Carceri piene, l’inganno dell’amnistia

Carceri piene, l’inganno dell’amnistia

di Stefano Magni da www.lanuovabq.it

Carcere

Amnistia e indulto. Queste sono le parole più usate e abusate nel dibattito politico in questi giorni. Sono chieste dal presidente Giorgio Napolitano perché le carceri sono sovraffollate. Il problema non è secondario. Ha già provocato più di 80 morti nel 2013, di cui 19 per malattia, una ventina per cause ancora da accertare e tutti gli altri per suicidio: detenuti che non sopportavano più le condizioni di vita nel carcere e due ispettori di polizia che hanno deciso di farla finita.

Il quadro generale del problema è inquietante: ci sono quasi 20mila carcerati (le dimensioni di una città di provincia, come Cornaredo in Lombardia, o Adria in Veneto) senza posto letto, considerando che le “patrie galere” possono accogliere 47.615 persone e il numero di detenuti è attualmente arrivato a oltre 65mila. Il problema deve comunque essere risolto, se non per sensibilità umanitaria, almeno per ragioni di portafogli: un detenuto italiano ha vinto la sua causa per violazione dei diritti umani alla Corte Europea di Strasburgo, l’Italia è stata condannata. O si rimedia al problema, o son multe salate (oltre alla figuraccia di essere un Paese dell’Ue che viola i diritti umani).

La fretta di risolvere il problema induce il presidente a prendere provvedimenti drastici, quali amnistia e indulto. Ma è vera giustizia? Visto che le parole hanno un senso, come afferma una fonte non sospetta (Nanni Moretti), vediamo cosa significano. Amnistia è la cancellazione retroattiva di un reato. Tutti coloro che se ne sono macchiati, fino alla data stabilita dal decreto di amnistia, sono liberi. Coloro che commettono lo stesso reato il giorno dopo, però, finiscono dentro di nuovo. Non si può applicare a reati che comportano instabilità sociale, ma a quelli “bagatellari”, come sottolinea il presidente. Tuttavia, nell’ultima amnistia della storia italiana (1990) troviamo dei reati che molto “bagatellari” non sono, quali rissa, violazione di domicilio, resistenza a pubblico ufficiale o violenza o minaccia a pubblico ufficiale, violazione delle disposizioni sul controllo delle armi, reati commessi “a causa e in occasione di manifestazioni sindacali”. In pratica sono stati liberati i violenti delle contestazioni del ’78 e degli anni di piombo. E, da un punto di vista politico, l’amnistia è quel provvedimento che si applica proprio in occasione di cambi di regime, rivoluzioni o alla fine di una guerra civile, per perdonare il nemico. È il caso di applicarla per svuotare le carceri?

Passando all’indulto, da un punto di vista filosofico è un principio ancora più discutibile. Perché il reato commesso viene riconosciuto e riconfermato, ma la pena viene ridotta. Di fronte allo stesso delitto, si ammorbidisce il castigo, solo per una ragione di date: ne beneficia chi ha commesso reati prima della data stabilita dal provvedimento di indulto. È stato applicato per 25 volte nella storia della Repubblica Italiana, l’ultima nel 2006. Come ha funzionato? Male, a giudicare dall’attuale sovraffollamento delle carceri. Ha rimandato di soli 7 anni il problema. E nel frattempo ha fatto molti danni: nei primi 5 mesi dopo la liberazione, l’11,9% degli ex carcerati è tornato a delinquere. Il dato è considerato un “successo” dalle autorità, considerando che nei precedenti casi di indulto, il tasso di recidiva (di chi torna a commettere reati) era, in media, del 30%! A un anno dall’inizio dell’ultimo indulto del 2006, le rapine in banca sono comunque raddoppiate. Secondo i dati Istat, i crimini che aumentano più marcatamente a seguito degli indulti, oltre alle rapine in banca, sono: lo spaccio di stupefacenti (0,61 all’anno per detenuto), le frodi (5 all’anno per detenuto), i furti di autoveicoli (5 all’anno per detenuto), i borseggi (42 all’anno per detenuto) e persino gli omicidi (0,02 all’anno per detenuto). Non è politicamente corretto dirlo, ma l’indulto è un invito a delinquere. Sono questi freddi numeri che lo dimostrano.

Invece di attendere fino a beccarsi una condanna dalla Corte Europea, come si può risolvere realisticamente il problema del sovraffollamento delle carceri (prima di prendere la prossima multa)? Innanzitutto, se il problema è la mancanza di posti letto, si devono trovare più posti letto. È una risposta lapalissiana, ma nessuno ci pensa. Il senatore della Lega Nord Gian Marco Centinaio ha contato ben 40 istituti penitenziari totalmente vuoti che “potrebbero entrare in funzione in pochissimo tempo”. Il problema del sovraffollamento si può dunque risolvere, senza rischiare di mandare a spasso delinquenti e senza tirare in mezzo la scelta politica su quali reati abolire (ma solo fino a una certa data) con un’amnistia.

Il problema delle carceri inutilizzate è spesso legato alla mancanza di guardie carcerarie, soprattutto in un periodo di tagli e risparmi che riguardano anche la polizia. Ma quanti poliziotti abbiamo, in Italia? Ne abbiamo circa 1 ogni 200 abitanti, una delle più alte densità di forze dell’ordine al mondo, il doppio rispetto a quella degli Stati Uniti. È evidente che pochi si offrono volontari per far da guardia ai carcerati. Ma scegliere il mestiere del poliziotto dovrebbe implicare (più che un comodo lavoro di ufficio) anche l’assunzione di rischi, fra cui il contatto con gente poco raccomandabile in ambienti malsani. Insomma i mezzi, le strutture e il personale ci sono. Manca, evidentemente, la volontà di risolvere il problema.

Ma a parità di carceri e personale, possiamo rimettere in libertà persone innocenti. Perché, nelle carceri italiane sono rinchiusi ben 12.333 innocenti. Persone in attesa del primo giudizio, dunque innocenti fino a prova contraria. Non tutti sono sospettati di crimini così pericolosi da richiedere una custodia cautelare in un carcere. Se includiamo i carcerati in attesa di condanna definitiva, vediamo che lo sono circa il 43% del totale dei carcerati: erano 27mila nel 2012. Il nostro è un caso unico nell’Europa occidentale, due volte tanto la percentuale media di detenuti nelle stesse condizioni che si registrano in Francia e Spagna, tre volte tanto quelle che si registrano in Gran Bretagna e Germania. Ma qui si va a toccare un altro nervo scoperto: per liberare questi 12mila e passa innocenti (e 27mila che sono ancora sotto processo) servirebbe rimettere mano a una seria riforma della giustizia, accorciare la durata dei processi e rivedere le leggi sulla carcerazione preventiva. Ma la giustizia è riformabile?

Giovedì della XXVII settimana del T.O.

Giovedì della XXVII settimana del T.O.

Dal Vangelo secondo Luca 11,5-13

Poi aggiunse: «Se uno di voi ha un amico e va da lui a mezzanotte a dirgli: Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti; e se quegli dall’interno gli risponde: Non m’importunare, la porta è già chiusa e i miei bambini sono a letto con me, non posso alzarmi per darteli; vi dico che, se anche non si alzerà a darglieli per amicizia, si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua insistenza.
Ebbene io vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto.
Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?
Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!».

Il commento di don Antonello Iapicca

La parabola di oggi è un midrash di Gesù sul Padre Nostro; con le parole che ne seguono, fa chiarezza su cosa sia, essenzialmente, la preghiera. Essa è questione di vita o di morte, così come è fondamentale essere figli di un Padre. Se non sappiamo dire a Dio Abbà – Papà, vivremo come orfani, sempre in cerca di un’origine e di un senso, vuoti e frustrati. Per questo Gesù ci spiega la sua preghiera partendo dall’esperienza fondamentale di ogni uomo, il bisogno nel quale nasciamo tutti: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti“. Un “amico” è giunto sulla soglia della nostra casa, nel mezzo del suo cammino, e ha chiesto ospitalità. In oriente essa è sacra, e per un ebreo costituisce uno degli appelli più pressanti della Torah. Il nome stesso “‘ibri”, “ebreo”, che i popoli confinanti davano a Israele e da lui accolto come suo, significa “abitante al di là della frontiera”, cioè straniero. Ogni ebreo ha il dovere sacro dell’ospitalità “… perché voi siete stati stranieri in terra d’Egitto” (Es 22,20; 23,9). Per un ebreo, l’Egitto è il “luogo dell’angoscia” dal quale il Signore lo ha tratto in salvo, senza alcun merito. Per questo, in ogni viandante riconoscerà se stesso, e, facendo memoria della sua storia, farà nei suoi riguardi quanto ha Dio ha fatto con lui. Ma l’uomo della parabola non può! Non ha il pane necessario ogni giorno, l’alimento sostanziale per accogliere il suo amico – quello che Gesù invita a chiedere nel Padre Nostro. Forse ha dimenticato di prepararlo, o ne ha consumato la provvista. La Scrittura descrive così l’amico: “L’amico fedele è solido rifugio, chi lo trova, trova un tesoro. Per un amico fedele non c’è prezzo, non c’è peso per il suo valore” (Cfr. Sir 6). Forse dovremmo chiederci se davvero ci sta a cuore la sorte dell’amico che bussa alla nostra porta; o, addirittura, se è davvero nostro amico… “C’è chi è amico quando gli è comodo, ma non resiste nel giorno della tua sventura. C’è anche l’amico che si cambia in nemico e scoprirà a tuo disonore i vostri litigi. C’è l’amico compagno a tavola, ma non resiste nel giorno della tua sventura” (Sir 6). Allora, vediamo, mio marito è mio amico? E mio figlio? E’ mia amica mia madre o mia sorella? Sono “amici” nel senso illuminato dalla Scrittura? “Altri me stesso” come lo fu Gionata per Davide, al punto di legare indissolubilmente la sua vita a quella del suo amico: “l’anima di Gionata s’era già talmente legata all’anima di Davide, che Gionata lo amò come se stesso. Gionata strinse con Davide un patto, perché lo amava, come se stesso” (1Sam.18,1;3,4). Niente a che vedere con la caricatura post-sessantottina dei genitori amici dei figli, niente di sdolcinato, anzi: Gionata è morto per Davide, perdendo tutto. Questo è un amico. Dovremo forse ammettere che, proprio perché in fondo pensiamo sempre a noi stessi anche quando crediamo di amare gli altri, non andiamo a importunare l’altro amico per sfamare l’amico. Siamo presi tra due amici dei quali forse non conosciamo nulla, i bisogni dell’uno e la generosità dell’altro. Con uno siamo egoisti e narcisi, dell’altro dubitiamo perfino dell’amicizia, e non siamo certi che possa darci il pane di cui abbiamo bisogno. Per tutto questo non ci siamo mai svegliati di notte per pregare in favore del matrimonio, dei figli o di un collega.

Ma non a caso è il cuore della notte, come quella in cui Dio ha “liberato i figli di Israele, nostri padri, dalla schiavitù dell’Egitto” (Exultet di Pasqua). E’ notte, siamo schiavi, non sappiamo amare, dubitiamo e mormoriamo. Il Signore ci chiama oggi a farci, come l’uomo della parabola, pellegrini e andare a bussare, umilmente, alla porta dell’Amico: dobbiamo chiedere quello che non abbiamo per essere quello che dovremmo essere. Dobbiamo aprire gli occhi e accettare di essere ancora stranieri in terra d’Egitto, nell’angoscia, per sperimentare di nuovo l’opera di Dio. Gesù ci invita a fare memoria della Pasqua, e ricordare la nostra storia ed entrare così nella verità. E’ dalla verità infatti, sinonimo di umiltà, che sgorga la preghiera autentica, fiduciosa, audace, radicata nella certezza di non essere delusi. E la verità è il bisogno estremo di chi non ha nulla, il nostro. Non abbiamo il pane per sfamare l’amico che bussa alla nostra porta; siamo senza amore per la moglie, il marito, i figli, i colleghi. Non possiamo accogliere quanti, stanchi e affaticati, cercano in noi ospitalità: il riposo del perdono, la consolazione di una parola, la tenerezza dell’ascolto. Non possiamo farci carico della loro stanchezza, dei loro peccati. Non possiamo accogliere Cristo che bussa alla porta celato nel bisogno del fratello. Per questo non possiamo far altro che “cercare, chiedere e bussare” per “ottenere” quello che ci manca: lo Spirito Santo. C’è un amico che bussa alla nostra vita e ha bisogno di pane; e c’è un Amico che può darcelo. Pur essendo padri cattivi – “schiavi”, secondo l’etimologia del termine “cattivi” – sino ad ora abbiamo dato “cose buone” ai nostri figli, il pane che sazia la carne, il solo che sanno dare i padri schiavi della carne. Forse consigli, forse denaro, e lo studio, e i vestiti. Così come a tutti quelli che ci sono vicini: succedanei dell’amore, regali che saziano solo fugacemente. A maggior ragione, in virtù della sua bontà e della sua misericordia, il nostro Amico, “il Padre celeste”, “ci darà lo Spirito Santo”. Questo è il frutto compiuto della Pasqua, l’alito della vita eterna che ha risuscitato il Figlio e che il Padre vuole donarci perché possiamo donarci come pane. In ogni notte che ci avvolge impedendoci di vedere l’amico che abbiamo vicino possiamo “importunare” l’Amico perché “L’amico ama in ogni circostanza; è nato per essere un fratello nella avversità” (Pr 17,17): tuo figlio sta divorziando? Non sopporti più tua suocera o tua moglie? Hai paura e non ce la fai ad avere rapporti aperti alla vita? Hai paura della vecchiaia? L’artrosi ti ha rubato speranza e pace? Alzati durante la notte, gettati in ginocchio, e “bussa” alle porte del Cielo dove il Signore è entrato vittorioso sulla morte, e prega dicendogli che “Questa è la notte in cui hai vinto le tenebre del peccato”. E’ la “notte beata, che sola ha meritato di conoscere il tempo e l’ora in cui Cristo è risorto dagli inferi”. Mezzanotte, il cuore delle nostre tenebre vuote, è l’ora in cui pregare e sperimentare che “Il santo mistero di questa notte sconfigge il male, lava le colpe, restituisce l’innocenza ai peccatori, la gioia agli afflitti” (Exultet di Pasqua). Questa è la notte in cui brilla la luce della Pasqua, quando il nostro Amico ci dona il suo Spirito, e con esso la sua vita e il suo amore.

Divorziati risposati, la Germania scherza col fuoco

Divorziati risposati, la Germania scherza col fuoco

di Ettore Malnati0 da www.lanuovabq.it

Mons. Robert Zoellitsch

La diocesi di Friburgo prepara un percorso per i divorziati risposati che li porti a riaccostarsi alla Comunione e la Santa Sede chiude subito il discorso. Ieri tutte le agenzie hanno rilanciato con enfasi la notizia data da Der Spiegel che presentava un lungo vademecum della diocesi di Friburgo – guidata dal dimissionario (per motivi di età) monsignor Robert Zoellisch, che è anche presidente della Conferenza episcopale tedesca – per accompagnare il cammino spirituale di separati, divorziati e divorziati risposati. 

Ma a fare clamore è stata la possibilità prevista di arrivare a riammettere ai sacramenti i divorziati risposati. Immediata la replica del portavoce vaticano padre Federico Lombardi, che ha parlato di «una fuga in avanti, che non è ufficialmente espressione dell’autorità diocesana».  In altre parole, il documento sarebbe soltanto frutto della Commissione pastorale diocesana per la famiglia, diventato pubblico senza che il vescovo lo abbia visto. Versione ufficiale non proprio convincente, visto che l’anno scorso ben 120 preti della diocesi di Friburgo avevano firmato un documento in cui si contestava la disciplina ecclesiale che vieta la Comunione ai divorziati risposati. In ogni caso padre Lombardi ha precisato che «non cambia nulla, non c’è alcuna novità per i divorziati risposati».
Quello dei divorziati risposati è un tema al centro dell’attenzione di diversi episcopati e ne aveva parlato nei mesi scorsi anche Benedetto XVI, che spostava però l’attenzione sul problema della validità o meno di tanti matrimoni celebrati in chiesa. In ogni caso se ne parlerà al prossimo Sinodo episcopale straordinario sulla famiglia che Papa Francesco ha convocato per l’ottobre 2014.

Sull’iniziativa della diocesi tedesca e più in generale sul tema dei divorziati risposati, abbiamo chiesto un parere al teologo don Ettore Malnati:

L’attenzione che i vari episcopati mondiali pongono nei confronti delle «tristezze e angosce degli uomini di oggi» (Gaudium et Spes, no. 1) sottolinea quell’attenzione pastorale tanto necessaria per realizzare lo stile del Buon Pastore giustamente richiamato anche da papa Francesco.

Ci sono però problemi come quello del matrimonio e della famiglia che non possono essere affrontati secondo la logica né del populismo etico né della superficialità tipica espressione di un buonismo che, invece di dare risposte e obiettiva speranza, ingarbuglia «coscienza e valori».
E’ da tempo che esistono le situazioni di uomini e donne che avendo celebrato il sacramento del matrimonio – o perché vittime o perché hanno voluto il divorzio – vivono la separazione dal loro coniuge con il quale hanno avuto dei figli e con cui hanno contratto il vincolo nuziale che per sua natura non può che essere indissolubile.

La Conferenza Episcopale Italiana (Cei) nel Direttorio per la famiglia ha affrontato il problema da tempo: sia dei coniugi separati e divorziati non risposati che di quelli risposati civilmente.
Il tutto però è visto con attenzione a verità e pastoralità. Spesso senza volere seriamente informarsi, molti coniugi separati e non risposati che hanno subito il divorzio e sono rimasti con i loro figli, pensano di non potere ricevere i sacramenti o di essere esclusi dalla vita ecclesiale. Nulla di più falso.

Chi è nella prova o ha subito un divorzio o una separazione, è nella opportunità di fare preziosa occasione di quei mezzi di grazia che donano forza, consolazione e ravvedimento sacramentale perché non venga meno quell’aiuto che la Chiesa per volere di Cristo non può che presentare in un progetto di salvezza.
La comunità cristiana non è una setta di sedicenti perfetti, come vorrebbero la gnosi o i catari, ma un popolo di santi e di peccatori che cercano in Cristo la loro giustizia e santità, nella verità. La Chiesa è la casa di convertiti che cercano perdono e pace interiore nella scia di quella verità che non è scevra da carità.

E’ questo che i pastori devono far conoscere e realmente praticare nello stile di quel Buon Pastore che non è venuto per i giusti ma per i peccatori.
Attuare e praticare ciò, come da sempre è stato raccomandato dal Magistero della Chiesa cattolica, è doveroso da parte di ogni Chiesa particolare se non si vuole disattendere lo spirito di Cristo e ciò che il Concilio ci indica già nel proemio della Gaudium et Spes che abbiamo citato.

Vedere però disattendere quella volontà positiva di Cristo espressa nel Vangelo di Matteo («Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi», Mt 19,6) non può essere considerata un’attenzione pastorale. Certo, è doveroso da parte del Magistero della Chiesa offrire la proposta di salvezza a chi ha infranto l’unità coniugale e che desidera vivere il suo Battesimo. Ma tutto ciò non può banalizzare l’atto sacramentale dei “due una sola carne” che li ha resi «intima comunità di vita e di amore coniugale fondata dal creatore e strutturata con leggi proprie…  che è stabilita dall’irrinunciabile consenso personale» (Gaudium et Spes, 48).

Nessuno può arbitrariamente giustificare o ecclesialmente legittimare una ulteriore unione senza aver appurato – come ebbe ad affermare Benedetto XVI – la nullità o la non esistenza del primo patto. La comprensione pastorale non può mai essere contraria alla Verità rivelata: l’indissolubilità del matrimonio, che sussiste solo tra l’uomo e la donna quale comunità di amore aperta alla vita.

Il Concilio Vaticano II era già 50 anni fa consapevole che «dappertutto la dignità di questa istituzione non brilla con identica chiarezza perché è oscurata dalla poligamia, dalla piaga del divorzio, dal cosiddetto libero amore e da altre deformazioni» (Gaudium et Spes, 47). Ciò che la pastorale deve far comprendere è che il matrimonio monogamico tra un uomo e una donna deve essere un valore al quale i coniugi si preparano con consapevolezza; che una volta celebrato crescano nell’amore responsabile progettando spiritualmente, umanamente, psicologicamente la loro fedeltà e indissolubilità del vincolo coniugale. Quindi vivendo consapevoli di quella unicità e sacralità della persona alla quale si sono donati o hanno accolto.

E’ di questa attenzione pastorale che abbiamo bisogno, non certo di scappatoie che mortificano la dignità e la responsabilità spirituale e naturale del Sacramento del Matrimonio; ma anche mortificano la stessa società di cui la famiglia umana è la prima e fondamentale cellula, per una civiltà dove la persona si prende tutte le sue responsabilità nei confronti di sé, della propria famiglia e dell’intera società. La Chiesa nella storia ha anche questa doverosa e improba missione. Venire meno significa tradire la volontà di Cristo.

Educare al pudore: l’infanzia e l’adolescenza (II)

L’adolescenza è una tappa fondamentale nella vita di ogni persona. C’è il desiderio, contrastante, da una parte di sentirsi libero e dall’altra di sentirsi legato agli altri. In questo periodo l’educazione ha un ruolo importante.

Il periodo che va, più o meno, dai sette ai dodici anni – quando cominciano a evidenziarsi i primi segni dell’adolescenza – corrisponde all’epoca più gradevole della crescita sia per i genitori che per i figli, soprattutto se in precedenza l’educazione è stata all’altezza. I figli sono ormai capaci di badare da sé alle faccende personali, ma si appoggiano molto sui genitori e di solito confidano loro ogni cosa. Si nota in loro un’autentica ansia di sapere, di chiarire qualsiasi dubbio. Quando poi ci si rivolge loro con le parole adatte, capiscono perfettamente ciò che si vuole trasmettere loro.  Questa situazione favorevole non deve essere una scusa per trascurare il lavoro educativo, pensando forse che le cose andranno avanti da sole. Dev’essere, al contrario, il periodo nel quale si consolidano nella mente dei ragazzi le idee e i criteri che nel futuro ne configureranno la vita. Si potrebbe dire che è il momento di spiegare tutto, anche anticipando ciò con cui dovranno fare i conti più avanti.

Gli anni piacevoli

Sono questi gli anni in cui è possibile spiegare ai figli non soltanto le manifestazioni del pudore, ma pure il loro significato. Si renderanno conto, per esempio, che il vestito non nasconde soltanto il corpo, ma veste la persona; mostra il modo in cui vogliamo farci conoscere, è l’espressione del rispetto che chiediamo e che offriamo.

Nello stesso tempo, i figli debbono imparare ad amministrare la loro intimità, in modo da svelarla soltanto in misura adeguata e di fronte alle persone adeguate. La prudenza – che qui è la virtù in gioco – si acquista con la rettitudine, con l’esperienza e con i buoni consigli, e in questo apprendimento i genitori sono fondamentali. I figli si aspettano da loro un rapporto di fiducia, un interesse e una guida che li faccia sentire più sicuri nell’incipiente sviluppo della personalità. Se approvati o corretti, a seconda dei casi, imparano su che cosa debbono confidarsi, con chi e perché.

Il rischio maggiore a quest’età è che l’ansia di imparare sia mossa da una curiosità indiscriminata, certe volte indiscreta, e da un desiderio di provare sensazioni nuove, anche con il proprio corpo. Da qui l’importanza che i genitori prestino attenzione a tutte le domande che vengono loro rivolte, senza sottrarsi e, senza rimandarle a un futuro indeterminato, diano invece risposte adeguate alla sensibilità dei figli. Per esempio, quest’età è il momento più adatto per una educazione affettiva ben concepita. Non mentite: io ho ucciso tutte le cicogne. Dite loro che Dio si è servito di voi perché essi venissero al mondo, che sono il frutto del vostro amore, della vostra donazione, dei vostri sacrifici… Per questo dovete farvi amici dei figli, metterli a loro agio perché parlino delle loro cose con fiducia[1]. In questo contesto si trasmette il valore del corpo umano e la necessità di trattarlo con rispetto, evitando tutto ciò che induce a considerarlo come un oggetto di piacere, di curiosità o di gioco.

Conviene anche saper anticipare gli eventi, spiegando i cambiamenti fisici e psicologici che stanno per arrivare con l’adolescenza; così i figli li sapranno accettare con naturalezza quando arriva il momento. Bisogna evitare che i ragazzi avvolgano di malizia questa materia, e che apprendano cose – in sé nobili e sante – attraverso le malevoli confidenze dei compagni[2]. Anche qui bisogna vedere il lato positivo. Senza dimenticare i pericoli di un ambiente permissivo, che i bambini sono portati a percepire molto presto, conviene mettere a fuoco la questione come una opportunità di crescita per le loro anime e i loro corpi, in modo che sappiano reagire positivamente agli stimoli negativi. Il pudore costituirà una difesa effettiva e un aiuto per custodire la purezza del cuore.

Gli anni difficili 

Gli anni iniziali dell’adolescenza, e l’adolescenza stessa, sono i più difficili per i genitori, per il tema di cui ci stiamo occupando. In primo luogo, perché i figli diventano più gelosi della loro intimità. Certe volte adottano anche degli atteggiamenti contestatari, che possono sembrare immotivati, da bastian contrario. Ciò può causare un certo sconcerto nei genitori, che intuiscono – a ragione – che in parte i figli non condividono più con loro la propria intimità, ma piuttosto con gli amici. Appaiono sconcertanti anche i cambiamenti di umore: i figli passano da momenti nei quali bloccano qualsiasi tentativo altrui di entrare nel loro mondo, ad altri nei quali richiedono un’attenzione assoluta ed esagerata. È importante saper cogliere questi momenti di disponibilità, e fare di tutto per ascoltarli, perché non è facile che si presenti un’altra occasione del genere.

Questo desiderio di indipendenza e di intimità non è soltanto necessario, ma è anche una nuova opportunità per stimolare la crescita della loro personalità. Gli adolescenti hanno una particolare necessità di coltivare spazi di intimità, e devono imparare a mostrarla o a tenerla nascosta secondo le circostanze. L’aiuto che i genitori possono offrire loro in questo campo consiste, in gran parte, nel guadagnarsi la loro fiducia e nel saper aspettare. Bisogna essere disponibili e interessarsi alle loro cose, e saper approfittare dei momenti – ce ne saranno sempre – nei quali i figli li cercano o nei quali le circostanze consentono uno scambio di idee.

La fiducia si conquista, non s’impone. Non la si ottiene certo spiando i figli, leggendo le loro agende o i diari, o ascoltando le loro conversazioni con gli amici, o entrando in relazione con loro attraverso internet usando una falsa identità. Anche se alcuni genitori credono di agire così per il loro bene, intromettersi in questo modo nell’intimità dei figli è il modo migliore per distruggere la reciproca fiducia, oltre a essere quasi sempre obiettivamente ingiusto.

I punti caratteristici enumerati fin qui hanno come effetto che gli adolescenti guardino sempre molto a se stessi soprattutto alla propria fisicità. Da ciò si può dedurre che come prima cosa conviene aiutarli a curare il pudore proprio riguardo a se stessi. Questo accade sia con le ragazze che con i ragazzi, sebbene con sfumature differenti. Nelle ragazze, la tendenza è di paragonarsi a certi modelli estetici che apprezzano e di voler essere attraenti per l’altro sesso. Nei ragazzi, è più pressante il desiderio di essere considerati sviluppati e ben costituiti agli occhi dei compagni, senza che venga meno il desiderio di essere ammirati anche dalle ragazze. Gran parte di questo narcisismo giovanile è senza testimoni ma, osservandoli attentamente, sarà facile notare qualche sintomo, come per esempio quando non sono capaci di resistere a contemplarsi davanti a uno specchio o a una vetrina, anche se stanno camminando per strada; oppure, nelle ragazze, l’ossessiva richiesta di sapere se sta bene il vestito che indossano. Pensare che «sono cose dell’età» che prima o poi passeranno, e dunque non fare nulla, equivale a non mettere correttamente a fuoco la questione. È chiaro che sono cose dell’età, ma sono aspetti che devono essere comunque educati. L’adolescenza è l’età nella quale si risvegliano i grandi ideali, che vanno sempre incoraggiati. I figli capiscono con relativa facilità che il chiudersi in se stessi finisce per impedire loro di vedere le necessità degli altri. Partendo da questo, possono rendersi conto che il pudore verso se stessi – aver cura del proprio corpo, ma senza eccessi; evitare curiosità malsane… – è utile per ottenere quel cuore generoso che desiderano avere.

Modestia e moda

L’adolescenza presenta anche nuove opportunità educative in ciò che si riferisce al modo di vivere il pudore di fronte agli altri, soprattutto per ciò che riguarda il modo di trattarsi, di conversare o di vestire. Per motivi diversi e in un modo più o meno aggressivo a seconda dei luoghi, la situazione ambientale suole favorire un eccessivo rilassamento dei costumi. Tuttavia occorre tenere presente che nella maggioranza dei casi certi modi di comportarsi non rispondono a una scelta consapevole del figlio o della figlia. Gli adolescenti, pur rivendicando l’indipendenza personale, in realtà tendono ad adattarsi e a imitare. Essere differenti dai loro amici o dalle loro amiche li fa sentire strani. Non è raro scoprire che il ragazzo non ha affatto una predilezione per l’aspetto di «accurata trascuratezza» che è di moda, e che neppure la ragazza si sente a suo agio indossando abiti poco pudichi…, ma la paura di essere respinti dai loro amici li spinge a comportarsi come gli altri.

Il rimedio non consiste nell’isolare i figli dal gruppo: hanno bisogno dei loro amici o delle loro amiche, anche per maturare. Occorre invece insegnare ad andare controcorrente. E bisogna saperlo fare. Se il figlio o la figlia prendono come pretesto che tutte le loro amicizie «si comportano così», i genitori, prima di ogni altra cosa, devono spiegare loro quanto sia importante valorizzare la propria personalità e aiutarli a coltivare buone amicizie; in secondo luogo, devono trovare il modo di coltivare essi stessi un’amicizia con i genitori degli amici dei figli, per trovare in tal modo un accordo su questa ed altre questioni.

In ogni caso, non si deve cedere. Qualsiasi modo di vestire che sia contrario al pudore o a un elementare buon gusto non deve entrare in casa. I genitori devono avvertire che adotteranno questo criterio e, quando arriverà il momento, devono parlare con i figli, con serenità ma con fermezza, esponendo i motivi del loro comportamento. Se durante l’infanzia era meglio che queste cose fossero spiegate dal padre al figlio e dalla madre alla figlia, ora molto spesso è opportuno che intervenga anche l’altro genitore. Per esempio, nel caso in cui una figlia adolescente non capisca perché non deve indossare un abito che la rende troppo appariscente, il padre può chiarire ciò che forse non è riuscita a capire: che in questo modo attrarrebbe gli sguardi dei ragazzi, ma non certo la loro stima.

Come per altre questioni, padre e madre possono raccontare ai figli, con prudenza, le lezioni che essi stessi hanno imparato quando erano adolescenti; possono dir loro che in gioventù avevano inteso cercare la persona con la quale condividere la vita. Sono chiacchierate che in un primo momento possono non avere un grande effetto, ma invece alla lunga l’hanno sicuramente, e i figli ne saranno grati.

Nell’ambito della formazione al pudore, dev’essere chiaro che il compito dei genitori si estende anche, nella misura del possibile, all’ambiente nel quale si muovono i figli. Una prima occasione è la scelta dei luoghi di villeggiatura. In molti posti le spiagge in estate sono poco consigliabili; anche quando si fa di tutto per evitare situazioni poco edificanti, il clima generale è così sciatto da rasentare l’indecenza. Analogamente, nell’iscrivere il figlio a un’attività ricreativa o a un campeggio, sarebbe assurdo non informarsi bene di quali siano i sistemi che gli organizzatori intendono attivare perché il tono umano rimanga elevato.

Un altro campo da non perdere di vista è quello dei luoghi di divertimento dei figli, soprattutto perché la pressione del gruppo nell’adolescenza è più forte. È importante che i genitori conoscano i posti che i giovani frequentano, e che si sforzino di suggerire alcune alternative mettendosi d’accordo con altri genitori. Un terzo luogo è più a portata di mano: la camera dei figli. È normale che vogliano collocare alcuni elementi decorativi di loro gusto, ma questa indipendenza deve avere un limite, in modo che ciò che viene posto sulle pareti non sia sconveniente.

È logico che qualche volta i genitori trovino resistenze nei figli, data la naturale tendenza degli adolescenti a voler affermare la propria indipendenza dai genitori e dagli adulti in generale, data la loro mancanza di esperienza. Molte volte una disobbedienza – non è possibile, né desiderabile, controllare tutto –, comporta una lezione e con essa un monito da cui bisogna saper trarre profitto. Quando si presenta una difficoltà, non bisogna perdere la serenità. Forse anche i genitori hanno imparato così più di una volta quando avevano l’età che hanno i figli oggi. L’attività educativa richiede sempre una grande dose di pazienza, specialmente in ambiti come questo, nel quale i criteri che si vogliono trasmettere ai giovani possono sembrare in un primo momento esagerati. Poi arriverà il tempo in cui li comprenderanno meglio e li faranno propri, purché non venga meno l’insistenza – con affetto, buonumore e fiducia – da parte di quei genitori convinti che valga la pena educare in questo modo.

J. De la Vega (2012) da http://www.opusdei.it/art.php?p=55146

[1] San JosemaríaPredicazione orale, raccolta da Carlos Soria in “Maestro de buen humor”, ed. Rialp, Madrid, p. 99.

[2] San JosemaríaColloqui, n. 100.

Riciclare porta lavoro e soldi

Riciclare porta lavoro e soldi

Solo l’anno scorso potevamo guadagnarci 1,4 miliardi di euro in tutta Italia

di Francesco Buda da www.ioacquaesapone.it

Differenziare e riciclare è un buon affare per tutti.
Significa non solo ridurre la pressione sull’ambiente, ma anche ottenere grossi vantaggi economici nell’interesse della collettività.
L’esatto contrario del maleodorante business delle discariche, che ancora soffoca intere aree del Paese, a cominciare dalla Capitale, con costi ambientali e finanziari ormai non più sostenibili. Il settore è infatti saldamente in mano a pochi potentissimi monopolisti che continuano ad imporre il business delle discariche, spalleggiati dalla casta politica e da burocrati complici, dai piani alti delle istituzioni fino agli uffici municipali. Al contrario, grossi vantaggi alla collettività possono arrivare raccogliendo i vari materiali con il sistema domiciliare, il cosiddetto porta a porta, per ridargli nuova vita.

UN INVESTIMENTO SENZA PARI 
D’accordo conviene, ma quanto? Ogni euro sborsato per far rinascere quelle che in gergo si chiamano “materie prime seconde” produce 3 euro e mezzo, al netto dei costi. Circa il 350% pulito. Un investimento che dà un ritorno senza eguali. È il risultato impressionante che emerge dai minuziosi calcoli della Althesys, società specializzata nella ricerca e consulenza in ambito energetico e ambientale. I suoi esperti hanno stilato un’analisi molto accurata che poi hanno elaborato nel dettaglio per ciascuna regione, apposta per i lettori di Acqua & Sapone. «Abbiamo stimato i benefici persi o i maggiori costi subiti, a causa della mancata raccolta differenziata e relativo riciclo in Italia – spiega l’economista Alessandro Marangoni, amministratore delegato di Althesys e docente alla Bocconi di Milano – e prendiamo in considerazione le regioni che non hanno raggiunto  l’obiettivo imposto dall’Unione Europea, il target del 50% di riciclo dei rifiuti di imballaggio». Praticamente tutte le regioni, eccetto il Veneto, che ha centrato questo obiettivo, e il Trentino Alto Adige, che ci è molto vicino. Del resto, nessuna regione ha nemmeno raggiunto l’obiettivo fissato dalla legge di differenziare almeno il 65% della spazzatura entro il 31 dicembre dell’anno scorso.

ECCO PERCHé CONVIENE 
Quasi un miliardo e 400 milioni di euro, nel solo 2012, è il totale dei benefici che avremmo potuto ottenere in Italia semplicemente riciclando i nostri rifiuti, tra risparmi sullo smaltimento, emissioni da riciclo evitate, valore di carta, cartone, metalli, vetro e altre materie rigenerate, risparmi ottenuti con la prevenzione e l’indotto generato dal sistema dei consorzi che curano il riciclaggio. Un patrimonio che ci è stato “rubato” a causa della mancata raccolta differenziata e del conseguente mancato riciclo. Basterebbe applicare la raccolta domiciliare, il porta a porta, e ridare nuova vita ai tanti materiali che quotidianamente cittadini e imprese buttano.

CON POCA SPESA, ENORMI RISULTATI
Le buone pratiche di raccolta differenziata sono rare in regioni in emergenza come Sicilia, Puglia e Calabria, ma anche in Liguria e Valle d’Aosta, mentre al Centro Sud c’è ancora una carenza di impianti per trattare l’organico (scarti di cucina, vegetali e simili) e su una regione come il Lazio ancora pesa come un macigno il far west della Capitale, ancora strozzata dalla lobby delle discariche, che da sempre frena la raccolta porta a porta (che funziona meglio di tutte). Proprio nel Lazio – sottolineano i tecnici guidati dal Prof Marangoni – le perdite sono le più pesanti: quasi 808 milioni di euro, nel triennio 2010-2012, i benefici persi per non aver gestito in modo sano l’immondizia nella regione che ospita la Capitale, il Governo e il Parlamento. Tanto avrebbero incassato enti e cittadini laziali con un investimento complessivo di soli 180 milioni di euro. L’anno scorso in Liguria, invece, bastavano 16,6 milioni per ricavare oltre 74,4 milioni di euro di benefici; mentre in Sardegna superano i 24,6 milioni i benefici che potevano ottenere spendendo soli 5 milioni e 486mila euro. Il costo del non riciclo potrebbe essere più pesante, visto che a luglio la Commissione europea ha proposto di deferire il nostro Paese alla Corte di Giustizia europea, per le emergenze rifiuti. Ora rischiamo di pagare 28.090 euro al giorno di multa, fino alla sentenza definitiva del 2014, e poi una maximulta da 256.819 euro per ogni giorno di ulteriore ritardo nel metterci in regola come Stato membro.

LA RIVOLUZIONE è COMINCIATA
Nonostante molto vada migliorato, stiamo cambiando rotta, anche nelle regioni dove lo scenario è ancora mediamente deludente.
“È una rivoluzione spiazzante – si legge sul nuovo rapporto Comuni Ricicloni di Legambiente –. Le migliori performance regionali negli ultimi anni sono quelle di Sardegna (dove la provincia di Oristano è tra le sole 7 in tutta Italia ad aver raggiunto e superato il 65% di differenziata nel 2012, ndr) e Marche che, grazie al sistema di penalità/premialità sullo smaltimento in discarica, hanno diffuso la raccolta porta a porta, arrivando in pochi anni al 50% di differenziata. È una rivoluzione che ha creato una nuova economia”. Una economia virtuosa che può dare ottimi frutti, come dimostrano i calcoli di Althesys. Basta volerlo e non perdere più tempo, affrancando Comuni, Province e Regioni dai boss dell’immondizia, che ancora, troppo spesso, decidono strategie, prezzi e tempi della gestione dei nostri rifiuti.