da Baltazzar | Set 2, 2013 | Chiesa, Papa Francesco
Il cambio al vertice pone Parolin di fronte a due sfide: disinnescare le faide interne ai Sacri Palazzi e far riconquistare alla Santa Sede un ruolo di spicco sullo scacchiere internazionale. Ci riuscirà?
di Giacomo Galeazzi da Vatican Insider
C’era una volta il Vaticano. Quello uscito trionfatore dalla Guerra Fredda e senza il quale, ammette Gorbaciov, «non si comprende la caduta del Muro e la storia del XX secolo». Negli ultimi anni la Santa Sede, indebolita da faide interne, aveva perso il ruolo da protagonista sullo scacchiere mondiale. La sua voce nelle questioni internazionali era coperta dal clamore degli scandali finanziari e sessuali culminati in Vatileaks. Adesso il Pontefice che a rapidi passi sta riconquistando le posizioni perdute riporta un diplomatico (Pietro Parolin) al vertice di una Curia che smette di essere la corte del potere come privilegio e torna ad essere una struttura al servizio della fede: cinghia di trasmissione degli «input» papali. Diplomazia e Vangelo alla guida della «Chiesa povera per i poveri». L’era Bertone si è conclusa ieri anche se il passaggio di consegne avverrà il 15 ottobre. «Questa chiamata è una sorpresa di Dio», commenta Parolin, autonomo da ogni cordata o gruppo di potere: proprio per questo era stato allontanato 4 anni fa dall’incarico di viceministro degli Esteri e confinato «quasi alla fine del mondo», nel difficilissimo Venezuela, dove è riuscito però a riportare serenità nei rapporti tra Chiesa e Stato. Adesso lo attendono i «dossier» caldi del globo cattolico.
Le sfide: pacificare la Curia dopo lo scandalo Vatileaks
Occorre pacificare la Curia dopo anni di faide interne e normalizzare i rapporti con la Cei. Lo scontro tra cordate di porporati culminato in Vatileaks e il braccio di ferro Bertone-Bagnasco sulla titolarità dei rapporti con la politica hanno indebolito l’immagine pubblica e l’autorevolezza della Santa Sede. Adesso si torna a un Vaticano al servizio delle Chiese locali e sarà l’episcopato italiano a trattare con le istituzioni. Senza intromissioni vaticane. Nel suo burrascoso settennato Bertone ha trovato nelle gerarchie fortissime opposizioni dovute principalmente al rigido «spoil system» da lui praticato ai danni di maggiorenti come Sodano e Ruini. Francesco perciò intende mettere al bando il carrierismo ecclesiastico, bollato come «acqua stagna». Preferendo Parolin a Bertello, il Pontefice tiene distinta la Segreteria di Stato dal gruppo degli otto cardinali-riformatori (organismo nel quale prevale l’iniziativa sulle procedure) che si riunirà a ottobre. Per il momento conferma il resto della squadra di governo (Becciu, Mamberti, Wells, Camilleri). Meno sprechi e burocrazia e altolà al sottobosco affaristico nei Sacri Palazzi.
Fermare lo “scippo” degli evangelici in Sudamerica
Le notizie che arrivano dal continente di Bergoglio non sono incoraggianti per la Chiesa. Sempre più cattolici sono attratti dalle «sirene» evangeliche finanziate da sigle Usa. Già Wojtyla, che pure confidava nella vitalità del cattolicesimo sudamericano, aveva fiutato il pericolo. Nel 1992 definì «lupi famelici» le sette protestanti in piena espansione tra i cattolici «latinos», quelle stesse sette contro la cui avanzata Roma non è ancora riuscita a opporre resistenza. Ogni ora 400 latinoamericani abbandonano la Chiesa per seguire un nuovo gruppo protestante. Le sette attirano i cattolici con il richiamo di una fede personale e profonda, una moralità esigente e puritana, un fortissimo vincolo comunitario, spirito di missione, ma anche profezia, guarigioni e visioni. E spesso aiuti economici. In sostanza, si tratta di un cristianesimo in antitesi con le istanze più liberal e progressiste, un credo che nella culla della teologia della liberazione «ruba», da destra, fedeli alla Chiesa. Le sette sono ben organizzate, hanno radio, giornali, strumenti di propaganda per farsi conoscere e seguire. Ma è scattata l’ora della «Reconquista» cattolica.
Mano tesa alla Cina per smussare le persecuzioni
Controlli su riti, istituzioni religiose e seminari. Arresti, torture, condanne di sacerdoti e laici. Prima di essere trasferito in Venezuela, da viceministro degli Esteri, Parolin si era occupato soprattutto della Cina, dove la comunità cattolica soffre pesanti violazioni del diritto alla libertà religiosa. All’origine di questa repressione c’è il crescente interesse religioso che si registra nel Paese, in particolare nei confronti del cristianesimo. Sul fronte delle ordinazioni episcopali illecite (cioè senza mandato papale), le tensioni tra Associazione Patriottica e Santa Sede sono ricorrenti, così come gli arresti e le «rieducazioni tramite il lavoro» di coloro che si rifiutano di aderire all’Associazione patriottica e rimangono fedeli al Papa. Le proprietà confiscate alla Chiesa dopo la presa di potere di Mao rimangono una questione spinosa. Il governo ha stabilito che devono tornare ai legittimi proprietari ma il ministero degli Affari religiosi ostacola chi cerca di riottenerle. La Giornata di preghiera per la Chiesa in Cina è stata istituita nel 2007 da Ratzinger. Pechino resta lontana ma Roma tende la mano.
Cristiani in fuga dal Medio Oriente in fiamme
Crollano i cristiani in Medio Oriente. Se all’inizio del secolo scorso rappresentavano il 20% della popolazione, oggi, nei diversi Paesi dell’area asiatica sud-occidentale, oscillano al massimo fino al 10%. I cristiani migrano dal Medio Oriente per le difficoltà in cui si sono trovati in seguito ai recenti conflitti. A Gerusalemme e a Nazareth sono ormai il 2%, mentre la nazione con il maggior numero di cristiani resta il Libano (35%) . L’inferno scoppiato in Siria accresce la «diaspora» dei cristiani. In tutto il mondo islamico si assiste a una continua radicalizzazione della protesta contro il potere mondiale definito come «Occidente» e visto dai musulmani come cristiano anche se è sempre più scristianizzato. Ciò ha ripercussioni sui cristiani locali. Al contrario in Africa la forte crescita dei fedeli di Roma sta provocando le violente reazioni dell’Islam radicale che, in Nigeria o Kenya, attaccano chiese e missioni. Francesco si affida allo «spirito di Assisi» per rilanciare il dialogo interreligioso e per impedire che si «uccida nel nome di Dio». Stop alla fede strumentalizzata per denaro e potere.
da Baltazzar | Set 2, 2013 | Chiesa, Liturgia
Dal Vangelo secondo Luca 4,16-30.
Si recò a Nazaret, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere.
Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto:
Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi,
e predicare un anno di grazia del Signore.
Poi arrotolò il volume, lo consegnò all’inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui.
Allora cominciò a dire: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi».
Tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è il figlio di Giuseppe?».
Ma egli rispose: «Di certo voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fàllo anche qui, nella tua patria!».
Poi aggiunse: «Nessun profeta è bene accetto in patria.
Vi dico anche: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese;
ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Sarepta di Sidone.
C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro».
All’udire queste cose, tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno;
si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio.
Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò.
Il commento di don Antonello Iapicca
La fede non è un salto nel buio: «Che cosa è infatti il cristianesimo? È forse una dottrina che si può ripetere in una scuola di religione? È forse un seguito di leggi morali? È forse un certo complesso di riti? Tutto questo è secondario, viene dopo. Il cristianesimo è un fatto, un avvenimento» (Don Luigi Giussani). La fede, nel cristianesimo, è l’esperienza fondante che continua a ripetersi nell’arco di una vita, come quella offerta da Gesù nella sinagoga di Cafarnao. In ebraico la parola fede, emunah, non ha il significato che siamo soliti conferirgli: essa rimanda a un sostegno, a qualcosa di fermo su cui poter appoggiarsi: “in Cristo abbiamo come un’àncora della nostra fede” (Eb. 6,19). In quella sinagoga Gesù inaugura la sua missione, laddove era stato “allevato” nello studio della Torah, e aveva appreso, Lui l’Autore della Legge, la fede del suo Popolo. Gesù torna alle origini, alle fonti della sua storia, che è la storia di Dio con il suo Popolo, perché “il punto di partenza (del cristianesimo) è l’esperienza della fede come realtà” (Card. Ratzinger).
Gesù inizia dunque dalla sua stessa realtà, dall’avvenimento che lo ha introdotto nel mondo. Gesù incarna Dio nella carne di ogni uomo: e lo fa a partire dai suoi parenti, dai suoi amici; dalle strade, le botteghe, le piazze dove è cresciuto, dai luoghi e dalle persone che gli sono più familiari, come una profezia per tutte le Nazaret della storia, anche le nostre. L’annuncio del Vangelo, infatti, svela il mistero dell’appartenenza a Dio di ogni uomo. Ogni realtà nella quale viene proclamata la Buona Notizia diviene come Nazaret, la città del Figlio di Dio, perché essa illumina il passato e il presente con il bagliore della vittoria di Cristo, e cambia il corso della storia dischiudendo un futuro di salvezza. Chiunque ascolti la predicazione si sente familiare e amico di Gesù, protagonista della storia di salvezza con cui Dio ha condotto il suo popolo. La storia di un innamoramento fattosi amore travolgente, sigillato in un’alleanza eterna; ma anche storia di tradimenti, cadute, e perdono e misericordia. Una storia di “schiavitù, oppressione, povertà e cecità”, quella di un resto umiliato, con gli “occhi fissi” su una promessa, nell’attesa ardente del suo compimento. Il “Sabato” per Israele è tutto questo, il compimento delle nozze promesse. Ma, per guardare alla realtà senza pregiudizi e lasciarsi salvare dalla predicazione, occorrono occhi umili e semplici, “occhi fissi su Gesù”. In ebraico il valore numerico delle lettere che formano la parola emunah (fede), corrisponde al valore numerico della parola bambini. Occhi di bambini dunque, sempre in attesa, che, nella tradizione ebraica, si schiudono solo nello Shabbat.
In ebraico shabbat è femminile, e in tutta la simbologia il sabato è paragonato alla sposa. Il canto per eccellenza con cui si accoglie questa festa è Lehà doddì = Vieni mio caro, dalle prime due parole del ritornello che viene ripetuto dopo ogni strofa. Israele viene presentato come uno sposo invitato ad incontrare la sua sposa: “Vieni mio caro incontro alla sposa, accogliamo shabbat”. Nel sabato risuonano le parole del Cantico dei Cantici, e in quel sabato a Nazaret era finalmente giunto lo Sposo. “Secondo il suo solito” Gesù si reca alla sinagoga, ma quel giorno è diverso dal solito. Come da sempre Egli è stato con noi, in ogni istante, “secondo il suo solito”; ma vi è un momento che è diverso, quando tutto acquista il sapore della novità. E’ diverso l’istante nel quale risuona l’annuncio del Vangelo, e quel giorno, forse grigio di stanca routine, o zuppo di dolore e lacrime, è trasformato nel Sabato delle nozze, giorno di festa e felicità, per ogni uomo di qualsiasi parte del mondo. Per questo San Paolo dirà “guai a me se non evengelizzassi”: sapeva infatti che la stoltezza della predicazione è lo strumento che Dio ha scelto per donare la fede, l’àncora che mette in salvo la vita.
Ecco dunque lo sposo dietro la grata, eccolo raccogliere il rotolo del Libro, dove è scritta la sua storia e la volontà del Padre. Ecco il corpo preparato per rivelare l’Eterno, l’amore promesso, tante volte donato, e ora vivo davanti ai suoi compatrioti; come oggi è dinanzi a ciascuno di noi Gesù, incarnato nella sua Parola, nei sacramenti, nell’amore e nell’unità, la comunione più forte della morte che fa della Chiesa il suo corpo nella storia. Ecco Gesù, oggi, ora: ci ha raggiunti nella nostra storia, che è anche la sua, e lo possiamo fissare per raccogliere anche solo una goccia della rugiada d’amore che sgorga dal suo cuore. Ecco il sabato compiuto, il riposo agognato, quel volto di ebreo che stilla dolcezza e attira irresistibilmente ogni sguardo. Eccolo consegnare un oggi eterno di misericordia, in quell’istante di duemila anni fa come in ogni istante di ogni vita, terra dissodata dalle vicende della storia di ciascuno, divenuta oggi fertile perché visitata da Lui, zolle fresche dove deporre la Parola già compiuta. Ecco la “libertà, la salvezza, la guarigione”, la gioia che solo la sua presenza nella nostra vita può generare, perché “quando il Signore predica, il cielo si apre, la fame è tolta, le anime dei fedeli si inebriano del nettare celeste” (San Bruno di Segni). Tutta la storia di Israele si fissa in quell’istante, e la nostra in questo giorno, e trova senso e compimento, e benedizione stupita. Ecco la sua voce, quelle parole che chi ce le ha mai dette così?, e l’invito ad alzarci e ad andare con Lui, perché l’inverno della morte e del peccato è passato, è già ora incipiente la primavera della Pasqua, della vita rinata per non morire più. E’ Lui che aspettavamo, da sempre, il “più bello tra i figli di Adamo”.
E’ Lui il Profeta che oggi spalanca le sue braccia e dilata il suo cuore per sposarci, per attirarci nel suo amore infinito, per dare luce e splendore, sapore e allegria alle nostre esistenze, crocifisse e dolenti che siano. Gesù è il Profeta che illumina “il solito” della nostra vita, la Nazaret dove abitiamo, con la luce del Vangelo, che è la sua stessa presenza nella nostra quotidianità: “L’elemento essenziale del profeta non è quello di predire i futuri avvenimenti; il profeta è colui che dice la verità perché è in contatto con Dio e cioè si tratta della verità valida per oggi che naturalmente illumina anche il futuro” (Joseph Ratzinger). In quel sabato nella sinagoga di Nazaret, era esplosa una bomba: Gesù, il figlio di Giuseppe il carpentiere, l’aveva lanciata nel mezzo dell’assemblea di cui aveva fatto parte tante volte; quel ragazzo che tutti conoscevano aveva appena annunciato che la profezia ascoltata si era compiuta proprio in Lui, proprio in quell’oggi. E che reazione all’ascolto di una cosa simile! E che mistero l’operare di Dio, lasciare trent’anni il suo Figlio inviato per salvare l’umanità nel semplice e umile nascondimento di Nazaret, a vivere una vita normalissima, mescolata a quella dei suoi compatrioti.
I Vangeli registrano un solo segno all’alba della dell’incarnazione, anch’esso segreto e serbato nel cuore della Vergine Maria. E sospetti, giudizi e dolore per quella giovane Madre. Poi più nulla, giorni uguali a quelli di ogni altro abitante di Nazaret, sino a quel sabato quando dalla bocca di Gesù è esplosa la bomba di una notizia sconvolgente. Dio, infatti, ha voluto avvolgere di mistero l’identità del Figlio per svelare il mistero del cuore dell’uomo. La carne ed il sangue, da soli, non possono vedere Dio e non morire: “Troppo grande è la forza di verità e di luce! Se l’uomo tocca questa corrente assoluta, non sopravvive” (Benedetto XVI, Catechesi del 5 maggio 2010). Per vedere Dio e sopravvivere occorre un cuore puro. Da esso, come da una fonte intima, deve scaturire un’acqua pura capace di irrigare i sensi, la ragione e gli affetti per riconoscere le sembianze di Dio nelle persone e negli eventi. Per i concittadini di Gesù si trattava dunque di una questione di cuore, qualcosa che muove la ragione e la sospinge verso un abbraccio che accolga, riconosca, ami davvero. Avevano vissuto con Gesù, ma in fondo per loro era rimasto indifferente; anni passati a contatto con Lui ma non lo avevano amato, e per questo non avevano potuto cogliere il suo mistero, che anzi li aveva scandalizzati generando in loro ira e violenza. Gesù, nel suo mistero, si rivela profeta e profezia, ed è rifiutato. I “figli dello stesso padre” – la parola patria, in greco come in latino e in italiano deriva da padre – non lo possono afferrare e possedere attraverso la carne e il pensiero, perché Egli passa e sfugge ad ogni dominio; l’occhio del loro cuore è impuro, paralizzato sulla soglia del mistero. Accoglierlo significherebbe riconoscere la propria debolezza, il bisogno di purificazione e perdono, umiliarsi e inchinarsi di fronte a qualcosa di più grande, sconosciuto, che nel rivelarsi illumina e sazia. Riconoscerlo nel suo mistero significherebbe riconoscersi peccatori.
Non è dunque la familiarità sociale o di sangue che determina la conoscenza. La vedova di Zarepta e Naaman il Siro erano pagani, eppure hanno visto Dio, perché l’indigenza e il bisogno ne avevano purificato il cuore. Può vedere Dio solo l’occhio purificato dal crogiuolo della sofferenza. La vera Patria di Gesù non è la Nazaret geografica e i “suoi” non sono quelli che vi sono nati: la Patria di Gesù è la Croce e i suoi compatrioti sono i peccatori. Per loro si è fatto peccato, con loro ha condiviso il destino di morte per trasformarlo in destino di perdono e di vita. E’ questo il mistero celato in Gesù di Nazaret, il Messia sofferente, il Servo di Yahwè umiliato, disprezzato, rifiuto degli uomini, l’agnello che si è caricato di ogni iniquità. Anche noi all’apparire del mistero che avvolge chi ci è vicino, temiamo e ci difendiamo chiudendoci a riccio, rifiutando ciò che sfugge ai nostri criteri collaudati. Amare il mistero celato nell’altro infatti è la condizione perché egli entri a far parte di noi stessi, ci stupisca e coinvolga nel prodigio di cui è profezia. L’amore per il mistero è la condizione per la castità, dei sentimenti come della carne, porta dischiusa alla purezza del cuore capace di vedere trasfigurata la realtà. Si può vivere anni accanto ad una persona, alla moglie, al marito, ai figli, e non aver amato neanche per un giorno il mistero che li avvolge. Siamo indisponibili ad accogliere quanto potrebbe sconvolgere le nostre esistenze, preferiamo presidiare il poco che abbiamo tra le mani, esaltandolo a criterio e verità assoluti. Ci illudiamo di conoscere, mentre ci sforziamo di possedere nella speranza di non perdere quanto vorremmo che ci saziasse.
E così ci ritroviamo a spingere l’altro sul “ciglio del monte per buttarlo nel precipizio”, nell’estremo tentativo di far tacere quel mistero che bussa, tenace, alla porta del nostro cuore. L’esito di ogni possesso infatti, è l’omicidio dell’altro: moglie, marito, chiunque interpelli il nostro cuore, ci svela indigenti e inadeguati, peccatori. Il mistero racchiuso nel prossimo è una chiamata all’amore, e ne siamo sprovvisti. Abbiamo bisogno di un cuore contrito e umiliato, un cuore puro capace di vedere Dio nell’amore incarnato in suo Figlio. Paradossalmente, un cuore puro è un cuore che riconosce d’essere malato, sentina di vizi e fonte di peccato. E lì, nella realtà, riconoscere in Gesù il fratello, il compatriota che ha condiviso la nostra patria di morte. Per il nostro cuore “vedovo e lebbroso” è preparato quest’oggi nel quale Gesù ci annuncia di nuovo la Buona Notizia, la profezia che viene a compiere il Profeta nella sua Patria. E’ uno scandalo che si rinnova ogni giorno, quello del Cielo chiuso sui religiosi, sui bravi e a posto, forse sui preti e le suore, ma aperto sui pagani, sui lontani, sui peccatori. Abbiamo occhi per vedere che la fede sta muovendo nostro figlio, nostra moglie, quella persona che abbiamo da sempre disprezzato? Abbiamo lo sguardo limpido per riconoscere l’opera di Dio che risuscita e perdona chi abbiamo giudicato e considerato ormai irrecuperabile? Gesù “passa” tra le nostre invidie e le nostre gelosie, sul ciglio del monte dove lo abbiamo spinto per ucciderlo. Gesù “fa Pasqua” e inaugura un cammino in mezzo ai pregiudizi della carne, quelli che infestano le nostre famiglie, i nostri luoghi di lavoro, studio e svago. E ci indica un “più in là” dove seguirlo, oltre Nazaret, al di là di quello che la carne non può accettare perché malata e terrorizzata dalla morte. Gesù “passa” e ci indica il Cielo.
In ogni persona che si affaccia all’uscio del nostro cuore e bussa alla nostra carne dolente, è nascosto il mistero di Cristo mendicante i nostri peccati; Egli desidera l’unico linguaggio d’amore di cui siamo capaci, quello di chi, vedovo e impuro, può solo inginocchiarsi e consegnargli la propria infermità, per ricevere la sua misericordia rigenerante. Gesù mendica e dona nello stesso momento. Vedere il Messia, il Salvatore, l’amore di Dio nell’altro significa dunque incamminarsi con Lui sul sentiero della Croce, sulla quale consegnargli i nostri peccati, scoprendo in essa la Patria d’amore dove, amati, impariamo ad amare: ah, mio marito è la Patria, l’anticipo di Cielo, il Regno dove “passare” con Cristo al di là della carne, della concupiscenza e dell’egoismo? Sì, il marito, la moglie, il figlio e il collega, Nazaret e molto più di Nazaret: in loro si inaugura l’anno eterno di misericordia, il “condono tombale” di ogni debito, la creazione nuova dove vivere in libertà e amore. “Il vedere si realizza nella sequela, che significa vivere nel luogo dove Gesù dimora. Questo luogo è la sua passione, qui soltanto è presente la sua gloria. Che cos’è accaduto? L’idea del “vedere” ha assunto una dinamica insospettata. Si vede prendendo parte alla passione di Gesù. Acquista così tutto il suo alto significato la profezia: “Guarderanno a colui che hanno trafitto”. Vedere Gesù, vedendo in lui allo stesso tempo il Padre, è un atto dell’intera esistenza” (Joseph Ratzinger). Lo abbiamo trafitto, anche oggi; ma ci è data la possibilità di vedere nelle sue ferite la Vita che Egli ci ha offerto ancor prima che gliela strappassimo; oggi possiamo guardare lo Sposo che viene nella sua Patria e accoglierlo perché la trasformi in un giardino di delizie, colmo di frutti maturi, l’amore che vince morte e peccato.
APPROFONDIMENTI
da Baltazzar | Ago 31, 2013 | Chiesa, Liturgia, Post-it
Commento al Vangelo della XXII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C
di don Antonello Iapicca
Presentandoci la vita come il funerale dei desideri, il demonio vuole indurci a non accogliere l’«invito a nozze» che il Signore ci consegna attraverso i fatti e le persone. Ogni giorno, infatti, rifiutiamo qualcosa della volontà del Padre, spinti a tentare di «occupare il suo posto» per saziare in libertà le concupiscenze. Sperperiamo la sua eredità per «esaltarci» ai «primi posti» del prestigio e dell’onore, dove ci illudiamo si possa realizzare la nostra esistenza. Umiliamo e strumentalizziamo gli altri, mentiamo esibendo curriculum artefatti, sino a che il pallone gonfiato dagli inganni non ci scoppia tra le mani.
Precipitiamo allora all’«ultimo posto», accanto ai porci come il figlio prodigo, dove ci scopriamo «nudi» come i progenitori e, avvolti nella stessa «vergogna», ci nascondiamo dagli altri, affamati e soli. È quando il Signore, certo «più ragguardevole di noi», appare attraverso i fatti che ci umiliano, e il Padre ci dice di «lasciare a Lui il primo posto» nella nostra vita, come in quella della moglie, del marito, dei figli, del fidanzato o degli amici. Grazie all’amore di Dio che, geloso della sua creatura, attraverso la Croce ci umilia seriamente, la superba scalata alla menzogna del primo posto ci precipita sempre nella verità dell’ultimo.
Ma proprio in quel porcile immondo, seduti al «nostro posto», quello che ci spetta quale giusta conseguenza delle nostre scelte, ci raggiunge, gratuito e del tutto inaspettato, l’amore di Dio. Egli, infatti, vede in noi il suo Figlio disceso nel sepolcro, sino al «posto» dell’«ultimo» dei peccatori. E qui, con Gesù, il Padre abbraccia anche noi, ci risolleva e ci sussurra le parole più dolci: «amico mio vieni più avanti», ecco per te l’«onore» che ho dato a mio Figlio risuscitandolo dalla morte.
Il Signore ci chiama dunque a riconoscerci peccatori, ad accettare «umilmente» la nostra debolezza e a «metterci all’inferno e non disperare» (Silvano del Monte Athos) in attesa che ci «innalzi» nel suo perdono. A vivere ogni relazione nella verità che ci fa liberi davvero, senza stupirci di non essere considerati, «diminuendo» agli occhi degli altri perché il Signore «cresca» in noi e in loro, divenendo così il centro dove incontrarci e amarci.
Per questo la Chiesa ogni giorno è messa all’ultimo posto «davanti a tutti»; è solo lì che può annunciare l’«onore» di Cristo risorto preparato per ogni figlio scappato di casa. Altro che onori, legittimazioni, accoglienze nei parterre culturali. La Chiesa, cioè ciascuno di noi, esiste per occupare l’ultimo posto, quello che nessuno vuole. Mamma mia, a scuola ogni giorno come l’ultimo degli studenti? A casa sempre un passo dietro a mio marito? Al lavoro seduto a raccogliere il mobbing ingiusto, a sbrigare le pratiche che nessuno vuole guardare? Io, il parroco, in ginocchio davanti a ogni pecora affidata, lasciando che le nevrosi, le invidie e le gelosie si infrangano su di me?
Sì, perché questo è il posto che Dio ha riservato ai suoi apostoli, quello scelto da suo Figlio per salvare ciascuno di noi. Con Lui siamo chiamati ad essere gli ultimi per lavare i piedi di tutti; come scrive San Paolo, “spettacolo e spazzatura per il mondo”. Perché solo all’ultimo posto il Vangelo è autentico e credibile.
Così accadde a San Francesco Saverio, apostolo indomito dell’Asia. Un giorno si trovava a Yamaguchi, in Giappone, annunciando il Vangelo; in giapponese sapeva solo il Credo, e questo ripeteva, con un sorriso disarmante. Alcuni ragazzini, vedendolo vestito così stranamente e con una faccia così ridicola, e udendolo balbettare in un giapponese improbabile parole astruse, presero a insultarlo, a sputargli e a tirargli pietre. E Francesco impassibile continuava “seduto all’ultimo posto”, il sorriso sul viso e il Credo sulle labbra. Passava di lì un samurai, osserva la scena e si ferma impietrito. Poi, stordito, si avvicina a Francesco. Attraverso il suo compagno e interprete gli dice: “Che cos’hai tu più di me? Io sono il primo in questa città, e l’onore è la cosa più importante per la mia vita. Tu qui sei l’ultimo, eppure devi avere una cosa più grande e importante dell’onore, per essere così libero da lasciare che te lo tolgano. Voglio quello che tu hai”. Fu il primo samurai convertito al cristianesimo. L’ultimo posto lo aveva attirato a cercare il tesoro meraviglioso che vi si nasconde.
Forse per noi continua ad essere diverso… Nella nostra vita sperimentiamo che ogni relazione, precaria nella friabilità degli affetti e instabile sotto la dittatura degli umori, nasce ferita da un’assenza. Nessuno può dare l’amore che il cuore dell’altro desidera. E invece ci ostiniamo a chiedere al prossimo di saziare i nostri vuoti. Quando «invitiamo amici, fratelli e parenti» ad entrare in comunione con noi ai nostri «banchetti», e sembriamo aprirci alle loro necessità, in realtà «offriamo» sofisticati menù a base di compromessi e ipocrisia; pensieri, parole e gesti come lacci tesi perché ci «invitino a loro volta» nell’intimità.
Come incantatori di serpenti cerchiamo di ipnotizzare e legare a noi il coniuge, i figli, gli amici. La nostra identità dipende dall’esile filo che ci lega al «contraccambio» degli sforzi profusi per contare qualcosa nel cuore degli altri. Non possiamo vivere senza la loro attenzione, l’indifferenza ci polverizza. Così, ad esempio, diluiamo i «no» che dovremmo dire ai figli e gli permettiamo vestiti e orari inaccettabili, discoteche sature di droga e sesso, vacanze promiscue, gadget costosissimi: li tempestiamo di «inviti» al dialogo per non perdere l’affetto e non dover sopportare ribellione e rifiuto. Allo stesso modo con il coniuge, il fidanzato e gli amici: non amiamo perché non ci interessa il bene dell’altro. Non siamo “inquieti” per loro, come dice Papa Francesco. Al contrario, siamo sterili perché in tutto cerchiamo i primi posti” dove saziare noi stessi.
Ma la verità è che siamo tutti «poveri, storpi, zoppi e ciechi». Abbiamo bisogno di gustare le primizie della «ricompensa» celeste, la vita e l’amore più forti della morte capaci di liberarci dalla paura e dall’esigenza. Il compimento di ogni vita è in Cielo, inutile e dannoso sperare di cambiare i rapporti per perfezionarli qui sulla terra, mentre proprio la precarietà che è un’eco del peccato e del disordine da esso provocato, ci impedisce di appropriarcene aprendoci alla beatitudine. Dietro ad essa vi è l’amore di Dio, non il suo castigo.
Attraverso di essa ci chiama a guardarlo e a cercare le cose di lassù in ogni cosa di quaggiù. Lavorare, studiare, cucinare, lavare e stendere, fare qualunque cosa aspettando o esigendo una ricompensa è stolto e frustrante, perché ci schiaccia sulla carne e ci impedisce di sperare il Cielo. «Beato», invece, è colui che «invita» il prossimo accogliendolo proprio quando non ha nulla per «contraccambiare»: è allora che il Signore si fa presente provvedendo con più generosità, facendoci così gustare le primizie della Vita Beata.
Siamo chiamati ad “invitare” la moglie quando è più povera e più debole; a perdonarla e a donarci a lei quando la carne la rifiuterebbe perché non vi trova nessuna soddisfazione. Questo è il Cielo sulla terra! Questo amore è il segno che esiste la vita eterna, infinitamente più grande, libera e felice di quella della carne. Ogni rapporto è un cantiere aperto al dono di Dio; l’unico modo per vivere in pienezza il matrimonio, la famiglia, l’amicizia e il fidanzamento è accogliere insieme l’«invito» del Signore alla sua mensa della Parola e dei Sacramenti; e qui lasciarsi sfamare ogni istante dai frutti fecondi della sua «risurrezione».
da Baltazzar | Ago 29, 2013 | Chiesa, Liturgia
Dal Vangelo secondo Marco 6, 17-29Erode infatti aveva fatto arrestare Giovanni e lo aveva messo in prigione a causa di Erodìade, moglie di suo fratello Filippo, che egli aveva sposata. Giovanni diceva a Erode: «Non ti è lecito tenere la moglie di tuo fratello».
Per questo Erodìade gli portava rancore e avrebbe voluto farlo uccidere, ma non poteva, perché Erode temeva Giovanni, sapendolo giusto e santo, e vigilava su di lui; e anche se nell’ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri.
Venne però il giorno propizio, quando Erode per il suo compleanno fece un banchetto per i grandi della sua corte, gli ufficiali e i notabili della Galilea. Entrata la figlia della stessa Erodìade, danzò e piacque a Erode e ai commensali. Allora il re disse alla ragazza: «Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò». E le fece questo giuramento: «Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, fosse anche la metà del mio regno». La ragazza uscì e disse alla madre: «Che cosa devo chiedere?». Quella rispose: «La testa di Giovanni il Battista». Ed entrata di corsa dal re fece la richiesta dicendo: «Voglio che tu mi dia subito su un vassoio la testa di Giovanni il Battista». Il re ne fu rattristato; tuttavia, a motivo del giuramento e dei commensali, non volle opporle un rifiuto.
E subito il re mandò una guardia con l’ordine che gli fosse portata la testa [di Giovanni]. La guardia andò, lo decapitò in prigione e portò la testa su un vassoio, la diede alla ragazza e la ragazza la diede a sua madre.
I discepoli di Giovanni, saputa la cosa, vennero, ne presero il cadavere e lo posero in un sepolcro.
Il commento di don Antonello IapiccaSì, si può perdere la testa per Gesù. La verità, quella che ci fa liberi, quella che non è barattabile, la nemica dei falsi compromessi volti a salvare la pelle, fa perdere la testa. Ci sono sempre tagliatori di teste in cerca di poveri profeti disarmati che annunciano senza posa la verità. E la verità, normalmente è scomoda. Ne sappiamo qualcosa anche noi, quando qualcuno osa rimproverarci, evidenziarci un errore, un peccato. Per la Bibbia correggere un saggio è renderlo ancora più saggio. Correggere uno stolto invece, significa attirarne le ire. Facciamo due conti e vediamo da che parte stiamo. Probabilmente da quella dei tagliatori di teste, degli stolti, come Nabal, letteralmente, «colui al quale non si può dire nulla». Uno stolto, uno che per tacitare la verità e potersi rimirare tranquillo allo specchio, non esita a ghigliottinare il profeta.
La verità ci fa liberi, smaschera il serpente antico e le sue menzogne che ci tengono schiavi, e apre la strada al liberatore, il Signore Gesù, la Verità incarnata per la nostra salvezza. “Non ti è lecito” gridava Giovanni Battista, e non per un rigido legalismo, ma perché sei creato per essere libero, felice, e non ti è lecito andare contro natura, il peccato non si addice all’uomo, genera la morte, sempre. Le parole di Giovanni illuminano Erode, sono dirette al fondo del suo cuore, laddove è deposto il seme della verità, del bene, della giustizia. Sono parole capaci di riportare alla luce quel frammento di umanità che, seppure sepolto da una montagna di menzogne, alberga nel cuore di ogni uomo.
Erode si era infilato in una strada senza ritorno, condannandosi ad una vita sterile, chiusa nell’egoismo. Una vita infelice: “Se uno prende la moglie del fratello è una impurità, egli ha scoperto la nudità del fratello; non avranno figli” (cfr. Lv. 18,16 e 20,21). La concupiscenza lo aveva accecato per trasformarlo in oggetto della maledizione più grande, quella di non avere figli; non vi era cosa più disonorante che scendere nella tomba senza una discendenza, perché era il segno di una vita senza frutto, scivolata via senza amore, senza consistenza, una vita in fumo. Quante volte ci ritroviamo, come Erode, preda di passioni ed entusiasmi che spengono lo sguardo in una fobia illusoria e annichiliscono ogni discernimento. I romanzi e i film e i tentacoli dei media e della cultura ci hanno lavato il cervello sino a farci credere che quando si muove qualcosa nel petto e ti prendono i crampi allo stomaco, allora è l’amore che bussa alla porta.
I ragazzi vivono nell’illusione della grande passione, confusa con il grande amore. Non aspettano altro che il momento per lasciarsi andare. E allora ogni piccolo terremoto ormonale, comune del resto anche agli animali, è subito accolto con fasti e onori, come la visita di un imperatore. E si alimenta la passione come quando si monta la panna: la “quantità” è la stessa ma a forza di sbatterla aumenta di volume, e sembra crescere anche di peso. Così anche la passione è alimentata e fatta crescere a dismisura con messaggini e chat, e il telefono caldo 24 ore al giorno ogni giorno; la mente è rapita in un sogno che sembra realissimo, si accettano compromessi pur di non guardare in faccia la realtà e prendere le cose con calma; non si può accettare, infatti, che l’amore autentico abbia bisogno della testa e della ragione per imbrigliare la passione e consegnarla al sacrificio che la purifica e la trasforma in dono.
I nostri figli non hanno compreso – anche e soprattutto perché nessuno glielo ha spiegato – che perdere la vita non fa perdere la testa, mentre perdere la testa non fa perdere la vita. Ovvero, amare davvero sino a donarsi e perdere la vita non fa mai diventare irragionevoli e perdere la testa. Chi ama in Cristo e la sua ragione è illuminata dalla fede, è sempre lucido, anche quando “cede” alla follia di perdonare l’imperdonabile e caricarsi dei peccati altrui. La misericordia, infatti, non sarà mai frutto della passione. Al contrario, perdere la luce della ragione e del discernimento nello stordimento della passione e della concupiscenza, impedisce il donarsi senza riserve, perché la carne esige sempre il contraccambio. Senza una Grazia speciale essa è incapace di consegnarsi gratuitamente all’altro, nel rispetto, nel sacrificio e nella pazienza. Ai nostri figli – come a noi del resto – non basta “temere” Giovanni Battista, ovvero ascoltare la Parola di Dio, essere nella Chiesa, neanche pregare.
E’ fondamentale che abbiano, nei momenti importanti, qualcuno che, come Giovanni Battista, vinto da quella che Papa Francesco chiama “l’inquietudine per la salvezza del fratello”, è disposto a giocarsi la testa per loro: “L’inquietudine dell’amore spinge sempre ad andare incontro all’altro, senza aspettare che sia l’altro a manifestare il suo bisogno” (Papa Francesco, Omelia del 28 agosto 2013). I figli hanno bisogno di padri che li amano così tanto e così gratuitamente da essere liberi per dire loro la verità: “non ti è lecito!”, e non per nevrosi ma per amore. Padri e madri consapevoli che dicendo questo verranno forse decapitati dai propri figli… E non solo. Le mogli hanno bisogno di mariti come Giovanni Battista, liberi sino in fondo, che le tirino fuori da nevrosi e pensieri tristi e figli della menzogna, che generano complessi e paure; così come i mariti necessitano di mogli forti e sante che annuncino loro la verità, facendoli scendere dalla nuvola nella quale si nascondono, tra deliri di onnipotenza e infantilismi cronici, sindrome del quarantenne e ansie da prestazioni; anche una ragazza ha bisogno di un fidanzato che le parli con fede nella verità, rispettandola e custodendola per l’uomo che Dio ha pensato per lei, forse lui ma non si sa; così come un ragazzo non può restare legato a una fidanzata che, per paura, taccia la verità e, per non perderlo, lo lasci scatenare nelle pulsioni più basse. Una parrocchia e una comunità hanno bisogno di un pastore che ami “sino alla fine” le sue pecore, sino a perdere la testa e la vita per loro, perché nessuna resti nell’inganno del demonio, ma conosca la Verità e la verità le faccia libere per amare ed entrare nella Vita eterna. E così tra di fratelli di ogni comunità nella Chiesa, la verità innanzitutto, con dolcezza e carità. Così tra amici, senza spremute affettive che avvelenano. Tutti abbiamo bisogno di “martiri” che ci testimonino la Verità.
Certo, per poter essere liberi e non temere di dire “non ti è lecito” è necessario, come Giovanni Battista, vivere nel deserto, ovvero aver tagliato con il mondo e i suoi criteri. Aver rinunciato al “potere” di Erode che si nutre della morte dell’altro; ogni potere, infatti, a casa, in ufficio e a scuola, sino ai palazzi de re e dei governanti, non può affermarsi se non uccidendo l’altro, per sentirsi vivo, per saziare la concupiscenza sempre più esigente, per non lasciar spazio ai nemici… Per essere liberi occorre dunque lottare con Cristo nel deserto delle tentazioni, essere “martiri” con Lui, e sperimentare che l’uomo non vive di solo pane ma di ogni parola che esce dalla bocca del Padre; aver visto la propria debolezza amata da Dio, senza esigenze e moralismi; soprattutto, avere l’esperienza che quando Dio ha detto “non ti è lecito” non è stato per limitare, frustrare e togliere la la libertà come insinuato dal serpente ai progenitori, ma per amore; “non ti è lecito” è la verità che apre alla libertà, il cammino all’umiltà dei figli di un Padre buono che dà loro solo cose buone. “Non ti è lecito” buttare la tua vita perché “è lecito”, sano e santo solo spenderla nell’amore.
Ai giovani e ai meno giovani accade come a Davide che, alla vista della bellezza di Betsabea, chiude in prigione ragione e fede, si lascia trascinare dai vortici della passione, e macchina piani e menzogne per dar corpo agli sconvolgimenti dell’istinto ormai senza freno. Morirà Uria, ucciso dalla malizia di Davide. E morirà il bambino nato dalla passione, perché ogni pensiero e ogni azione che non siano ispirate da Dio attraverso la ragione illuminata dalla fede sono senza frutto. Erode «ascoltava perplesso», vigilava, temeva. Ma non era sufficiente. Aveva ormai consegnato il cuore a Erodiade. Al contrario di Davide, peccatore, fragile, ma, inspiegabilmente per chi legge le cose solo carnalmente, proprio lui è il campione dell’uomo secondo il cuore di Dio. Il punto è tutto qui. Un cuore radicato in Dio, anche se cade, è capace di contrizione e di umiltà. Anche se la mareggiata della passione ne ha sconvolto gli equilibri, può tornare ad aggrapparsi all’àncora che non ha smesso di legarlo misteriosamente a sé. Erode invece ha scelto il peccato, lo ha scelto nel fondo del suo intimo, laddove l’uomo è completamente libero e si giocano le sue sorti; Erode ha reciso la fune che lo legava all’àncora e la tempesta ha rotto, inesorabilmente, gli ormeggi. Lo si comprende al «momento propizio», che può essere quello in cui il Signore scuote la coscienza intorpidita, ma anche quello in cui il demonio sferra l’attacco decisivo.
Per Davide il «kairos» è giunto con il profeta Natan, le cui parole dissolvono la menzogna e lo conducono al pentimento: «ho peccato» risponde, senza accampare scuse; così, nel riconoscersi peccatore, Davide accetterà, umilmente, le sofferenze che ne conseguono. Erode non può. Il rancore di Erodiade, alla quale aveva consegnato l’anima, lo trascina nell’abisso, perché l’accendersi di una passione spalanca sempre il passo a peccati più gravi. Erode ha soffocato la ragione nella carne, e quando la sua carne si adagia in un «banchetto» che ne sazia le voglie, seduto sulla propria anima, si ritrova sordo e cieco, perde la memoria delle parole del profeta, e promette e consegna la sua vita ad un’immagine effimera, il corpo seducente di una ragazza, che appare ai suoi occhi come l’albero dell’Eden, «buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza». Ed è morte, della Verità prima, della sua anima poi.
Il Vangelo di oggi ci chiama a conversione, a guardare senza sconti la nostra vita, a lasciarci illuminare sui compromessi, sulle situazioni pericolose nelle quali ci troviamo, proprio dove non abbiamo forza e volontà per tagliare, voltare pagina e abbandonarci alla fedeltà di Dio. Quell’amicizia che ci insinua calunnie sugli altri, quell’affetto troppo corposo, che ha già messo il laccio al cuore e ci ha deposto sul piano inclinato che conduce al tradimento; quel rancore che arde, sordo, sotto la cenere del tempo che vorremmo capace di essiccare il peccato; quell’adulazione che risuona nelle nostre orecchie e ci pianta al centro di un universo che ci appare ogni giorno più ostile a tutto quanto facciamo e pensiamo. Per questo l’episodio di Erode ci invita a chiedere a Dio la grazia del cuore di Davide, pronto al pentimento, a rientrare in se stesso come il figliol prodigo, ad ascoltare la voce dei profeti che, con amore e fermezza, ci chiamano a conversione: ispirati da Dio, i pastori, i catechisti, i fratelli, i genitori, il coniuge, illuminano quanto, nella nostra vita, «non è lecito» ed è destinato a restare senza figli, svelando la parte di noi che, infeconda, appartiene alla terra ed è incapace di ereditare il Cielo.
La correzione, certo, quando arriva fa male, perché graffia l’orgoglio che ci vorrebbe impenitenti, ma poi reca il bene immenso della libertà. Lasciamo allora che l’annuncio del Vangelo ci raggiunga e sconvolga le nostre precarie certezze, accogliamo la correzione e la Verità, permettiamo al Signore di amarci come solo Lui sa, sino ad innamorarci perdutamente di Lui; solo radicati in Lui e partecipando della sua obbedienza alla Parola del Padre di fronte alle seduzioni del demonio, che presentano sempre il potere e il possesso come la fonte della felicità, potremo divenire i testimoni della Verità di cui il mondo ha bisogno. Liberi come Giovanni, senza paura e lontani dai compromessi, dalle ipocrisie e dai ricatti, sino a
perdere la testa, cioè oltrepassando “il lecito” della ragione strozzata dalla ricerca del proprio tornaconto; così siamo chiamati a mostrare al mondo che
non è lecito chiudersi in ciò che è lecito per assecondare la carne, mentre è lecito perché secondo Dio e per il bene dell’uomo, abbandonare schemi e criteri che appesantiscono mente e cuore nell’egoismo, per uscire da se stessi e donarsi, per amore di chi ci è accanto, per Lui che ha perduto tutto per noi.
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da Baltazzar | Ago 27, 2013 | Chiesa, Liturgia
Dal Vangelo secondo Matteo 23,23-26.
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell’anèto e del cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste cose bisognava praticare, senza omettere quelle.
Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto mentre all’interno sono pieni di rapina e d’intemperanza.
Fariseo cieco, pulisci prima l’interno del bicchiere, perché anche l’esterno diventi netto!
Il commento di don Antonello Iapicca
Dio non si è fatto carne e sangue per mettere delle toppe alla vita delle persone. Gesù non è salito sulla Croce per aggiustare qualcosa che non andava. Gesù è morto ed è risorto per fare nuove tutte le cose, perché l’uomo aveva il cuore marcio. Gli scribi e i farisei sono immagine di quanti non credono e non accettano che l’uomo abbia bisogno di essere rinnovato dall’ “interno”, “pieno di rapina e di intemperanza”. Essi credono che l’uomo possa, con le sue forze, vivere una vita purificata; che buone regole capaci di ordinare ogni aspetto della vita garantiscano pace e sicurezza. Sono i pelagiani di ogni epoca, orgogliosi e superbi, così subdoli da camuffarsi con abiti eleganti, religiosamente e politicamente corretti. Pagano le tasse, sino all’ultimo centesimo, e ne sono orgogliosi. Non hanno macchie sul vestito e non alzano la voce; dialogano con tutti accogliendo con tollerante democrazia i diritti delle minoranze mentre non tollerano discriminazioni e fondamentalismi. Non fumano, non bevono e non parcheggiano in seconda fila. Niente americanate di film e ancor meno sceneggiati televisivi; solo cinema d’essai, avanguardie letterarie, e biennali da divorare con gli occhi. Il calcio mai e poi mai, piuttosto jogging e yoga, e, visto che ci siamo, un po’ di meditazione zen. Fanno ginnastica e tendono a mangiare vegetariano, probabilmente vegano. Non tollerano bevande gasate, merendine e porcherie simili. Odiano la macchina e amano la bicicletta. Comprano tutto rigorosamente biologico ed equo-solidale, meglio se “chilometro zero”.
Insomma, “filtrano il moscerino, pagano la decima della menta, dell’anèto e del cumìno”, e così sono certi di ripulire il mondo della sporcizia che macchia e infesta la vita, altrimenti retta e proba, della cosiddetta “società civile”. E qui dentro ci siamo tutti: in famiglia e al lavoro, a scuola e con gli amici, è tutto un fiorire di regole e codicilli da rispettare, criteri assoluti a cui inchinarsi, totem familiari e culturali da adorare senza se e senza ma. Tutto per scappare il più veloce possibile dalla verità. Tutto perché, come Adamo ed Eva, abbiamo creduto alla menzogna che, disobbedendo, saremmo divenuti come Dio, capaci di conoscere il bene e il male e di stabilirne caratteristiche e confini. E siamo precipitati nelle fauci del male, nudi e senza discernimento, con tanto odio e rancore verso il prossimo, al quale imputiamo continuamente la colpa di ogni sventura. Guardiamoci intorno, e vedremo che è proprio così. Nella società come in famiglia, a scuola come al lavoro, si pretende orgogliosamente di stabilire cosa sia buono e giusto, e dettare poi leggi di conseguenza. Ma sono solo frutto della carne ferita e del cuore malato, “pieno di rapina e indulgenza verso se stessi“, secondo il testo originale. Ci accaniamo a voler far rispettare le regole che inventiamo, pretendendo per esse valore assoluto. Ma da dove nascono? Come le abbiamo concepite? Vengono da Dio o dal nostro cuore ipocrita e falso? Nascondono la nostra fragilità e l’incapacità di amare o sono pensate nel seno della misericordia, per aiutare e accompagnare il prossimo a Cristo?
Qualsiasi legge che non sia intrisa di “giustizia, misericordia e fedeltà” è un frutto bacato prodotto da un cuore malato. Non si arriva a dare legittimità a un abominio come le nozze gay, se il cuore di chi ha pensato e legiferato non è profondamente ingannato e malato. Se, come Adamo ed Eva, non ha perduto il Paradiso, l’intimità con Dio piena di umile obbedienza. E’ solo in essa che mente e cuore sanno discernere il bene e il male; discernere e non decidere che cosa sia bene e cosa sia male. Lontani dal Cielo, fuori dal Regno di Dio, esiste solo un principe menzognero e assassino; ogni pensiero e gesto, ogni legge e ogni forma culturale, portano la ferita inconfondibile delle sue unghie. Tutto è avvelenato. E siccome l’uomo è impotente di fronte al male, si infila nell’ipocrisia del vestito pulito indossato su un corpo immondo. Siccome i conati malvagi sono irresistibili, allora, ipocritamente cioè falsamente e ideologicamente contro la verità e la natura delle cose – si legifera per dare legittimità all’ineluttabile: il divorzio, l’aborto, l’eutanasia e la liberalizzazione delle droghe nascono da qui, come anche le nozze tra omosessuali e l’adozione dei figli da parte delle coppie gay. Non sappiamo come debellare il male e allora, ingannati dal demonio, crediamo di esorcizzarlo legittimandone le conseguenze, nell’illusione di tenerlo sotto controllo.
Così si spiega il cortocircuito denunciato da Gesù: “filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!”. La società, con ciascuno di noi incluso, filtriamo con regole e codicilli l’insignificante per trangugiare il fondamentale: inaspriamo le leggi sul femminicidio e allarghiamo le maglie della legalizzazione dell’aborto. Ma sappiamo che il vero femminicidio è proprio quest’ultimo, che sfregia la donna nella sua natura più profonda, creata a immagine di Dio. E così succede a casa, quando ci impuntiamo su cose secondarie e lasciamo correre su quelle essenziali: non permettiamo a nostro figlio di bere Coca Cola e lasciamo che spalmi indiscriminatamente il suo tempo sui tasti e il video di uno smartphone. Siamo ipocriti perché non crediamo che il nostro cuore sia umanamente inguaribile, come quello di nostro marito, dei nostri figli, del vicino di casa, del capoufficio e del Presidente del Consiglio… Per questo diveniamo farisei e scribi ipocriti, giustizialisti e moralisti a senso unico, e mai quello che vada a “pulire l’interno”….
Siamo schiavi delle apparenze perché il contenuto ci dà la nausea!. Ci improfumiamo senza entrare nella doccia… Spalmiamo un po’ di pomata sulla ferita ma non andiamo dal medico capace di individuarne la causa e operare di conseguenza. Siamo lontani da Dio, abbiamo dimenticato il suo amore, l’unico capace di cambiare un cuore marcio in un cuore sano. Per questo Dio si è incarnato, per questo il Signore ha dato la sua vita, per questo esiste la Chiesa: per fare di tutti noi creature nuove, altro che manichini esposti in vetrina! Dio ci ama, e ama chi ci è accanto; non ci giudica, sa che il nostro cuore è falso, che “rubiamo” affetti e persone per saziare la nostra carne concupiscente; sa che siamo ipocriti, e non quello che appare all’esterno; Gesù ci ama e ci dice la verità, anche oggi.
Accogliamo allora la sua misericordia, per essere trasformati dal di dentro. Accogliamo Gesù oggi, che ci dona “giustizia, misericordia e fedeltà”, le caratteristiche del suo stesso cuore, quelle con cui ci ha amati senza condizioni. Accogliamolo oggi perché solo un cuore rinnovato e risuscitato, perdonato e sanato, saprà dare a tutto il suo giusto peso. Un cuore che ama è un cuore equilibrato, che non tralascia il particolare perché si fonda sull’essenziale. Chi vive in Cristo non “omette” nulla e “pratica” ogni parola della Legge, perché tutto nasce dal cuore dove è vivo Lui, senza legalismi, ma con amore e per amore.
da Baltazzar | Ago 25, 2013 | Chiesa, Liturgia, Post-it
Commento al Vangelo della XXI Domenica del T.O.
di don Antonello Iapicca da www.zenit.org
Una «porta stretta» ci separa dalla felicità: “la porta della fede che introduce alla vita di comunione con Dio e permette l’ingresso nella sua Chiesa è sempre aperta per noi. E’ possibile oltrepassare quella soglia quando la Parola di Dio viene annunciata e il cuore si lascia plasmare dalla grazia che trasforma” (Benedetto XVI). La “porta stretta” è quella della Chiesa. Ad essa hanno bussato generazioni di pagani che volevano vivere come i cristiani.
In questi avevano visto le primizie di una vita diversa. Sapevano che, dietro quella “porta”, vi era un Regno che non aveva eguali sulla terra. La luce che risplendeva in questo Popolonuovo offriva a tutti una nuova speranza di “salvezza”, diversa dalle religioni, dalle filosofie, dalla politica e dai divertimenti: “quando irruppe il cristianesimo, la sua superiore capacità di affrontare i problemi cronici dell’Impero Romano diventò presto evidente e giocò un grande ruolo nel suo definitivo trionfo”(Rodney Stark).
Crollavano certezze e, nella decadenza politico-morale dell’Impero Romano, la giovane Chiesa emergeva come una roccia indistruttibile. La testimonianza che spesso diveniva martirio spalancava il Cielo in una terra che odorava di morte. Se i cristiani potevano offrire gratuitamente la vita per un nemico, allora significava che la vita eterna da loro predicata era l’unica speranza attendibile. E poi lo si vedeva nei loro volti, in quegli sguardi capaci di cantare sereni davanti agli aguzzini e ai leoni che ne ghermivano la vita.
Per questo, nel “tale” che “chiede” a Gesù se “sono pochi quelli che si salvano”, possiamo riconoscere tutti gli uomini di ogni generazione che hanno cercato nei cristiani la risposta al senso della propria vita. E la Chiesa, con Gesù, non cessa di rispondere annunciando una “porta stretta”: gli apostoli predicano da sempre Cristo crocifisso, perché è la Croce la porta attraverso la quale il Signore è entrato nel Cielo, conquistando per tutti la “salvezza”. Al Signore e ai suoi discepoli non interessa la contabilità dei salvati. Egli ha dato la vita per tutti, e con il Padre, vuole che tutti siano salvati. Ma mai violentando la libertà.
Non vi è allora altro cammino che quello, angusto, della Croce, dove la libertà dell’uomo incontra quella di Dio. Su di essa il Padre offre la “salvezza” mentre l’uomo può liberamente accoglierla: “attraversare quella porta comporta immettersi in un cammino che dura tutta la vita. Esso inizia con il Battesimo e si conclude con il passaggio attraverso la morte alla vita eterna, frutto della risurrezione del Signore Gesù” (Benedetto XVI).
Nelle parole di Gesù vi è rappresentato proprio questo cammino: esso è sintetizzato dal suoinizio – quando si bussa per la prima volta alla porta stretta della Chiesa – e dalla sua fine – quando si bussa alla porta altrettanto stretta del Cielo. Il cammino tra queste due porte è riassunto nella “conoscenza”, che significa relazione intima d’amore. Attraverso il catecumenato la Chiesa gestiva nei catecumeni l’uomo rinnovato ad immagine di Cristo. Un cristiano, infatti, “viene da” Cristo, e con Lui “lotta per entrare” nella vita attraverso la porta stretta della Croce. Al termine di ogni giorno come alla sera della vita, sulla soglia del Regno sarà “conosciuto” da Colui del quale ha conservato l’immagine, pur in mezzo a mille battaglie e cadute.
Anticamente, all’interno della porta grande di una città ve ne era una di servizio, più piccola, che veniva chiusa per ultima. Era proprio la Croce, la porta che attendeva Gesù a «Gerusalemme», e ogni suo discepolo nella propria «città». Solo attraverso di essa possiamo entrare ogni giorno nel “Regno di Dio”, che si realizza nella “città” dove siamo chiamati a vivere: al banco di scuola o dietro la scrivania dell’ufficio, a pranzo e a cena con moglie e figli e, di notte, distesi sul talamo nuziale. Ovunque si schiude per noi il pertugio a forma di Croce attraverso il quale giungere al prossimo e “servirlo”.
Viviamo in un tempo di Grazia donatoci per convertirci, sino al giorno in cui la porta sarà «chiusa». Forse lambiamo la serietà della vita, non accettiamo che vi sia un giudizio e che vi siano momenti irripetibili per amare che si aprono e si chiudono: su di essi saremo giudicati. Dio, infatti, apre ogni giorno delle porte strette, con la forma della moglie o del marito; magari non ci piacciono e non le accettiamo, ma se le sfuggiamo perderemo l’intimità con Cristo, “allontanati” da Lui e dalla “salvezza”, la felicità che non si corrompe.
Forse, chiedendoci “quanti” si salvino, cerchiamo spiegazione allo scandalo dell’amore di Dio che fa sorgere il sole su buoni e cattivi e non estirpa il male; mentre questa domanda dovrebbe incendiare il cuore di zelo per la salvezza di tutti: la Chiesa non può restare indifferente anche a uno solo che si perda. Forse ci indigniamo anche noi, ed è un modo per eludere la questione fondamentale: non importa “quanti si salvino”, ma se io sarò tra di loro.
La storia ci dice che non siamo salvi affatto. Quante volte abbiamo «cercato» di «entrare» nella comunione e nella pace con i fratelli ma «non ci siamo riusciti»; la sapienza della carne ci ha abituato a passare per la porta larga della soddisfazione del proprio “io”; così, di fronte all’urgenza di donarci per salvare il matrimonio o per non perdere nostro figlio, non sappiamo da dove cominciare. Il peccato ci ha fatto sperimentare la morte e, come i progenitori «scacciati fuori» dalla casa del «Padrone», «non abbiamo forza» di «lottare» per amare.
Allora ci affrettiamo a «bussare», pregando e chiedendo consigli, ma è solo il tentativo di giustificarci con le nostre «opere». Certo Gesù ha «insegnato» nelle nostre chiese, è stato «presente» quando «abbiamo mangiato e bevuto» nelle liturgie; ma non saremo giudicati in base al numero di messe a cui abbiamo partecipato: dinanzi alla «porta stretta» della Croce, infatti, scopriamo di aver sepolto “iniquamente” nella superbia l’immagine di Gesù, nonostante i riti e gli impegni in parrocchia. Il Padre non può riconoscere chi non ama come il suo Figlio, anche se ha il suo nome sempre tra le labbra…
Ma è ancora giorno, e Gesù “passa” accanto a noi “insegnando” come convertirci, perché il «pianto e lo stridore di denti» che sperimentiamo oggi a causa dell’orgoglio, non ci accompagnino domani e per l’eternità. La salvezza è dischiusa dinanzi a noi oltre la «porta stretta» del sepolcro del Signore. La forza dirompente della sua risurrezione ha rotolato via la pietra che ci impauriva e ci attira verso di Lui.
Lasciamo che il Signore tagli via quanto in noi è troppo grande e ci impedisce di passare per la “porta stretta”; che, attraverso persone ed eventi, ci faccia scendere dai «primi» posti della superbia, all’«ultimo» dell’umiltà che ci salva. Il suo amore può “allontanare” da noi l’uomo vecchio “operatore di iniquità”, per farci entrare nel Regno di Dio e sederci a «mensa» in compagnia dei Patriarchi e dei “profeti”, sperimentando come loro la stessa fedeltà di Dio. Con noi giungeranno moltitudini “da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno”, da ogni estremo confine della terra dove l’annuncio del Vangelo li ha “salvati” come ha “salvato” noi.