da Baltazzar | Dic 6, 2011 | Chiesa, Cultura e Società, Famiglia, Libri
E’ stato presentato venerdì presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia
CITTA’ DEL VATICANO, lunedì, 5 dicembre 2011 (ZENIT.org).- Venerdì 2 dicembre, si è svolta presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, la presentazione del libro “Il cambiamento demografico”, a cura del Comitato per il Progetto Culturale della Conferenza Episcopale Italiana, pubblicato da Laterza. Sono intervenuti S.E.R. Camillo Ruini, Presidente del Comitato, Mons. Livio Melina, e i Proff. Sergio Belardinelli, Gabriella Gambino e Gian Carlo Blangiardo.
Ha aperto la presentazione il saluto del Preside, Mons. Livio Melina, il quale ha sottolineato come il volume mostri palesemente l’importanza della dimensione sociale della famiglia, che non può essere ridotta al solo ambito privato.
Nel suo intervento, il Card. Ruini ha sottolineato “la scarsa consapevolezza della gravità e l’inevitabilità della sfida del cambiamento demografico”. Scopo principale, quindi, di questo rapporto-proposta è quello di aumentare questa consapevolezza. Due sono, secondo Sua Eminenza, gli ordini di fattori che possono contribuire a cambiare la tendenza. Da un lato, gli interventi pubblici, volti ad eliminare gli ostacoli economici e sociali che dissuadono le coppie dell’avere i figli che desiderano, nonché a sottolineare come le nuove generazioni siano un bene pubblico e non soltanto un bene privato dei genitori, pur nella libertà di questi ultimi. Il secondo ordine di fattori, che pesa forse di più sulle coppie, si riferisce alla mentalità diffusa oggi e che vede nelle nuove generazioni una minaccia ad un certo welfare. Mentre l’Italia ha un ritardo di circa 30 anni sulla dimensione degli interventi pubblici, trova invece al suo interno una solidarietà e una rilevanza sociale ed economica molto forte della famiglia. La richiesta che il rapporto-proposta fa alla società e ai vari agenti culturali e mediatici è quella di superare l’interpretazione individualistica degli affetti e della famiglia, riscoprendone la dimensione relazionale. Soltanto una alleanza tra tutti questi agenti può far sì che la consapevolezza del corpo sociale sulle questioni demografiche, che sono di per sé di lungo periodo, possa farle entrare nell’agenda politica, rivolta tante volte a periodi più brevi.
La professoressa Gambino ha segnalato come “una delle maggiori novità apportate dal volume quella di mettere per la prima volta in relazione aborto e demografia”, di analizzare a partire dai dati, gli effetti della legge 194 sull’atteggiamento culturale in relazione alle scelte riproduttive tra le coppie e le donne, portando allo scoperto quei bisogni umani che la freddezza della legislazione non è in grado di soddisfare, sottolineando la portata sociale delle scelte legislative del nostro Paese. La legge 194, afferma la Gambino, ha procurato un “costante, silenzioso movimento demografico caratterizzato dalla morte procurata di un bambino su cinque nel ventre della propria madre”. I dati esprimono sul piano privato il ruolo che la legge sta avendo sui comportamenti riproduttivi, lasciando anche intravedere una generale e diffusa indifferenza pubblica verso il fenomeno dell’aborto. In maniera preoccupante, infatti, i sondaggi lasciano emergere la solitudine e l’anonimato relazionale nel quale vengono lasciate le donne che vivono questo dramma. In una prospettiva autenticamente sussidiaria della società civile, si rende oggi più che mai necessario mettere da parte il sistema di aiuto assistenzialistico alla famiglia e preferire un approccio di tipo promozionale, capace cioè di “rimettere in moto” il sistema relazionale della famiglia di fronte alle difficoltà e ai bisogni. La famiglia deve essere parte attiva di un percorso di aiuto all’interno di un sistema di “rete”, che la sostenga dall’esterno e la porti ad essere più coesa e rafforzata al suo interno.
Il Prof. Gian Carlo Blangiardo, ha ribadito il protagonismo della famiglia dietro alle grandi trasformazioni demografiche, anche come risorsa fondamentale per affrontare la sfida che abbiamo davanti. Illustrando sommariamente i principali dati statistici presenti nel rapporto, ha evidenziato i tre nodi che le statistiche lasciano intravedere sul cambiamento demografico: il ricambio generazionale (dal rinvio delle nascite alla definitiva rinuncia; da sottolineare specialmente il fatto che il numero attuale delle nascite non corrisponde al numero di figli desiderati dalle donne. Inoltre, altro dato importante è vedere come il contributo dell’immigrazione, pur importante, non basta a compensare le gravi carenze della situazione attuale); la difficile conquista dell’autonomia dei giovani adulti, che restano in famiglia fino ad una età superiore ai 30 anni (questo dato, presente in altri Paesi, rimane secondo le statistiche specificamente italiano per quanto riguarda la percentuale); finalmente, l’invecchiamento demografico (dal sorpasso del numero dei “nonni” su quello dei “nipoti”, avvenuto nel primo decennio degli anni 2000, si aspetta adesso il sorpasso dei “bisnonni” sui pronipoti”). Interessante il dato del “PIL demografico” proposto dal prof. Blangiardo, comparando il numero di anni in età di lavoro delle persone con il numero di anni di pensione. Come terapia per governare il cambiamento, il rapporto evidenzia il bisogno di rimettere al centro la famiglia, consentendo di realizzare dei progetti di formazione del capitale umano. Una prima ricetta si trova, secondo il docente, nel Piano Nazionale sulla Famiglia.
Concludendo l’evento, il prof. Belardinelli, che ha moderato il dialogo, ha messo in relazione il tema del lavoro, che viene trattato nella prima parte del libro, con la questione della famiglia.
E’ possibile acquistare il libro, cliccando su:
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da Baltazzar | Dic 5, 2011 | Chiesa, Cultura e Società
di Stefano Fontana
Tratto da La Bussola Quotidiana
A Trieste nasce qualcosa di nuovo nel campo della formazione dei cattolici all’impegno politico.
L’arcivescovo Giampaolo Crepaldi ha annunciato oggi la prossima esperienza del “Laboratorio Trieste”. Lo ha fatto stamattina durante il Convegno di presentazione del Terzo Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo curato dall’Osservatorio cardinale Van Thuân di cui mons. Crepaldi è presidente. Lo ha fatto in un salone gremito dello splendido Palazzo Diana, recentemente restaurato.
«Se la Chiesa si interessa di formare i propri fedeli ad una testimonianza di verità e coerenza nella politica – ha detto mons. Crepaldi – lo fa perché la sua missione è ordinare a Dio tramite i fedeli laici le cose temporali. Nel rispetto della loro legittima autonomia ma anche nel riconoscimento dello spazio che è dovuto a Dio nel mondo, senza del quale anche tale loro legittima autonomia viene progressivamente meno». «Ecco perché la Diocesi – ha proseguito l’arcivescovo – ha pensato ad un progetto, che cerchi di superare i limiti di progetti analoghi realizzati in questi ultimi anni, che sia un progetto organico, vale a dire inserito organicamente nella vita della Chiesa locale e non qualcosa di a se stante, che operi a tre livelli complementari: il livello della Scuola di formazione all’impegno sociale e politico; il livello dei Tavoli di confronto tra cattolici impegnati in politica e ilo livello dei Tavoli di confronto tra cattolici e laici». «Il progetto si avvarrà di un Testo base – ha concluso – che ho già preparato e che spiega il senso, le modalità di svolgimento e le finalità del Laboratorio Trieste. Questi elementi caratterizzeranno il Laboratorio di Trieste come un servizio importante e innovativo della Chiesa cattolica di Trieste per il bene della città e a gloria di Dio».
Sono evidenti, da queste parole dell’Arcivescovo, le tre principali novità del Laboratorio Trieste. La prima è la sua organicità. Esso consta di tre elementi – la Scuola di formazione sociale e politica, gli incontri di confronto tra cattolici impegnati in politica e gli incontri tra cattolici e laici – coordinati tra loro dentro un progetto unitario. Singole esperienze sono state fatte anche altrove. In molte diocesi c’è la Scuola, in altre sono stati tentati incontri tra cattolici e tra cattolici e laici … è però una novità il fatto di pensare le tre cose insieme, in modo che si sostengano reciprocamente. Naturalmente con ciò cambia anche la fisionomia di ognuno dei tre momenti. La Scuola, per esempio, dovrà essere di Dottrina sociale della Chiesa e non di come si fa una campagna elettorale o come è fatto il bilancio del comune. Dovrà essere una scuola che prepara dei fedeli laici ad un impegno alto, in collegamento con la comunità cristiana e dentro una prospettiva di fede e di dottrina cattolica. Non potrà essere una Scuola tecnica, ma formare alla Dottrina sociale della Chiesa dentro la più vasta area della dottrina cristiana e dentro la vita della fede ecclesiale.
La seconda novità è che ci sia un Testo base scritto dal vescovo che spiega il progetto nei suoi fondamenti, nella sua ispirazione, nei suoi metodi e nei suoi fini. Ciò impegna autoritativamente il vescovo ed impegna anche i partecipanti a lavorare dentro la Chiesa e non come battitori liberi, nel solco della Tradizione e non a servizio delle proprie opinioni. Il Testo base descrive la cornice che tutti devono accettare perché il Laboratorio possa essere una esperienza cattolica. Questo evita ogni forma di orizzontalismo: il Testo base spiega molto bene che lo scopo dell’impegno politico dei cattolici è ordinare a Dio le cose temporali.
Qui emerge anche la terza principale novità. Spesso analoghe esperienze sono partite dall’esistente ed anno raccolto attorno ad un tavolo o ad una Scuola persone espressive del cosiddetto “mondo cattolico”. Questo mondo cattolico è oggi però piuttosto frammentato e in esso vi si parlano linguaggi molto vari. Basti pensare che sui famosi principi non negoziabili di Benedetto XVI esistono molte posizioni diverse. Urge allora definire prima (sottolineo l’avverbio prima) alcune premesse oggettivamente connesse con la fede cattolica e con gli insegnamenti della Chiesa – oltre che della retta ragione – che i partecipanti al Laboratorio accettano, non per consenso soggettivo ma perché senza quelle premesse non c’è la forma cattolica dell’iniziativa. Questa novità rovescia quanto si fa comunemente: di solito, infatti, si pensa che l’unità debba essere lo scopo finale di esperienze di questo tipo. A Trieste invece si pensa che debba essere la premessa iniziale, altrimenti non si può parlare un linguaggio comune.
Queste premesse gettano poi una luce anche sui momenti del dialogo con i laici, perché senza sapere chi si è risulta molto difficile dialogare. Le novità del Laboratorio Trieste sono anche altre. Non ci resta, per il momento, che attendere il Testo base per comprendere tutta la portata di questo Laboratorio e poi vederne la pratica attuazione. Penso che sarà qualcosa di molto interessante.
da Baltazzar | Dic 5, 2011 | Benedetto XVI, Chiesa, Cultura e Società
di Massimo Introvigne
Tratto da La Bussola Quotidiana
Il 2 dicembre Benedetto XVI ha ricevuto i membri della Commissione Teologica Internazionale impegnati nella loro Plenaria, cui ha offerto alcuni spunti di riflessione sul lavoro e le priorità del teologo cattolico oggi.
Il Papa ha anzitutto notato che «i lavori di questa Sessione hanno coinciso quest’anno con la prima settimana d’Avvento, occasione che ci fa ricordare come ogni teologo sia chiamato ad essere uomo dell’avvento, testimone della vigile attesa, che illumina le vie dell’intelligenza della Parola che si è fatta carne». La teologia parte sempre da una buona vita spirituale, e da una dimensione escatologica. «Possiamo dire che la conoscenza del vero Dio tende e si nutre costantemente di quell’”ora”, che ci è sconosciuta, in cui il Signore tornerà. Tenere desta la vigilanza e vivificare la speranza dell’attesa non sono, pertanto, un compito secondario per un retto pensiero teologico, che trova la sua ragione nella Persona di Colui che ci viene incontro e illumina la nostra conoscenza della salvezza».
Il Pontefice ha poi offerto spunti di riflessione su tre temi che la Commissione Teologica Internazionale sta studiando negli ultimi anni seguendo indicazioni della stessa Santa Sede. Il primo tema riguarda «la questione fondamentale per ogni riflessione teologica: la questione di Dio ed in particolare la comprensione del monoteismo». Storicamente, «dietro la professione della fede cristiana nel Dio unico si ritrova la quotidiana professione di fede del popolo di Israele: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico Dio è il Signore” (Dt 6, 4». Ma «l’inaudito compimento della libera disposizione dell’amore di Dio verso tutti gli uomini si è realizzato nell’incarnazione del Figlio in Gesù Cristo. In tale Rivelazione dell’intimità di Dio e della profondità del suo legame d’amore con l’uomo, il monoteismo del Dio unico si è illuminato con una luce completamente nuova: la luce trinitaria. E nel mistero trinitario s’illumina anche la fratellanza fra gli uomini».
Il teologo cattolico non può dunque ridursi a uno studioso di religioni comparate. «La teologia cristiana, insieme con la vita dei credenti, deve restituire la felice e cristallina evidenza all’impatto sulla nostra comunità della Rivelazione trinitaria. Benché i conflitti etnici e religiosi nel mondo rendano più difficile accogliere la singolarità del pensare cristiano di Dio e dell’umanesimo che da esso è ispirato, gli uomini possono riconoscere nel Nome di Gesù Cristo la verità di Dio Padre verso la quale lo Spirito Santo sollecita ogni gemito della creatura (cfr Rm 8)». Il carattere trinitario del monoteismo cristiano lo rende diverso da ogni altro monoteismo, ed è anche la radice profonda del suo messaggio unico di giustizia e di pace. «La teologia, in fecondo dialogo con la filosofia, può aiutare i credenti a prendere coscienza e a testimoniare che il monoteismo trinitario ci mostra il vero Volto di Dio, e questo monoteismo non è fonte di violenza, ma è forza di pace personale e universale».
La seconda priorità nell’agenda del teologo cattolico indicata dal Pontefice è il rapporto fra Sacra Scrittura e Tradizione della Chiesa, il cui contenuto è continuamente dichiarato e annunciato, come Tradizione vivente, dal Magistero. Certo, ha detto il Papa, «il punto di partenza di ogni teologia cristiana è l’accoglienza di questa Rivelazione divina: l’accoglienza personale del Verbo fatto carne, l’ascolto della Parola di Dio nella Scrittura. Su tale base di partenza, la teologia aiuta l’intelligenza credente della fede e la sua trasmissione». Ma occorre subito un altro passaggio. «Tutta la storia della Chiesa mostra però che il riconoscimento del punto di partenza non basta a giungere all’unità nella fede. Ogni lettura della Bibbia si colloca necessariamente in un dato contesto di lettura, e l’unico contesto nel quale il credente può essere in piena comunione con Cristo è la Chiesa e la sua Tradizione viva. Dobbiamo vivere sempre nuovamente l’esperienza dei primi discepoli, che “erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere” (At 2, 42)».
Si tratta dunque di chiarire «i principi e i criteri secondo i quali una teologia può essere cattolica», posto che non ogni teologia proposta da cattolici è automaticamente una teologia cattolica, ma solo quella fedele alla Chiesa e al Magistero. E «una teologia veramente cattolica con i due movimenti, “intellectus quaerens fidem et fides quaerens intellectum”, è oggi più che mai necessaria, per rendere possibile una sinfonia delle scienze e per evitare le derive violente di una religiosità che si oppone alla ragione e di una ragione che si oppone alla religione». La terza priorità nell’agenda della Commissione è poi «la relazione fra la Dottrina sociale della Chiesa e l’insieme della Dottrina cristiana». È questa la grande questione dello statuto teologico della dottrina sociale della Chiesa. «L’impegno sociale della Chiesa non è solo qualcosa di umano, né si risolve in una teoria sociale. La trasformazione della società operata dai cristiani attraverso i secoli è una risposta alla venuta nel mondo del Figlio di Dio: lo splendore di tale Verità e Carità illumina ogni cultura e società». Senza questa dimensione teologica la dottrina sociale si riduce a una ideologia, e nascono equivoci anche quanto alla collaborazione in materia di dottrina sociale con non cattolici e non credenti.
Invece, nella pur «necessaria collaborazione a favore del bene comune anche con chi non condivide la nostra fede, dobbiamo rendere presenti i veri e profondi motivi religiosi del nostro impegno sociale, così come aspettiamo dagli altri che ci manifestino le loro motivazioni, affinché la collaborazione si faccia nella chiarezza. Chi avrà percepito i fondamenti dell’agire sociale cristiano vi potrà così anche trovare uno stimolo per prendere in considerazione la stessa fede in Cristo Gesù». Con queste indicazioni il Papa ha voluto ribadire «in modo significativo quanto la Chiesa abbia bisogno della competente e fedele riflessione dei teologi sul mistero del Dio di Gesù Cristo e della sua Chiesa. Senza una sana e vigorosa riflessione teologica la Chiesa rischierebbe di non esprimere pienamente l’armonia tra fede e ragione. Al contempo, senza il fedele vissuto della comunione con la Chiesa e l’adesione al suo Magistero, quale spazio vitale della propria esistenza, la teologia non riuscirebbe a dare un’adeguata ragione del dono della fede».
da Baltazzar | Dic 5, 2011 | Benedetto XVI, Chiesa
All’Angelus Benedetto XVI invita i fedeli a lasciar perdere il lusso e prega per i rifugiati e i migranti
di Andrea Tornielli
Tratto da Vatican Insider
Lo «stile di Giovanni Battista» dovrebbe richiamare ogni cristiano a scegliere una vita sobria, specialmente nel tempo di attesa del Natale. Lo ha detto Papa Ratzinger all’Angelus della seconda domenica di Avvento, ricordando le due figure che hanno avuto «un ruolo preminente nella preparazione della venuta storica del Signore Gesù: la Vergine Maria e san Giovanni Battista».
Proprio sul Battista si concentra il Vangelo di questa domenica, presentandolo «come una figura molto ascetica: vestito di pelle di cammello, si nutre di cavallette e miele selvatico, che trova nel deserto della Giudea». Gesù stesso, una volta, ha ricordato Benedetto XVI, «lo contrappose a coloro che “stanno nei palazzi dei re” e che “vestono con abiti di lusso”. Lo stile di Giovanni Battista dovrebbe richiamare tutti i cristiani a scegliere la sobrietà come stile di vita, specialmente in preparazione alla festa del Natale, in cui il Signore – come direbbe san Paolo – “da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà”».
Il Papa ricorda la missione del precursore Giovanni, che «fu un appello straordinario alla conversione: il suo battesimo è legato a un ardente invito a un nuovo modo di pensare e di agire, è legato soprattutto all’annuncio del giudizio di Dio e della imminente comparsa del Messia». L’appello del Battista, aggiunge Ratzinger, «va dunque oltre e più in profondità rispetto alla sobrietà dello stile di vita: chiama ad un cambiamento interiore, a partire dal riconoscimento e dalla confessione del proprio peccato».
«Mentre ci prepariamo al Natale – ha concluso Benedetto XVI – è importante che rientriamo in noi stessi e facciamo una verifica sincera sulla nostra vita. Lasciamoci illuminare da un raggio della luce che proviene da Betlemme, la luce di Colui che è “il più Grande” e si è fatto piccolo, “il più Forte” e si è fatto debole».
Dopo la preghiera, il Pontefice ha ricordato che nei prossimi giorni, a Ginevra e in altre città, si celebrerà il cinquantesimo anniversario dell’istituzione dell’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni, il sessantanesimo della Convenzione sullo status dei rifugiati ed il cinquantesimo della Convenzione sulla riduzione dei casi di apolidìa. «Affido al Signore – ha detto Ratzinger – quanti, spesso forzatamente, debbono lasciare il proprio Paese, o sono privi di nazionalità. Mentre incoraggio la solidarietà nei loro confronti, prego per tutti coloro che si prodigano per proteggere e assistere questi fratelli in situazioni di emergenza, esponendosi anche a gravi fatiche e pericoli».
da Baltazzar | Dic 5, 2011 | Chiesa, Liturgia
dal vangelo secondo Lc 5,17-26
Un giorno Gesù sedeva insegnando. Sedevano là anche farisei e dottori della legge, venuti da ogni villaggio della Galilea, della Giudea e da Gerusalemme. E la potenza del Signore gli faceva operare guarigioni.
Ed ecco alcuni uomini, portando sopra un letto un paralitico, cercavano di farlo passare e metterlo davanti a lui. Non trovando da qual parte introdurlo a causa della folla, salirono sul tetto e lo calarono attraverso le tegole con il lettuccio davanti a Gesù, nel mezzo della stanza. Veduta la loro fede, disse: “Uomo, i tuoi peccati ti sono rimessi”.
Gli scribi e i farisei cominciarono a discutere dicendo: “Chi è costui che pronunzia bestemmie? Chi può rimettere i peccati, se non Dio soltanto?”. Ma Gesù, conosciuti i loro ragionamenti, rispose: “Che cosa andate ragionando nei vostri cuori? Che cosa è più facile, dire: Ti sono rimessi i tuoi peccati, o dire: Àlzati e cammina? Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati: io ti dico – esclamò rivolto al paralitico – alzati, prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua”. Subito egli si alzò davanti a loro, prese il lettuccio su cui era disteso e si avviò verso casa glorificando Dio.
Tutti rimasero stupiti e levavano lode a Dio; pieni di timore dicevano: “Oggi abbiamo visto cose prodigiose”.
IL COMMENTO di don Antonello Iapicca
Un paralitico non può muoversi. Sembra evidente ma non lo è. La verità è che spesso siamo come dei paralitici convinti di poter camminare, di essere in grado di fare, liberamente, qualunque movimento. E tentiamo di alzarci, immaginiamo, rincorrendo sogni e fantasie, di correre, danzare, nuotare, tirar calci sublimi ad un pallone. Mentre la realtà è ben altra, schiacciati come siamo in un lettuccio di dolori. Ci illudiamo di potercela fare, di amare, perdonare, o di risolvere le situazioni, di ricostruire rapporti, di uscire dal peccato. Crediamo di gestire la vita, di controllare i nostri sensi, i pensieri, di non cedere alle passioni. Per ritrovarci invece, sempre, pieni di lividi, sulla carne e nel cuore.
L’inno “Il Natale” di Alessandro Manzoni inizia con un’immagine che descrive bene questa situazione: è quella di un masso caduto dall’alto di una montagna che giace sul fondo della valle,
“Là dove cadde, immobile
Giace in sua lenta mole;
Nè per mutar di secoli,
Fia che rivede il sole
Della sua cima antica,
Se una virtude amica
In alto nol trarrà”.
Il sasso precipitato dall’alto d’una montagna non potrà mai rivedere il sole che si contempla dalla cima, se una forza amica non lo prende e non lo riporta su.
“Tal si giaceva il misero
Figliol del fallo primo”.
E’ l’uomo decaduto per il peccato originale.
“Donde il superbo collo
più non poteva levar”.
Il paralitico. Incapace di levare lo sguardo, il collo superbo d’una mente accecata. Ingannata. Caduto, è condannato a contemplare se stesso. E i suoi sogni, i suoi ideali trasformati in idoli. Come scriveva don Giussani a proposito del peccato originale, chiuso nell’ “affermazione di sè prima che della realtà”. Totalmente alienato. Prosegue Manzoni
“Qual mai tra i nati all’odio
Quale era mai persona,
Che al Santo inaccessibile
Potesse dir: perdona?
Far novo patto eterno?
Al vincitore inferno
La preda sua strappar? ”
Chi può invocare il Santo inaccessibile, tanta folla, tante voci, muri d’orgoglio, di affetti, gente accalcata, carne mescolata, affari, lavoro, progetti, denaro. Come potrà un paralitico, incapace di tutto, annichilito su un lettuccio, vedere il Sole, la Luce, chiedere perdono? Chi potrà strappare le nostre vite paralizzate, i nostri cuori induriti dalle grinfie del demonio, incapaci di perdonare e amare? Chi potrà strapparci dal crederci capaci, dal sentirci in vena, dal mostrarci a posto? Chi strapperà noi povere prede dagli inganni dell’accusatore? Chi se non una “Virtude amica?” Chi se non la Chiesa, la sua fede irrorata del sangue dei martiri, da duemila anni sui sentieri della storia a cercare i paralitici d’ogni angolo e d’ogni generazione? Chi se non la Sposa del Signore, potrà risollevarci eludendo il muro dell’anonimo cinismo e l’ipocrisia dei religiosi di facciata?
La Chiesa ci conduce, assolutamente incapaci e indegni, all’incontro con il perdono. La virtù amica della Chiesa ci guida nel cammino verso Cristo, verso ciò che occhio umano mai ha potuto vedere: il perdono d’un peccatore. Un paralitico che cammina. La virtù amica della Chiesa che con il Magistero, la predicazione e i sacramenti, con l’annuncio e la tenerezza ci accompagna nell’intimità del cuore di Cristo facendoci passare attraverso il tetto, immagine di riparo e difesa, del Cielo sprangato dopo il peccato originale: solo lo zelo dei pastori e dei fratelli può aprirne un varco perchè i piccoli, i peccatori, possano essere calati nella piscina del battesimo, ai piedi di Gesù, l’unico che può davvero salvare. Si tratta della missione della Chiesa, quella che ci ha raggiunti e condotti a Cristo; ed è anche la missione che fa di noi apostoli inviati a salire sul tetto della storia, sul fronte caldo delle inimicizie, dei rancori, dei peccati, per aprirvi un varco dove far passare e accompagnare a Cristo quelli a cui siamo inviati. Noi sappiamo dov’è Cristo! Conosciamo la sua casa! E ci scontriamo con la folla, con l’anonimato grigio che cerca il Signore per curiosità, infilzato di dubbi e di speranze carnali. Ma conosciamo, per esperienza, il cammino che conduce a Lui, l’audacia di chi sa per certo che Gesù è l’unica risposta, l’unica salvezza data all’uomo. Per questo ogni nostro giorno è un farsi largo tra il cinismo ed il relativismo che spalma la vita sulla routine della carne, dei piaceri, delle consolazioni a buon mercato. Ogni giorno è preparato per noi e per chi ci è stato affidato un cammino di verità che fende l’ipocrisia e ci sospinge ad arrampicarci sui tetti, da cui gridare l’annuncio del Vangelo, e lì, a ad aprire il varco tra le tegole, tra le difese e le paure, per scendere ai piedi di Gesù. La Chiesa è l’unica virtù realmente amica dell’uomo, che non inganna, non illude, ma gioca se stessa perchè ogni uomo possa incontrare lo Sposo della sua anima, il senso e la misericordia, la vita più forte del peccato e della morte.
Il tetto infatti rimanda anche al matrimonio e alla famiglia; nella Scrittura e nelle religioni, il tetto, il baldacchino, sono il segno dell’intimità familiare, della Gloria di Dio che custodisce il talamo nuziale. La celebrazione del matrimonio nella tradizione ebraica è singolarmente vicina all’episodio del Vangelo di oggi. “…Le persone presenti alla cerimonia nuziale procedono verso la “chuppà” (la tenda nuziale), dove avrà luogo il matrimonio, secondo un ordine preciso. Lo sposo attende la sposa davanti alla “chuppà” che simbolicamente rappresenta la dimora dello sposo. La transizione della sposa dalla casa paterna a quella del marito viene, quindi, simbolicamente rappresentata attraverso la processione di entrambi i genitori accompagnanti la sposa verso la sua nuova destinazione…. Chiariamo il significato del termine “Chuppà”. Esso originariamente era riferito al tetto o alla camera nuziale e, qualche volta al matrimonio stesso. Nei tempi antichi la chuppà era la tenda o la stanza dello sposo a cui la sposa era portata in festosa processione per l’unione matrimoniale. Ai tempi talmudici era d’uso che fosse il padre dello sposo ad erigerla. Il termine “chuppà” significa, in ebraico, “protezione” e si riferisce al baldacchino o alla tenda che copriva gli sposi durante la cerimonia nuziale. Esso serve ad uno scopo legale: rappresenta l’atto decisivo con cui veniva formalmente attestata l’unione matrimoniale e la conclusione dell’atto matrimoniale iniziato con il fidanzamento. Insieme questi due atti di acquisizione, il fidanzamento ed il matrimonio, vengono chiamati chuppà ve’kiddushin“.
Il Vangelo di oggi ci parla delle nozze che uniscono la creatura al Creatore. La Chuppà è l’immagine della nube che ricorda il dono della Torah al Popolo sul Sinai, le nozze fondate sulla Parola e l’obbedienza, l’Alleanza gratuita che sigilla la primogenitura. Il paralitico è immagine di un Popolo infedele, chiamato a camminare nella Torah del Signore, a vivere nella sua intimità che è compierne la volontà, ma incapace di muovere un solo passo. Per questo Gesù perdona i suoi peccati! Le gambe non si muovono perchè il cuore è malato. E Gesù punta diritto al cuore, per guarirlo e renderlo capace di amare, di obbedire, di vivere alla luce della Torah. Il Vangelo ci annuncia le nozze fondate sul perdono. La nostra genitrice, la Chiesa, ci conduce a Cristo – la nostra nuova destinazione -, sotto la Chuppà, il tetto della misericordia nella quale diventiamo una sola carne con il nostro Sposo. E’ lì, sul letto d’amore dove ci ha sposato il Signore, sulla sua Croce gloriosa, che la Chiesa ci depone ogni giorno. Ai piedi di Gesù la Chiesa ci fa, con un atto decisivo, suoi discepoli; nell’ascolto della Sua Parola impariamo la sua misericordia; nel riconoscerci paralitici, peccatori sempre deboli e bisognosi del suo amore, sperimentiamo la gratuità dell’Alleanza nella quale siamo stati chiamati.
La Chiesa ci sposa a Cristo: noi poveri e con l’unica dote dei nostri peccati, Lui, ricco di ogni benedizione. Senza la sua intimità non v’è salvezza, solo arroganza e falsa religione, quella degli scribi e dei farisei, di chiunque si scandalizza di fronte a Cristo e al suo potere di rimettere i peccati. Lui è Dio e lo certifica nel frutto del perdono: il paralitico si alza, risorge, e comincia a camminare, a compiere la volontà di Dio. E’ la Grazia del perdono che solo Dio può offrire; per questo il paralitico porta con sé la memoria della sua fragilità, la verità del suo essere debole e incline al male. Con il lettuccio caricato sulle spalle, immagine anche della Croce che lo ha redento, potrà camminare nell’abbandono totale alla misericordia che lo ha salvato. Il Vangelo di oggi descrive così il battesimo nella misericordia, che avviene sotto il baldacchino nuziale che è anche immagine della tenda del deserto che custodiva l’Alleanza, precaria come il cammino dell’Esodo; e la tenda di sukkot, che ricorda i tempi del deserto, dove Dio ha condotto la sua fidanzata alle nozze nella fedeltà e nella benevolenza, e la fragilità del Popolo sostenuta dall’amore provvidente di Dio; la tenda come il lettuccio, ovvero la scoperta della verità del proprio cuore adultero: l’esperienza descritta dal Deuteronomio, per cui solo si può vivere delle parole che escono dalla bocca di Dio. Così anche noi possiamo riconoscere in Gesù il Figlio di Dio, il Messia dai frutti della sua parola di perdono. Laddove la carne e le forze non possono, Lui può! Il perdono ricevuto si fa perdono nel cuore del peccatore, il Cielo è di nuovo abbracciato alla terra, la debolezza è stretta al potere di Dio. L’impossibile si fa possibile, la morte è vinta perchè dove vi era odio e risentimento è germinato l’amore con il perdono. Con la Chiesa apprendiamo anche oggi a rimanere nel suo amore, come Maria ai suoi piedi, portando con noi le ferite della nostra carne, il lettuccio d’una storia redenta che ci illumina il presente aprendoci il futuro. Con la Chiesa nostra madre procediamo anche oggi in questo Avvento.
San Gregorio di Agrigento (circa 559-vers 594), vescovo
Spiegazione sull’Ecclesiaste, livre 10, 2 ; PG 98, 1138
« Oggi abbiamo visto cose prodigiose ! »
È dolce questa luce ed è cosa assai buona per la vista dei nostri occhi contemplare questo sole visibile…; Perciò quel primo contemplativo di Dio che fu Mosè disse: E Dio vide la luce e disse che era una cosa buona (Gn 1,4)…
Ma a noi conviene considerare la grande, vera ed eterna luce che “illumina ogni uomo” che viene in questo mondo (Gv 1,9), cioè Cristo Salvatore e redentore del mondo, il quale fattosi uomo, scese fino all’infimo grado della condizione umana. Di lui dice il profeta Davide: “Cantate a Dio, inneggiate al suo nome, fate strada a colui che ascende a occidente, a colui che si chiama Signore; ed esultate al suo cospetto (cf Sal 67, 5-6). E ancora Isaia disse: “Popoli che camminate nelle tenebre, vedete questa luce. Su di voi che abitate in terra tenebrosa una luce rifulgerà” (cf. Is 9,1)…
Il Signore promise di sostituire la luce che vediamo cogli occhi corporei con quel sole spirituale di giustizia (Ml 3,20), che è veramente dolcissimo per coloro che sono stati ritenuti degni di essere ammaestrati da lui. Essi hanno potuto vederlo con i loro occhi quando viveva e s’intratteneva in mezzo agli uomini come un uomo qualunque, mentre invece non era uno qualunque degli uomini. Era infatti anche vero Dio, e per questo ha fatto sì che i ciechi vedessero, gli zoppi camminassero e i sordi udissero; ha mondato i malati di lebbra e con un semplice comando ha richiamato i morti alla vita.
LA CHUPPAH
La chuppàh rappresenta simbolicamente la coabitazione degli sposi, in sostituzione del loro appartarsi. Questo appartarsi è la condizione principale per la validità del matrimonio. Nel Talmud non troviamo una definizione precisa riguardante il baldacchino e alcune regole vengono ricavate da racconti e usi narrati dai nostri Maestri. La chuppàh veniva allestita in casa del fidanzato in una apposita stanza riservata agli sposi. Per il primogenito era il padre stesso a costruirgli una casa e “Gli faceva un baldacchino all’intemo” In un altro trattato troviamo scritto che il padre costruiva per ogni figlio una stanza nuziale, in modo che il figlio potesse rimanere ad abitare con lui e non presso i suoceri.Sotto la chuppàh gli sposi rimanevano a festeggiare il loro matrimonio per sette giorni insieme con i loro parenti e non vi era altra gioia più grande di questa. Disse Rabbì Abbà figlio di Zavdà a nome di Rav: ‘lo sposo, coloro che lo accompagnano e tutti i partecipanti alla chuppàh sono esonerati [dal festeggiare il precetto] delle capanne per tutti e sette i giorni’ [del banchetto nuziale]. Qual è il motivo? ‘Perche questi vogliono rallegrarsi del matrimonio’. E si obbietta: ‘Se è così, che mangino e si rallegrino nella Sukkà’. Si risponde: ‘Non vi è gioia altro che nella chuppàh ‘. ‘Allora che mangino nella Sukkà e si rallegrino nella chuppàh!’ Ciò non è possibile perche non c’è gioia altro che dove si banchetta E’ talmente importante associarsi alla gioia degli sposi, quando questi si uniscono sotto la chuppàh, che addirittura è permesso sospendere lo studio della Toràh per unirsi ai festeggiamenti. Si racconta che un giorno il Re Agrippa trovandosi a transitare nelle vie della città, si era fermato per far passare un corteo di sposi, questa cosa fu elogiata dai Maestri. Sia il fidanzamento che il matrimonio venivano accompagnati da benedizioni. Il formulario che attualmente viene usato è lo stesso che troviamo scritto nel Talmud. Sempre sullo stesso trattato vi è un interessante discussione sul fatto che per le benedizioni degli sposi occorra il Minian: Disse Rav Nacman: “Disse Hunà i figlio di Natàn: da dove si impara che per le benedizioni degli sposi ci vogliono dieci persone? Come è detto: ‘E prese dieci persone dagli anziani della città e disse sedete qui. Disse Rabbì Abbia: “la fonte delle benedizioni si impara da quest’altro passo: ‘In gruppo benedite il Signore Dio dalla fonte di Israele”, Questo verso vuole insegnarci che con un gruppo composto da almeno dieci persqne si benedice il Signore e la fonte di Israele sono gli sposi con i loro figli.