Solo all’ultimo posto il Vangelo è autentico e credibile

Solo all’ultimo posto il Vangelo è autentico e credibile

Commento al Vangelo della XXII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

di don Antonello Iapicca

Presentandoci la vita come il funerale dei desideri, il demonio vuole indurci a non accogliere l’«invito a nozze» che il Signore ci consegna attraverso i fatti e le persone. Ogni giorno, infatti, rifiutiamo qualcosa della volontà del Padre, spinti a tentare di «occupare il suo posto» per saziare in libertà le concupiscenze. Sperperiamo la sua eredità per «esaltarci» ai «primi posti» del prestigio e dell’onore, dove ci illudiamo si possa realizzare la nostra esistenza. Umiliamo e strumentalizziamo gli altri, mentiamo esibendo curriculum artefatti, sino a che il pallone gonfiato dagli inganni non ci scoppia tra le mani.

Precipitiamo allora all’«ultimo posto», accanto ai porci come il figlio prodigo, dove ci scopriamo «nudi» come i progenitori e, avvolti nella stessa «vergogna», ci nascondiamo dagli altri, affamati e soli. È quando il Signore, certo «più ragguardevole di noi», appare attraverso i fatti che ci umiliano, e il Padre ci dice di «lasciare a Lui il primo posto» nella nostra vita, come in quella della moglie, del marito, dei figli, del fidanzato o degli amici. Grazie all’amore di Dio che, geloso della sua creatura, attraverso la Croce ci umilia seriamente, la superba scalata alla menzogna del primo posto ci precipita sempre nella verità dell’ultimo.

Ma proprio in quel porcile immondo, seduti al «nostro posto», quello che ci spetta quale giusta conseguenza delle nostre scelte, ci raggiunge, gratuito e del tutto inaspettato, l’amore di Dio. Egli, infatti, vede in noi il suo Figlio disceso nel sepolcro, sino al «posto» dell’«ultimo» dei peccatori. E qui, con Gesù, il Padre abbraccia anche noi, ci risolleva e ci sussurra le parole più dolci: «amico mio vieni più avanti», ecco per te l’«onore» che ho dato a mio Figlio risuscitandolo dalla morte.

Il Signore ci chiama dunque a riconoscerci peccatori, ad accettare «umilmente» la nostra debolezza e a «metterci all’inferno e non disperare» (Silvano del Monte Athos) in attesa che ci «innalzi» nel suo perdono. A vivere ogni relazione nella verità che ci fa liberi davvero, senza stupirci di non essere considerati, «diminuendo» agli occhi degli altri perché il Signore «cresca» in noi e in loro, divenendo così il centro dove incontrarci e amarci.

Per questo la Chiesa ogni giorno è messa all’ultimo posto «davanti a tutti»; è solo lì che può annunciare l’«onore» di Cristo risorto preparato per ogni figlio scappato di casa. Altro che onori, legittimazioni, accoglienze nei parterre culturali. La Chiesa, cioè ciascuno di noi, esiste per occupare l’ultimo posto, quello che nessuno vuole. Mamma mia, a scuola ogni giorno come l’ultimo degli studenti? A casa sempre un passo dietro a mio marito? Al lavoro seduto a raccogliere il mobbing ingiusto, a sbrigare le pratiche che nessuno vuole guardare? Io, il parroco, in ginocchio davanti a ogni pecora affidata, lasciando che le nevrosi, le invidie e le gelosie si infrangano su di me?

Sì, perché questo è il posto che Dio ha riservato ai suoi apostoli, quello scelto da suo Figlio per salvare ciascuno di noi. Con Lui siamo chiamati ad essere gli ultimi per lavare i piedi di tutti; come scrive San Paolo, “spettacolo e spazzatura per il mondo”. Perché solo all’ultimo posto il Vangelo è autentico e credibile.

Così accadde a San Francesco Saverio, apostolo indomito dell’Asia. Un giorno si trovava a Yamaguchi, in Giappone, annunciando il Vangelo; in giapponese sapeva solo il Credo, e questo ripeteva, con un sorriso disarmante. Alcuni ragazzini, vedendolo vestito così stranamente e con una faccia così ridicola, e udendolo balbettare in un giapponese improbabile parole astruse, presero a insultarlo, a sputargli e a tirargli pietre. E Francesco impassibile continuava “seduto all’ultimo posto”, il sorriso sul viso e il Credo sulle labbra. Passava di lì un samurai, osserva la scena e si ferma impietrito. Poi, stordito, si avvicina a Francesco. Attraverso il suo compagno e interprete gli dice: “Che cos’hai tu più di me? Io sono il primo in questa città, e l’onore è la cosa più importante per la mia vita. Tu qui sei l’ultimo, eppure devi avere una cosa più grande e importante dell’onore, per essere così libero da lasciare che te lo tolgano. Voglio quello che tu hai”. Fu il primo samurai convertito al cristianesimo. L’ultimo posto lo aveva attirato a cercare il tesoro meraviglioso che vi si nasconde.

Forse per noi continua ad essere diverso… Nella nostra vita sperimentiamo che ogni relazione, precaria nella friabilità degli affetti e instabile sotto la dittatura degli umori, nasce ferita da un’assenza. Nessuno può dare l’amore che il cuore dell’altro desidera. E invece ci ostiniamo a chiedere al prossimo di saziare i nostri vuoti. Quando «invitiamo amici, fratelli e parenti» ad entrare in comunione con noi ai nostri «banchetti», e sembriamo aprirci alle loro necessità, in realtà «offriamo» sofisticati menù a base di compromessi e ipocrisia; pensieri, parole e gesti come lacci tesi perché ci «invitino a loro volta» nell’intimità.

Come incantatori di serpenti cerchiamo di ipnotizzare e legare a noi il coniuge, i figli, gli amici. La nostra identità dipende dall’esile filo che ci lega al «contraccambio» degli sforzi profusi per contare qualcosa nel cuore degli altri. Non possiamo vivere senza la loro attenzione, l’indifferenza ci polverizza. Così, ad esempio, diluiamo i «no» che dovremmo dire ai figli e gli permettiamo vestiti e orari inaccettabili, discoteche sature di droga e sesso, vacanze promiscue, gadget costosissimi: li tempestiamo di «inviti» al dialogo per non perdere l’affetto e non dover sopportare ribellione e rifiuto. Allo stesso modo con il coniuge, il fidanzato e gli amici: non amiamo perché non ci interessa il bene dell’altro. Non siamo “inquieti” per loro, come dice Papa Francesco. Al contrario, siamo sterili perché in tutto cerchiamo i primi posti” dove saziare noi stessi.

Ma la verità è che siamo tutti «poveri, storpi, zoppi e ciechi». Abbiamo bisogno di gustare le primizie della «ricompensa» celeste, la vita e l’amore più forti della morte capaci di liberarci dalla paura e dall’esigenza. Il compimento di ogni vita è in Cielo, inutile e dannoso sperare di cambiare i rapporti per perfezionarli qui sulla terra, mentre proprio la precarietà che è un’eco del peccato e del disordine da esso provocato, ci impedisce di appropriarcene aprendoci alla beatitudine. Dietro ad essa vi è l’amore di Dio, non il suo castigo.

Attraverso di essa ci chiama a guardarlo e a cercare le cose di lassù in ogni cosa di quaggiù. Lavorare, studiare, cucinare, lavare e stendere, fare qualunque cosa aspettando o esigendo una ricompensa è stolto e frustrante, perché ci schiaccia sulla carne e ci impedisce di sperare il Cielo. «Beato», invece, è colui che «invita» il prossimo accogliendolo proprio quando non ha nulla per «contraccambiare»: è allora che il Signore si fa presente provvedendo con più generosità, facendoci così gustare le primizie della Vita Beata.

Siamo chiamati ad “invitare” la moglie quando è più povera e più debole; a perdonarla e a donarci a lei quando la carne la rifiuterebbe perché non vi trova nessuna soddisfazione. Questo è il Cielo sulla terra! Questo amore è il segno che esiste la vita eterna, infinitamente più grande, libera e felice di quella della carne. Ogni rapporto è un cantiere aperto al dono di Dio; l’unico modo per vivere in pienezza il matrimonio, la famiglia, l’amicizia e il fidanzamento è accogliere insieme l’«invito» del Signore alla sua mensa della Parola e dei Sacramenti; e qui lasciarsi sfamare ogni istante dai frutti fecondi della sua «risurrezione».

Solo all’ultimo posto il Vangelo è autentico e credibile

29 agosto. Martirio di San Giovanni Battista

Dal Vangelo secondo Marco 6, 17-29

Erode infatti aveva fatto arrestare Giovanni e lo aveva messo in prigione a causa di Erodìade, moglie di suo fratello Filippo, che egli aveva sposata. Giovanni diceva a Erode: «Non ti è lecito tenere la moglie di tuo fratello».
Per questo Erodìade gli portava rancore e avrebbe voluto farlo uccidere, ma non poteva, perché Erode temeva Giovanni, sapendolo giusto e santo, e vigilava su di lui; e anche se nell’ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri.
Venne però il giorno propizio, quando Erode per il suo compleanno fece un banchetto per i grandi della sua corte, gli ufficiali e i notabili della Galilea. Entrata la figlia della stessa Erodìade, danzò e piacque a Erode e ai commensali. Allora il re disse alla ragazza: «Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò». E le fece questo giuramento: «Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, fosse anche la metà del mio regno». La ragazza uscì e disse alla madre: «Che cosa devo chiedere?». Quella rispose: «La testa di Giovanni il Battista». Ed entrata di corsa dal re fece la richiesta dicendo: «Voglio che tu mi dia subito su un vassoio la testa di Giovanni il Battista». Il re ne fu rattristato; tuttavia, a motivo del giuramento e dei commensali, non volle opporle un rifiuto.
E subito il re mandò una guardia con l’ordine che gli fosse portata la testa [di Giovanni]. La guardia andò, lo decapitò in prigione e portò la testa su un vassoio, la diede alla ragazza e la ragazza la diede a sua madre.
I discepoli di Giovanni, saputa la cosa, vennero, ne presero il cadavere e lo posero in un sepolcro.


Il commento di don Antonello Iapicca

Sì, si può perdere la testa per Gesù. La verità, quella che ci fa liberi, quella che non è barattabile, la nemica dei falsi compromessi volti a salvare la pelle, fa perdere la testa. Ci sono sempre tagliatori di teste in cerca di poveri profeti disarmati che annunciano senza posa la verità. E la verità, normalmente è scomoda. Ne sappiamo qualcosa anche noi, quando qualcuno osa rimproverarci, evidenziarci un errore, un peccato. Per la Bibbia correggere un saggio è renderlo ancora più saggio. Correggere uno stolto invece, significa attirarne le ire. Facciamo due conti e vediamo da che parte stiamo. Probabilmente da quella dei tagliatori di teste, degli stolti, come Nabal, letteralmente, «colui al quale non si può dire nulla». Uno stolto, uno che per tacitare la verità e potersi rimirare tranquillo allo specchio, non esita a ghigliottinare il profeta.

La verità ci fa liberi, smaschera il serpente antico e le sue menzogne che ci tengono schiavi, e apre la strada al liberatore, il Signore Gesù, la Verità incarnata per la nostra salvezza. “Non ti è lecito” gridava Giovanni Battista, e non per un rigido legalismo, ma perché sei creato per essere libero, felice, e non ti è lecito andare contro natura, il peccato non si addice all’uomo, genera la morte, sempre. Le parole di Giovanni illuminano Erode, sono dirette al fondo del suo cuore, laddove è deposto il seme della verità, del bene, della giustizia. Sono parole capaci di riportare alla luce quel frammento di umanità che, seppure sepolto da una montagna di menzogne, alberga nel cuore di ogni uomo.
Erode si era infilato in una strada senza ritorno, condannandosi ad una vita sterile, chiusa nell’egoismo. Una vita infelice: “Se uno prende la moglie del fratello è una impurità, egli ha scoperto la nudità del fratello; non avranno figli” (cfr. Lv. 18,16 e 20,21). La concupiscenza lo aveva accecato per trasformarlo in oggetto della maledizione più grande, quella di non avere figli; non vi era cosa più disonorante che scendere nella tomba senza una discendenza, perché era il segno di una vita senza frutto, scivolata via senza amore, senza consistenza, una vita in fumo. Quante volte ci ritroviamo, come Erode, preda di passioni ed entusiasmi che spengono lo sguardo in una fobia illusoria e annichiliscono ogni discernimento. I romanzi e i film e i tentacoli dei media e della cultura ci hanno lavato il cervello sino a farci credere che quando si muove qualcosa nel petto e ti prendono i crampi allo stomaco, allora è l’amore che bussa alla porta.
I ragazzi vivono nell’illusione della grande passione, confusa con il grande amore. Non aspettano altro che il momento per lasciarsi andare. E allora ogni piccolo terremoto ormonale, comune del resto anche agli animali, è subito accolto con fasti e onori, come la visita di un imperatore. E si alimenta la passione come quando si monta la panna: la “quantità” è la stessa ma a forza di sbatterla aumenta di volume, e sembra crescere anche di peso. Così anche la passione è alimentata e fatta crescere a dismisura con messaggini e chat, e il telefono caldo 24 ore al giorno ogni giorno; la mente è rapita in un sogno che sembra realissimo, si accettano compromessi pur di non guardare in faccia la realtà e prendere le cose con calma; non si può accettare, infatti, che l’amore autentico abbia bisogno della testa e della ragione per imbrigliare la passione e consegnarla al sacrificio che la purifica e la trasforma in dono.

I nostri figli non hanno compreso – anche e soprattutto perché nessuno glielo ha spiegato – che perdere la vita non fa perdere la testa, mentre perdere la testa non fa perdere la vita. Ovvero, amare davvero sino a donarsi e perdere la vita non fa mai diventare irragionevoli e perdere la testa. Chi ama in Cristo e la sua ragione è illuminata dalla fede, è sempre lucido, anche quando “cede” alla follia di perdonare l’imperdonabile e caricarsi dei peccati altrui. La misericordia, infatti, non sarà mai frutto della passione. Al contrario, perdere la luce della ragione e del discernimento nello stordimento della passione e della concupiscenza, impedisce il donarsi senza riserve, perché la carne esige sempre il contraccambio. Senza una Grazia speciale essa è incapace di consegnarsi gratuitamente all’altro, nel rispetto, nel sacrificio e nella pazienza. Ai nostri figli – come a noi del resto – non basta “temere” Giovanni Battista, ovvero ascoltare la Parola di Dio, essere nella Chiesa, neanche pregare.

E’ fondamentale che abbiano, nei momenti importanti, qualcuno che, come Giovanni Battista, vinto da quella che Papa Francesco chiama “l’inquietudine per la salvezza del fratello”, è disposto a giocarsi la testa per loro: “L’inquietudine dell’amore spinge sempre ad andare incontro all’altro, senza aspettare che sia l’altro a manifestare il suo bisogno” (Papa Francesco, Omelia del 28 agosto 2013). I figli hanno bisogno di padri che li amano così tanto e così gratuitamente da essere liberi per dire loro la verità: “non ti è lecito!”, e non per nevrosi ma per amore. Padri e madri consapevoli che dicendo questo verranno forse decapitati dai propri figli… E non solo. Le mogli hanno bisogno di mariti come Giovanni Battista, liberi sino in fondo, che le tirino fuori da nevrosi e pensieri tristi e figli della menzogna, che generano complessi e paure; così come i mariti necessitano di mogli forti e sante che annuncino loro la verità, facendoli scendere dalla nuvola nella quale si nascondono, tra deliri di onnipotenza e infantilismi cronici, sindrome del quarantenne e ansie da prestazioni; anche una ragazza ha bisogno di un fidanzato che le parli con fede nella verità, rispettandola e custodendola per l’uomo che Dio ha pensato per lei, forse lui ma non si sa; così come un ragazzo non può restare legato a una fidanzata che, per paura, taccia la verità e, per non perderlo, lo lasci scatenare nelle pulsioni più basse. Una parrocchia e una comunità hanno bisogno di un pastore che ami “sino alla fine” le sue pecore, sino a perdere la testa e la vita per loro, perché nessuna resti nell’inganno del demonio, ma conosca la Verità e la verità le faccia libere per amare ed entrare nella Vita eterna. E così tra di fratelli di ogni comunità nella Chiesa, la verità innanzitutto, con dolcezza e carità. Così tra amici, senza spremute affettive che avvelenano. Tutti abbiamo bisogno di “martiri” che ci testimonino la Verità.

Certo, per poter essere liberi e non temere di dire “non ti è lecito” è necessario, come Giovanni Battista, vivere nel deserto, ovvero aver tagliato con il mondo e i suoi criteri. Aver rinunciato al “potere” di Erode che si nutre della morte dell’altro; ogni potere, infatti, a casa, in ufficio e a scuola, sino ai palazzi de re e dei governanti, non può affermarsi se non uccidendo l’altro, per sentirsi vivo, per saziare la concupiscenza sempre più esigente, per non lasciar spazio ai nemici… Per essere liberi occorre dunque lottare con Cristo nel deserto delle tentazioni, essere “martiri” con Lui, e sperimentare che l’uomo non vive di solo pane ma di ogni parola che esce dalla bocca del Padre; aver visto la propria debolezza amata da Dio, senza esigenze e moralismi; soprattutto, avere l’esperienza che quando Dio ha detto “non ti è lecito” non è stato per limitare, frustrare e togliere la la libertà come insinuato dal serpente ai progenitori, ma per amore; “non ti è lecito” è la verità che apre alla libertà, il cammino all’umiltà dei figli di un Padre buono che dà loro solo cose buone. “Non ti è lecito” buttare la tua vita perché “è lecito”, sano e santo solo spenderla nell’amore.

Ai giovani e ai meno giovani accade come a Davide che, alla vista della bellezza di Betsabea, chiude in prigione ragione e fede, si lascia trascinare dai vortici della passione, e macchina piani e menzogne per dar corpo agli sconvolgimenti dell’istinto ormai senza freno. Morirà Uria, ucciso dalla malizia di Davide. E morirà il bambino nato dalla passione, perché ogni pensiero e ogni azione che non siano ispirate da Dio attraverso la ragione illuminata dalla fede sono senza frutto. Erode «ascoltava perplesso», vigilava, temeva. Ma non era sufficiente. Aveva ormai consegnato il cuore a Erodiade. Al contrario di Davide, peccatore, fragile, ma, inspiegabilmente per chi legge le cose solo carnalmente, proprio lui è il campione dell’uomo secondo il cuore di Dio. Il punto è tutto qui. Un cuore radicato in Dio, anche se cade, è capace di contrizione e di umiltà. Anche se la mareggiata della passione ne ha sconvolto gli equilibri, può tornare ad aggrapparsi all’àncora che non ha smesso di legarlo misteriosamente a sé. Erode invece ha scelto il peccato, lo ha scelto nel fondo del suo intimo, laddove l’uomo è completamente libero e si giocano le sue sorti; Erode ha reciso la fune che lo legava all’àncora e la tempesta ha rotto, inesorabilmente, gli ormeggi. Lo si comprende al «momento propizio», che può essere quello in cui il Signore scuote la coscienza intorpidita, ma anche quello in cui il demonio sferra l’attacco decisivo.
Per Davide il «kairos» è giunto con il profeta Natan, le cui parole dissolvono la menzogna e lo conducono al pentimento: «ho peccato» risponde, senza accampare scuse; così, nel riconoscersi peccatore, Davide accetterà, umilmente, le sofferenze che ne conseguono. Erode non può. Il rancore di Erodiade, alla quale aveva consegnato l’anima, lo trascina nell’abisso, perché l’accendersi di una passione spalanca sempre il passo a peccati più gravi. Erode ha soffocato la ragione nella carne, e quando la sua carne si adagia in un «banchetto» che ne sazia le voglie, seduto sulla propria anima, si ritrova sordo e cieco, perde la memoria delle parole del profeta, e promette e consegna la sua vita ad un’immagine effimera, il corpo seducente di una ragazza, che appare ai suoi occhi come l’albero dell’Eden, «buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza». Ed è morte, della Verità prima, della sua anima poi.
Il Vangelo di oggi ci chiama a conversione, a guardare senza sconti la nostra vita, a lasciarci illuminare sui compromessi, sulle situazioni pericolose nelle quali ci troviamo, proprio dove non abbiamo forza e volontà per tagliare, voltare pagina e abbandonarci alla fedeltà di Dio. Quell’amicizia che ci insinua calunnie sugli altri, quell’affetto troppo corposo, che ha già messo il laccio al cuore e ci ha deposto sul piano inclinato che conduce al tradimento; quel rancore che arde, sordo, sotto la cenere del tempo che vorremmo capace di essiccare il peccato; quell’adulazione che risuona nelle nostre orecchie e ci pianta al centro di un universo che ci appare ogni giorno più ostile a tutto quanto facciamo e pensiamo. Per questo l’episodio di Erode ci invita a chiedere a Dio la grazia del cuore di Davide, pronto al pentimento, a rientrare in se stesso come il figliol prodigo, ad ascoltare la voce dei profeti che, con amore e fermezza, ci chiamano a conversione: ispirati da Dio, i pastori, i catechisti, i fratelli, i genitori, il coniuge, illuminano quanto, nella nostra vita, «non è lecito» ed è destinato a restare senza figli, svelando la parte di noi che, infeconda, appartiene alla terra ed è incapace di ereditare il Cielo.
La correzione, certo, quando arriva fa male, perché graffia l’orgoglio che ci vorrebbe impenitenti, ma poi reca il bene immenso della libertà. Lasciamo allora che l’annuncio del Vangelo ci raggiunga e sconvolga le nostre precarie certezze, accogliamo la correzione e la Verità, permettiamo al Signore di amarci come solo Lui sa, sino ad innamorarci perdutamente di Lui; solo radicati in Lui e partecipando della sua obbedienza alla Parola del Padre di fronte alle seduzioni del demonio, che presentano sempre il potere e il possesso come la fonte della felicità, potremo divenire i testimoni della Verità di cui il mondo ha bisogno. Liberi come Giovanni, senza paura e lontani dai compromessi, dalle ipocrisie e dai ricatti, sino a perdere la testa, cioè oltrepassando “il lecito” della ragione strozzata dalla ricerca del proprio tornaconto; così siamo chiamati a mostrare al mondo che non è lecito chiudersi in ciò che è lecito per assecondare la carne, mentre è lecito perché secondo Dio e per il bene dell’uomo, abbandonare schemi e criteri che appesantiscono mente e cuore nell’egoismo, per uscire da se stessi e donarsi, per amore di chi ci è accanto, per Lui che ha perduto tutto per noi.

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Martedì della XXI settimana del T.O.

Dal Vangelo secondo Matteo 23,23-26. 

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell’anèto e del cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste cose bisognava praticare, senza omettere quelle.
Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto mentre all’interno sono pieni di rapina e d’intemperanza.
Fariseo cieco, pulisci prima l’interno del bicchiere, perché anche l’esterno diventi netto! 

Il commento di don Antonello Iapicca

Dio non si è fatto carne e sangue per mettere delle toppe alla vita delle persone. Gesù non è salito sulla Croce per aggiustare qualcosa che non andava. Gesù è morto ed è risorto per fare nuove tutte le cose, perché l’uomo aveva il cuore marcio. Gli scribi e i farisei sono immagine di quanti non credono e non accettano che l’uomo abbia bisogno di essere rinnovato dall’ “interno”, “pieno di rapina e di intemperanza”. Essi credono che l’uomo possa, con le sue forze, vivere una vita purificata; che buone regole capaci di ordinare ogni aspetto della vita garantiscano pace e sicurezza. Sono i pelagiani di ogni epoca, orgogliosi e superbi, così subdoli da camuffarsi con abiti eleganti, religiosamente e politicamente corretti. Pagano le tasse, sino all’ultimo centesimo, e ne sono orgogliosi. Non hanno macchie sul vestito e non alzano la voce; dialogano con tutti accogliendo con tollerante democrazia i diritti delle minoranze mentre non tollerano discriminazioni e fondamentalismi. Non fumano, non bevono e non parcheggiano in seconda fila. Niente americanate di film e ancor meno sceneggiati televisivi; solo cinema d’essai, avanguardie letterarie, e biennali da divorare con gli occhi. Il calcio mai e poi mai, piuttosto jogging e yoga, e, visto che ci siamo, un po’ di meditazione zen. Fanno ginnastica e tendono a mangiare vegetariano, probabilmente vegano. Non tollerano bevande gasate, merendine e porcherie simili. Odiano la macchina e amano la bicicletta. Comprano tutto rigorosamente biologico ed equo-solidale, meglio se “chilometro zero”.

Insomma, “filtrano il moscerino, pagano la decima della menta, dell’anèto e del cumìno”, e così sono certi di ripulire il mondo della sporcizia che macchia e infesta la vita, altrimenti retta e proba, della cosiddetta “società civile”. E qui dentro ci siamo tutti: in famiglia e al lavoro, a scuola e con gli amici, è tutto un fiorire di regole e codicilli da rispettare, criteri assoluti a cui inchinarsi, totem familiari e culturali da adorare senza se e senza ma. Tutto per scappare il più veloce possibile dalla verità. Tutto perché, come Adamo ed Eva, abbiamo creduto alla menzogna che, disobbedendo, saremmo divenuti come Dio, capaci di conoscere il bene e il male e di stabilirne caratteristiche e confini. E siamo precipitati nelle fauci del male, nudi e senza discernimento, con tanto odio e rancore verso il prossimo, al quale imputiamo continuamente la colpa di ogni sventura. Guardiamoci intorno, e vedremo che è proprio così. Nella società come in famiglia, a scuola come al lavoro, si pretende orgogliosamente di stabilire cosa sia buono e giusto, e dettare poi leggi di conseguenza. Ma sono solo frutto della carne ferita e del cuore malato, “pieno di rapina e indulgenza verso se stessi“, secondo il testo originale. Ci accaniamo a voler far rispettare le regole che inventiamo, pretendendo per esse valore assoluto. Ma da dove nascono? Come le abbiamo concepite? Vengono da Dio o dal nostro cuore ipocrita e falso? Nascondono la nostra fragilità e l’incapacità di amare o sono pensate nel seno della misericordia, per aiutare e accompagnare il prossimo a Cristo?

Qualsiasi legge che non sia intrisa di “giustizia, misericordia e fedeltà” è un frutto bacato prodotto da un cuore malato. Non si arriva a dare legittimità a un abominio come le nozze gay, se il cuore di chi ha pensato e legiferato non è profondamente ingannato e malato. Se, come Adamo ed Eva, non ha perduto il Paradiso, l’intimità con Dio piena di umile obbedienza. E’ solo in essa che mente e cuore sanno discernere il bene e il male; discernere e non decidere che cosa sia bene e cosa sia male. Lontani dal Cielo, fuori dal Regno di Dio, esiste solo un principe menzognero e assassino; ogni pensiero e gesto, ogni legge e ogni forma culturale, portano la ferita inconfondibile delle sue unghie. Tutto è avvelenato. E siccome l’uomo è impotente di fronte al male, si infila nell’ipocrisia del vestito pulito indossato su un corpo immondo. Siccome i conati malvagi sono irresistibili, allora, ipocritamente  cioè falsamente e ideologicamente contro la verità e la natura delle cose – si legifera per dare legittimità all’ineluttabile: il divorzio, l’aborto, l’eutanasia e la liberalizzazione delle droghe nascono da qui, come anche le nozze tra omosessuali e l’adozione dei figli da parte delle coppie gay. Non sappiamo come debellare il male e allora, ingannati dal demonio, crediamo di esorcizzarlo legittimandone le conseguenze, nell’illusione di tenerlo sotto controllo.

Così si spiega il cortocircuito denunciato da Gesù: “filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!”. La società, con ciascuno di noi incluso, filtriamo con regole e codicilli l’insignificante per trangugiare il fondamentale: inaspriamo le leggi sul femminicidio e allarghiamo le maglie della legalizzazione dell’aborto. Ma sappiamo che il vero femminicidio è proprio quest’ultimo, che sfregia la donna nella sua natura più profonda, creata a immagine di Dio. E così succede a casa, quando ci impuntiamo su cose secondarie e lasciamo correre su quelle essenziali: non permettiamo a nostro figlio di bere Coca Cola e lasciamo che spalmi indiscriminatamente il suo tempo sui tasti e il video di uno smartphone. Siamo ipocriti perché non crediamo che il nostro cuore sia umanamente inguaribile, come quello di nostro marito, dei nostri figli, del vicino di casa, del capoufficio e del Presidente del Consiglio… Per questo diveniamo farisei e scribi ipocriti, giustizialisti e moralisti a senso unico, e mai quello che vada a “pulire l’interno”….

Siamo schiavi delle apparenze perché il contenuto ci dà la nausea!. Ci improfumiamo senza entrare nella doccia… Spalmiamo un po’ di pomata sulla ferita ma non andiamo dal medico capace di individuarne la causa e operare di conseguenza. Siamo lontani da Dio, abbiamo dimenticato il suo amore, l’unico capace di cambiare un cuore marcio in un cuore sano. Per questo Dio si è incarnato, per questo il Signore ha dato la sua vita, per questo esiste la Chiesa: per fare di tutti noi creature nuove, altro che manichini esposti in vetrina! Dio ci ama, e ama chi ci è accanto; non ci giudica, sa che il nostro cuore è falso, che “rubiamo” affetti e persone per saziare la nostra carne concupiscente; sa che siamo ipocriti, e non quello che appare all’esterno; Gesù ci ama e ci dice la verità, anche oggi.

Accogliamo allora la sua misericordia, per essere trasformati dal di dentro. Accogliamo Gesù oggi, che ci dona “giustizia, misericordia e fedeltà”, le caratteristiche del suo stesso cuore, quelle con cui ci ha amati senza condizioni. Accogliamolo oggi perché solo un cuore rinnovato e risuscitato, perdonato e sanato, saprà dare a tutto il suo giusto peso. Un cuore che ama è un cuore equilibrato, che non tralascia il particolare perché si fonda sull’essenziale. Chi vive in Cristo non “omette” nulla e “pratica” ogni parola della Legge, perché tutto nasce dal cuore dove è vivo Lui, senza legalismi, ma con amore e per amore.

Solo all’ultimo posto il Vangelo è autentico e credibile

La “porta stretta” della salvezza

Commento al Vangelo della XXI Domenica del T.O.

di don Antonello Iapicca da www.zenit.org

Una «porta stretta» ci separa dalla felicità: “la porta della fede che introduce alla vita di comunione con Dio e permette l’ingresso nella sua Chiesa è sempre aperta per noi. E’ possibile oltrepassare quella soglia quando la Parola di Dio viene annunciata e il cuore si lascia plasmare dalla grazia che trasforma” (Benedetto XVI). La “porta stretta” è quella della Chiesa. Ad essa hanno bussato generazioni di pagani che volevano vivere come i cristiani.

 

In questi avevano visto le primizie di una vita diversa. Sapevano che, dietro quella “porta”, vi era un Regno che non aveva eguali sulla terra. La luce che risplendeva in questo Popolonuovo offriva a tutti una nuova speranza di “salvezza”, diversa dalle religioni, dalle filosofie, dalla politica e dai divertimenti: “quando irruppe il cristianesimo, la sua superiore capacità di affrontare i problemi cronici dell’Impero Romano diventò presto evidente e giocò un grande ruolo nel suo definitivo trionfo”(Rodney Stark).

Crollavano certezze e, nella decadenza politico-morale dell’Impero Romano, la giovane Chiesa emergeva come una roccia indistruttibile. La testimonianza che spesso diveniva martirio spalancava il Cielo in una terra che odorava di morte. Se i cristiani potevano offrire gratuitamente la vita per un nemico, allora significava che la vita eterna da loro predicata era l’unica speranza attendibile. E poi lo si vedeva nei loro volti, in quegli sguardi capaci di cantare sereni davanti agli aguzzini e ai leoni che ne ghermivano la vita.

Per questo, nel “tale” che “chiede” a Gesù se “sono pochi quelli che si salvano”, possiamo riconoscere tutti gli uomini di ogni generazione che hanno cercato nei cristiani la risposta al senso della propria vita. E la Chiesa, con Gesù, non cessa di rispondere annunciando una “porta stretta”: gli apostoli predicano da sempre Cristo crocifisso, perché è la Croce la porta attraverso la quale il Signore è entrato nel Cielo, conquistando per tutti la “salvezza”. Al Signore e ai suoi discepoli non interessa la contabilità dei salvati. Egli ha dato la vita per tutti, e con il Padre, vuole che tutti siano salvati. Ma mai violentando la libertà.

Non vi è allora altro cammino che quello, angusto, della Croce, dove la libertà dell’uomo incontra quella di Dio. Su di essa il Padre offre la “salvezza” mentre l’uomo può liberamente accoglierla: “attraversare quella porta comporta immettersi in un cammino che dura tutta la vita. Esso inizia con il Battesimo e si conclude con il passaggio attraverso la morte alla vita eterna, frutto della risurrezione del Signore Gesù” (Benedetto XVI).

Nelle parole di Gesù vi è rappresentato proprio questo cammino: esso è sintetizzato dal suoinizio – quando si bussa per la prima volta alla porta stretta della Chiesa – e dalla sua fine – quando si bussa alla porta altrettanto stretta del Cielo. Il cammino tra queste due porte è riassunto nella “conoscenza”, che significa relazione intima d’amore. Attraverso il catecumenato la Chiesa gestiva nei catecumeni l’uomo rinnovato ad immagine di Cristo. Un cristiano, infatti, “viene da” Cristo, e con Lui “lotta per entrare” nella vita attraverso la porta stretta della Croce. Al termine di ogni giorno come alla sera della vita, sulla soglia del Regno sarà “conosciuto” da Colui del quale ha conservato l’immagine, pur in mezzo a mille battaglie e cadute.

Anticamente, all’interno della porta grande di una città ve ne era una di serviziopiù piccola, che veniva chiusa per ultima. Era proprio la Croce, la porta che attendeva Gesù a «Gerusalemme», e ogni suo discepolo nella propria «città». Solo attraverso di essa possiamo entrare ogni giorno nel “Regno di Dio”, che si realizza nella “città” dove siamo chiamati a vivere: al banco di scuola o dietro la scrivania dell’ufficio, a pranzo e a cena con moglie e figli e, di notte, distesi sul talamo nuziale. Ovunque si schiude per noi il pertugio a forma di Croce attraverso il quale giungere al prossimo e “servirlo”.

Viviamo in un tempo di Grazia donatoci per convertirci, sino al giorno in cui la porta sarà «chiusa». Forse lambiamo la serietà della vita, non accettiamo che vi sia un giudizio e che vi siano momenti irripetibili per amare che si aprono e si chiudono: su di essi saremo giudicati. Dio, infatti, apre ogni giorno delle porte strette, con la forma della moglie o del marito; magari non ci piacciono e non le accettiamo, ma se le sfuggiamo perderemo l’intimità con Cristo, “allontanati” da Lui e dalla “salvezza”, la felicità che non si corrompe.

Forse, chiedendoci “quanti” si salvino, cerchiamo spiegazione allo scandalo dell’amore di Dio che fa sorgere il sole su buoni e cattivi e non estirpa il male; mentre questa domanda dovrebbe incendiare il cuore di zelo per la salvezza di tutti: la Chiesa non può restare indifferente anche a uno solo che si perda. Forse ci indigniamo anche noi, ed è un modo per eludere la questione fondamentale: non importa “quanti si salvino”, ma se io sarò tra di loro.

La storia ci dice che non siamo salvi affatto. Quante volte abbiamo «cercato» di «entrare» nella comunione e nella pace con i fratelli ma «non ci siamo riusciti»; la sapienza della carne ci ha abituato a passare per la porta larga della soddisfazione del proprio “io”; così, di fronte all’urgenza di donarci per salvare il matrimonio o per non perdere nostro figlio, non sappiamo da dove cominciare. Il peccato ci ha fatto sperimentare la morte e, come i progenitori «scacciati fuori» dalla casa del «Padrone», «non abbiamo forza» di «lottare» per amare.

Allora ci affrettiamo a «bussare», pregando e chiedendo consigli, ma è solo il tentativo di giustificarci con le nostre «opere». Certo Gesù ha «insegnato» nelle nostre chiese, è stato «presente» quando «abbiamo mangiato e bevuto» nelle liturgie; ma non saremo giudicati in base al numero di messe a cui abbiamo partecipato: dinanzi alla «porta stretta» della Croce, infatti, scopriamo di aver sepolto “iniquamente” nella superbia l’immagine di Gesù, nonostante i riti e gli impegni in parrocchia. Il Padre non può riconoscere chi non ama come il suo Figlio, anche se ha il suo nome sempre tra le labbra…

Ma è ancora giorno, e Gesù “passa” accanto a noi “insegnando” come convertirci, perché il «pianto e lo stridore di denti» che sperimentiamo oggi a causa dell’orgoglio, non ci accompagnino domani e per l’eternità. La salvezza è dischiusa dinanzi a noi oltre la «porta stretta» del sepolcro del Signore. La forza dirompente della sua risurrezione ha rotolato via la pietra che ci impauriva e ci attira verso di Lui.

Lasciamo che il Signore tagli via quanto in noi è troppo grande e ci impedisce di passare per la “porta stretta”; che, attraverso persone ed eventi, ci faccia scendere dai «primi» posti della superbia, all’«ultimo» dell’umiltà che ci salva. Il suo amore può “allontanare” da noi l’uomo vecchio “operatore di iniquità”, per farci entrare nel Regno di Dio e sederci a «mensa» in compagnia dei Patriarchi e dei “profeti”, sperimentando come loro la stessa fedeltà di Dio. Con noi giungeranno moltitudini “da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno”, da ogni estremo confine della terra dove l’annuncio del Vangelo li ha “salvati” come ha “salvato” noi.

Solo all’ultimo posto il Vangelo è autentico e credibile

Venerdì della XX settimana del T.O.

Dal Vangelo secondo Matteo 22,34-40.
 
Allora i farisei, udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme
e uno di loro, un dottore della legge, lo interrogò per metterlo alla prova:
«Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?».
Gli rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente.
Questo è il più grande e il primo dei comandamenti.
E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso.
Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti». 

Il commento di Don Antonello Iapicca
Gesù ha appena annunciato la resurrezione e ha messo a tacere i sadducei che la negavano. Con le sue parole aveva reso credibile e ragionevole il fatto più irragionevole. Gesù era un grande, nessun dubbio al riguardo. Ma anche molto pericoloso. E i farisei, ” udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme

e uno di loro, un dottore della legge, lo interrogò per metterlo alla prova“. Avevano paura di perdere la posizione acquisita tra il popolo; dopo aver messo in ridicolo i sadducei Gesù avrebbe potuto ridimensionare anche il loro prestigio. Bisognava prevenire il disastro cercando di togliere autorità all’insegnamento di Gesù. Era un irregolare, le sue parole potevano essere prese per eretiche, ma non era facile coglierlo in fallo; Gesù si muoveva, infatti, in quella zona franca dove l’eresia si confondeva con l’ortodossia. Bisognava metterlo alla prova con qualcosa di serio e fondamentale. Si doveva interrogarlo sul cuore della fede di Israele, lo Shemà, e vediamo come se la sarebbe cavata….

In ebraico la parola comandamento significa contemporaneamente: una parola che affida un incaricoun comando fissato come un ordine di servizio, la legge “incisa” che orienta e dirige il compimento di una missione. In ogni caso, secondo la tradizione di Israele, il “comandamento” è sempre una parola di vita. Osservare, compiere i comandamenti è la via alla riuscita della vita, perché la vita è una missione affidata a ciascun uomo: “Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto, ed il vostro frutto rimanga” (Gv.15). In questa luce, i farisei interrogano Gesù su che cosa, nella Legge, sia fondamentale per vivere da perfetto israelita.

Ma Gesù non si lascia prendere in trappola, Lui che è l’autore della Legge e di ogni comandamento. Semplicemente, risponde presentando la misericordia e la giustizia che stanno alla base della relazione con Dio, fonte di quella tra ciascun uomo e il suo prossimo: “la ripetizione del Tetragramma, attirando la nostra attenzione, ci richiama a riconoscere e a proclamare che tutto ciò che è contenuto nel mondo e nell’universo è sotto il dominio dell’Unico Dio. Inoltre, secondo la tradizione giudaica, il Tetragramma, qui reso con “Signore” o “Eterno”, indica la Middath ha-rachamim, la qualità divina della misericordia, mentre Elohim indica la Middath ha-din, la giustizia divina. Giustizia e misericordia, viene quindi messo in risalto fin dall’inizio della proclamazione di fede del giudaismo, costituiscono per il pensiero ebraico le due qualità precipue della Maestà divina!” (Hirsch). Gesù rivela il cuore della Legge sintetizzandola nell’amore, da cui deriva ogni altra Parola, della Torah e dei Profeti. Senza amore tutto è vano dirà San Paolo, e sarà un approfondimento di questa risposta di Gesù.

L’incipit delle Dieci Parole di Vita, vergate con il fuoco dell’amore divino e rivelate sul Sinai, rammentano un’esperienza d’amore. L’ascolto è preceduto e accompagnato dall’esperienza di una giustizia e una misericordia gratuite realizzate per Israele attraverso la liberazione dall’Egitto. E in essa, il Popolo ha conosciuto Dio come unico, nell’amore e nel potere. Lo stesso incipit appare nello Shemà, il comandamento più grande. L’amore a Dio e al prossimo scaturisce dall’esperienza dell’unicità dell’amore che rivela Dio. Per questo prima di essere un comandamento, esso è un’affermazione, un annuncio e una profezia, la rivelazione di un’identità. “Ascolta Israele, il Signore è uno”: Il comandamento più grande rivela la grandezza di Colui che comanda, la sua unicità. La missione affidata ad Israele prima e alla Chiesa poi, l’incarico che costituisce la vita di ciascuno di noi, rivela l’identità di Colui che incarica e affida la missione. E nella sua identità è rivelata anche quella dell’apostolo, dell’inviato. Liberatore e liberato, in questa relazione sperimentata è gestato, nasce e si compie il comandamento più grande. Dio è l’unico da amare con tutto se stesso perché e l’unico che ama ogni uomo con tutto se stesso come fosse l’unico al mondo.
Gesù conosce le vicende del proprio popolo. Egitto, Mitraym, in ebraico significa “angoscia, luogo dove l’umano è definitivamente incastrato e rinserrato”. In Egitto il popolo ha vissuto nella condizione servile. Ciò non significa solamente la schiavitù in senso fisico. In Egitto il Popolo ha vissuto incastrato nel servizio agli idoli, e forse si è anche sottomesso all’idolatria. Essa è sempre dissipazione e disordine dell’uomo, del suo cuore, della sua mente, delle sue forzeDisordine in ebraico si dice “Faraone”. Asservito al Faraone il Popolo santo aveva perduto la sua identità, l’arco scoccato stava fallendo il bersaglio, e la vita scorreva slegata nella fatica della schiavitù. In questa situazione fallimentare è avvenuto l’impossibile, Dio stesso è sceso a liberare il Popolo per condurlo al bersaglio autentico, al compimento della sua missione. Il comandamento più grande, la sintesi di tutta la Torah e dei profeti, è quindi il sigillo e il segno dell’opera unica compiuta dall’unico che ne aveva il potere.
“Il Popolo ebraico attesta, compiendo il primo comandamento, che “solo il SIgnore suo Dio” può fare questo. Testimonia che ne è beneficiario. Accetta e decide, per quanto possibile, di assumere la liberazione dalla servitù del Faraone. Vuole servire il Solo Signore, rendergli culto, orientare tutte le sue forze, tutto il suo cuore, tutta la sua anima, tutto il suo tutto, a questo solo culto” (Marie Vidal, Un ebreo chiamato Gesù). E Dio era solo, non v’era con Lui alcun dio straniero. Lui ha spiegato le sue ali e ha liberato il suo popolo; Lui ha rivelato se stesso nella forza incommensurabile del suo amore, l’unico che ha reso possibile l’impossibile. Non vi sono altri dei, non si allineano altri signori. E’ uno. E’ Dio. L’unica via al compimento della Legge, ovvero l’unico cammino che conduce alla Vita è amarlo perché è unico: amarlo con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze è l’unica vita ragionevole, intelligente, sapiente.

Lo Shemà, l’ascolto che si fa obbedienza e compimento di un amore esclusivo, è il comandamento più grande perché è il comandamento dell’uomo libero. La libertà è la missione affidata ad ogni uomo creato ad immagine e somigliante del Dio libero che, liberamente lo ha tratto dal nulla per puro amore. Non esiste vita autentica dove non esiste libertà, perché non esiste amore laddove permane la schiavitù. Dove regna il Faraone vi è disordine e l’uomo vive dissipato; cuore, anima e forze si combattono conducendo l’uomo ad una schizofrenia interiore che lo distrugge. San Giovanni della Croce commentando la citazione di Dt 6,5 afferma come “tutto il lavoro necessario per giungere all’unione con Dio, consiste nel purificare la volontà dai suoi affetti e appetiti, in modo che da umana e grossolana diventi volontà divina, cioè identificata con quella di Dio… quando la volontà indirizza le passioni, potenze e appetiti verso Dio e li distoglie da tutto ciò che non è Lui, allora conserva la forza dell’anima per Dio, quindi giunge ad amarlo con tutte le forze”. E’ quanto afferma anche la sapienza di Israele: “Bisogna benedire Dio per il male e per il bene, perché è scritto: Amerai…. con tutto il cuore: con le tue due inclinazioni, il bene e il male…” (Ber. 9,5).
Anche il Targum offre una interpretazione analoga, il che significa che era quella diffusa nel I secolo, al tempo di Gesù. Secondo la concezione rabbinica molto simile a quella di San Giovanni della Croce, vi sono due “istinti”, uno buono e uno cattivo. Quest’ultimo, in sè, è moralmente neutro. Diventa cattivo solo quando non è condotto nelle vie della Torah. Il pio ebreo prega ogni giorno così: “Possa l’istinto cattivo non acquistare potere sopra di noi. Costringi il nostro istinto a rimanere a te sottomesso”. Esiste il demonio e la schiavitù e sottomissione ad esso preclude qualunque altra libertà. Il dialogo di Gesù con i giudei del capitolo 8 del vangelo di Giovanni verte sullo Shemà, anche se non appare esplicitamente. La libertà sorge dalla Verità annunciata dalle parole di Gesù:  “Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Gli risposero: «Noi siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi tu dire: Diventerete liberi?». Gesù rispose: «In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora lo schiavo non resta per sempre nella casa, ma il figlio vi resta sempre;  se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero… Chi è da Dio ascolta le parole di Dio: per questo voi non le ascoltate, perché non siete da Dio”. L’ascolto della sua Parola è l’unica possibilità offerta all’uomo per essere libero davvero, affrancato dal potere del demonio, dalla schiavitù idolatrica che esso suppone. La Parola di Gesù è dunque lo Shemà capace di ri-orientare la vita sul cammino del compimento, dove cuore, anima e forze sono impiegate per amare. Lo Shemà che genera e gesta i figli di Dio perché vivano liberi come il Padre loro.
A chi consegnare se stessi se non vi è nessun altro che Lui? Chi amare se non ci ha creato, amato e redenti se non Lui solo? Come dividere il nostro amore con idoli vani, inesistenti, incapaci d’amare e di salvare? Tutto ha origine da un’esperienza nella nostra concretissima vita. Non si tratta di un impegno, di buona volontà. Si tratta d’amore. Questo amore che sorge dall’essere amato è la roccia su cui fondare l’esistenza, la stabilità nell’instabilità, la certezza nella precarietà. Lo Shemà è il fondamento del matrimonio, del fidanzamento, dell’amicizia, del lavoro, della Chiesa stessa. Lo Shemà irrora di eternità tutto il transitorio della vita generando la libertà di amare in qualunque circostanza, senza illusioni, nella santa indifferenza che sbriciola ogni preteso assoluto che vorrebbe rubare mente, anima e corpo. Non vi è argomento di discussione, non vi è problema, difficoltà o sofferenza, non vi è precarietà, non vi è differenza e attrito, non vi è male che abbia ragione dell’amore che compie lo Shemà. Non vi è difetto della moglie o impuntatura del marito, non vi è ribellione del figlio, non vi è tentazione della carne che abbia potere sullo Shemà, perchè esso incarna il Cielo in ogni questione della terra, mette in fila le priorità e i valori, illumina le questioni più intricate, sciogliendole dal laccio che le vorrebbe innalzare in un assoluto teso a nascondere il fondamento autentico.
Lo Shemà è l’antidoto al fallimento delle relazioni: chi vive lo Shemà non dirà mai “non ti amo più, sono cambiati i miei sentimenti, non è più come prima”; perchè lo Shemà compiuto inchioda ogni relazione sul robusto Legno della Croce, il luogo della libertà che si fa dono, sia quel che sia, costi quel che costi. Lo Shemà è il sigillo della Grazia e dell’elezione a vivere sulla terra l’amore celeste, la missione affidata alla Chiesa e a ciascuno di noi.
Dio infatti è unico perchè il Suo amore è l’unico che scende con noi e in noi, nella sofferenza più profonda, nei dolori di un cancro, nelle angosce dei tradimenti e dei fallimenti, nei tormenti dei dubbi, in tutti gli istanti delle nostre vite. Lui è l’unico che ci ama così come siamo. Lui solo può darci la vita nella morte, orientare tutto di noi verso il compimento della missione affidata. L’esperienza del Suo amore genera il radicale e assoluto amore a Lui. Da esso sgorga, naturalmente, l’amore al prossimo, il dono totale che giunge sino al nemico, perché ogni uomo, qualunque sia la sua situazione, reca scolpito il cromosoma divino. Ascoltare è dunque amareAscoltare la Verità è obbedire alla Verità; non a caso in ebraico i due verbi coincidono. Nulla di sentimentale, erotico e passionale. Un amore crudo, reale, totale, ragionevole e sapiente. L’amore crocifisso di Colui che, unico, ci ha donato tutto. Nel Suo tutto consegnato il nostro tutto consegnatoAmore per amore. La liturgia celeste che appare nel dialogo tra Gesù e lo scriba, tra Gesù e ciascuno di noi oggi, e ogni giorno: Ascoltare e proclamare nella vita, per pura Grazia, lo Shemà, l’unicità dell’amore di Dio, un canto di gioia nel compimento della propria vita secondo la volontà-comandamento-parola del Padre.
Solo all’ultimo posto il Vangelo è autentico e credibile

Giovedì della XV settimana del T.O.

dal Vangelo secondo Mt 11, 28-30

Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. 
Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. 
Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero». 

Il commento di don Antonello Iapicca

Lui ci chiama, per imparare la mitezza e l’umiltà, il cuore di Cristo. Ascoltare e andare. E’ questa la volontà di Dio per noi. Oggi e sempre. Sino all’ultima chiamata, quella per le nozze eterne. Andare e fermarsi presso di Lui. Vedere dove Lui abita, stare con Lui, imparare con l’orecchio aperto come un discepolo. Ai suoi piedi, cercando e desiderando l’unica cosa buona, la sua Parola, la sua vita, il suo amore. In questo atteggiamento del cuore, e solo in esso, troveremo ristoro, riposo per il nostro intimo, per le nostre anime.

Entrare nel suo riposo, nello shabbat preparato per noi, entrarvi con un cuore docile. Se oggi ascoltiamo la sua voce non induriamoci, lasciamoci sedurre dalla sua misericordia. Il suo Giogo, la Croce d’ogni giorno, è il cammino al riposo. Perchè riposa solo chi ha presente sempre la verità: “Sappi [tre cose,] da dove vieni: da una goccia putrefatta; dove vai: verso un luogo di polvere, di larve e di vermi; e davanti a chi dovrai rendere conto: davanti al Re, il Re dei re, il Santo, benedetto Egli sia” (Avot 3,1). Sapere queste tre cose è la verità che libera dall’orgoglio e dall’arroganza di dover condurre la propria vita con lo sforzo e l’angoscia di chi presume di sé ed esige dagli altri.

Andare al Signore è già imparare ad essere miti e umili di cuore. Il mite infatti, come recita il salmo 37, possiede già la terra perchè ha conosciuto la propria debolezza, non se ne scandalizza, si lascia condurre, e può vivere dell’autentico alimento: “Ricordati di tutto il cammino che il Signore, il tuo Dio, ti ha fatto fare in questi quarant’anni nel deserto per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandamenti. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provar la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per insegnarti che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che vive di tutto quello che procede dalla bocca del Signore”(Deut. 8,2-3). L’umiltà della verità conduce all’abbandono totale alla Parola: in un manoscritto ebraico scoperto nel 1898 nel cosiddetto Cairo Genizah, il luogo dove in una sinagoga del Cairo venivano “sepolti” i manoscritti logori contenenti le Sacre Scritture, è stato trovato questo frammento: “Venite a me, voi che siete senza istruzione, prendete dimora nella mia casa di studio [beit midrash]. Quanto tempo volete rimare privi di queste cose, mentre la vostra anima ne è tanto assetata? Ho aperto la bocca e ho parlato della sapienza: Acquistatela senza denaro. Sottoponete il collo al suo giogo, e permettete alla vostra anima di portare il suo carico. Essa è vicina a quelli che la cercano e la persona che dà la sua anima la trova. Vedete con gli occhi che poco mi faticai, ma ho perseverato fino a quando non l’ho trovata”.

Imparate (màthete = studiate) Da (apo) me. L’umiltà e la mitezza si studiano, ed il libro è Cristo, la sua stessa vita incarnata nella nostra esistenza. Studiare le sue parole, il suo pensiero, i suoi sentimenti, sino ad assumerli e a farli nostri. Nulla di sentimentale o moralistico, piuttosto il com-prendere, il prendere-con noi, su di noi, il giogo della Torah, il carico leggerissimo dello straordinario compiuto in Cristo. Prendere con noi una vita, un amore, una relazione, un lavoro e una malattia, anche una depressione, un giogo pesantissimo per chi non conosce Cristo. Un giogo che, senza la Grazia, schiaccia e uccide: e questo è per quanti esigono dai cristiani, facendo della Chiesa un luogo di leggi, di obblighi, di volontariati asfissianti: “«Gli scribi e i Farisei seggono sulla cattedra di Mosè. Fate dunque ed osservate tutte le cose che vi diranno, ma non fate secondo le opere loro; perché dicono e non fanno. Difatti, legano dei pesi gravi e li mettono sulle spalle della gente; ma loro non li vogliono muovere neppure con un dito» (Mat. 23:2-4).

“Mosè era un uomo molto umile, più di ogni altro uomo sulla faccia della terra.” (Numeri 12,3). E’ mite chi ha imparato che la lotta d’ogni giorno non è contro le creature di carne, contro suocere o mariti o mogli o figli o colleghi di lavoro o coinquilini di condominio. La lotta è contro il demonio, il padre della menzogna e dell’orgoglio. In questa lotta occorre imbracciare le armi della fede, la Parola, lo zelo per il Vangelo, il suo amore infinito. La fede, la speranza e la carità, i doni del Cielo riservati a chi reclina il proprio capo sul petto di Gesù. La nostra mente nel cuore di Gesù:  questa la fonte della mitezza e dell’umiltà, la porta al riposo e alla pace.

Ci aiuta la figura di Davide: “instancabile e tenace ricercatore di Dio, ne ha tradito l’amore, e questo è caratteristico: sempre è rimasto cercatore di Dio, anche se molte volte ha gravemente peccato; umile penitente, ha accolto il perdono divino, anche la pena divina, e ha accettato un destino segnato dal dolore. Davide così è stato un re, con tutte le sue debolezze, «secondo il cuore di Dio» (cfr 1Sam 13,14), cioè un orante appassionato, un uomo che sapeva cosa vuol dire supplicare e lodare” (Benedetto XVI, Catechesi del 22 giugno 2011). Non perdere mai l’audacia di ritornare a Dio, di abbandonarsi alla misericordia del Padre: è questa l’umiltà, la mitezza autentica, il cuore secondo Dio che conosce Dio e non dubita di Lui, mai. Neanche davanti alla caduta più atroce, mai. Neanche dinanzi alla contraddizione più umilante. Mai. Nella certezza che, inginocchiati con Cristo nel Getsemani, nulla e nessuno potrà mai separarci dal suo amore.