La “Quercia Millenaria” che genera vita

La “Quercia Millenaria” che genera vita

Il 26 maggio al Gemelli di Roma verrà presentata la prima metodica di “Caring Perinatale” in Italia

di Massimo Losito

ROMA, lunedì, 21 maggio 2012 (ZENIT.org).- «Mi spiace ma in questi casi non c’è niente da fare, se non interrompere la gravidanza». Questa frase viene pronunciata molto frequentemente quando si è di fronte ad una diagnosi infausta durante la gestazione, fino al caso estremo del “feto terminale”, cioè incompatibile con la vita.

Eppure non è mai vero che non ci sia “nulla da fare”. Piuttosto c’è sempre molto da fare, dal punto di visto dell’assistenza medica, umana e spirituale. È quanto emerge dal lavoro serio svolto qui in Italia dall’associazione “La Quercia Millenaria ONLUS”, che presenterà la prima metodica di Caring Perinatale in Italia nel convegno “Il dono della cura, la cura del dono”, sabato 26 maggio al Policlinico A. Gemelli di Roma.

ZENIT ne ha parlato con la fondatrice e presidente dell’associazione, Sabrina Pietrangeli Paluzzi.

Cosa racchiude una metodica di Caring Perinatale?

Sabrina Pietrangeli: La metodica racchiude tutta una serie di servizi, che non sono soltanto “tecnici e pratici”, ma conditi di un grande desiderio di aiutare i genitori a spezzare il dolore in tante parti, per portarne un pezzetto ciascuno. Si parte dall’affiancamento, subito dopo la diagnosi infausta, a famiglie che hanno già vissuto quel particolare e doloroso momento, alla programmazione di future ecografie, sempre da farsi con un operatore vicino per contenere l’ansia e sostenere i genitori. E poi l’accoglienza residenziale ove necessario, a titolo gratuito, fino a programmare un vero e proprio “piano nascita” per i bambini sicuramente terminali, dove i genitori possono esprimere tutti i loro desideri sulla gestione del travaglio, del parto, dei momenti da passare accanto al piccolo, fino al momento della morte e ai gesti di amore da fare anche dopo: vestirlo, tumularlo, conservare dei ricordi concreti come le foto, le impronte delle manine, una ciocca di capelli, o altro.

Si tratta dunque di qualcosa paragonabile al servizio che svolge un hospice per i malati terminali, ma qui il morente è un “nascente”: con poche ore di vita davanti… a molti sembrerà una vita senza senso.

Sabrina Pietrangeli: Il senso lo vedono i genitori che fanno una scelta di accoglienza, perché sono nutriti e sostenuti durante l’attesa e persino dopo la morte stessa del piccolo, grazie all’amore che realmente scorre tra la coppia e il bambino, che risponde agli stimoli e “partecipa” con tutta la sua famiglia ai suoi istanti di vita, sia intrauterina che terrena. I frutti si vedono nel tempo, e tutte le famiglie ne hanno raccontati molti. Dal nostro punto di vista, e con l’esperienza maturata, non potremmo mai dire che sono “vite senza senso”.

Dalle storie che avete raccolto nei vostri libri e sul vostro sito, si evince che non sempre la diagnosi infausta si traduce in realtà.

Sabrina Pietrangeli: Sono le storie più belle, quelle in cui un bambino riesce a sorprendere la scienza, anche quando è una scienza ben fatta. Sono episodi non prevedibili, ma non per questo trascurabili, anzi… Bisogna sempre dare una possibilità alla vita, perché la vita sa ancora sorprendere.

La “Quercia” ha rami in molte strutture ospedaliere in tutta Italia, ma sicuramente le radici per così dire qui a Roma: dopo anni di lavoro in collaborazione con gli specialisti del Policlinico Gemelli, cosa rappresenta questo convegno per voi?

Sabrina Pietrangeli: Rappresenta il coronamento di sette anni di lavoro in cui davvero persone concrete hanno perso la propria vita e messo nel progetto tutte le loro capacità e le abilità personali, nonché una enorme quantità di tempo, sacrificando spesso anche i propri interessi familiari.

Sono stati anni in cui è maturata la consapevolezza di quale buco istituzionale e assistenziale andavamo a coprire, e si sono messe in opera tutte le energie per rappresentare l’eccellenza nel campo. Eccellenza che si sposa con quella del Policlinico Gemelli, lì dove la Quercia Millenaria ha preso vita grazie alla nostra storia familiare con il nostro terzo figlio, “ex feto terminale”!

La vostra linfa però sembra scorrere dall’alto verso il basso, da quella che chiamate “la quercia celeste”…

Sabrina Pietrangeli: I “figli della Quercia” che sono in cielo sono per noi grande motivo di stupore e riflessione, perché li sentiamo vivi più che mai. Siamo sicuri che da lassù si diano un gran da fare per garantire benedizioni non solo alle loro famiglie, ma a tutti coloro che collaborano per far sì che quelle piccole vite, “le pietre scartate dai costruttori”, non vengano più uccise ma accolte con l’amore dovuto!

Antonio, medico abortista, diventa obiettore: «Guadagno meno ma sono libero»

Antonio, medico abortista, diventa obiettore: «Guadagno meno ma sono libero»

«Quando praticavo gli aborti non esercitavo la professione di ginecologo ma di datore di morte».

Antonio Oriente, medico del Messinese ed ex abortista, non accetta eufemismi per parlare «degli omicidi che ho commesso», ma ci tiene a raccontare la sua storia perché «voglio raccontare quanto è bello spendersi per la vita anche se guadagno di meno e la vita è più faticosa». Appena laureato, non si fa troppe domande e comincia subito a praticare gli aborti. «La legge diceva che si poteva fare – racconta a tempi. it -. Non c’è modo migliore di evitare le proprie responsabilità. Sicuramente è più facile non chiedersi nulla e fare il pezzo di un ingranaggio, mettendo a tacere la propria coscienza». Anche se il disagio a volte si lasciava intravedere. «Accadeva che alla fine degli interventi, quasi inconsciamente, facevo terminare l’operazione alle infermiere: i resti umani dell’aborto che si mettono all’interno di una pezzuola da buttare tra i rifiuti ospedalieri li facevo raccogliere a loro». Chi voleva abortire andava da lui a chidere aiuto: “Mio padre mi uccide se mi scopre”, “Ho messo incinta questa ragazza, ma sono sposato”. «Io pensavo di aiutarli a risolvere il loro problema. Ma mi sbagliavo: dandogli la possibilità di uccidere un figlio rovinavo anche loro e mentivo a me stesso». Solo con il tempo Antonio ha capito che «la vita non può essere un problema, che esiste sempre una soluzione alla morte e che la Legge 194/78 è ipocrita. Ora che do la vita per aiutare chi è in difficoltà lo verifico in continuazione: quante persone adesso mi ringraziano a posteriori». Ma per arrivare ad affermare queste cose, Antonio è dovuto passare attraverso un cammino difficile e doloroso.

«Dopo anni di vita da single – continua Antonio – ho incontrato una pediatra. Un donna che lottava per la vita e che amava i bambini. Mi ha sposato senza sapere che ero abortista e quando l’ha scoperto ha cercato di farmi smettere, ma io non ci sentivo proprio». La bellezza del matrimonio per Antonio porta con sé anche un grande dolore: lui e la moglie vogliono dei figli, che però non arrivano. «Tornavo a casa la sera e mia moglie piangeva. Così cominciai a crollare: ero stimato, risolvevo i problemi della sterilità altrui, ma davanti a mia moglie ero impotente. Davo risposte a tutti e non riuscivo a darne una a me». Una sera intorno alla 22 in cui Antonio piange con la testa fra le mani, una coppia di suoi pazienti che hanno problemi di infertilità vedono la luce del suo studio accesa. «Pensavano che avessi dimenticato di spegnerla. Sono entrati e mi hanno visto in uno stato penoso. Ho aperto loro il cuore e sono stati ad ascoltare. “Guardi – mi hanno detto – noi una soluzione in campo medico non l’abbiamo, ma c’è una strada attraverso cui si può trovare la pace. Venga ad un incontro di preghiera. Noi lì abbiamo cominciato a gustare la presenza del Signore nella vita”». Antonio declina l’invito, quelle parole sono troppo distanti e non gli dicono niente. La sua tristezza però aumenta e venti giorni dopo si ritrova a «vagare per le vie del paese. Ad un certo punto sentii la musica proveniente da un prefabbricato, pensavo fosse una discoteca. “Vado a ricaricarmi prima di tornare a casa”, ho pensato. Entrato nel locale, però, ho scoperto che era una chiesa dedicata alla Madonna del Rosario e che c’era il gruppo di preghiera del Rinnovamento nello Spirito di cui mi avevano parlato i miei pazienti». Da quel momento Antonio torna più volte, «anche se all’inizio mi sembravano un po’ matti», e comincia a cambiare, anche di fronte all’aborto. «Ho visto tutta la verità e cominciato a pregare davanti al crocifisso. Mi sono reso conto che chiedevo un figlio a un padre buono mentre uccidevo quelli degli altri».

Così Antonio si decide, prende un pezzo di carta e scrive: “Mai più morte fino alla morte”. «Ho consegnato il biglietto al marito della coppia che seguivo: “Tieni questo. Per te è solo un pezzo di carta, ma per me è un testamento spirituale. Se mai tornassi indietro mettilo con forza davanti alla mia faccia”. Da quel giorno non ho più smesso di lottare per la vita. E mi spendo giorno e notte per salvarla, anche andando a cercare i giovani nei loro luoghi di ritrovo». Antonio si scopre inarrestabile: «Viaggio in tutta Europa per combattere la cultura della morte, per dire che cosa sono aborto e fecondazione assistita, per dire che non c’è problema economico, famigliare o di relazione che non si possa affrontare e per raccontare che la vita ripaga sempre. Non mi può fermare nessuno: ora voglio tuteare la vita che ho bistrattato e ucciso per tanti anni». Antonio non si è mosso per senso di colpa ma «per amore. Non per la carriera o per i soldi. È un onore per me alleviare le piaghe del Signore che soffre nei malati».

Prima di convertirsi Antonio poteva dire di avere un brillante carriera. Dopo la conversione e il rifiuto di praticare aborti, le cose sono cambiate: «Contrariamente a quanto si dice gli obiettori hanno grossi problemi. Ho ricevuto molte minacce dai miei superiori: “Non puoi rifiutarti di dare la pillola”. E ancora: “Non puoi rifiutarti di rilasciare i certificati abortivi, non esiste obiezione di coscienza”». Antonio però non ha ceduto alle pressioni che gli arrivavano dall’alto e ha deciso di affrontare il problema alla radice: «Tutti possono scegliere di non essere ingranaggi, ma c’è bisogno di educare le coscienze e anche di abolire la Legge 194/78 perché non è mai stata applicata». Perché? «La legge è contraddittoria in sé: permette l’aborto e poi cerca di contrastarlo. Per questo nessuno si preoccupa di controllare le procedure. Mi ricordo di una donna che è venuta da me per abortire, io le ho detto di ripensarci, che l’avrei aiutata. Per legge deve passare una settimana di tempo prima di poter procedere con l’aborto. Dopo tre giorni l’ho incontrata per strada e lei in lacrime mi ha detto che era andata in ospedale e un medico le aveva rilasciato il certificato in anticipo, contro ogni procedura. Le cose ormai vanno quasi sempre così».

Oggi la vita di Antonio è più difficile ma lui ringrazia per quello che gli è capitato: «Ringrazio il Signore che l’ha resa davvero vita, che mi ha ridato la libertà, la possibilità di scegliere e di fare davvero quello che voglio e non quello che vuole la società. Ringrazio di essere diventato un medico, perché chi uccide non lo è. Il giuramento di Ippocrate ci dice che noi dobbiamo impegnarci per la vita e non per la morte. Purtroppo le persone disposte a dare la vita per gli altri sono poche. Ma io continuerò a lottare finché avrò forze, perché la libertà non ha prezzo: voglio raccontare quant’è bello spendersi per la vita anche se guadagno di meno e anche se è più faticoso».

di Benedetta Frigerio

Tratto da Tempi del

Dio, il Gulag e l’ateo

Myroslav Marynovych è attualmente vice-rettore dell’Università cattolica dell’Ucraina. Era ateo, e da ateo è stato richiuso per sette anni in un campo di lavoro comunista, e deportato in Kazakhstan

MARCO TOSATTI da Vatican Insider
Nei lunghi e bui anni di detenzione, nel carcere, e nel gulag è accaduto qualche cosa che Myroslav ha raccontato a Madrid, durante EncuentroMadrid, un evento organizzato da Comunione e Liberazione in Spagna.

“La mia famiglia era religiosa – ha raccontato durante l’incontro nella capitale spagnola -. Un mio zio materno era sacerdote greco-cattolico, e mia madre nutriva in casa un’atmosfera di fede semplice e sincera, senza nessun fanatismo. Le sarebbe piaciuto che io credessi, ma non mi faceva nessuna pressione. Ma anche se rispettavo la religione, io ero scettico e ateo. Non avevo bisogno di Dio, vivevo bene senza di lui”.

Era giovane, quando cominciò a impegnarsi con la dissidenza, in difesa dei diritti umani, contro un sistema comunista che anche se aveva “valori elevati in teoria”, nella pratica si rivelava “falso”. Fu il fondatore di Helsinki Watch in Ucraina, il gruppo che voleva monitorare l’applicazione dell’accordo di Helsinki sui diritti umani. Nel 1965 iPaesi europei e l’Urss firmarono un trattato che in principio permetteva la libera circolazione delle idee e in cui si parlava di libertà religiosa. Nel 1976 dieci dissidenti ucraini, fra cui Myroslav, denunciarono grazie a giornalisti occidentali le violazioni di Helsinki avvenute in Ucraina. “Abbiamo diffuso i nomi dei poeti e degli scrittori arrestati, e chiedevamo la loro liberazione.

Non ci facevamo illusioni, sapevamo che saremmo stati arrestati”. Come in effetti avvenne. Nel 1977 fu arrestato dal KGB con l’accusa di “diffondere propaganda anti-sovietica per indebolire la stabilità del sistema”. Di dieci dissidenti, otto furono incarcerati, e due espulsi. Per Myroslav la sentenza fu di dodici anni di campo di lavoro e di esilio. “Ma non c’è stato un giorno in cui mi sono pentito di quello che avevo fatto”. Aveva scontato dieci anni, quando giunse la Perestrojka di Gorbaciov.

Nel frattempo accadde qualche cosa di straordinario. “Avevano finito di interrogarmi al KGB di Kiev, e mi avevano riportato in cella. Camminavo agitato da un muro all’altro, riflettendo su vari questioni intellettuali. E all’improvviso in quel momento vidi come un lampo di luce, una folgore. I tre giorni seguenti furono stranissimi: mangiavo, bevevo, mi sedevo, mi alzavo, però ero assentenon udivo né rispondevo a quello che mi dicevano.

Il terzo giorno udii un risuonare di campane, e parlai. Chiesi al mio compagno di cella. ‘Che cosa è questo? Sono le campane della chiesa di san Vladimir che suonano?’. Mi rispose: ‘Meno male, alla fine ci senti’”.

Racconta Myrosalva che in quel momento senti come se un nodo si sciogliesse dentro di lui. “Come se un rotolo si andasse spiegando, e di colpo capii molte cose della Bibbia, che conosceva, isolate, ma allora si erano unite in una nuova cosmo visione. Sentii che ormai lo capivo, che lo vedevo unito. Da quel giorno fui un’altra persona, una persona religiosa”.

Un altro momento, molto speciale accadde due anni più tardi. Myroslav si sentiva male, debole, giaceva sulla branda della cella di punizione, cominciava a sentire la disperazione. “Allora udii una voce potente in ucraino, la mia lunga natale, che mi intimava: Prega!”. Era così debole, dopo uno sciopero della fame, che non riusciva neanche a usare la mano per farsi il segno della croce. Mi segnai mentalmente. In un istante la forza mi tornò, e saltai giù dalla brandina in un balzo”.

Myroslav è shoccato dal fatto che in Gran Bretagna oggi si possa andare in tribunale se si porta una croce al collo. “In carcere, dove non era permesso portare croci al collo, pensavo all’occidente come a un luogo di tolleranza. Ora la religione è quasi perseguitata, e il monopolio pubblico se lo aggiudicano cosmovisioni irreligiose. Un monopolio tanto dannoso quanto il precedente”.

«Perché esiste un male così grande?»

di Anna Vercors

Tratto da Anna Vercors

Da Tracce:

04/05/2012 – Un video mostra il dramma dei rapimenti di bambini in Uganda. E fa il giro del mondo, con 100 milioni di click in pochi giorni. Fino a “entrare” nella vita di un gruppo di ragazzini americani. Che non si fermano alle lacrime

  • Joseph Kony, guerrigliero ugandese capo del <br> Lord’s Resistance Army.
  • Joseph Kony, guerrigliero ugandese capo del
    Lord’s Resistance Army.

«Per due giorni interi, su Twitter non è esistito altro». Parla del video Kony 2012Taylor Forman, uno studente dell’ultimo anno presso la Broad Run High School di Ashburn, Virginia: «Tutti ne parlavano. Anche i ragazzi piangevano». La sua amica, Flannery McGale, studentessa dell’ultimo anno alla Brookewood School for Girls di Kensington, pensa lo stesso: «Il video ha avuto un effetto enorme. Io ero come soggiogata. Mi ha aperto gli occhi sul mondo che c’è al di fuori della middle-class americana. Tutta la mia vita mi era sempre sembrata così distante, ma questa volta ho sentito che avrei potuto farne parte. Era surreale».

Il video Kony 2012 è stato pubblicato lo scorso 5 marzo da Invisible Children, un’organizzazione non governativa che ha sede negli Usa. Ed è diventato un successo immediato sui social media, il video più “virale” di tutti i tempi. Grazie a una diffusione su Twitter promossa da personaggi famosi come Rihanna, Justin Bieber, Angelina Jolie e Oprah, in soli sei giorni, Kony 2012 ha catturato l’attenzione di 100 milioni di persone negli Stati Uniti e in tutto il mondo.
Il video di 30 minuti racconta le atrocità perpetrate da Joseph Kony, capo del cosiddetto “Esercito di Resistenza del Signore” ugandese (il Lord’s Resistance Army, Lra), attraverso gli occhi di un testimone, Jacob, il cui fratello è stato rapito e ucciso. L’Lra ha terrorizzato l’Uganda del Nord per due decenni, rapendo bambini e costringendoli a diventare bambini-soldato o schiavi del sesso.

Il video invita ad agire concretamente per fermare Kony, dando la massima diffusione possibile al video stesso e ordinando gli action kit, le modalità con cui sottoscrivere la petizione contro Kony, in modo che il mondo intero sappia chi è Kony, esercitando pressione sui capi di governo per arrestarlo e portarlo davanti ad un giudice.
Flannery era così commossa dal video che ha acquistato subito un action kit. «Ho una mentalità così americana, che dovevo fare qualcosa», spiega. Gli action kit sono andati esauriti in pochi giorni dopo il successo inatteso e senza precedenti del video.
Al fermento nei social media si è rapidamente sostituita la tradizionale diffusione sui mass media.

La bolla del successo era scoppiata, si è avuta l’impressione che il fenomeno si fosse esaurito tanto in fretta quanto si era diffuso. Twitter e Facebook hanno ricominciato ad occuparsi di fatti banali: quello che la gente mangia a colazione, di chi si è visto con chi…

Ma per i ragazzi di Gioventù Studentesca negli Usa tutto il clamore intorno aKony 2012 è stato un’occasione per guardare quel dramma a un livello più profondo. Quando i responsabili di GS, soprattutto insegnanti, si sono resi conto che i loro studenti erano entusiasti del video, che stava catturando una straordinaria attenzione anche da parte dei media, li hanno invitati a riflettere su quale fosse il suo significato, suche cosa sono davvero la giustizia e la carità.

«Questo genere di cose provoca una reazione sentimentale. In noi c’è l’esigenza della giustizia e vogliamo risolvere la questione: da una parte mandando un esercito a occuparsi di Kony, ma dall’altra stentiamo a impegnarci realmente con un problema e con la gente che ha un problema», dice Barbara Gagliotti, un’insegnante della Brookewood. Osserva che basta cambiare l’immagine di un profilo o indicare con “Mi piace” una pagina di Facebook perché la gente si senta bene con se stessa, ma si domanda se questo comportamento abbia qualche valore reale. «Non è carità nel senso di unire se stessi a un altro essere umano, sopportare la sofferenza di un altro. Non riconosce che tutti noi siamo conniventi con il male».
Joseph McPherson, preside della Brookewood, aggiunge: «Come quando le signore al tempo della Regina Vittoria piangevano leggendo Dickens, ma non facevano niente di concreto per alleviare la sofferenza o pensare che forse loro stesse avrebbero potuto essere la causa della sofferenza altrui. Noi possiamo fare cose buone per sovrastare il male, ma richiede sempre un sacrificio concreto, non solo buona volontà».

A New York City, gli studenti del 7° e 8° grado della Cathedral School hanno fatto vedere il video alla loro prof Monica Canetta, perché sapevano che aveva vissuto in Uganda e volevano saperne di più sulla guerra e su Kony. Monica ha guardato il video con i suoi studenti e poi ha organizzato una conversazione con la sua amica Agnes, una vittima dei rapimenti in Uganda, che ora da avvocato si batte per la tutela dei diritti umani. Agnes ha spiegato ai ragazzi che, quando era studentessa, viveva in un collegio dell’Uganda del Nord. Nel cuore della notte, i ribelli dell’Lra fecero irruzione nella scuola e rapirono 139 studenti. La suora responsabile rincorse i ribelli, supplicandoli di risparmiare la vita ai bambini. I ribelli restituirono la maggior parte dei bambini, ma ne tennero trenta, inclusa Agnes, che riuscì a fuggire poco tempo dopo.
Agnes ha detto agli studenti che il vero dramma, oggi, è rispondere alle esigenze delle vittime dei rapimenti, molte delle quali stanno incontrando enormi difficoltà a riprendere una vita normale. Mentre la famiglia di Agnes l’ha riaccolta quando è tornata, molte altre famiglie non hanno lasciato che i loro figli rientrassero in famiglia, una volta che la guerra è finita. In molti casi, le famiglie hanno paura delle vittime che sono state costrette a compiere tante azioni malvagie. Alcuni dei rapiti fanno anche fatica a stare di fronte a quello che è accaduto, a ciò che sono stati costretti a fare, e non riescono a perdonarsi.
«Mi colpisce che il video sia nato dall’amicizia tra il produttore e il ragazzo ugandese, e che Russell voglia comunicare qualcosa di positivo a suo figlio», ha detto. Il video le ha anche mostrato che il senso religioso dei suoi studenti e di altri giovani è ancora molto vivo e li spinge a desiderare di agire. E conclude: «Questo bisogno è così puro che questi giovani americani volevano fare qualcosa, partecipare. Vogliono giustizia».

A Boston, i ragazzi di Gs della Cristo Rey High School hanno discusso dell’impatto che il video ha avuto e hanno scritto un volantino da distribuire ai compagni. Come ha detto uno dei ragazzi: «Più di ogni altra cosa questa situazione mi fa gridare: “Perché? Perché esiste un male così grande?“. Ci fa essere umili e grati per aver sperimentato che la vita ha un valore e una dignità».
Per Flannery l’opportunità di parlare del video in Gs con gli adulti è stata utile: «Se non fosse stato per loro, non mi sarei mai posta domande come “cos’è la giustizia?“, oppure “cosa vuol dire per me?”. Sono ancora grata del video e dell’attenzione che ha suscitato. È la cosa più umana che ha fatto notizia da molto tempo a questa parte».

Per gli studenti di Monica le domande suscitate dal video hanno rappresentato l’inizio di qualcosa di nuovo: l’amicizia con Agnes e il desiderio di conoscere di più. Così lei, con altri amici di New York, ha sponsorizzato l’adozione a distanza di tre bambini in Uganda per quattro anni. «A scuola abbiamo deciso di iniziare un rapporto con questi bambini ugandesi che abbiamo “adottato” scrivendo loro delle lettere», racconta: «Potrebbe essere l’inizio di un’amicizia. I miei studenti hanno detto che questo è il miglior modo di conoscere cosa sta succedendo in Uganda. Abbiamo scoperto che l’educazione inizia con un rapporto, non con un action kit».

Patricia Branagan

La “Quercia Millenaria” che genera vita

La bimba cerebrolesa che ha “dato vita” all’ospedale di Livorno

La giornata della piccola cerebropatica curata dalle infermiere: «Finché non abbiamo iniziato ad accudirla, pensavamo che, in casi come il suo, fosse meglio morire. Ora abbiamo cambiato idea».
 La piccola cerebropatica che non parla e si nutre con il sondino, adottata dal reparto di pediatria dell’ospedale di Livorno due anni e mezzo fa, continua a parlare. Questa volta lo fa tramite la voce delle infermiere che la assistono. Simona è la più affezionata alla bimba, come spiega a tempi.it: «È come la mia seconda figlia. Lo dico davvero, se andasse via sarebbe come lasciare una parte di me. Per il suo bene desidero che sia adottata, ma mi mancherebbe». Simona, infatti, oltre che negli orari di lavoro sta con la piccola appena può. E in ospedale porta anche la figlia naturale. Due anni e mezzo fa non l’avrebbe mai fatto né detto. «Se me lo avessero chiesto? Avrei dato della matta a una madre che porta sua figlia davanti a tanta sofferenza». Ora invece la bambina è diventata amica dei figli di tutto il personale. Come mai? «Innazitutto non c’è solo dolore: vedere la forza di questa guerriera che lotta per vivere e che cerca il nostro affetto insegna a chi la assiste a rendersi conto di quanto ha. Delle piccole cose. Mia figlia, poi, la porto qui perché passi del tempo con quella che considera sua sorella e si accorga di quanto siamo fortunati. Ma sopratutto di quanto si possa essere felici con poco». Felici? In stato vegetativo? «La piccola è contenta della sola presenza nostra, delle minime attenzioni, delle nostre carezze. Questo insegna a me e a mia figlia a vivere: vale la pena lottare per la vita come fa lei. Ora non assecondo più i capricci. Anzi quando li fa le ricordo la sua “sorellina” e lei capisce».

La sofferenza degli innocenti fa ribellare. Molti per questo arrivano a dire che è meglio la morte. «Sono onesta, due anni e mezzo fa lo pensavo anche io. Mi dicevo: se una persona non parla, se è costretta a letto, se si nutre con il sondino è condannata a una sofferenza senza senso. Mi sbagliavo perché mancava qualcosa». Non c’è evidenza scientifica, dicono alcuni. «Purtroppo le macchine non possono misurare cose come l’amore e la felicità: possono dire quello che vogliono, che una vita in questo caso non abbia un significato, ma ora non ci casco più. Sotto i miei occhi c’è altro». Ed è qualcosa di così evidente che tutto il reparto ora la pensa come Simona. «È così. Noi passiamo con lei ventiquattro ore su ventiquattro. Non c’è spiegazione scientifica che possa negare quello che vediamo: la bimba sente il contatto, sente se ci siamo, patisce se ha bisogno, gioisce del nostro affetto. Si accorge di come viene accarezzata, di come le si sussurra nell’orecchio. Sente che noi la amiamo». Un bel mistero questa piccola. «Un mistero che ci insegna tanto. Ci insegna che tutto quello che c’è, se c’è, è perché ci deve essere. Ci insegna l’amore che comunica».

Ad esempio, spiega Rossella, un’altra infermiera che si definisce “la zia”, «la bimba ci unisce nel curarla, facendoci capire che se anche non possiamo guarirla vale la pena comunque dare tutto per assisterla». Anche quando nulla può cambiare dal punto di vista clinico: «È una vita che chiede amore e che ne genera anche di più». E si vede. «Appena uno di noi arriva in reparto chiede di lei ai colleghi del turno precedente: come è andata la notte? Come è stata oggi? E poi si passa in cameretta». Impressiona pensare che fermi in un letto si possa fare tanto: «Per questo le saremo tutti grati. Per sempre».

di Benedetta Frigerio da Tempi.it

Di errori e altri fatti della vita

di Berlicche

da Berlicche

Se cercate su questo blog un segno di appartenenza ciellina del sottoscritto lo troverete con parecchia fatica. Certo, un paio di link possono essere rivelatori, ma vi sfido a trovare qualcosa di più conclamato. Di post, forse una decina su millesettecento.

Eppure molti commentatori danno per scontato che io ciellino sia. Anzi, lo sanno per certo. Da cosa giunge loro questa convinzione? Probabilmente dal metodo, dal modo in cui mi pongo. Provate, o lettori, a dire la vostra.
Sì, sono ciellino, Da quasi trent’anni, ormai. E sapete perché sul mio blog raramente cito CL? Per due motivi.
Primo, perché non voglio che i pregiudizi verso CL impediscano a chi capita di leggermi.
Secondo, perché non voglio che i giudizi su di me influenzino il giudizio su CL.

La responsabilità di quello che scrivo è mia. Se scrivo cazzate, non è colpa di CL: è mia. Se sono irritante, iroso, se manco di carità o di ragionevolezza sono io quello da riprendere. La libertà è data a me come a voi, e io come voi la uso. A volte male.

Io non ho problemi a dire che sono di CL, fintanto che non pretendete di identificare CL con me, nel bene e nel male. Con me, o Formigoni, o qualcuno dei mille altri ciellini che conosco. Ne conosco, quasi sicuramente, molti più di voi. E so che in mezzo ad essi ci sono arroganti, oziosi, squilibrati, vanesi, egoisti e così andando fino a riempire ogni categoria di difetti umana. Proprio come in una famiglia ci sono fratelli di tutti i tipi. Ci possono essere anche falsi e traditori. Lo stesso Cristo non è famoso per la qualità di tutti i suoi apostoli.

Però è tutta gente in cammino. Che mira ad essere migliore. Che è in Cl perché “ci sono parole che spiegano la vita”. Il che è un poco di più di quanto possano dire tutti gli altri.
Fossimo perfetti, non avremmo bisogno di CL.

Alcuni commentatori hanno etichettato la lettera di Carron a Repubblica come una sorta di “scelta religiosa” del movimento, simile alla scelta disgraziata che fece nel sessantotto e dintorni l’Azione Cattolica. Niente di più lontano dal vero. Leggetela bene.
Non dice di andare a nascondere il proprio volto in sagrestia. Proprio il contrario: dice di testimoniare fino in fondo la Grazia che ci è stata data e che noi, fragili, non siamo riusciti a mostrare appieno. Fino in fondo, e quindi anche al lavoro, in famiglia, nel sociale, in economia, in politica.

Io sono un tipo combattivo, e mai vorrei chiedere scusa. Alle volte dovrei proprio. Io ho bisogno di purificazione, e di questo (come di poco altro) sono assolutamente certo.

La coscienza dei miei errori, però, non mi trattiene un minuto dal continuare a battermi, o dallo stare diritto quando mi accusano falsamente.

Mi ricordo bene trent’anni fa, sul giornale che mio padre leggeva ogni giorno c’erano non meno di due, tre articoli feroci contro CL, in ogni ambito, colmi di menzogna. Ogni giorno.
E quindi non lamentiamoci, amici e fratelli. Un po’ di persecuzione (un po più di persecuzione) ci farà bene. Cadranno rami morti. Mi dispiace per loro. Magari ci faranno anche male, magari si distruggerà quello che abbiamo costruito in tanti anni, tutto o in parte.

Anche questo ci farà bene, alla fine, perché ci ricorderà che non siamo noi che costruiamo. Se il Signore non costruisce la città, invano mettiamo pietra su pietra.

Qui, come allora, non siamo in presenza di gente che gioca pulito. Questo non è (non è mai stato) il momento dell’orgoglio, perché ci colpiscono e ci colpiranno con menzogne a cui possiamo solo opporre la verità. Ma se opponiamo la verità dobbiamo anche togliere da noi ogni menzogna, ogni faciloneria, altarino, rabbia. Perché se no sarà per quello che cadremo.

La nostra faccia però deve indicare altro. Se la nostra faccia non indica il Risorto, ed è solo la nostra faccia, allora vale quello che vale. La mia è piuttosto brutta.

Forse sto cominciando solo ora a capire quello che ci è indicato. Dobbiamo prendere, o riprendere, coscienza di chi siamo, e poi potremo rivoltare il mondo, e poi saremo inattaccabili, anche dovessero scrivere di noi ogni monezza, buttarci in prigione o altro. Anzi, tantopiù saremo di Cristo tantopiù ci arriveranno botte.

Possono ammazzarci, ma non possono farci fuori. Non possono fare fuori ciò che testimoniamo. Però solo se sappiamo chi siamo.