luce della sua Pasqua vittoriosa sulla morte e il peccato, ci apre gli occhi per riconoscere le orme di Gesù dinanzi ai nostri passi, le tracce del suo amore nella nostra vita, per  dischiudere le nostre labbra alla lode, l’autentico compimento di ogni esistenza, il frutto puro della sua liberazione. Come Mosè inviato da Dio a liberare il suo popolo dalla schiavitù dell’Egitto per dare lode a Dio, così anche noi siamo stati guariti, salvati e chiamati a seguire il Signore in una vita trasformata in una liturgia di benedizione, come primizie per accompagnare questa generazione alla Terra Promessa del Paradiso.

Le sei amiche “scappate di casa” per «diventare suore» e fondare un monastero. Oggi sono “mamme” di 60 bambini

Le sei amiche “scappate di casa” per «diventare suore» e fondare un monastero. Oggi sono “mamme” di 60 bambini

di Leone Grotti da www.tempi.it

Mana, il documentario che racconta la vicenda di sei giovani greche che nel 1962 abbandonarono le famiglie per rifugiarsi sulle montagne ateniesi. In 50 anni hanno accolto oltre 300 bambini abbandonati

mana-suore-greciaSei suore e sessanta bambini. È la storia raccontata dal documentario Mana (Mamma in greco), che parla di sei giovani amiche tra i 18 e i 20 anni che nel 1962 decidono di lasciare le loro famiglie «per diventare suore e dedicarsi a Dio», fondando un monastero dove accolgono bambini abbandonati o indesiderati sulle montagne vicino ad Atene.

DOCUMENTARIO. La loro avventura è stata raccontata dalla regista greco-americana Valerie Kontakos, che dopo essere venuta a conoscenza di questa realtà 10 anni fa, ha passato due anni insieme alle suore riprendendole durante la vita di tutti i giorni. Per produrre il documentario Kontakos ha lanciato la sua idea su Kickstarter, piattaforma online che permette di chiedere finanziamenti a privati su singoli progetti, e ha ricevuto in poco tempo 65 mila dollari. Il documentario è ora in fase di post-produzione e sarà presto ultimato.

grecia-mana-suoreTRECENTO BAMBINI. Maria, Dorothea, Parthenia e Kaliniki – insieme ad altre due ragazze, una delle quali è morta mentre un’altra lavora oggi in una casa che accoglie vedove – hanno fondato il “Villaggio per bambini Lyrio” nel 1967, dopo essere diventate suore ortodosse, e in 50 anni hanno accolto, cresciuto e provveduto all’educazione di oltre 300 bambini. Oggi il loro villaggio, che si sostiene interamente grazie a donazioni private, accoglie 60 bambini, alcuni portatori di handicap.

«DEDICARCI A DIO». «Eravamo amiche e compagne di classe e vivevamo nello stesso quartiere. Intorno ai 18 anni abbiamo scoperto di volere la stessa cosa: dedicare la nostra vita a Dio e ad aiutare gli altri – racconta suor Maria – Allora appena la più giovane ha compiuto i 18 anni, abbiamo lasciato le nostre case per il monastero, lasciando una nota scritta ai nostri genitori. Loro hanno pensato a uno scherzo».

MADRI. Le ragazze non scherzavano affatto ma per seguire la loro vocazione hanno dovuto superare l’iniziale ostilità dei genitori, che le hanno riportate indietro la prima volta e perfino rinchiuse in casa, prima di cedere. «Mio padre amava i bambini e voleva che mi sposassi e avessi tanti figli – continua suor Maria – Io gli ho detto: “Ma quanti bambini potrei mai avere? Guarda quanti ne abbiamo oggi!”».

“Quei demoni continuano a tormentarmi”

“Quei demoni continuano a tormentarmi”

Parla Ángel V., il messicano che ha ricevuto da papa Francesco una preghiera di liberazione il giorno di Pentecoste

di mauro pianta da Vatican Insider

La preghiera di Francesco su Angel«Ci sono momenti in cui sembra che i demoni stiano per uscire. Li percepisco in bocca, quasi fuori da me, sento che mi si gonfia il collo. Ma poi no, non se ne vanno». Ángel V., 43enne messicano, è l’uomo che più di una settimana fa ha ricevuto la “preghiera di liberazione” da papa Francesco in piazza san Pietro, al termine delle celebrazioni per la Pentecoste. Guai, per il Vaticano, a parlare di “esorcismo”. Ha scelto il quotidiamo spagnolo El Mundo, Ángel V., per raccontare la storia della sua possessione: «Voglio aiutare tutti  quelli che sono nelle mie condizioni e non vengono creduti: ecco perché per la prima volta nella vita ho deciso di lasciarmi intervistare».

L’uomo, messicano di Michoacan, ha due figli. Una famiglia normale, la sua. Solo che, come racconta , ogni tanto cade preda dei demoni che albergano in lui. Sono quattro, per la precisione, e lo tormentano dal 1999. A nulla è servito l’aiuto di 12 preti esorcisti, compreso padre Gabriele Amorth.

«È stato nel 1999: ero su un autobus, di ritorno da Città del Messico. Ho sentito come una forza entrare nell’autoveicolo. Non la vedevo, ma la percepivo. Si è avvicinata e si è fermata di fronte a me. A un tratto ho avvertito come una pugnalata al petto, mi sentivo come se mi dovessero aprire le costole».

Inizialmente Angel credeva si trattasse di un attacco cardiaco, ma il cuore non c’entrava. Pian piano la sua salute è iniziata a peggiorare: cadeva improvvisamente in stato di trance e sentiva la pelle come bucata da mille aghi: «Mi dicevano che parlavo in altre lingue. Nessun medico riusciva a spiegarmi cosa mi succedeva. Ho fatto test, radiografie, analisi… Ma nessuno è mai riuscito a darmi una spiegazione». «Ho avuto tantissima paura – osserva -. Mi sono anche sentito sporco al pensiero che dentro di me ci fosse qualcosa di malefico». E i familiari, come hanno reagito?  «Loro – ha risposto Angel – inizialmente si sono mostrati increduli: ancora oggi qualcuno dei miei fratelli ritiene che tutta la vicenda sia frutto di uno squilibrio psicologico. So che in tutti i paesi del mondo c’è tanta gente nella mia stessa situazione. Persone che si sentono incomprese dalla propria famiglia, dai propri amici e persino dalla propria Chiesa».   A Pentecoste c’era stata la preghiera di Francesco e poi l’intevento di padre Amorth. Ma non è cambiato nulla. Lo stesso Amorth lo aveva spiegato: si tratta di una possessione particolare, contentente un “messaggio”. Quale? Fino a che i vescovi del Messico non condanneranno pubblicamente l’aborto (introdotto in Città del Messico dal 2007), fino a che non vi sarà atto di riparazione a Maria e un atto di consacrazione di tutta la nazione, Ángel sarà condannato a convivere con i suoi demoni.

Giovedì della VIII settimana del T.O.

Mercoledì della VIII settimana del Tempo Ordinario

Dal Vangelo secondo Marco 10,32-45.

Mentre erano in viaggio per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano stupiti; coloro che venivano dietro erano pieni di timore. Prendendo di nuovo in disparte i Dodici, cominciò a dir loro quello che gli sarebbe accaduto: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi: lo condanneranno a morte, lo consegneranno ai pagani, lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno; ma dopo tre giorni risusciterà». E gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Gesù disse loro: «Voi non sapete ciò che domandate. Potete bere il calice che io bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e il battesimo che io ricevo anche voi lo riceverete. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato». All’udire questo, gli altri dieci si sdegnarono con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù, chiamatili a sé, disse loro: «Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

Il commento di don Antonello Iapicca

Con Gesù si sale a Gerusalemme. Sappiamo, o dovremmo sapere…, dove stiamo andando. Lo aveva ben compreso San Paolo: “Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà. So soltanto che lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni. Non ritengo tuttavia la mia vita meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio” (Atti, 20, 22-24). Ma i discepoli non l’avevano compreso. Seguivano Gesù, ma erano imbalsamati nella mummia del proprio Io. A loro premeva raggiungere i propri scopi, e Gesù, per quanto ammirato ed amato, alla fine, era solamente colui che, ai loro occhi, poteva realizzare i desideri. Come quando un computer affetto da virus non riesce a leggere un documento e i caratteri che appaiono sul monitor sono un collage di segni strani e senza logica. Anche le parole più chiare di Gesù subiscono uno stravolgimento ad opera del virus dell’orgoglio e delle superbia, segni dell’uomo vecchio. Oggi ad esempio, che progetti abbiamo? In famiglia, a scuola, al lavoro, con amici e fidanzati, che cosa speriamo, che cosa desideriamo? E’ importante chiedercelo perchè, con tutta probabilità, scopriremo che la cesura netta che appare nel Vangelo tra l’annuncio della Passione e della Risurrezione di Gesù e le richieste dei due fratelli figli di Zebedeo, è la stessa che apre le nostre giornate. Ogni mattina il Signore ci annuncia un giorno di combattimenti, un cammino che conduce a Gerusalemme, alla Croce, per passare alla Resurrezione. Gesù ci prende in disparte e ci annuncia quello che gli deve accadere in noi. Per questo San Paolo scriveva che in lui si completava quello che manca alla Passione di Gesù, quello che manca alla vista degli uomini di questa generazione perchè si possano salvare. Ma a noi, confessiamolo, importa poco. Al risveglio siamo sintonizzati su ben altro canale. Le cose da fare, i soldi, gli amici, i figli, i genitori, gli affetti vari da curare, gli obbiettivi da raggiungere. Ma, quel che è peggio, tutto pensiamo di farlo con Gesù. Giacomo e Giovanni infatti non chiedono un potere empio, senza Dio. No, loro desiderano una cosa santa, regnare con Gesù. Essere alla sua destra e alla sua sinistra. Come noi, che, nelle vicende della vita, desideriamo stare con il Signore, per carità, ci affidiamo a Lui in tutto. Forse… Ma la risposta di Gesù ci fa comprendere che neanche sappiamo che cosa chiediamo e desideriamo. La buccia sembra buona, ma è l’interno ad essere marcio. Chiediamo cose sante, ma lo spirito e i criteri sono mondani. Ci sfugge l’essenziale: il calice che Dio ha preparato per il Suo Figlio, e per ciascuno di noi. Infatti quando ci viene presentato, normalmente ce la diamo a gambe.
Ma proprio per questo, anche oggi il Vangelo è per noi una Buona Notizia. Da soli non possiamo nulla. Noi vogliamo che Gesù ci faccia quello che gli chiediamo. Siamo pronti a strumentalizzarlo, come sposi, madri, figli, presbiteri, non vi è differenza. E Gesù ci annuncia che sì, lo berremo il suo calice, che coincide con quello preparato per noi. Non abbiamo nulla da temere, Lui lo già bevuto! Lui sa come si fa, come si sale sulla croce, come non si scappa, come si entra nella morte. Gesù è in noi davanti alla Croce: “Ora Colui che è il Verbo assume Egli stesso un corpo, viene da Dio come uomo e attira a sé l’intera esistenza umana, la porta dentro la parola di Dio, viene da Dio e fonda così il vero essere uomini. Non è una persona sola, bensì ci rende tutti «uno» in sé (cfr. Gal 3,28), ci trasforma in una nuova umanità… È questa la «sequela» cui Gesù ci chiama: lasciarsi attrarre dentro la sua nuova umanità e dunque nella comunione con Dio.” (J. Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, pag.382-383). Abbandoniamoci a Lui alora, lasciamo che ad ogni risveglio ci annunci il nostro destino, ci attiri nella sua “nuova umanità”, battezzandoci nel suo stesso battesimo. Ogni giorno che si schiude è come il fiume Giordano che attende il corpo benedetto del Signore vivo nella nostra carne. La moglie, il marito, i figli, i genitori, gli amici, il fidanzato, i colleghi, e poi la precarietà economica, il mobbing e le incomprensioni sul lavoro, le malattie sempre in agguato, il rifiuto e il disprezzo, il traffico e i contrattempi, sono come i flutti nei quali immergere la nostra vita perchè sia distrutto l’uomo vecchio e possa apparire quello nuovo, creato a immagine di Cristo: donarsi a chi reclama la nostra attenzione, il nostro tempo, i nostri schemi, la nostra vita. Spesso violentemente, ingiustamente, senza apparente ragione. Scendere nelle acque del Giordano che lambiscono ogni giorno il frammento di terra e di storia che siamo chiamati a calpestare, per riemergervi pronti a ricevere lo Spirito Santo che fa della nostre giornate il compiacimento di Dio, che ci fa figli amatissimi che seminano ovunque lo stesso amore del quale sono ricolmi. Dare la vita significa, infatti, innanzi tutto deporre nelle acque del battesimo quotidiano l’egoismo, la superbia  di chi pretende di condurre e piegare la propria vita e la storia, che giudica Dio per come fa il Padre, il Figlio per il modo così singolare con il quale ci ama e che non ci piace quasi mai, e lo Spirito Santo per non spiegarci tutto e, come Aladino con la sua lampada, non soffiare secondo i nostri desideri; servire è rinnegare il proprio io e ogni opera della carne, lasciando che sia crocifisso con Cristo l’uomo vecchio che si corrompe, proprio attraverso le vicende e le persone che il Padre prepara per noi ogni giorno. E’ questa la porta che introduce al compimento della missione che ci è affidata, lasciarci trasformare da Cristo, essere docili alla volontà del Padre, seguendo le sue orme che ci conducono a Gerusalemme, alla concretissima realtà che attende i nostri passi, dove si realizza in noi lo stesso Mistero Pasquale del Signore.
Conformati a Lui possiamo vivere un’altra vita nel capovolgimento dei criteri mondani: non possiamo aspettarci nulla dal potere di questo mondo; per quanta indignazione gettiamo nelle piazze, per quanto possiamo impegnarci per la realizzazione di una politica più onesta e giusta, per quanto ci sforziamo di costruire una cultura della legalità, “coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere”. il Signore conosce il veleno che divora il mondo che lo rifiuta, e con Lui anche i suoi discepoli “sanno” della corruzione che vi si nasconde. Non siamo chiamati all’indignazione, alle proteste e alle rivoluzioni, nelle piazze come nei condomini, negli uffici o sui campi di calcio dove giocano i nostri figli, nelle scuole e nelle nostre case. Siamo chiamati, nella Chiesa e con essa, a qualcosa di molto diverso: “tra di voi invece…”  dice il Signore, chiamando a sé i suoi discepoli. Tra i fratelli nati dallo stesso battesimo, che si accostano e bevono allo stesso calice, ogni relazione è celeste, e per questo capovolta rispetto alle relazioni mondane: tra marito e moglie, tra genitori e figli, tra fratelli, ovunque Il primo è l’ultimo e l’ultimo è il primo, e sembra quasi una gara a perdere, perchè, fra i cristiani, vi è la certezza della vittoria di Cristo sulla morte, il demonio e il peccato. “Fra di voi” è diverso, perchè voi siete stati perdonati, rigenerati, risuscitati con Cristo e già siete stati assisi con Lui alla destra del Padre. Non si tratta di un posto di prestigio, perchè quel che sarà nel Regno dei Cieli non è affar nostro. Ma si tratta di aver ricevuto lo stesso Spirito del Signore, di regnare già oggi con Lui nella storia perchè, seppur non in pienezza, nel battesimo abbiamo già oltrepassato il guado della morte, siamo le primizie dei santi del Cielo, e per questo ci è dato il potere di sottomettere i demoni, la carne e il mondo che così diviene il potere di dare la propria vita. Si tratta di amare, di regnare come regna Lui, dal Legno della Croce, il battesimo che ci fa ultimi, servi di tutti. Certo si tratta di assumere un combattimento quotidiano contro la carne, il mondo e il demonio: “Questa è la chiave: fra noi non deve essere così. Nell’ottica del Vangelo, la lotta per il potere nella Chiesa non deve esistere. O, se vogliamo, che sia la lotta per il vero potere, cioè quello che lui, con il suo esempio, ci ha insegnato: il potere del servizio. Il vero potere è il servizio. Nella Chiesa non c’è nessun’altra strada per andare avanti. Per il cristiano  andare avanti, progredire, significa abbassarsi. Se noi non impariamo questa regola cristiana, mai potremo capire il vero messaggio cristiano sul potere. Nella Chiesa il più grande è quello che più serve, che più è al servizio degli altri. Questa è la regola. Quando a una persona danno una carica che secondo gli occhi del mondo è una carica superiore, si dice: Ah, questa donna è stata promossa a presidente di quell’associazione; e questo uomo è stato promosso. Promuovere: Sì, è un verbo bello. E si deve usare nella Chiesa, sì: questo è stato promosso alla croce; questo è stato promosso all’umiliazione. Questa è la vera promozione. Quella che ci fa assomigliare meglio a Gesù. Sant’Ignazio, negli Esercizi spirituali, ci fa chiedere al Signore crocifisso la grazia delle umiliazioni: Signore voglio essere umiliato, per assomigliare meglio a te. Questo è l’amore, è il potere di servizio nella Chiesa. E si servono meglio gli altri per la strada di Gesù. Altri tipi di promozione non appartengono a Gesù. Sono promozioni «mondane» ed esistono sin dal tempo di Gesù stesso. «Sempre ci sono state nelle Chiese cordate per arrivare più in alto: carrierismo, arrampicatori, nepotismo… una sorta di «simonia educata», cioè quella che porta a pagare di nascosto qualcuno pur di diventare qualcosa. Ma quella non è la strada del Signore. La strada del Signore è il suo servizio: che ci dia la Grazia per capire quella regola d’oro che lui ci ha insegnato con il suo esempio: per un cristiano progredire, andare avanti, significa abbassarsi” (Papa Francesco, Omelia a Santa Marta, 21 maggio 2013). Siamo chiamati alla libertà di chi, abbassato e umiliato nella storia di ogni giorno, dall’ultimo posto, serve e accompagna ogni uomo al Paradiso, all’incontro con Dio, a mostrare e a offrire al mondo la vita “fra di noi”, figli nel Figlio. Il “posto” non conta, il potere e il prestigio non conferiscono nulla e non aggiungono nessun valore, mentre il ruolo nella società ancor meno: servire e amare, donarsi senza riserve è il luogo dove essere autenticamente se stessi, felici, realizzati, colmi della stessa pienezza di Cristo. E’ questa la grandezza della nostra vita, perderla per amore, per riscattare chi è perduto: “Non è il potere che redime, ma l’amore! Questo è il segno di Dio: Egli stesso è amore” (Benedetto XVI, Omelia nella Messa di inizio Pontificato).
Papa: benessere e cultura del provvisorio ci spogliano del coraggio di seguire Gesù

Papa: benessere e cultura del provvisorio ci spogliano del coraggio di seguire Gesù

La cultura del benessere ci impedisce di essere capaci di spogliarci delle nostre “ricchezze”, quella del provvisorio ci dà “paura del tempo di Dio” che è definitivo. Ma ci sono “tanti uomini e donne che hanno lasciato la propria terra per andare come missionari per tutta la vita: quello è il definitivo!”. E anche tanti uomini e donne che “hanno lasciato la propria casa per fare un matrimonio per tutta la vita”; quello è “seguire Gesù da vicino! E’ il definitivo!”. Il provvisorio “non è seguire Gesù”, è “territorio nostro”:

da AsiaNews – La cultura del benessere e quella del “provvisorio” ci spogliano del coraggio di seguire Gesù: la prima perché ci impedisce di essere capaci di spogliarci delle nostre “ricchezze”, la seconda perché “abbiamo paura del tempo di Dio” che è definitivo. L’episodio del Vangelo di oggi, del giovane ricco al quale Gesù chiede di dare tutte le sue ricchezze ai poveri e seguirlo, ma questi se ne va rattristato ha dato occasione a papa Francesco di parlare della necessità di fare un esame di coscienza sulle ricchezze che ci impediscono di avvicinare Gesù.

Durante la messa celebrata stamattina alla Casa santa Marta, riferisce la Radio Vaticana, il Papa ha infatti detto che “le ricchezze sono un impedimento” che “non fa facile il cammino verso il Regno di Dio”. Del resto, “ognuno di noi ha le sue ricchezze, ognuno”. C’è sempre una ricchezza che ci “impedisce di andare vicino a Gesù”. E questa va cercata. Tutti “dobbiamo fare un esame di coscienza su quali sono le nostre ricchezze, perché ci impediscono di avvicinare Gesù nella strada della vita”.

Francesco si è quindi riferito a due “ricchezze culturali”: innanzitutto la “cultura del benessere, che ci fa poco coraggiosi, ci fa pigri, ci fa anche egoisti”. Il benessere “ci anestetizza, è un’anestesia”. “‘No, no, più di un figlio no, perché non possiamo fare le vacanze, non possiamo andare qua, non possiamo comprare la casa. Sta bene seguire il Signore, ma fino a un certo punto. Questo è quello che fa il benessere: tutti sappiamo bene com’è il benessere, ma questo ci getta giù, ci spoglia di quel coraggio, di quel coraggio forte per andare vicino a Gesù. Questa è la prima ricchezza della nostra cultura d’oggi, la cultura del benessere”.

C’è poi “un’altra ricchezza nella nostra cultura”, una ricchezza che ci “impedisce di andare vicino a Gesù: è il fascino del provvisorio”. Noi siamo “innamorati del provvisorio”. Le “proposte definitive” che ci fa Gesù, ha detto, “non ci piacciono”. Il provvisorio invece ci piace, perché “abbiamo paura del tempo di Dio” che è definitivo. “Lui è il Signore del tempo, noi siamo i signori del momento. Perché? Perché nel momento siamo padroni: fino qui io seguo il Signore, poi vedrò… Ho sentito di uno che voleva diventare prete, ma per dieci anni, non di più… Quante coppie, quante coppie si sposano, senza dirlo, ma nel cuore: ‘fin che dura l’amore e poi vediamo…’ Il fascino del provvisorio: questa è una ricchezza. Dobbiamo diventare padroni del tempo, facciamo piccolo il tempo al momento. Queste due ricchezze sono quelle che in questo momento ci impediscono di andare avanti. Io penso a tanti, tanti uomini e donne che hanno lasciato la propria terra per andare come missionari per tutta la vita: quello è il definitivo!”. E anche tanti uomini e donne che “hanno lasciato la propria casa per fare un matrimonio per tutta la vita”; quello è “seguire Gesù da vicino! E’ il definitivo!”. Il provvisorio “non è seguire Gesù”, è “territorio nostro”.

“Davanti all’invito di Gesù, davanti a queste due ricchezze culturali pensiamo ai discepoli: erano sconcertati. Anche noi possiamo essere sconcertati per questo discorso di Gesù. Quando Gesù ha spiegato qualcosa erano ancora più stupiti. Chiediamo al Signore che ci dia il coraggio di andare avanti, spogliandoci di questa cultura del benessere, con la speranza – alla fine del cammino, dove Lui ci aspetta – nel tempo. Non con la piccola speranza del momento che non serve più. Così sia”.

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Socci: Papa Francesco spazza via cattocomunisti e bigotti

Il nuovo pontefice disorienta i salotti, sconcerta i tradizionalisti, argina finanza e politica. Perché parla davvero come un padre

Quando sento dire «il prete degli ultimi» io penso al grande e umile fratel Ettore Boschini che, lontano da tutti i salotti e i riflettori, per anni, portando in giro la statua della Madonna di Fatima e col crocifisso rosso dei camilliani sulla veste, ogni notte nei gironi infernali di Milano accoglieva, lavava amorevolmente, nutriva e curava barboni, clochard, sbandati, tossici e disperati, in un «rifugio» ricavato nel tunnel sotto la stazione centrale di Milano.

Non aveva tempo né per dormire né per mangiare, tanto ardeva di compassione per Gesù crocifisso che vedeva nei suoi fratelli sofferenti, nelle loro piaghe coperte di sporcizia maleodorante. È morto in fama di santità nel 2004. Sconosciuto ai salotti tv, ma conosciutissimo dai più poveri e dagli angeli di Dio (inizia ora a Milano il processo di beatificazione).

Mi è tornato in mente molte volte in queste settimane, sentendo ripetere a papa Francesco l’esortazione ai cristiani ad uscire dalle sacrestie e andare per le strade a portare la carezza del Nazareno a tutte le creature ferite dalla vita.

Fratel Ettore era davvero «il prete degli ultimi», come don Oreste Benzi, don Puglisi, padre Aldo Trento. È a figure come queste che occorre pensare quando si ascolta l’invito di papa Francesco a far risplendere la misericordia di Cristo nelle periferie esistenziali del mondo.

E non sono solo preti, ma anche religiosi come le suore di Madre Teresa, come suor Elvira della comunità Cenacolo, o come padre Cantalamessa che predica a migliaia di persone nei raduni carismatici, laici come Chiara Amirante, Andrea Aziani, Kiko Arguello, Paola Bonzi (quella del centro di aiuto alla vita della Mangiagalli), opere come Radio Maria (che il papa ha recentemente elogiato per la sua splendida opera) o Cometa di Como o i tanti sacerdoti che passano le ore nel confessionale (dove vorrebbe stare anche papa Bergoglio). E poi i meravigliosi missionari sparsi ai quattro angoli del pianeta o i preti e religiosi, ancora meno conosciuti, che in tanti oratori, parrocchie, santuari accompagnano migliaia di giovani nel cammino della vita, alla ricerca del senso dell’esistenza, dell’amare, del lavorare, del soffrire.

Certo, nelle mani di fratel Ettore si trovava il rosario, non la sciarpa rossa, il sigaro e il pugno chiuso esibiti invece da don Gallo, il personaggio che i media di questi giorni osannano come «prete degli ultimi», ovvero degli ultimi salotti conformisti. Fu un frequentatore acclamato dei potenti salotti del pensiero dominante, che tracimano di arroganza ideologica e di bile anticattolica. Pace all’anima sua. Una prece.

Ma i funerali di don Gallo segnano la fine simbolica di un mondo, quello del cattoprogressismo degli anni Settanta. Ci sono ancora vecchi conati di cattoprogressismo, come quelli messi in pagina ieri da Avvenire, dove un certo De Giorgi faceva suo lo strale anticattolico per cui la Chiesa sarebbe «indietro di duecento anni». Ma nulla è più antiquato e ammuffito di queste ideologie clericali, relitti del secolo scorso. Dominano ancora nei giornali dove si continuano a dividere i cattolici fra intransigenti e conciliatori, fra progressisti e conservatori, fra conciliari e anticonciliari.

Tuttavia la realtà è altrove. Perché nel frattempo la fantasia dello Spirito Santo ha portato la Chiesa nel terzo millennio e le ha donato un papa, Francesco, che non rientra in nessuno degli schemi mondani e che parla al cuore della gente. I salotti sono sbalorditi e non capiscono. Mentre il semplice popolo di Dio e le persone comuni, affaticate dalla vita, lo capiscono benissimo. E si commuovono quando lui ripete accoratamente «Dio perdona sempre, perdona tutto, siamo noi che ci stanchiamo di chiedere perdono». Non a caso i confessionali, che già negli ultimi anni stavano tornando a riempirsi (e ci sono statistiche sorprendenti), hanno ripreso ad accogliere più che mai cuori e anime, lacrime e gemiti.

Alcuni polemisti ideologizzati hanno fatto qualche tentativo di contrapporre Francesco a Benedetto XVI, ma si sono dovuti arrendere perché Bergoglio non fa che mostrare, da pastore, da parroco del mondo, da padre, quello che papa Ratzinger – col suo limpido insegnamento teologico – aveva raccomandato alla Chiesa (basta con l’autoreferenzialità, il carrierismo, la burocrazia, la mondanità, il clericalismo).

Non solo. Fa tesoro di ciò che il predecessore ha scritto per l’enciclica sulla fede e addirittura mette continuamente in guardia dal diavolo, secondo la più autentica via della tradizione cristiana. Arriva perfino a consacrare il pontificato alla Madonna di Fatima (inorridiscono i progressisti).

D’altra parte papa Francesco sconcerta pure tradizionalisti e reazionari, quelli che si fissano nelle forme, i velluti e le formule. E – secondo la dottrina sociale cristiana – spiazza i potenti della finanza e della politica tuonando contro le ingiustizie del sistema economico planetario, in difesa delle sue vittime. Allegramente sorpreso e sconcertato si è detto anche Giuliano Ferrara che – da una prospettiva «ateodevota» – pensava di aver trovato, in Ratzinger, il condottiero di una Chiesa in armi contro il nichilismo e il multiculturalismo e poi se n’è detto deluso. Giuliano non ha capito che il discorso di Ratisbona non fu un manifesto teocon, ma – al contrario – una formidabile e incompresa demolizione della «teologia politica». Ogni teologia politica.

Forse per comprendere questo pontificato bisogna leggere proprio un libro, appena uscito, che porta questo titolo, «Critica della teologia politica» e che ha la firma del maggior intellettuale cattolico italiano di oggi, quel Massimo Borghesi, allievo e collaboratore di Augusto Del Noce, figlio spirituale di don Giussani, che ha incontrato l’allora cardinale Bergoglio attorno all’affasciante personalità di don Giacomo Tantardini, alla rivista 30 Giorni. Un libro, quello di Borghesi, con cui significativamente converge oggi anche la riflessione del cardinale Angelo Scola nel suo – appena uscito – «Non dimentichiamoci di Dio». Sono certo che il pontificato di papa Francesco saprà trarre profitto dalla ricchezza di pensiero che fiorisce in queste pagine e anche in altre parti del mondo cattolico. Che – non tema Ferrara – non si arrende al nichilismo. Solo che lo combatte con armi diverse e stavolta davvero vincenti.

Papa Francesco si sottrae ad ogni schema pure nelle controversie curiali. Basti vedere il candore e la leggerezza evangelica con cui, nei giorni scorsi, ha messo fine a un’annosa diatriba fra Cei e Segreteria di Stato vaticana su chi dovesse tenere i rapporti con la politica e le istituzioni (ovviamente i vescovi, ha spiegato il papa).

Con la stessa ponderata serenità si appresta – a giugno, secondo le voci – all’avvicendamento del Segretario di Stato, che ha ormai raggiunto la scadenza del suo mandato e delle proroghe. Si tratta certamente di un evento di grande importanza, che chiude con un passato controverso e segnerà il futuro.

Eppure tutto sta avvenendo in una luce nuova, profondamente cristiana, anche grazie alla pastorale delle omelie quotidiane in Santa Marta, dove il Papa, come parroco del mondo, ogni giorno guida il suo popolo nel cammino, alla scoperta dei tesori di Gesù. Parole semplici che arrivano al cuore sia di chi – lavorando in Curia – è lì presente e magari riscopre la sua vocazione, sia di tutti i cristiani che vi si abbeverano ogni giorno.

Anni fa Thomas Wolfe ha scritto: «Ciò che più profondamente si cerca nella vita, la cosa che in un modo o nell’altra è stata al centro di ogni esistenza, è la ricerca dell’uomo per trovare un padre. Non soltanto il padre della propria carne, non soltanto il padre perduto della propria gioventù, ma l’immagine di una forza e di una sapienza alle quali la fede e la forza della propria esistenza possano essere unite». Questo è Francesco per il nostro tempo. Un padre. Che poi significa «papa».

di Antonio Socci
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