Maria Voce, del Movimento dei Focolari, in visita in Estremo oriente

di Pino Cazzaniga
Succeduta a Chiara Lubich, è al suo primo viaggio in Asia. In oltre un mese visita Corea del Sud, Giappone, Filippine,Thailandia. Incontri nel segno della testimonianza dell’amore di Cristo e del dialogo interreligioso con il mondo buddista. Un’intervista con il nostro corrispondente.

Tokyo (AsiaNews) – Maria Voce, presidente del Movimento dei Focolari (MdF) ha intrapreso il suo primo viaggio in Asia. Accompagnata dal co-presidente Giancarlo Faletti (69 anni, sacerdote focolarino), dal 6 gennaio fino al 20 febbraio sta toccando la Corea del Sud, il Giappone, le Filippine, la Thailandia.

Maria Voce, 72 anni, è stata eletta dall’Assemblea generale dei Focolari il 7 luglio 2008, dopo la morte della fondatrice Chiara Lubich (1920-2008).
Informato della sua presenza a Tokyo il 15 gennaio scorso, l’ho potuta intervistare, grazie a una presentazione del Nunzio mons. Bottari de Castello.
Nonostante il breve tempo a disposizione (25 minuti), il dialogo è risultato ricco. Chi scrive non è un focolarino e l’avvenimento è stato vissuto e riferito senza alcuna intenzione apologetica o critica, ma non senza una pre-comprensione, che è quella della fede cristiana e della missione, maturata nell’ambiente culturale dell’Asia orientale dove vivo da oltre 35 anni.
In questa prospettiva ci siamo sforzati di interpretare il programma del viaggio asiatico della nuova presidente del MdF e sopratutto il suo comportamento. In esso è certo presente l’atteggiamento materno, come espressione di responsabilità, ma prevale quello dell’umiltà’ attenta: Maria Voce è venuta in Asia soprattutto con l’intenzione di imparare. Il viaggio di 45 giorni la sta portando in quattro paesi: Corea del sud, Giappone, Filippine e Thailandia, che hanno in comune solo il fatto di essere asiatici geograficamente; per il resto sono diversi. Da qui anche la differenza di approccio e di durata delle rispettive visite.
Ciò risulta lampante dal confronto tra la visita in Giappone e quella, in corso, nelle Filippine. Nel paese del Sol Levante si è fermata solo 5 giorni (11-16 gennaio) e ha dato priorità al dialogo interreligioso, visitando il quartiere generale dell’associazione buddista Rissho Kosei-Kai (RKK). Nell’arcipelago filippino si tratterà per due settimane complete (17-31 gennaio) privilegiando l’aspetto ecclesiale; il 28 gennaio, per esempio, interverrà a Manila in una tavola rotonda nel corso del grande incontro che ogni 10 anni vede riunito tutto il clero filippino, insieme ai vescovi.
Un’ultima delucidazione sulla tappa giapponese. Gli eventi culminanti sono stati due, avvenuti entrambi a Tokyo, ma in luoghi e ambienti diversi.
Il 15 gennaio Maria Voce ha tenuto un discorso davanti a 5000 buddisti nella Grande Aula Sacra della RKK, su invito del dr. Nichiko Niwano, figlio del fondatore dell’associazione, Nikkyo (1906-1999). In quella stessa sala 28 anni prima (1981) Chiara Lubich aveva parlato, quella volta su invito di Nikkyo Niwano, davanti a un assemblea di 10.000 buddisti. Vale la pena ricordare che di ritorno a Roma, la Lubich in un’ intervista a un settimanale cattolico aveva detto: “Conoscendo più da vicino il moderno movimento buddista, mi sono resa conto che è un ponte gettato dalla Provvidenza di Dio verso la cristianità”. Il fondatore della RKK aveva incontrato per la prima volta la fondatrice del MdF nel 1979 a Roma. Maria Voce, indicando la relazione tra il MdF e la RKK come “dialogo in continuità, iniziato 30 anni fa da Chiara Lubich, ha detto: “Con la sua partenza esso non deve fermarsi, ma avere nuovo impulso.”
L’altro importante appuntamento è stato il giorno dopo: l’uditorio era formato da circa 400 focolarini arrivati da varie parti del Giappone: dall’Hokkaido, nel nord, a Okinawa (arcipelago Ryukyu) nel sud. L’incontro è avvenuto nell’auditorio dell’Istituto Italiano di Cultura al centro della city di Tokyo, in un’atmosfera familiare e piena di emozioni, pur espresse con sobrietà. Esempio di riuscita inculturazione della fede.
Ecco l’intervista esclusiva che Maria Voce ha concesso ad AsiaNews:
Presidente, lei è reduce da una visita alla Corea e sta ora terminando quella in Giappone. È su queste due nazioni che focalizzo le domande. Corea e Giappone, nelle loro reciproche relazioni sono presentate come “vicine-lontane”. Vicine per geografia e cultura, lontane per frizioni storiche non ancora sanate. È questa anche la sua impressione?
Io penso che una differenza sicuramente c’è, soprattutto come lei dice, per ragioni storiche. Gli incidenti del passato hanno lasciato una traccia. Ma nella situazione attuale mi sembra ci sia stato un avvicinamento. Questo risulta evidente a livello ecclesiale. Ho sentito da parte dei vescovi coreani come di quelli giapponesi tanta apertura reciproca. L’arcivescovo di Tokyo, Pietro Takeo Okada, che mi ha concesso un’udienza, mi ha parlato con affetto e ammirazione della comunità coreana ospite nella cattedrale. Insomma mi sembra che l’antagonismo si stia superando.
Non pensa che i focolarini coreani e giapponesi, in quanto cristiani appartenenti ai due popoli, possono fare molto per promuovere ulteriormente questo avvicinamento?
Precisamente. Il fatto che ci siano focolarini autoctoni in Corea e Giappone può contribuire a rafforzare questo legame.
Nella sua visita in Corea lei è stata positivamente impressionata soprattutto dall’aspetto ecclesiale, mentre qui in Giappone ha dato molto importanza, se non priorità, a quello del dialogo interreligioso.
Questo è vero. In Corea ho visto una Chiesa cattolica fiorente e ho incontrato anche diversi pastori delle Chiese protestanti che mi hanno accolta con molta stima e con molto calore. Non ho conosciuto, invece leader di altre religioni, ma ho sentito che anche lì il dialogo interreligioso è vivo.
Lei ha incontrato anche il vescovo Pietro Kang U-il, presidente della conferenza episcopale coreana. Avendo in sè radici giapponesi, incarna il dramma del rapporto tra i due popoli. Per quanto lo conosco è un vescovo eccezionale. Quale impressione le ha fatto?
Condivido il suo giudizio. A me e ai miei collaboratori ha offerto un pranzo, che può essere detto pranzo di lavoro perché erano presenti altri cinque vescovi, che svolgono un ruolo importante nella Chiesa coreana. Il vescovo Kang mi è apparso una personalità eccezionale per cultura, per fede, per fiducia nella Provvidenza, per l’attenzione a favorire tutto quello che è comunitario nella conduzione della Chiesa e con gli altri vescovi. Penso davvero che la conferenza episcopale coreana sia bene affidata nelle mani di mons. Kang.
Qual’e’ l’atteggiamento di Kang verso il MdF e altri movimenti cattolici? Solo di cortesia?
Non direi. Il vescovo Kang ha volutamente invitato gli altri 5 vescovi, proprio per favorire un rapporto di conoscenza reciproca, di comunione, direi.
Il dramma della divisione tra Nord (Pyongyang) e Sud (Seoul). Non pensa che all’origine del dramma ci siano delle inconfessate ma gravi responsabilita’ dell’Occidente? Rapacità del colonialismo, prima, e disumanità dell’ideologia del comunismo ateo, poi? Ambedue fenomeni di origine occidentale.
Nel passato, certamente, responsabilità ci saranno state. Purtroppo al presente potenze circostanti non sono veramente benevole circa una riunificazione della penisola coreana perchè temono che una Corea forte potrebbe compromettere l’equilibrio tra le potenze circostanti.
Tuttavia ho saputo che attualmente tante persone nella Corea del Sud, non solo nell’ambiente religioso ma anche in quello politico, stanno compiendo passi concreti di avvicinamento e di riconciliazione. Anche tra coloro che anni fa evitavano di dare aiuti alla Corea del Nord ora molti cercano in vari modi di sostenerla e di favorirne lo sviluppo economico.
Nella conferenza stampa a Seoul lei ha espresso la convinzione che “i coreani possono dare non poco anche alle altre nazioni dell’Asia, a cui il mondo guarda con sempre maggior interesse”. Può indicare concretamente qual’e’ il contributo che si aspetta da loro?
Il principale contributo che la Corea può dare alle nazioni dell’Asia è la testimonianza che un’autentica fede religiosa non solo può andar d’accordo, ma favorisce la tolleranza e soprattutto il rispetto della libertà e dei valori fondamentali dell’uomo e del suo sviluppo. L’ impressionante sviluppo economico e civile che in pochi decenni gli oltre 40 milioni di coreani del sud hanno operato è, anche in questo senso, un messaggio ai popoli dell’Asia.
In Giappone il MdF ha privilegiato il dialogo interreligioso e culturale. Questa sottolineatura è originale o è il risultato della stretta relazione tra il MdF di Chiara Lubich e l’associazione buddista Rissho Kosei-kai di Nikkyo Niwano?
L’impegno per il dialogo interreligioso oltre che ecumenico era già presente nel movimento prima che Chiara incontrasse il fondatore dell’associazione Rissho Koseikai a Roma nel 1979. A quel tempo Niwano aveva già legato relazioni con il cattolicesimo. Nel 1965 era stato ricevuto in udienza da Paolo VI. In un’intervista alla Radio Vaticana, rilasciata anni dopo, ricordando quell’incontro, disse: “Prima di allora guardavo il cristianesimo in modo molto diverso. Le parole del Papa mi hanno dato una grande fiducia nel cristianesimo e hanno fatto nascere in me il desiderio di incontrare le grandi personalità religiose del nostro tempo, per poter raggiungere una maggiore unione tra tutti i credenti”.
Detto questo credo di dover aggiungere che l’incontro tra Chiara Lubich e Nikkyo Niwano risponda a un piano provvidenziale per quanto riguarda il dialogo con il buddismo. Tengo, tuttavia, a sottolineare che questo fiorente dialogo, lo viviamo come espressione del dialogo della Chiesa nei confronti delle religioni non cristiane. Lo pratichiamo come strumenti della Chiesa. Il rapporto con la Rissho Kosei-Kai lo favorisce.
Il buddismo ha plasmato nei secoli la cultura giapponese. Non pensa lei che i “Focolari” giapponese e coreano possano contribuire le due chiese a diventare autoctone anche nell’espressione teologica e spirituale?
Credo di si’. Giapponesi e coreani ci sono anche in Italia nel movimento. Ma penso che saranno le persone del posto che matureranno questa visione adatta a far conoscere Cristo alla loro gente.
Dopo il Concilio Vaticano II l’evangelizzazione ad gentes, che coinvolge pienamente i laici, è diventata una priorità anche dei movimenti cristiani come il vostro. Non c’è il pericolo che questa sottolineatura indebolisca la dimensione della “sacramentalità”, che è una dimensione essenziale del cristianesimo.
L’importante è essere tutti Chiesa: sacerdoti e laici, ma ciascuno al suo posto. L’evangelizzazione è dovere degli uni e degli altri. Tuttavia penso che la missione evangelizzatrice dei laici sia oggi più che mai essenziale specie in quei settori dove la Chiesa ufficiale non può entrare, come la politica, l’economia e la cultura. Il Pontificio consiglio dei laici sta preparando un congresso per l’evangelizzazione e la testimonianza dei laici in Asia, che si terrà in Corea. Hanno chiesto al nostro movimento, come agli altri, contributo e partecipazione. Questa testimonianza fatta assieme da parte dei laici può essere efficace, senza per nulla andare a scapito della “sacramentalita’”, anzi nutrendola.
Ci può parlare dei rapporti tra il cardinal Pietro Shirayanagi, recentemente scomparso, e il MdF?
Per noi è stato un padre. Ha aiutato l’installazione e lo sviluppo del movimento in Giappone. Per trent’anni ha partecipato alle nostre “Mariapoli” fino a quando la salute glielo ha concesso. Ha incontrato parecchie volte Chiara Lubich e l’anno scorso è venuto a Roma per celebrare una messa in suo suffragio. Per noi Shirayanagi è stato l’amore paterno e materno della Chiesa e io sono andata a rendergli omaggio sulla sua tomba qui a Tokyo.

Inculturazione ed evangelizzazione, sfide dei francescani in Cina

Spiega il Ministro generale dei Frati Minori, padre Rodríguez Carballo

di Roberta Sciamplicotti

ROMA, mercoledì, 20 gennaio 2010 (ZENIT.org).- L’inculturazione e la diffusione del Vangelo sono due delle priorità dell’Ordine dei Frati Minori nella sua missione in Cina, ha spiegato padre José Rodríguez Carballo, Ministro generale dell’Ordine, intervenendo il 15 gennaio alla Pontificia Università Antonianum di Roma in occasione della Festa del Grande Cancelliere e dell’Università.

In questo contesto, si è svolta una giornata di studio sulla Chiesa in Cina per celebrare l’VII Centenario dell’ordinazione episcopale di fr. Giovanni da Montecorvino, primo Vescovo nel Paese asiatico, nominato Arcivescovo dell’attuale Pechino e Patriarca dell’Oriente.

Il Ministro generale dei Frati Minori ha ricordato come la società cinese stia vivendo attualmente “un periodo storico di transizione verso una collaborazione sempre più ampia con il mondo occidentale, specialmente a livello economico”.

“La gioventù appare vuota di valori, e tra i più sensibili appare la ricerca di una nuova spiritualità che possa dare un senso alla loro vita”, ha riconosciuto.

“In questo senso, il cristianesimo, in quanto religione straniera, appare a molta gente (…) come quella che può offrire qualcosa di nuovo e di più rispetto alle religioni o ideologie già conosciute o sperimentate in Cina. E questo spiega in parte la relativa crescita dei cristiani nel continente, e la partecipazione anche dei buddisti alle celebrazioni più importanti della Chiesa cattolica”.

In questo contesto, la sfida per la Chiesa cinese e per i francescani è “come essere di aiuto alla società in questo tempo di transizione”, ha osservato padre Carballo.

A tale proposito, ha sottolineato alcuni impegni che l’Ordine dovrà affrontare, il primo dei quali è quello dell’inculturazione.

“Per noi francescani, la prima forma di inculturazione è la implantatio Ordinis in Cina. Formare veri Frati minori autoctoni vuol dire incarnare il nostro carisma nella religiosità e cultura cinesi, e di conseguenza offrire alla Chiesa un modello vissuto d’inculturazione”.

Una seconda sfida è quella di “contribuire in maniera importante alla comunione interna all’unica Chiesa che è in Cina”, seguita dall’impegno per le opere sociali e la promozione umana.

“Oggi ancora l’evangelizzazione in Cina passa attraverso le attività sociali e caritative, dove la testimonianza silenziosa ma viva di tanti religiosi si fa messaggio eloquente dei valori del Vangelo di Gesù Cristo”.

Impegno richiede inoltre l’accompagnamento e la formazione dei francescani in Cina, dove sono presenti varie Congregazioni femminili e almeno 4.000 membri dell’Ordine Francescano Secolare.

Caratteristiche della missione francescana in Cina

Tra gli aspetti caratteristici dell’evangelizzazione francescana in Cina, padre Rodríguez Carballo ha sottolineato in primo luogo “l’utilizzo da parte dei missionari delle ‘vie umane’ che si presentavano loro”.

Allo stesso modo, è stata fondamentale “la promozione umana e culturale”: “non pochi francescani si dedicarono alla lingua cinese” e vennero costituite “molte opere di carattere umanitario e caritativo” dedicate soprattutto alle popolazioni delle zone rurali.

L’attività principale era ad ogni modo la diffusione del Vangelo, per “far conoscere la persona di Gesù Cristo, provocare e accompagnare le conversioni al cristianesimo e offrire la grazia di Dio con l’amministrazione dei Sacramenti”.

Nell’annuncio missionario, così come nella cultura cinese, un ruolo molto importante è anche quello della parola. Giovanni da Montecorvino aveva già tradotto nella lingua dei dominatori Tartari il Salterio e il Nuovo Testamento, e nel Novecento fra Gabriele M. Allegra decise di tradurre tutta la Bibbia in cinese dai testi originali.

Dopo aver attraversato tante difficoltà, non poteva poi non essere particolarmente rilevante la testimonianza del martirio, da quello dei primi missionari alle terribili esperienze di “tanti altri frati, rimasti senza nome, che hanno dato la loro vita a causa degli stenti o delle sofferenze di vario genere o del carcere, dove vennero rinchiusi come in una tomba”.

In questo contesto, padre Rodríguez Carballo ha ricordato che “dire vocazione francescana significa dire impegno per uscire da sé”, è “mettersi in cammino, per le strade del mondo, per annunciare il Vangelo, come fratelli e minori”, perché “il Vangelo è un dono destinato ad essere condiviso”.

“È l’ora di rispondere, con fantasia e creatività, a questa esigenza della nostra vocazione”, ha dichiarato.

L’Ordine dei Frati Minori “non può rinunciare a obbedire il mandato di Gesù: ‘Andate dunque e ammaestrate tutte le Nazioni'”. “In questa obbedienza ci giochiamo la fedeltà alla nostra vocazione e missione di Portatori del dono del Vangelo”.

Presto beata una giovane di 18 anni scomparsa nel 1990

Chiara Luce Badano, italiana, bella e sportiva, appartenente al Movimento dei Focolari

ROMA, mercoledì, 6 gennaio 2010 (ZENIT.org).- La Chiesa proclamerà presto beata una giovane scomparsa nel 1990 all’età di 18 anni: si tratta di Chiara Luce Badano.

Benedetto XVI ha infatti approvato il 19 dicembre scorso la pubblicazione del decreto che riconosce un miracolo attribuito all’intercessione di questa ragazza italiana.

È la prima appartenente al Movimento dei Focolari, fondato da Chiara Lubich, a raggiungere questo traguardo.

Nel commentare la notizia Maria Voce, Presidente dei Focolari, ha detto che questo decreto “ci incoraggia a credere nella logica del Vangelo, del chicco di grano caduto in terra che muore e che produce molto frutto”.

“Il suo esempio luminoso ci aiuterà a far conoscere la luce del carisma e ad annunciare al mondo che Dio è Amore”, ha aggiunto il successore di Chiara Lubich.

Attesa per 11 anni dai suoi genitori, Chiara nasce a Sassello il 29 ottobre 1971 e cresce in una famiglia semplice che la educata alla fede.

A nove anni incontra il Movimento dei Focolari nel partecipare con papà e mamma a Roma al Family Fest – una manifestazione mondiale del Movimento dei Focolari: è l’inizio, per tutti e tre, di una nuova vita.

Aderisce come Gen (Generazione Nuova), dove scopre Dio come Amore e ideale della vita, e si impegna a compiere in ogni istante, per amore, la sua volontà.

Ha 17 anni quando un forte dolore alla spalla accusato durante una partita a tennis insospettisce i medici. Cominciano esami clinici di tutti i tipi per definire l’origine del male. Ben presto si rivela l’origine del grave male che l’ha colpita: tumore osseo.

Si susseguono controlli medici ed esami e a fine febbraio ’89 Chiara affronta il primo intervento: le speranze sono poche. Nell’ospedale si alternano le ragazze che condividono lo stesso ideale e altri amici del Movimento per sostenere lei e la sua famiglia con l’unità e gli aiuti concreti.

I ricoveri nell’ospedale di Torino diventano sempre più frequenti e con essi le cure molto dolorose che Chiara affronta con grande coraggio. Ad ogni nuova, dolorosa “sorpresa” la sua offerta è decisa: “Per te Gesù, se lo vuoi tu, lo voglio anch’io!”.

Presto arriva un’altra grande prova: Chiara perde l’uso delle gambe. Un nuovo doloroso intervento si rivela inutile. E’ per lei una sofferenza immensa: si ritrova come in un tunnel oscuro.

“Se dovessi scegliere fra camminare e andare in Paradiso – confida a qualcuno – sceglierei senza esitare: andare in Paradiso. Ormai mi interessa solo quello”.

Il suo rapporto con Chiara Lubich è strettissimo. Lei la chiamava “Chiara Luce”.

All’inizio dell’estate del ’90 i medici decidono di interrompere le terapie: il male è ormai inarrestabile. Il 19 luglio la giovane informa Chiara Lubich della sua situazione: “La medicina ha deposto le sue armi. Interrompendo le cure, i dolori alla schiena sono aumentati e non riesco quasi più a girarmi sui fianchi. Mi sento così piccola e la strada da compiere è così ardua…, spesso mi sento soffocata dal dolore. Ma è lo Sposo che viene a trovarmi, vero? Sì, anch’io ripeto con te ‘Se lo vuoi tu, lo voglio anch’io’… Sono con te certa che insieme a Lui vinceremo il mondo!”.

Chiara Lubich a giro di posta le risponde: “Non temere Chiara di dirGli il tuo sì momento per momento. Egli te ne darà la forza, siine certa! Anch’io prego per questo e sono sempre lì con te. Dio ti ama immensamente e vuole penetrare nell’intimo della tua anima e farti sperimentare gocce di cielo. ‘Chiara Luce’ è il nome che ho pensato per te; ti piace? È la luce dell’Ideale che vince il mondo. Te lo mando con tutto il mio affetto…”.

Chiara Luce muore il 7 ottobre 1990. Aveva pensato a tutto: ai canti per il suo funerale, ai fiori, alla pettinatura, al vestito, che aveva desiderato bianco, da sposa…Le sue ultime parole rivolte alla mamma: “Sii felice, io lo sono!”.

Il papà le aveva chiesto se era disponibile a donare le cornee: aveva risposto con un sorriso luminosissimo. Subito dopo la partenza di Chiara Luce per il Cielo arriva un telegramma di Chiara Lubich per i genitori: “Ringraziamo Dio per questo suo luminoso capolavoro”.

La causa della sua beatificazione è stata aperta nel 1999 da monsignor Livio Maritano, vescovo di Acqui. Il miracolo di guarigione riconosciuto è avvenuto a Trieste.

In questo momento, il suo profilo su Facebook (Chiara Luce Badano) conta su 2.676 fan.

"Nessuno sia emarginato e abbandonato": così il Papa a pranzo alla mensa dei poveri della Comunità di Sant'Egidio

“Nessuno sia solo, nessuno sia emarginato, nessuno sia abbandonato”: è l’accorata esortazione lanciata da Benedetto XVI, durante la sua visita presso la mensa dei poveri della Comunità di Sant’Egidio a Roma. Ad accogliere il Papa, il fondatore della Comunità, Andrea Riccardi, e il suo presidente Marco Impagliazzo, accompagnati da una donna Rom e un immigrato del Senegal, e poi il vescovo di Terni, Vincenzo Paglia, e l’arcivescovo Luigi Moretti, vice-gerente di Roma. La cronaca nel servizio di Cecilia Seppia.


Un incontro semplice, intimo, familiare, e soprattutto gioioso quello di Benedetto XVI con gli ospiti e i volontari della Comunità di Sant’Egidio, in un luogo, la mensa dei poveri in Via Dandolo a Trastevere, senz’altro significativo per la città, ma soprattutto carico di umanità, dove è possibile toccare con mano la presenza di Cristo nel fratello che ha fame e in colui che gli offre da mangiare, dove emerge il senso più profondo dell’amore cristiano, dove il messaggio del Natale risuona ogni giorno e la carità si palesa in gesti concreti. Ecco quanto ha detto il Papa:


“Attraverso gesti di amore di quanti seguono Gesù diventa visibile la verità che Dio per primo ci ha amati e continua ad amarci per primo; per questo anche noi possiamo rispondere con l’amore (Enc. Deus caritas est, 17). Gesù dice: ‘ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi’ (Mt 25,35-36). E conclude: ‘tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me’ (v. 40). Ascoltando queste parole, come non sentirsi davvero amici di quelli in cui il Signore si riconosce? E non solo amici, ma anche familiari”.


A tavola con Benedetto XVI siedono 12 persone, tra questi una famiglia di zingari, un afghano sciita, un novantenne vedovo, un ragazzo di 25 anni in sedia a rotelle fin dalla nascita e abbandonato dalla famiglia. Con cordialità ed affetto il Papa durante il pranzo ha parlato con loro, ascoltato le loro storie difficili, qui in questo luogo dove non ci limita a sfamare gli affamati ma si serve la persona senza distinzioni di razza, religione e cultura. Qui dove oggi si respira una gioia particolare, frutto non di certo di cose materiali ma dello scoprirsi fratelli in Cristo Gesù. Ancora il Papa:


“Cari Amici! E’ per me un’esperienza commovente di essere con voi, di essere qui nella famiglia di Sant’Egidio, di essere con gli amici di Gesù perché Gesù ama proprio le persone sofferenti, le persone con difficoltà e vuole averli come i suoi fratelli e sorelle. Durante il pranzo, ho ascoltato storie dolorose e cariche di umanità, anche la storia di un amore trovato qui: storie di anziani, emigrati, gente senza fissa dimora, zingari, disabili, persone con problemi economici o altre difficoltà, tutti, in un modo o nell’altro, provati dalla vita. Sono qui tra voi per dirvi che vi sono vicino e vi voglio bene”.


Sono venuto tra voi nella Festa della Sacra Famiglia – ha detto poi Benedetto XVI – perché in un certo senso essa vi assomiglia:


“Anche la famiglia di Gesù, fin dai primi passi ha incontrato difficoltà, ha vissuto il disagio di non trovare ospitalità, fu costretta ad emigrare in Egitto per la violenza del re Erode. Voi conoscete la sofferenza ma avete qui, qualcuno che si prende cura di voi, anzi, qualcuno qui ha trovato la sua famiglia grazie al servizio premuroso della Comunità di Sant’Egidio, che offre un segno dell’amore di Dio per i poveri. Qui oggi si realizza quanto avviene a casa: chi serve e aiuta si confonde con chi è aiutato e servito, e al primo posto si trova chi è maggiormente nel bisogno”.


L’importanza dell’essere famiglia, del noi che si sostituisce all’io di una società egoista e materialista, è stata anche ripresa nel discorso del prof. Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, che ha incoraggiato tutti a ritrovare la roccia del fondamento che è Cristo Gesù, perché solo così si può essere donazione per l’altro. Al termine del pranzo con gli oltre 150 ospiti, il Papa ha voluto personalmente offrire dei doni a tutti i bambini presenti: giocatoli di ogni tipo, zainetti pieni di pennarelli e di album da colorare. Poi la visita nella scuola di italiano per i cittadini stranieri, all’interno della struttura; infine il saluto a quella folla festosa fatta di stranieri, anziani del quartiere, poveri troppo spesso emarginati, persone sole talvolta malate che il Papa ha voluto salutare quasi una per una, ribadendo che esiste una sola lingua capaci di unirci tutti: quella dell’amore.


Sull’incontro del Papa con i poveri ascoltiamo Claudio Betti, della Comunità di Sant’Egidio, al microfono di Linda Bordoni:

R. – E’ significativo perché è una testimonianza chiara di come la Chiesa voglia indicarci che il Natale non è solamente una festa consumistica, ma deve essere un momento in cui ciascun cristiano si domanda qual è la sua responsabilità nei confronti di chi è più povero e più debole.

D. – Com’è cominciata la tradizione del pranzo di Natale con i poveri?

R. – La comunità ha cominciato tanto tempo fa a fare il pranzo di Natale e ha iniziato un po’ con l’idea di non voler lasciare soli quei pochi anziani, che noi conoscevamo, qui a Trastevere. Ma piano piano è diventata molto più significativa e la gente ha cominciato a copiare la nostra iniziativa. E c’è un’ondata di solidarietà che viene costruita in questi giorni. Ogni povero ha un suo dono. Mi ricordo che un’anziana venuta ad un nostro pranzo ed entrata per caso, alla fine del pranzo ricevette un dono con il suo nome, perché in ogni pacco noi scriviamo il nome, e questa signora cominciò a piangere. Noi le chiedemmo: “Perché piangi?” Rispose: “Perché questo è chiaramente un dono di Dio. Qui nessuno conosce il mio nome se non Dio e quindi questo è un dono di Dio”. Io penso che il significato di questo pranzo è questo: noi vogliamo testimoniare che Dio, nel momento in cui nasce, è vicino prima di tutto a chi è povero.

D. – Il Papa ha manifestato più volte il suo apprezzamento per il cammino intrapreso dalla Comunità di Sant’Egidio…

R. – Il nostro cammino è un cammino che lui ama e che stima. Gli siamo molto grati per questo, perché è una consolazione: è la consolazione di un lavoro che viene fatto ogni giorno, quotidianamente, da migliaia e migliaia di volontari che spendono parte della loro vita al servizio di chi è povero. Il Santo Padre ha visitato tre volte la comunità. La prima è stata a Napoli, durante l’incontro interreligioso per la pace, e la seconda a San Bartolomeo, per ricordare i martiri del XX secolo, e questa volta l’incontro con i poveri. Sono tre aspetti della vita della Comunità di Sant’Egidio che ci sono particolarmente cari e che il Papa in qualche modo ha confermato con la sua presenza e il suo amore. Sono tutte e tre testimonianze della possibilità di comunicare il Vangelo, credo.

da Radio Vaticana (Montaggio a cura di Maria Brigini)

Le donne dell’Opus Dei

Spose, madri e sorelle che vivono un carisma

di Miriam Díez i Bosch

NEW YORK, lunedì, 14 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Nella sede dell’Opus Dei di New  York, abbiamo incontrato Marie Oates, autrice del libro “Women of Opus Dei: In Their Own Words” (Donne dell’Opus Dei, secondo le proprie parole), frutto del suo desiderio di mostrare in che modo le donne vivono il carisma dell’Opus Dei.

Scritto in collaborazione con Linda Ruf e Jenny Driver (Crossroad Publishing, 2009), il libro presenta alcuni profili femminili che variano da una dottoressa di Harvard a mamme e casalinghe, passando per una laureata al Massachusetts Institute of Technology (MIT).

In questo modo, il volume presenta le “donne della più intrigante organizzazione del Cattolicesimo”.

Finalmente qualcuno parla delle donne dell’Opus Dei. Le donne rappresentano la metà – secondo alcuni anche più della metà – del numero totale dei membri dell’Opus Dei negli Stati Uniti e nel mondo, ma la maggior parte della gente non le conosce. Perché questo scarso protagonismo?

Oates: Come parte della Chiesa cattolica, l’Opus Dei esiste per aiutare uomini e donne laici ad incontrare e amare Dio, attraverso il proprio lavoro – qualunque esso sia – e gli avvenimenti quotidiani che compongono una vita normale. Ma avere una vocazione all’Opus Dei non cambia il fatto di continuare ad essere semplici fedeli laici, alla stessa stregua degli altri fedeli della Chiesa cattolica.

Le persone, nell’Opus Dei, non ostentano la propria vocazione. In generale, cercano di essere “ragazzi e ragazze normali” con i propri colleghi, in famiglia e tra gli amici, cercando al contempo di essere più simili a Cristo nel loro lavoro e con chiunque entrino in contatto. In questo senso, ciascuno si sforza personalmente di dare gloria a Dio e a dare una testimonianza cristiana nel mondo in cui svolge il loro lavoro e nelle loro relazioni personali.

I lettori troveranno che vi è molto “protagonismo” – come anche imperfezioni e difetti umani – nelle donne presentate nel libro.

Ciascuna è protagonista del proprio, unico e personale sforzo per vivere la chiamata alla santità come persona laica.

Esiste un prototipo di donna dell’Opus Dei?

Oates: No. Le donne che sono presentate nel libro “Women of Opus Dei: In Their Own Words” sono tutte uniche e originali.

Le donne di questo libro, come tutte le donne – e uomini – dell’Opus Dei, provengono da ogni classe sociale. Quattro delle 15 donne presentate nel libro sono convertite al Cattolicesimo. Tre di loro sono di origine afroamericana; alcune provengono da ambienti asiatici e ispanici. Alcune sono madri e casalinghe – un importante lavoro professionale stimato come tale da San Josemaría Escrivá. Alcune sono madri che portano avanti le loro famiglie e le loro professioni.

C’è una scienziata, un paio di dottoresse – tra cui una delle fondatrici dell’Hospice Movement negli Stati Uniti – professioniste dei servizi ospedalieri, della cura infantile, alcune sono educatrici, c’è la preside di un collegio per ragazze, la direttrice esecutiva di una organizzazione senza scopo di lucro, ecc.

La maggioranza delle donne sono sposate, altre sono celibi. Ciò che hanno in comune è la vocazione: la medesima chiamata, nonostante la diversità delle circostanze in cui si svolge.

Sebbene ciascuna ha i propri difetti e obiettivi personali, come chiunque, tutte amano profondamente la fede cattolica e vedono che la loro vocazione all’Opus Dei le aiuta ad amare, vivere e comunicare la fede con maggiore efficacia.

Le donne (e gli uomini) dell’Opus Dei sono cattolici normali che desiderano rispondere ogni giorno al profondo amore e alla grande bontà di Dio.

Cosa offre di specifico l’Opus Dei alle donne, in termini di formazione e di stile di vita?

Oates: La formazione offerta dall’Opus Dei, una prelatura personale della Chiesa cattolica, semplicemente rispecchia la formazione cristiana raccomandata dalla Chiesa per tutti i fedeli, uomini e donne. I programmi cristiani sono gli stessi per gli uomini e per le donne, anche se vengono portati avanti in modo indipendente tra loro.

L’indipendenza dei programmi di formazione delle donne da quelli degli uomini costituisce un elemento del carisma fondativo che San Josemaría ha ricevuto da Dio. Funziona con efficacia nelle attività formative dell’Opus Dei, ma potrebbe non essere lo stesso per altre organizzazioni cattoliche.

Una delle caratteristiche specifiche della formazione è quella di essere offerta da laici e sacerdoti. Inoltre essa vuole essere di natura pratica, per aiutare le persone a vivere le virtù cristiane nei loro luoghi di lavoro e nelle loro attività quotidiane normali.

Nel suo libro è impossibile individuare l’affiliazione politica delle donne presentate. È stata volutamente esclusa, oppure semplicemente non rientrava nel tema?

Oates: È stato fatto di proposito, proprio perché non ha importanza. Mi spiego meglio. I membri dell’Opus Dei sono incoraggiati, in quanto uomini liberi, ad essere cittadini responsabili, a votare, a interessarsi alla vita politica che incide sulla loro vita e su quella degli altri nei diversi Paesi e comunità.

In altre parole, i membri dell’Opus Dei sono completamente liberi in quanto al voto, alla politica, all’affiliazione a un partito politico, ecc. L’Opus Dei è totalmente apolitico. I suoi fini sono esclusivamente spirituali. La gente, nell’Opus Dei, si colloca in tutto lo spettro politico: alcuni sono liberali, alcuni conservatori, alcuni moderati, ecc. Come cattolici devoti, condividono alcuni punti di vista sui “temi caldi” di natura morale come l’aborto, l’eutanasia, l’etica sessuale, la giustizia sociale, la bioetica, ecc., ognuno dei quali ha le sue ripercussioni politiche.

Ciò nonostante, sono incoraggiati a prendere posizione su questo o quell’altro tema di natura politica, in armonia con la propria coscienza. Non esiste una posizione unica che i membri dell’Opus Dei adottano di fronte a questi o altri temi politici. Come cristiani pregano e riflettono sui temi e poi assumono le proprie decisioni politiche, basate sulle opzioni che hanno a loro disposizione.

Secondo lei queste donne rappresentano l’Opus Dei che fu pensato dal fondatore, San Josemaría Escrivá?

Oates: Mi piace credere che sia così. Sono tutte donne normali, non sono perfette, ma si sono impegnate a lottare ogni giorno per mantenere Gesù al centro della loro vita. Tutti siamo “opere in fase di creazione” fino a che non moriamo.

La nostra esistenza sulla terra è un pellegrinaggio attraverso il tempo, verso il nostro destino definitivo: la vita eterna con Dio. Dio ci dà il tempo qui sulla terra per coltivare i talenti che ci ha donato e per tirare fuori il meglio e metterlo al suo servizio e al servizio delle anime che ci circondano.

Credo che San Josemaría sarebbe contento della dedizione, dell’impegno e della varietà di queste donne e delle migliaia di donne non incluse in questo libro.

È probabile che, se le avesse avute tutte insieme davanti a sé, non si sarebbe congratulato con loro per l’appartenenza all’Opus Dei, ma le avrebbe esortate ad essere donne più coraggiose. Le avrebbe incoraggiate ad essere più generose nel loro amore a Dio e nello spirito di servizio. Le avrebbe invitate a sognare apostolicamente con una visione del mondo, a continuare a lottare per essere migliori, a convertirsi quotidianamente.

Era solito dire di se stesso, che aveva vissuto il ruolo del figliol prodigo ogni giorno della sua vita e che tutti noi abbiamo bisogno di avere ogni giorno piccole e grandi conversioni, in grado di riorientarci verso Dio.

Per maggiori informazioni: “Women of Opus Dei: In Their Own Words”